Un progetto di instaurazione di una vetreria in Sardegna. Stato dell’arte nei primi decenni dell’ ‘800 di Paolo Amat di San Filippo

Dipartimento di Ingegneria Chimica e Materiali
Università di Cagliari

Ha avuto vasta eco in questi ultimi tempi la diatriba per l’utilizzazione, nell’Isola, dei materiali silicei sardi per la produzione di vetro. Il problema non è nuovo.

Nell’ambito del suo tentativo di “Rifiorimento della Sardegna” infatti il Conte Giovanbattista Bogino Ministro per gli Affari di Sardegna del Re Carlo Emanuele III, il 29/3/1751, concesse ai fratelli Giacomo e Giuseppe Maria Peretti di Chambery la privativa per la produzione di lastre di vetro.

Come altre iniziative promosse dal Bogino l’industria del vetro nell’Isola si rivelò un fallimento.

Le intraprese industriali infatti, già allora in Sardegna, dovevano scontrarsi con l’assoluta mancanza nella popolazione isolana di qualsiasi mentalità, non solo industriale ma neppure artigianale nel senso più completo del termine, e con la scarsa capacità e dubbia serietà degli imprenditori che venivano d’oltremare.

Lo stato precario delle vie di comunicazione, la difficoltà di approvvigionamento delle materie prime, ed un diffuso misoneismo, costituivano una forte remora a qualsiasi realizzazione industriale.

Nelle classi colte, aperte a tutti gli indirizzi culturali dell’Europa illuministica, tuttavia era vivo il desiderio di realizzare nell’Isola attività produttive attraverso le quali potesse iniziare il tanto desiderato “Rifiorimento”.

In un anno imprecisato compreso tra il 1821 ed il 1828, Giovanni Maria Mameli De Mannelli alto funzionario dell’establishment sabaudo, sardo di nascita e di famiglia, stese una relazione tecnica sull’industria del vetro al fine di convincere le competenti autorità dell’attualità della realizzazione di un’industria di vetro nell’Isola.

Nato a Cagliari nel 1758, Giovanni Maria, era figlio di quell’ Antonio Vincenzo Mameli d’Olmedilla Avvocato Fiscal Regio, Segretario ed Archivista del Regio Patrimonio che, dopo la morte dell’ingegner Carlo Gustavo Mandell Console di Svezia presso il Regno di Sardegna e primo concessionario delle Miniere dell’Isola e costruttore della fonderia di Villacidro, gestì per tre anni per conto del Regio Fisco e degli eredi del Mandell, quell’intrapresa industriale.

Assurto ai gradi più alti della magistratura, diventò infatti Consigliere di Stato, scrisse un “Commentario alla Carta de Logu della Giudicessa Eleonora d’Arborea” stampato a Roma nel 1805.

Suo fratello Giacomo fu il nonno di Goffredo.

Il predicato “de’Mannelli” fu usato per la prima volta da Antonio Vincenzo, sulla base di un errore di trascrizione anagrafica del cognome del padre Giovanni Antioco Maria “de’ Mamelli”, nobilitato dall’Imperatore Carlo VI, al cui servizio era stato come funzionario.

Giovanni Maria Mameli morì a Cagliari nel 1843.

La relazione che viene quì riprodotta é un manoscritto cartaceo, di 68 pagine, conservato nella Biblioteca Universitaria di Cagliari (1), scritto con grafia leggibilissima, molto ordinata e con stile quasi moderno, il cui testo é riportato integralmente.

Dal suo esame risalta la profonda conoscenza della chimica da parte del Mameli, ad un livello inimmaginabile in un giurista dei nostri tempi, ma che é spiegabile con la Cultura veramente enciclopedica che anche nella Sardegna del tempo non era inusuale nelle persone dotte; dal contesto si evince tuttavia che anch’egli risentì di quel profondo sconvolgimento provocato nella Chimica dall’introduzione della nuova Nomenclatura.

A conclusione sono riportate alcune annotazioni sul testo, le biografie degli Autori citati, e la letteratura consultata.

TRATTATO DELL’ARTE VETRARIA

Giovanni Mameli de’ Mannelli

Una mano a sollevare l’arte vetraria d’Italia

Trattato in cui s’intende dimostrare la necessità, che ha l’Italia, e particolarmente la Sardegna, d’aver buone fabbriche di vetro d’ogni qualità, e quanto sia facile portarle alla perfezione di quei Paesi ne’ quali maggiormente fioriscono, e metodi di farlo.

Introduzione

Nel mentre che sento lagnarsi gli scrittori Francesi della preferenza che si dà in Francia ai cristalli d’Inghilterra, e sento gli Inglesi alzar la voce contro il consumo che si fa in Inghilterra delle opere di vetro Francesi, non meno che Olandesi, ed Alemanne, quanto non dovrò gemere nel vedere il patrio mio suolo, per non aver più da moltissimi anni alcuna sorta di fabbriche di vetro, ridotto a provvedersi di tali manifatture quasi di prima necessità interamente dall’estero, e quindi al più rovinoso stato precario a questo riguardo.

Paese dalla Divina Provvidenza fornito in modo da non aver bisogno d’alcun altro per la sua sussistenza (i soli avvenimenti del 1793 bastarono per far dire della Sardegna ad un sensatissimo Diplomatico: “l’on voit bien que c’est un Pays, qui peut subsister de soi-même”), non si può che annoverar la Sardegna fra quegli Stati, i quali maggiormente abbondano delle sostanze necessarie per la fabbricazione d’ogni sorta di vetro d’ottima qualità, sian desse costituenti il corpo del medesimo, o fondenti, o purificanti, onde tanta negghiezza si debba soltanto attribuire al timor panico della distruzione dei combustibili col gran consumo che ne farebbero le vetrerie.

Quelli si lagnavano più per impulso d’emulazione che per danno realmente irreparabile che ne risentano, essendo relativi i loro lamenti ai soli oggetti di mero lusso: io son costretto a deplorare lo stato del mio Paese nativo per l’enorme discapito che soffre col provvedersi da fuora delle opere di vetro più ordinarie, non che dei più fini cristalli.

Non potendomi soffrire in pace si gran rovina mi sono determinato a pubblicare riuniti insieme quei lumi più essenziali, che ho saputo ritrarre dalle osservazioni da me fatte con esaminare attentamente le vetraje dei Paesi, ne’ quali ho fatto qualche dimora, e nel materiale, e nel formarle, e dalla lettura de’ migliori trattati d’arte vetraria, ma particolarmente dei due usciti pressochè contemporaneamente dopo la metà del Secolo XVIII, uno in Londra e l’altro in Parigi, i più benemeriti a parer mio dell’arte vetraria dei tempi nostri, senza lasciar di ricorrere a Neri (2) di tratto in tratto: parlo dell’opera Inglese d’Autore anonimo (3) intitolata “The Handmaid to the arts”, la guida delle arti nella parte che riguarda la fabbricazione del vetro, e della memoria di Bosc d’Antic (4), la quale ottenne il premio straordinario dell’Accademia delle Scienze di Parigi nel 1760. Il primo più forte in pratica, il secondo superiore in teoria.

