Ieri, in quella sala d’attesa, lei ed io non ci siamo scambiate un solo sguardo.
Il mio piede batteva per terra, mentre tenevo un libro aperto di fronte a me come se fosse un paravento. Lei invece semplicemente stropicciava un foglio.
Se per caso i nostri occhi da bestia braccata si incrociavano per sbaglio, subito sfuggivano in luoghi opposti portando con sé una piega delle labbra molto simile a quella di un ringhio.
Fra quelle pareti abbandonate all’usura del tempo e all’incuria dei luoghi di tutti e di nessuno, restavamo chiuse ognuna nella sua bolla di aria cupa.
Commenti disabilitati su 53. “E’ il suo turno ora, mi passa davanti, nello stesso istante ci allunghiamo la mano, gliela stringo forte, me la stringe forte.” di Sarah Savioli . Leggi tutto
Ieri sera la Via Cruci in una Piazza San Pietro deserta mi ha commosso, commentata da carcerati le cui storie sono da brivido.
Noi non ci pensiamo, ma il calvario ha una continuazione negli esseri umani. Cristo ha sofferto, è morto e risorto circa 2020 anni fa, ma il suo calvario continua. in questa povera umanità senza riposo.
Tutti gli uomini, al di là del loro professato credo, sono portati dal fatto stesso di esistere, volenti o nolonti, a percorrere il loro calvario con le flagellazioni, le fustigate, le cadute e, infine, con la morte la crocifissione non metaforica, ma reale sul proprio corpo. Non valgono stati sociali, ricchezze, benessere per evitare il calvario. Direi che è quasi una legge di natura. Cristo, tuttavia, con la risurrezione ci ha dato speranza sia per il vivere sia per il morire. Questo ci deve confortare nel ciclo del tempo e della vita. Questo ci deve consolare dalla nascita alla morte. Cristo con la risurrezione ci ha dato la speranza che va alimentata e accolta, solo chi muore come Giuda, disperato, è senza speranza né su questa terra né nella dimensione spirituale.
Come ci dai l’anima per respirare, Signore, donaci la speranza per percorrere i difficoltosi sentieri della nostra vita e in particolare questi che stiamo percorrendo nel lutto e nel pianto.
Come ci dai lo spettacolo incantevole dei paesaggi terrestri e marini, donaci un cuore che sappia sperare in una vita migliore per la nostra tormentata umanità.
Quando sei un bambino fortunato, i nonni sono quelle persone che, mal di schiena o non mal di schiena, si mettono a quattro zampe per fare la gara con le macchinine.
Sono quelle persone che giocano con te a palla nella stanza dove è pieno di sculture e quadri dipinti in quel tempo della pensione atteso tutta una vita, ma se ci va contro il pallone e cadono fa lo stesso, cioè non fa lo stesso, ma fa lo stesso nel senso che vabbè pazienza.
La redazione di Accademia Sarda di Storia di Cultura di Lingua, prende parte al dolore della famiglia
Franchini-Manca con tutti i parenti e amici per la scomparsa improvvisa del caro e stimato fraterno
coetaneo. e amico
ANTONIO LUIGI FRANCHINI NOTO GIGI
Antonio Luigi Franchini, noto Gigi, era un mio carissimo coetaneo che se n’è andato Lassù, ieri sera alle 21,00.
Siamo nati a Chiaramonti nel 1937 in 75, se non erro, io il 10 gennaio e lui il 22 aprile. Io partii da Chiaramonti nel 1947 e con Gigi si può dire ci siamo persi di vista per lunghissimi anni. Da circa otto anni ci siamo rivisti e abbiamo stretto con lui e con la sua famiglia un’affettuosa amicizia.
Si chiacchierava della vita passata, dei lavori svolti, dei figli avuti e dei mali presenti. Si parlava di fede in Dio.
Oh si tue m’esseras unu dae mama mia allatadu! Agatendedi ti dia ‘asare
e niunu mi diat dispretziare.
A domo de mama mia deo gigher ti dia,
s’amore pro m’insinzare.
Binu lichitu a buffare, fagher ti dia cun sutzu
de sa melagrenada mia.
Sa manu manca m’est in su attile
e sa dresta m’est abbratzende.
L’uscita dalla situazione di emergenza nella quale si trova il Paese appare ancora lontana, ma forse è opportuno sin da ora cercare di capire quali sono gli elementi di quello che già da adesso si profila come un vero e proprio terzo dopoguerra. Dopo la crisi innescata dal Covid 19, che non è solo sanitaria, ma anche economica e sociale, molte cose non torneranno come prima. Proviamo a delineare alcuni possibili sbocchi della situazione, come appunti per un dibattito che speriamo diventi sempre più ampio, per non trovarci impreparati a ciò che verrà al termine di questa brutta avventura. L’accostamento dell’epidemia in corso a un conflitto bellico non è nostro: lo hanno proposto in molti, persino il Pontefice. In effetti, già in queste settimane abbiamo visto alcuni fenomeni che ricordano quelli della Seconda guerra mondiale: l’accaparramento, la borsa nera (con i prezzi dei disinfettanti e delle mascherine aumentati vertiginosamente, di pari passo con la sostanziale irreperibilità di alcune merci), la drastica riduzione della circolazione (un sostanziale coprifuoco), i bollettini di guerra giornalieri, l’instaurarsi di un’economia bellica (con la riconversione temporanea di alcune filiere produttive e il contingentamento della diffusione di alcuni beni non di prima necessità), la diminuzione – per alcuni – del lavoro o la chiusura delle fabbriche, unito all’incremento del deficit e del debito pubblico (per sostenere i costi umani ed economici del conflitto), la tendenza all’unione nazionale (sia pure con importanti distinzioni da parte di qualche soggetto politico, che tuttavia non hanno portato a fenomeni di “diserzione” o di contrasto alla linea comune del governo) e alla limitazione dell’attività dei partiti e del Parlamento. In tutto ciò, spicca – come in tutte le guerre – la distinzione fra chi è in prima linea (i medici, i malati), chi nelle immediate retrovie (i lavoratori che hanno comunque, a proprio rischio, assicurato la presenza nelle fabbriche e nella logistica) e chi ha partecipato al conflitto in forme meno dirette (con lo smart working oppure vivendo in regioni molto lontane da quelle “di battaglia”: a tal proposito, si è riprodotta la distinzione del 1943-’45 fra un Nord martoriato dalla guerra e un Centrosud meno interessato dalle devastazioni, nonché rifugio di molti “sfollati” dal settentrione). La lista dei problemi e dei temi che il terzo dopoguerra ci presenta è più lunga del catalogo di Leporello del “Don Giovanni” di Mozart.