53. “E’ il suo turno ora, mi passa davanti, nello stesso istante ci allunghiamo la mano, gliela stringo forte, me la stringe forte.” di Sarah Savioli

Ieri, in quella sala d’attesa, lei ed io non ci siamo scambiate un solo sguardo.
Il mio piede batteva per terra, mentre tenevo un libro aperto di fronte a me come se fosse un paravento. Lei invece semplicemente stropicciava un foglio.
Se per caso i nostri occhi da bestia braccata si incrociavano per sbaglio, subito sfuggivano in luoghi opposti portando con sé una piega delle labbra molto simile a quella di un ringhio.
Fra quelle pareti abbandonate all’usura del tempo e all’incuria dei luoghi di tutti e di nessuno, restavamo chiuse ognuna nella sua bolla di aria cupa.


Unica condivisione, l’istante del fremito ad ogni cigolio della porta che si apriva. No, è solo un’infermiera che passa.
Non è il mio turno.
Non è il mio turno.
… “Savioli?” Sono qua, tocca a me.
Lei continua a guardarsi i piedi, io mi alzo. Vado.
Tolga tutto, appoggi lì nell’armadietto. Metta il camice di carta, i calzari, la cuffia, se ha freddo può tenere addosso quel telo verde. Poi aspetti qui, la chiamiamo noi appena arriva il medico.
Sì, o so come funziona… grazie, lo so… ogni tanto faccio il ripasso…
E certo che aspetto qui. Fuggire in camiciotto aperto sul culo, sai che roba… e mi viene subito da ridere, come capita con quei sogni a mezz’aria di quando c’è la febbre alta e si sa bene che non c’è nessun elefante nella stanza, eppure ad un tratto non se ne è più così sicuri.
Sto lì, seduta ancora, appallottolata attorno al ticchettio di un grosso orologio da parete. Tic, tac…
E arriva anche lei.
Camice, calzari, cuffia. Si siede. Altra sala d’attesa per entrambe. Di nuovo non ci guardiamo, percepiamo solo la presenza l’una dell’altra a qualche metro di distanza, con il disagio ritmico dell’increspatura dei nostri respiri nell’aria.
Tic tac tic tac…
“Signora Savioli?” “Eccomi.”
In sala operatoria non sono così brava da trattenere i lamenti, alle volte è un pianto stretto fra i denti che riesce a sfuggire per andare in mille pezzi contro il muro della stanza. E lì, mentre cerco di strapparmi dalla mia buccia caduca e difettata, penso a lei fuori che mi sente ed entrerà dopo di me.
Allora cerco di trattenermi. E fallisco. Fallisco…
Quando l’infermiera mi riporta nella stanza tremo ancora come una foglia. Non vomitare, non vomitare, non vomitare… non ora…
“Se la sente di stare seduta?” “Sì… grazie…”
Mi volto, lei è ancora seduta lì che aspetta e mi guarda con dolcezza. E mi sorride. Poi fa un piccolo gesto con il pugno per dirmi di farmi forza. Anch’io le sorrido.
So che capisce che le sto chiedendo scusa per averle fatto sentire il mio dolore, che spero che a lei vada meglio, che non so nemmeno come si chiama, ma le voglio già bene e sento forte che me ne vuole anche lei. Non fa niente, non preoccuparti, pensa che hai fatto ed è passata, sì, anche per te fra poco passerà, andremo a casa e staremo bene di nuovo…
E’ il suo turno ora, mi passa davanti, nello stesso istante ci allunghiamo la mano, gliela stringo forte, me la stringe forte.
Poi va, questa sorella mia…

… perché il dolore quando arriva è un bastardo mostro che ci strappa da noi stessi, consuma ogni singola fibra e ci lascia solo l’energia di continuare a respirare, alle volte più per senso del dovere che non per voglia di vivere.
Ma la paura … la paura è umana, comprensibile, alle volte doverosa. Però alla fine ci chiude fra muri altissimi che l’unica cosa che non fanno passare è la luce del sole.

 

 

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