Dell’opera Inglese però non sono stato in grado, con mio sommo rincrescimento, di poter leggere che i due estratti tradotti da Hernandez in lingua francese, riportati da Le Vieil (5) nel trattato: “de la peinture sur verre ” (Descript. des arts et metiers Tom 21), che se non si vedranno da me citati più moderni scrittori di arte vetraria, si è perchè non è a mia notizia, che ve ne sia, e nel ritenere le vecchie nomenclature, facendo a pena cenno delle nuove, ho voluto farmi capire non già dal piccolo numero degli eruditi soltanto, ma ancora dalle persone d’ogni classe, e particolarmente da quelle, per le quali ogni novità che tenda a distaccarle dagli usi e dal modo di favellare dei loro progenitori, indurrà sempre un grande sconcerto nelle diverse operazioni.

Le mie mire per altro non si restringono all’animare i miei Paesani a ristabilire in Sardegna l’antica fabbricazione del vetro, ma si estendono ancora a risvegliar l’Italia tutta dall’indolenza quasi direi letargo, in cui è caduta a questo riguardo, essendosi da sede delle migliori vetraje ridotta ad essere tributaria delle fabbriche di quelle stesse Nazioni le quali concorrevano a gara in altri tempi a provvedersi dalle sue fabbriche allora tanto famose.

Io non eccettuo neppur Murano, le cui vetraje furono certamente quelle, che diedero tanta riputazione ai vetri, ed ai cristalli Italiani, perchè quantunque in Murano, mercè i lumi di qualche padron di vetraja, si conservi l’antico misterioso metodo di fabbricare i vetri, ed i cristalli, non si sono fatti ulteriori progressi verso la maggior perfezione come nelle Regioni oltremontane, e perciò son ormai rimasti que’ celebri lavori, que’ famosi specchj i meno stimati d’Europa.

Buon mallevadore mi sia della verità di questa mia asserzione Francesco Redi (6) (Esperim. intorno a cose naturali), il quale insin da’ suoi tempi dovè confessare la superiorità de’ cristalli ultramontani sugl’italiani comprensivamente ai Veneti, nell’osservare le alterazioni che cagionavano i vasi di cristallo di diverse fabbriche alle acque stillate, e particolarmente a quella di Cannella, che si conservava, più grandi i vasi di Pisa, assai minori quelli di Roma e di Venezia, pressochè niuna quelli di Parigi.

Le Nazioni oltramontane hanno impegnato i migliori ingegni ad investigare il modo di portarle alla maggior perfezione senza obliare l’economia delle materie combustibili, che vi sono necessarie, onde riparare all’universale diminuzione delle medesime, ed hanno riunito sotto lo stesso tetto il chimico ed il Fabbricatore, dichiarato anch’esso capace di conservare la nobiltà ereditata (Savary (7) dict. du Commerce, verbo verre: Il n’y a en France que les Gentils hommes, qui pouissent souffler et fabriquer le verre; bien loin que ce travail attive la devrogeance, c’est une espece de titre de Noblesse, et l’on regret même y etre reçu sans en faire preuve. Le privilege, que les Rois ont bien voulu accorder pour faire subsister la pauvre Noblesse, n’a point souffert jusq’ icì d’alteration: et il servit a souhaiter, qu’il eut encore plusieurs autres manifactures qui eussent cette prerogative. Baroreton de Perin discut sur l’art de la verrerie (mem. de travaux Oct. 1728) ” le metier de verrier c’est elevè au rang de ceux qui l’exercent, devenant noble dans les mains d’un noble, et restant roturier dans celles d’un Roturier ” (Edit de Louis XIII – 1614 – art. 8, les verreries ne jouiront d’aucune exception, s’il ne sont nobles d’extraction) vedasi pure il cap. 3 dell’Art della Verrerie di Blancourt).

L’Italia che nel Fiorentino Neri, oracolo dell’arte vetraria vanta il primo Maestro d’Europa, il quale abbia pubblicato precetti per l’arte medesima, e sulle di cui traccie hanno poi scritto tutti gli altri, ha abbandonato un’arte sì importante al solo mecanismo de’ Fabbricatori, lasciati nella stessa condizione oscura degli altri, i quali esercitano arti meccaniche.

Intendo pertanto dividere il mio ragionamento in sei parti, e dimostrar nella prima di non esser motivo sufficiente, per astenersi dallo stabilir vetraje il gran consumo di combustibili, che richieggono, e riguarderà principalmente la Sardegna, sebbene vi dirò cose, le quali ad altri Paesi non si potranno applicare; nella seconda di non esser compatibile colla pubblica utilità il contentarsi di fabbricar soli vetri ordinari, nella terza tratterò de’ materiali atti a formare le fornaci ed i crogiuoli, della preparazione dei medesimi e della costruzione delle fornaci e dei crogiuoli; nella quarta delle materie e sostanze che entrar debbono nella composizione del vetro, e della loro preparazione; nella quinta delle diverse composizioni, e del modo di regolar la fondita: e nell’ultima del ricuocimento delle opere di vetro.

Le cinque ultime parti dimostreranno egualmente che tanto nel Continente, quanto nelle Isole d’Italia si possono portare le vetraje al grado di perfezione a cui si sono portate finora in Germania, in Francia, in Inghilterra ed in altri Stati del Nord.

Parte Prima

Il gran consumo di combustibili che richieggono le vetraje, non esser motivo sufficiente per astenersi dallo stabilirne in Sardegna

Cap. I – La scarsezza di legna in Sardegna d’onde dipenda

Pare che non si potesse sospettare non che credere che in Sardegna si scarseggiasse di legname d’abbruciare, in vista delle vastissime selve, boschi e macchie, che in gran numero sparse quà e là vi si trovano; eppure la Capitale e le altre città, come altresì alcune terre stentano talvolta ad avere la quantità di legna necessaria per la loro consumazione.

Dalla Capitale farò soltanto menzione in progresso perchè è quella che di maggior quantità ne abbisogna. Ciò però non dipende da scarsezza reale, ed assoluta perchè abbondanza e scarsezza sono due contraddittori così opposti, quando si tratta dello stesso genere, che supposta l’una, l’altra non può cadere neppure in pensiero; nè può darsi abbondanza di selve, di boschi, di macchie, ove non abbondi ciò che le costituisce: l’abbondanza è incontrastabile, dunque la scarsezza reale ed assoluta è meramente un vano timore.

Dipenderà almeno la scarsezza relativa: e se per iscarsezza relativa si vorrà intendere la maggior difficoltà di provvedere la Capitale di combustibili, stante la più gran distanza de’ medesimi e quindi il più caro prezzo, io non dissento dal chiamarla tale.

Purtroppo è vero l’allontanamento da Cagliari d’ogni qualità di legname, accaduto a forza di scegliere ne’ boschi e nelle macchie, che aveva vicine gli alberi, e i frutici fin dalle radici, a dispetto delle provvide disposizioni delle leggi, e senza darsi pensiero dell’avvenire, e per causa dell’insoffribile licenza dei Pastori e degli Agricoltori che incendiano ogni anno vasti tratti di terreno e distrugge a pena nati i germogli delle radici sfuggite al zappone dell’avaro Boscajuolo, gli uni per procurarsi più abbondanti pascoli, e gli altri per estendere il loro seminerio oltre il bisogno. (a).

La sola sfrontatezza de’ Carbonaj, moltiplicatisi più del dovere, potuto avrebbe operare un allontanamento così pregiudizievole, non tanto per la quantità di carbone ch’essi fanno, quanto per lo trascuratissimo metodo, che tengono nel farlo, per cui ne perdono una gran parte.

Come va intanto, che si trovano in Cagliari stessa le legne per le fornaci di calcina, e d’opere figuline, per la fabbricazione del sapone, e si paventa il consumo che ne farebbero le Vetraje, mentre non si può negare, che il vetro sia ugualmente necessario che la calcina, le tegole, i mattoni e le pentole, i tegami, le brocche, i catini figulini, il sapone, e forse più ancora, se si riguarda la maggior estensione d’uso delle opere di vetro, molte delle quali possono supplire ad alcune delle figuline.

Quando l’invenzione del vetro non ci avesse procurato altri vantaggi, che quello di ripararci sì gelosamente dagl’insulti dell’aria, senza privarci punto del godimento della luce, e della vista di tutti gli oggetti che ci stanno d’intorno in qualunque distanza, avrebbe meritato da noi il sacrifizio di qualche altra comodità della vita.

La cosa è andata molto più oltre, avendoci messo in grado non solo di riparare ai danni, che nella nostra vista cagionano l’età, le malattie, i difetti naturali d’avvicinarci a nostro talento le selve, i monti, le navi, le città, le terre, le ville, i poderi, gli astri, le stelle, le distanze tutte che sono sul nostro orizzonte e quel che è più, di ingrandirci siffattamente gli oggetti che possiamo a nostro bell’agio esaminare le parti tutte dei più piccoli animali delle più minute produzioni della terra, e mille altri oggetti, i quali sfuggono l’occhio nudo, ad impicciolirli tanto, che possino contemplare la perfezione delle opere del Creatore, le quali per la loro mole ci si presentano come masse informi, ed a di cui imitazione coll’aiuto di simili lenti sono potuti arrivare i Pittori e gli Scultori a formar quei lavori, che da lontano debbano comparir perfetti, ma fin di procurarci la dolce illusione di poter vedere a nostro capriccio noi stessi riprodotti, e moltiplicati sì al naturale, anche nei movimenti, e negli affetti, che gli innocenti pargoletti, trastullando e sdegnandosi colla loro medesima figura si credono di trastullare, e sdegnarsi con altri della loro età, vanno creandogli dietro lo specchio.

Vantino pur le due sorelle imitatrici della natura i loro primari allievi Fidia, Prasitele, Teusi, Parrasio, Apelle, Michelangelo, Rafaello, Canova, e tanti altri i quali trasmettono ai posteri in tela, in marmo, in metallo le inanimate nostre immagini tali e quali noi siamo, che una caterva di semplici soffiatori sta intanto preparando nelle vetraje mille e mille lastre trasparenti, o bombole, le quali colla sola aggiunta di una foglia di stagno amalgamato, applicata sulla superficie opposta, ci rappresentano viventi moventi e pensanti da un eco in fuori, che rispetta i nostri detti, e fanno disputare suo stesso al cane un osso che pur tien fermo colle zampe, e sta fra la collera, e l’avidità stritolando coi denti, fanno cozzar colle sue stesse corna il caprone, fanno disputare all’usignuolo il suo canto, ed all”inesperta colomba prodigare sul freddo vetro gli amorosi suoi baci.

Che se le vetraje ci privassero effettivamente di una porzione dei combustibili necessari per gli usi domestici, non ci ricompenserebbero con usura nel diminuircene tanto il bisogno, e con sì gran vantaggio della nostra conservazione, e del pubblico, e privato interesse.

Cap. 2 – De’ mezzi per riparare alla scarsezza di legna

Non è però senza rimedio siffatta scarsezza, e vi si può andare al riparo non solo col contenere i Carbonaj, i Tagliatori di legname, o sia i Boscajoli, i Pastori, e gli Agricoltori, e col promuovere con maggior efficacia il piantamento degli alberi fruttiferi, nei poderi, per cui le benefiche Regie Cure hanno aggiunto alle disposizioni delle leggi Patrie maggior forza, e vigore colle nuove ordinazioni (R. Editto 3/12/1806), e la più diligente potatura di essi e con esigere la general formazione delle siepi vive purchè non di fichi d’India (sui quali veggasi la mia nota 237 alla Carta de Logu) (8) attorno alle vigne, agli orti, ed ai campi, sorgenti inesauste di gran soccorso di combustibili, ma eziandio col profittar meglio del comodo dei porti, provvedendo maggior quantità di legna dalle maremme, le quali ne abbondino, e dai boschi da essi non discosti, e trasportandone più gran copia per mare.

Un altro mezzo ho io accennato nella nota 146 al predetto libro, con suggerire il modo di profittar dei legnami dei luoghi fra i più mediterranei dell’Isola, rendendo navigabile il fiume Tirso per lungo tratto: ed ora lo ripeto a riguardo del fiume denominato Flumendosa, il quale mette foce nella Contrada di Sarrabus sul littorale di levante, ed è forse più facile a render navigabile per l’oggetto di cui si tratta, cioè pel trasporto de’ legnami dalla vastissima selva di s’Arcidanu ne’ di cui limiti passa in territorj di Gadoni, cioè dal luogo nel quale cessa di dirocciarsi fra scogli e da altre selve e boschi non lontani dal suo corso.

Che se si volessero unire gli stagni di Cagliari, di Sanluri, di Sassu, e di Santa Giusta, cosa facilissima ad ottenersi, attesa la disposizione naturale del paese piano che fra di essi si trova, si avrebbe un canale navigabile di circa sessanta miglia fra Cagliari, ed Oristano, il quale potrebbe aver comunicazione col Tirso da se solo di ottanta miglia di corso.

Per mezzo di un tal canale da molti non lontani boschi si potrebbe trarre gran quantità di legname per qualunque uso, senza parlar degli altri vantaggi innumerevoli che ne ridonderebbero al Commercio interno, dall’influenze che avrebbe sulla maggior salubrità dell’aria, e dello sfogo che darebbe alle piene, de’ torrenti sempre funesti, non meno che alle acque morte le quali rendono intrattabili le strade pubbliche per buona parte dell’anno.

Io considero anzi necessario siffatto canale e l’unico mezzo di dare uno sfogo conveniente allo stagno di Cagliari, il quale col concorso di più torrenti, e di piccoli fiumi arriva pressochè ogni anno a tal rigonfiamento, che non solo innonda gli aggiacenti luoghi bassi anche dalla parte della città, ma fin rovina e ponti, e peschiere, ed abituri.

Fu causa di sì frequente rigonfiamento dello stagno di Cagliari, che pure ha avuto origine ai giorni nostri, non è già il cader ora le pioggie più copiose di prima, ma la poca vigilanza usatasi per lo passato sui bastimenti che scaricano la zavorra, con non avere impedito, anzi coll’aver espressamente permesso di scaricarla in vicinanza della bocca principale dello stagno, per cui comunica col mare, forse coll’idea, non molto congruente coi principi d’idraulica, di poter col tempo giungere in tal guisa allo essiccamento dello stesso stagno, onde sia andata sempre più ingombrandosi, e sempre più impedendo allo stagno, urtato dall’impeto de’ torrenti, lo sgravarsi liberamente sul mare dalle acque soprabbondanti.

La cosa è andata a tal punto che molto più facile e men dispendiosa io credo l’apertura del proposto canale che lo sgombrar quella spiaggia dalla immensa quantità di arena, e di pietra, che vi è radunata ed ammonticata, comunque non manchi, chi creda agevole ad eseguirsi quest’ultima operazione per mezzo della cavana.

Non propongo intraprese di troppo gravoso dispendio col suggerir di rendere navigabili i due fiumi suddetti coi quali si potrebbe aggiungere il terzo di Coghinas della parte settentrionale dell’Isola, e la formazione dell’accennato canale, ma facili ad eseguirsi anche da qualunque facoltoso particolare, senza lasciarsi spaventare dai grandiosi progetti presentati già a riguardo specialmente del canale medesimo, i quali richiederebbero dei milioni per la loro esecuzione.(b)

Quegli stessi timori che insin dal principio del secolo decimosettimo si ebbero in Sardegna, di poter col tempo mancare la legna d’abbruciare, atteso la grande scarsezza, che fin d’allora si credeva di soffrirsene, e che diedero luogo alle disposizioni del Cap.3 Tit. 43 delle Regie Prammatiche, e nel seguente secolo a quelle dei Pregoni 22 Ottobre 1755 § 34 e 2 Aprile 1771 §§ 66, 67, 68, 69, 70, 71, 72, 73, 74, si erano avuti in Parigi con maggior fondamento nel principio del secolo decimoquinto: eppure in Parigi ha scarseggiato qualche volta, mai però ha mancato la materia combustibile per il corso di quasi altri 4 secoli (Le Marre (De la Mare) ( 9 ) Trait. de police liv.5 tit. 48); si sono anzi moltiplicate in appresso, nella Francia le Vetraje d’ogni sorta.

Un solo particolare colla sua industria, e col suo esempio ha rimediato in Parigi per sempre a tanto male che pur pareva imminente. Fu costui Giovanni Rouvet Mercante di quella città: intraprese egli di unir le acque di più ruscelli, e piccoli fiumi non navigabili (ha fatto di più a’ nostri tempi nel tirar partito dalle acque correnti in Russia il Generale Yhrmann Direttore Generale delle Miniere di Kolivan, il quale con non ordinario disinteresse, e sommo vantaggio di quelle Imperiali Finanze ha esercito per dieci anni un tale incarico: per facilitare il trasporto a Pietroburgo de’ tesori che ne ricavava, rese navigabili addirittura molti piccoli fiumi che comunicavano coi fiumi grandi, facendogli quindi nettare ogni anno. Ha mandato in quei dieci anni per acqua a Pietroburgo solamente in lingotti d’oro, e d’argento libbre 15760 d’oro e 460.60 d’argento, senza contare l’immensa quantità di rame e le spese di qualunque sorta, a 125.000 Rubli effettivi, che annualmente doveva somministrare – Mem. Secret. sur la Russie), nei quali buttando sciolti, e secondo la frase Francese, a legna perduta i legnami, che fece tagliare nella vastissima macchia del Morvaut fra la Borgogna e il Nivernese, gli riuscì di fargli andare in tal guisa fino all’Jonne, fiume che sbocca nella Senna, dove formatene delle zatte, così gli mandò a Parigi per que’ due fiumi.

Se mai non riuscisse per qualche tratto di render navigabili per le zatte i fiumi Tirso e Flumendosa, partendo dalle rispettive selve di Montimannu, e s’Arcidanu, massime a cagione delle tortuosità troppo grandi, le quali talvolta s’incontrassero, si potrà il legname mandar per quel tratto a legna perduta, e quindi formarsene le zatte, colla precauzione di lasciarlo prima bene asciugare, acciò poi le zatte non vadano a fondo (che cosa sia la zatta, ed il modo di farla andare avanti nell’acqua, si comprenderà, da chi non se ne potesse formare un’idea, dall’ispezione del rame che precede il frontespizio di questo trattato – v. a questo riguardo Duhamel (10) du transport des bois: livr. 1, ch. 2, art. 7 et ch. 3, art. 4 et 5; e ch. 4, art. 2).

Supponiamo per un momento, ciò che non accaderà, che non fossero sufficienti tali spedienti per provveder Cagliari costantemente, ed abbondantemente di combustibili, senza privare ulteriormente la Sardegna di Vetraje: non manca in Sardegna il Carbon fossile, e senza andarlo a prendere in tanta distanza dalla Capitale, ed in luoghi tanto alpestri, come quelli accennati dal Conte di Vargas (11) nella di lui dissertazione sulle Miniere della Sardegna, si ha dell’ottimo carbone di pietra in luogo comodamente accessibile ai carri, e di facile trasporto coi medesimi a quaranta miglia circa da essa. Parlo della Miniera di Gonos Codina da me visitata nel primo Giugno 1807, da cui ho tratto assaggi di Carbone di pietra, perfettissimo, che presentai al mio ritorno all’allora regnante Vittorio Emanuele colla matrice, che si è di pietra cote, o sia d’affilar ferri ad acqua, contenente i diversi gradi della sua formazione, ed incontrarono il Gradimento della M. S.(c)

Il Carbon fossile sia di pietra o di terra, riconosciuto dopo tanti contrasti non solo per non dannoso, ma fin per salubre, può supplire alla scarsezza della legna nelle cucine, ne’ forni, nelle concie, e nelle fornaci da calcina, e dei Vasellaj; può supplire al carbone de’ vegetabili, oltre agli altri usi domestici nelle ferriere ed altre fucine dei Ferraj, anzi dovrebbe da costoro preferirsi a qualunque Carbone di legna, perchè più attivo, men dispendioso, e men dannoso, se pure a dispetto delle operazioni più certe, non si volesse considerare salubre, per tema dell’odor bituminoso del medesimo, timor vano in confronto di quello, che dovrebbe ispirare il flogisto, o sia quel vapore perniciosissimo, che più o meno esala da ogni carbone o legno, chiamato in oggi principio ipotetico di Sehal (Stahl), ( 12 ) od acido Carbonico.(d)

Per la fondita però dei metalli è stimato veramente nocivo: che se gli Inglesi se ne servono nelle fonderie, e ne’ fornelli degli orefici, Argentieri, Ottonarj, e simili, lo spogliano essi per mezzo d’un segreto, che hanno, della qualità nociva ai metalli, e così preparato lo appellano Coaks.

Duhamel (Art du Charbonnier), il quale confessa, di non essersi potuto penetrare il modo, in cui gli Inglesi fanno il Coaks, pretende, che con quella stessa operazione, con cui le legna si riducono in carbone, si possa il carbon fossile spogliare della qualità nociva ai metalli, dal bitume.(e)

Non ho suggerito il carbon fossile per le Vetraje sarde, quantunque gli Inglesi se ne servano in esse coll’esito più felice, perchè considero miglior riverbero quello della fiamma più viva del fuoco di legna, e sono persuaso, che gli Inglesi ancora preferirebbero per le Vetraje, il fuoco di legna all’altro, se non iscarseggiassero tanto di legname, onde se ne servono a preferenza per puri motivi di economia.

Nè si attribuisca a stranezza mia il dire, che gli Inglesi, i quali non fanno che mandar sempre nuove colonie erranti di navi per tutti i mari scarseggiano di legnami, perchè io l’asserisco sulla fede de’ loro scrittori, non mancando d’insinuarlo lo stesso Anonimo autore della Guida delle Arti.

Bosc d’Antic, il quale pretende d’aver ragione nell’attribuire al carbon fossile un effetto sicuro, e pronto nella vetrificazione, mi par troppo facile nell’asserire, di non doversi temer punto, che in una fornace ben proporzionata il fumo del medesimo cioè le esalazioni bituminose possano alterare il colore del vetro: si fonda egli sull’esempio degl’Inglesi, da cui s’adopra impunemente nelle cristallerie, e nelle manifatture degli specchj: la stessa precauzione, che prendono gl’Inglesi di mettere un coperchio ai loro crogiuoli, il quale non può che essere imbarazzante per la schiumatura, con lasciarvi soltanto un buco, da potervi introdurre liberamente la canna di ferro, a fin di conoscere, se la materia sia abbastanza vetrificata, coll’estrarne degli assaggi, mi persuade del contrario.

A quale altro fine userebbero una precauzione, che dee di necessità indebolir l’azione del riverbero sulle materie in fusione, e che forse è una delle cagioni della qualità di mal cotto, e troppo tenero, che attribuisce Bosc al loro cristallo (se pur ciò non è un’osservazione a riguardo della prima qualità), se non fosse a quello di preservar le materie stesse dalle alterazioni, che cagionar vi possono le esalazioni bituminose del carbon fossile.

Che il miglior cristallo Inglese sia per lo più tenero, non lo niega neppur l’Anonimo, quando dice che la durezza di consistenza è meno importante nel cristallo da specchj, che non negli altri vetri.

Cap. 3 – De’ legnami da costruzione in Sardegna

Se non ho fatto finora menzione del legname da costruzione, si è perchè non occorreva di parlare del legname grosso, il quale non è opportuno ad uso delleVetraje, per cui non convengono che le legne di piccola grossezza (secondo Bosc, che non sieno di circonferenza maggiore di quattro pollici, nè minore di tre), sebbene di legna troppo sottili, di cespugli, e di sterpi vi si debba far uso.

Era la Sardegna nei tempi precedenti al secolo XVIII, in tanta riputazione per l’abbondanza di legname da costruzione, che Andrea Baccio Medico di Roma (13), il quale scrisse nel declinar del secolo XVI, non dubiti d’asserire (Da nottev. rinov. hist. lib. 5, cap. Sard. Insulae vina), che i Sardi essendo per lo più dediti alla caccia, frequentano selve feraci d’alberi generosi, e la cultivano per fabbricare delle navi, e per le travature delle case, spedendo a Roma, e ad altre parti gran navili di quelli.

Io sostengo che ne abbondi in oggi ancora, quantunque per una inconseguenza dipendente dal non mettersi in opra i mezzi da me suggeriti, o simili, quasi s’ignori, che ne abbondi, e si sospiri spesso che in Sardegna l’arrivo de’ legnami di Roma, di Napoli, di Corsica, e fin di Svezia, quando potrebbe far lo stesso commercio de’ tempi di Baccio, o al meno prevalersi dei suoi per tutti gli usi, pe’ quali adopra il legname forastiere, e tenere provveduti i porti per somministrare alle navi bisognose di riparazioni, che spesso vi approdano, alberi, timoni, ed altri pezzi di qualità diverse.

Non era inferiore al forestiere in bontà, in grossezza ed in lunghezza il legname della selva di Montimannu impiegato nel nuovo ponte di Fordongianus che atterrato un arco ancor rimasto in piedi di quello costrutto dagli Antichi Romani, il quale ricordava la loro magnificenza, abbiamo veduto ergere nel fiume Tirso. Deh mettiamoci senza indugio all’osservanza del savissimo canone di Varrone, da me usato per epigrafe: “nulla si compri di quanto può nascere nel podere, o può farsi dai domestici”.

Cap. 4 – De’ luoghi nei quali in Sardegna convenga, o non convenga di stabilir Vetraje, e quante.

§ 1 – Se convenga di stabilirne in Cagliari, e nelle sue vicinanze.

Mi si opporrà, che io mi sfiato inutilmente in cercar di dissipare il timore della scarsezza dei combustibili nella Capitale, mentre le Vetraje dovrebbero stabilirsi, come in altri Stati, in vicinanza della gran macchia, e non nella Capitale, ed in altre Città ragguardevoli di Sardegna: ed allora non si entrerà nelle mie vedute.

Convengo dell’utilità in genere di stabilirsi le manifatture lontano dalle Città popolose, sebbene non manchino esempj in contrario rispettabilissimi, e per la maggior economia, con cui si possono mantenere e per tener gli operaj meno divagati; ma ragiono nel supposto, che si stabiliscano delle Vetraje in Sardegna, se non dentro la Capitale, almeno in non molta distanza dalla medesima, e per non esporre opere tanto fragili a troppo lunghi trasporti per terra per istrade disastrose, e perchè i nuovi stabilimenti hanno bisogno della maggior protezione; la quale non può ottenersi che in vicinanza della Sede del Governo.

Ho anche in mira un vantaggio assai grande, che ritrarrebbe la Capitale dallo Stabilimento di Vetraje almeno nelle sue vicinanze, affatto contrario al timore di carestia de’ combustibili, cioè la maggior facilità che avrebbero i padroni di essa nel provvederla di ogni sorta di legname, costretti già a farne abbondanti provvisioni per il consumo delle loro fabbriche, i cui soli rifiuti sarebbero da se stessi di non piccolo soccorso, in guisa che facilmente si assumerebbe fin l’incarico di provvedere interamente la Città di legna da bruciare, ed anche di Carbone.

Sono però tanto lungi dal pretendere, che assolutamente si debbano stabilire in Cagliari le Vetraje, che ho già adocchiato per tal effetto il villaggio di Morgongiori d’aria ottima in tutti i tempi, e situato nel declivio di una montagna ricchissima d’assai buon legname d’abbruciare, e particolarmente lentisco, ed abbondantissimo di selce: paese irrigato da frequenti ed ottime sorgenti, e non lontano dalle cave d’argilla bianca de’ territori di Mogoro: le quali circostanze, quanto siano importanti, si vedrà da ciò, che dirò in progresso.

§ 2 – Se la scarsezza d’acqua sia vero ostacolo allo stabilimento in Cagliari di Vetraje, e come si possa andare al riparo.

Mi si opporrà inoltre, che la Città di Cagliari scarseggiando di buone acque anche fuori, e nelle vicinanze, sia sempre inutile il pensare a stabilirvi delle Vetraje, perchè la buona acqua sia indispensabile in gran copia per molte operazioni di esse: ed io risponderò che ciò è tanto men vero a riguardo delle vicinanze che dalla sola distanza di circa quattro miglia si può derivare fino a dentro della medesima Città un abbondantissimo corpo d’acqua dolce perenne; il che mi sento in grado di far toccar con mano (ma ne avrebbe anzi disponendo la funesta evidenza con cui mentre io rivedeva questo lavoro, ha dimostrato la disposizione locale ad avviar le acque a Cagliari la procellosissima giornata del 25 Ottobre 1807, che con tanto impeto, e con tanta rovina ne ha allagato le vicinanze, abbattendo case, e strascinando seco e frutti già ritirati, ed arnesi, e bestiame, per non parlare delle altre innondazioni).

Il rimproverarmi, che io facilito troppo nel proporre canali navigabili, navigazione di fiumi, introduzione di buone acque nella Capitale della Sardegna, non mi farà desister mai dal replicarne altamente la non molta difficoltà, e massime dall’ultima.

Se gli abitatori di Cagliari, costretti per dissetarsi a raccogliere in tante cisterne, per mezzo di Canali formati ne’ muri delle loro case le acque piovane (necessità vantaggiosa e per la buona qualità dell’acqua e per essere in tempo di guerra una provvista sicura e non soggetta agl’insulti del nemico) che cadono sui tetti di esse, sospirano talvolta per le troppo scarse pioggie iernali, non è per difetto di mezzi di provvedersene in altro modo, ma per incuria inveterata, la quale ha la sua lontana origine negl’innumerevoli disastri e calamità, che ha dovuto soffrire la medesima Città dopo la decadenza dell’Impero Romano.

Fra gli altri gravissimi danni le hanno cagionato anche la rovina del grandioso acquedotto, per cui il gran conto, che ne facevano i Romani, le procurò l’introduzione d’un copiosissimo corpo d’acqua perenne, come dimostrano gli avanzi, che ancor ne rimangono fino in vicinanza delle sue mura.

E’ pertanto venuto il tempo di ripararsi a tanto danno e profittando del parzialissimo interessamento per questo Regno del munificentissimo Rege Carlo Felice le di cui benefiche paterne cure hanno già fatto metter mano alla formazione delle pubbliche strade, potrà restituirsi a Cagliari con molta facilità, e con ispesa sopportabilissima l’antica abbondanza d’acqua, derivandola per l’utilità del Commercio fino al Porto, quando non si stimasse conveniente, per ora d’istradarla fino alla parte più elevata della Città, senza pensare al restauramento troppo dispendioso ai nostri tempi dell’acquedotto Romano. Nè ometterò di far presente, che se le acque possono risalire, come non si può rivocare in dubbio, pressochè ad uguale altezza della loro sorgente, si può portare anche alla parte più elevata di Cagliari l’una e l’altra delle acque delle sorgenti, le quali formate in piccoli fiumi col concorso di più acque cadono nello stagno, che le bagna il piede, da esse costituite, e dai torrenti colle onde marine, con cui si confondono, giacchè quelle sorgenti partono da molto maggiori alture del colle, nel quale si trova la stessa parte più elevata.

Vi ha nello stagno, di cui si tratta, dei siti tanto poco profondi, che le barche piatte radono in certi tempi il fondo per andare avanti, se pur possono avanzare, e spesso vi si incagliano; ed una parte di quelli che si prosciughi, è sufficiente per avviare alla Città le acque suddette, le quali non è necessario che da principio passino per grandioso condotto.

Io preferirei a quest’uso il piccolo fiume di Assemini, contemplato già a tal effetto dalle Regie Prammatiche (Tit. 36, cap. 6 ), in cui disponendo di provvedersi d’abbondantissime acque le Città di questo Regno, incaricano il Vicerè di trattare col Consiglio di Città nel conservare i pozzi, che nella medesima si trovano, ed introdurvi altre acque, e particolarmente di proceder qualche spediente di farvi avviare il fiume d’Uta (lo stesso da me appellato fiume d’Assemini), o quella di San Giovanni, o Domus Novas, le di cui acque possono avviarsi rasente la sponda dello stagno senza pregiudizio dello stagno medesimo, e delle peschiere esistentivi, semplicemente arginate.

Tutto il segreto di facilitar l’impresa stà, a parer mio, nell’appoggiarne l’esecuzione a persone disinteressate, o almeno discrete, senza l’inutile apparato di tanti piani, tracciamenti, e soprantendenze, che assorbir sogliono considerabilissimi fondi, prima che si metta mano all’opera.

E’ necessaria la perizia degl’ ingegneri, degli Idraulici, de’ Misuratori, non è necessaria la continua loro inoperosa direzione, ed assistenza, tanto contraria alla buona economia, con cui solo si possono mandare ad esecuzione queste idee, che non sono così vaste, come si presentano a primo aspetto.

§ 3 – Se convenga di piantar fabbriche di vetro in più di un luogo della Sardegna.

Con quanto ho ragionato in favore della Capitale, e con ciò che ho detto a riguardo di Morgongiori, non ho preteso d’escludere gli altri luoghi dell’Isola dal fabbricar vetri, e cristalli, anzi amerei che in altri luoghi ancora se ne intraprendesse la fabbricazione senza tema, che ciò possa portar incaglio alcuno nello smaltimento dei lavori, nemmeno sui principj.

Nemico giurato delle privative personali, che locali nello stabilimento delle manifatture, non trovo cosa che maggiormente ne possa promuovere i progressi dell’emulazione.

Le Vetraje di Sibelberg nella bassa Ungheria, che si possono dire ancor nascenti, spandono da qualche tempo i loro lavori per lontane Regioni con molta riputazione, ed hanno imposto all’Italia gravoso tributo.

Facciamo anche noi de’ buoni vetri cristallini e ce li verranno a prendere i nostri vicini almeno, se non preferiremo di mandargli a vendere fuori per nostro conto; facciamo delle buone bottiglie e spediamo, colle medesime i nostri vini preziosi, ne’ più rimoti Paesi, al tempo stesso, che provvedendone il Paese, metteremo un ostacolo alle rovinose importazioni dall’estero dei medesimi generi. Profittiamo dei vantaggi, che ci danno i nostri Porti, non men facili ad afferrare, che sicuri: per la qual cosa chiama Claudiano (14) (De bello Gildon. : Molt’ opportuna, a’ naviganti esperti che le curve lor pose, e le ampie vele drizzan verso l’Italia, e ver Cartago, ……assai comoda alle navi ……….e in mezzo al mare, si forma un vasto porto, ove sicure di Eolo al furor sono stagnanti l’acque -(Traduzione del Beregani) la Sardegna = Poenos Italosque petenti opportuna litu; la sua parte piana = ratibus clemens; e cantò il porto di Cagliari = efficitur Portus medium mare, tutaque ventis omnibus, ingenti stagna recessu ).

Potremo, così operando, fin barattar coll’oro de’ più industriosi Abitatori del Nord la fondata del nostro vino, che ora buttiamo ne’ rustici cortili, e per le vie: come ciò possa accadere, si comprenderà da quello che dirò in proposito della feccia nella parte quarta.

Un motivo più stimolante abbiamo da pochi anni in qua per lo stabilimento di Vetraje, si è quello di tirar buon partito dalla piantagione della soda, per la perfezione delle ceneri della quale mi ha dato tante pene, quando ne aveva l’incarico, e nell’esame, ed approvazione dai bruciatori, e vegghiando fin le notti intere in giro per le campagne, onde sorprendere i proprietari della soda, ed i bruciatori per ritrargli dalle frodi, a ripararne i difetti, e correggergli, finchè mi è riuscito di ottenere lo scopo dell’emanato Regio Regolamento, giacchè l’invenzione della soda fittizia ha pregiudicato il commercio della nativa.

Parte Seconda

Capitolo unico – Dell’incompatibilità col pubblico vantaggio del contentarsi di fabbricar soli vetri ordinarj, se convenga di fabbricarne di diversa qualità nella stessa fornace, e dal modo di riuscire nella fabbricazione dei migliori vetri, e cristalli come gli oltramontani.

§ 1 – Dell’incompatibilità col pubblico vantaggio del contentarsi di fabbricar soli vetri ordinarj.

La fabbricazione di soli vetri ordinarj non è vantaggiosa che ai soli padroni delle Vetraje, lo Stato scapitandovi più di quello, che ne tragga vantaggio, mentre per il tenue risparmio di numerario da mandar fuora che gli procura, gli fa soffrir tutto il peso dell’enorme consumazione di combustibili, che pur bisogna, che per tale la confessi, quando non è compensata da grande utilità.

Che se non solo sien ordinarj i vetri che vi si fabbricheranno, ma ancora di cattiva qualità, sempre maggiore diventerà il pubblico svantaggio pel men utile servizio che se ne riceve.

Se i padroni delle Vetraje delle quali si tratta, ben calcolassero i loro interessi, vedrebbero che neppur essi trovar debbono il loro conto nel far fabbricare i vetri di cattiva qualità, salvo nel caso da me aborrito di privativa, perchè lo spaccio ne sarà sempre minore, comunque bassi ne tengano i propri, mentre anche la qualità forastiera se sia migliore, o men difettosa, si preferirà a costo maggiore.

Eppure la maggior parte delle fabbriche di vetri ordinarj sono regolate colla massima negligenza; per la qual cosa ho riguardato sempre con compassione que’ Paesi, i quali non hanno che simili fabbriche: tutto in quelle respira meschinità, fuorchè le grandi cataste di legname d’ogni sorta, d’ogni grossezza: misere fornaci, pessime padelle, mal preparate materie, poco buoni strumenti, men abili Fabbricatori (direi forse avviliti), opere d’ogni genere guastate, ampolle, fiaschi, caraffe, gotti, bicchieri, utelli, ciotole, vetri da invetriate grassi, rugginosi, fioriti, lividi, gialligni, filamentosi, solcati, granosi, sparsi di vescichette e pietruzze, e non pochi lavori rovinati per il difetto di buona ricozione.

Se curioso il mio sguardo voleva penetrare nel forno fusorio, quanti screpoli non gli si presentavan mai avanti in quel luogo sì depresso, ed angusto, mentre pe mille seni vedeva sfuggirne la più chiara fiamma di carpine e di nudo cerro, in cui volteggiavano le alate ceneri del pioppo, e del tiglio fra lo scoppio frequente e funesto della mal disseccata quercia, cadendo poi e ceneri, e carboni, ed altre sozzure dentro i crogiuoli, e poco meno che nuotare i crogiuoli stessi nella materia fusa, che andavano perdendo dalle fessure.

Di qual sorpresa mai non mi è servito (e ciò non una volta sola) il non trovar più che un mucchio di rottami, dove il giorno avanti, o tutto al più due giorni prima veduto avea fornace, crogiuoli, fuoco, materie sobbollenti, strumenti, artefici occupati a soffiare, a formar lastre, bombole, e vasi di vetro, a infornargli, quando non erano che pochi mesi, che aveva veduto innalzar da’ fondamenti tutto quel fabbricato.

Se mai per frutto totale de’ miei suggerimenti, cadessi nel mio Paese fabbriche tanto misere, mi pentirei mille volte di questa per il medesimo inutile mia fatica, qualunque siasi: vorrei subito accingermi ad esortare con ogni sforzo i miei compattriotti ad abbandonar l’impresa, e non dissipar sì malamente i combustibili, ed i fondenti, ed a contentarsi piuttosto di continuare il commercio coll’esterno delle loro sode, le quali pur sono non inferiori alle siciliane, e non eguagliano quelle di Alicante, quantunque non sia più così vantaggiosa come per l’addietro; anzi ad accrescerle colle, cosidette ceneri di Toscana (che si vedrà in progresso quali siano) e con altri ranni alcalini abbondantissimi, da quasi tutte le ceneri estraendosi buon alcali fisso.

La maggior parte delle erbe, piante dannose, incomode, moleste, tutte le amare, i cardi diversi, gli spini, l’aliga marina sì disprezzata, i baccelli e gusci delle civaie tutte, i quali non servono che ad accrescere i letamaj, ridotti in cenere danno dell’eccellente sale alcalino fisso più, o meno abondantemente, cioè il più essenziale fondente delle Vetraje.

La noiosissima ortica, che dappertutto s’insinua per flagellar le gambe degl’ incauti Passanti, in nessun luogo vegeta tanto, e germoglia quanto in mezzo alle piante della soda; e pare che col suo frequente ricomparire rinfacci al cultivatore la crudeltà che usa nello strapparla immatura dalla terra, e buttarla via sdegnoso, non ritraendone quello stesso vantaggio, mentre da lui nulla esige, che ritrae dalla soda, attorno alla quale versa tanti sudori (il Salnitro però vorrebbe anch’esso la sua parte delle ceneri delle piante diverse, quantunque si dovrebbe contentar del litame, che inutilmente, si lascia ad ingombrar molte strade, e vicoli, non meritando, secondo me, alcun riguardo l’asserirsi da persone, le quali si pretendono appoggiate ad osservazioni, ed esperimenti multiplici, che in sardegna il Salnitro artificiale non possa riuscire, che in luoghi molte miglia lontani dal mare, perchè altrimenti in vece di Salnitro non si ottenga che sal marino.

Non si può negare, che la vicinanza del mare impedisca la formazione del Salnitro, perchè l’aria saturata di sal marino converte in sal marino il prodotto delle diverse fermentazioni: ma il pretendere, che l’aria marina possa operare tale cambiamento fino ad una distanza che in Sardegna non si trova, è un mancare di principj, e d’esperienza, se non è effetto d’altri fini secondarj ).(f)

Non conviene alla benintesa economia l’uso di soli vetri ordinarj, quantunque ben modellati il tenue prezzo de’ quali non compensa la gran quantità, che se ne dee comprare nel corso dell’anno, attesa la loro somma fragilità, per cui facilmente si rompono, anche senza esser tocchi, salvo che si tratti di vetro a bottiglie.

Si fanno non lo niego nelle buone fabbriche del vetro ordinario de’ lavori tanto solidi quanto quelli del vetro fino, pochi però se ne fanno, siccome sono poche fra quelle fabbriche le buone, ed altresì perchè non se ne ottiene dai Padroni delle Vetraje un profitto corrispondente alla bontà.

Si entri nelle case ben regolate de’ Paesi, ne’ quali non vi sono che fabbriche di vetro ordinario, e non si vedrà che invetriate di vetri di Germania, o di Francia, che a tavola, nelle credenze, nelle cantine per ogni dove vasi, ed opere delle Vetraje Alemanne, Franzesi, Inglesi, non sempre per lusso, ma più spesso per mero spirito d’economia.

Anche alla discreta compiacenza però bisogna concedere qualche cosa: come godere attraverso d’un bicchiere rugginoso, livido, gialliccio, o verdigno lo smagliare brillante del Falerno, se pure al Falerno appartengono gli odierni sforzati vini di Somma (io direi del perso cannonno, della biondeggiante Malvasia nostrale “si vinum, cum splenduerit in vitro color ejus ingreditur blande” – Proverb. 23, 31 ), come far comparire più superbi i lavori de’ famosi bulini per mezzo de’ vetri, che per riparo si sogliono mettere sui medesimi, se sieno men limpidi, e meno trasparenti; anzi come non fargli scomparire senza ricorrere alle Vetraje oltramontane.

Troppo tedioso sarei, s’ enumerar volessi i lavori di lusso delle Vetraje, de’ quali non si sanno più passare i nostri appartamenti, e quanto dalle medesime ritraggono le matematiche, l’ottica, la Nautica, non men che le altre parti della Fisica Sperimentale a ciò che somministrano alle altre Scienza, ed alle Arti per il loro esercizio, come anche a tanti lavori, ed occupazioni domestiche, il che tutto ad oro contante ci vendono, o al meno nella maggior parte le Nazioni straniere, e che noi potremmo procurarci ne’ nostri Paesi senz’altra maggior cura che d’imitarle.

L’avara impostura di quegli Artefici, i quali attribuivano a particolari segreti il felice successo de’ loro migliori vetri, e cristalli, è ormai smascherata da una classe di persone, quanto scarse di beni di fortuna, generalmente parlando, altrettanto ricche di cognizioni, ma sempre disinteressate.

Dal fin quì detto però ben si comprende, che io non intendo di dar l’esclusiva alla fabbricazione di vetri ordinarj, i quali sono non meno necessarj per moltissimi usi; vorrei bensì, che se ne fabbricasse anche de’ fini d’ogni qualità, non esclusa quella del più fine cristallo e che gli stessi vetri ordinarj si portassero a quella perfezione, a cui possono portarsi, e si portano in molte Vetraje.

§ 2 – Degl’ inconvenienti di fabbricar nella stessa fornace diverse qualità di vetro.

Nemmeno pretendo, che nella stessa fornace si facciano tutte le qualità di vetro, e cristallo, perchè ciò non è compatibile, almeno in grande, co’ limiti che pur bisogna prescrivere alla capacità della fornace, a cagione della solidità, ed acciò non si venga ad indebolir troppo l’azione del riverbero e del maggior spazio, che occupa la fiamma, e delle multiplicate correnti d’aria, che darebbe indispensabilmente il numero più grande di bocche, ed altre aperture, nè colla diversa composizione delle materie di ciascuna qualità, la quale suppone, quando non altro, maggiore o minor tempo per la fusione, nè colla diversità delle opere, per cui sono necessarie delle variazioni fin nel formato della fornace, in guisa che nella stessa fornace non si possono fabbricare le bottiglie, il vetro verde, il vetro bianco, ed il cristallo. Peggio sarebbe il pensare a lavorare nella stessa fornace in diversi tempi ora il vetro verde, ora il bianco, or quello a bottiglie, ora il cristallo, e particolarmente in considerazione de’ crogiuoli, o padelle che si vogliano appellare, le quali non è possibile di far servire per diverse composizioni senza guastarle tutte.

Può tutto al più cavirsi nella fornace medesima in diversi crogiuoli l’ordinario col vetro a bottiglie, il vetro bianco col cristallo: nelle più accreditate Vetraje però neppur ciò si suol fare, perchè non lascia d’essere un impiccio non di poco momento.

Se colla multeplicità delle fornaci dovesse crescere il consumo de’ combustibili, ciò sarebbe un nulla a fronte del sommo vantaggio, che risentirebbe lo Stato della minorazione delle importazioni in un ramo così esteso.

Dovesse crescere io dico, non crescerebbe assolutamente, perchè il risparmio prodotto dalla buona costruzione delle fornaci, e dalla scelta delle legne, può essere tanto grande, che due, e forse anche tre fabbriche bene ordinate, e ben regolate non dissipino tanta quantità di combustibili, quanta ne impiega ogni cattiva Vetraja Italiana.

§ 3 – Dal modo di riuscire nella fabbricazione de’ migliori vetri, e cristalli come gli oltramontani.

All’impossibilità di potersi da noi riuscire, come gli oltramontani, e particolarmente come gl’Inglesi nella fabbricazione de’ migliori vetri, e cristalli, oggettatami, mentre questo trattato io scriveva, per parte di qualche padron di vetraja, di cui mi si disse, che aveva fatto inutilmente de’ tentativi con chiamar fin de’ Fabbricatori dalle più accreditate Vetraje di Germania, e d’altri Stati, risposi, che a chi ciò raccontò si poteva far sentire che da quanto siegue, si dovrebbe convincere, d’esser stati troppo deboli i tentativi da lui fatti, e che non doveva fidarsi tanto della sua penetrazione, ma chiamare in aiuto i consigli di persone ben versate nelle operazioni chimiche.

I Fabbricatori fatti venire debbono essere stati non de’ migliori, non essendo facil cosa, che i buoni Artefici si determinino ad abbandonare il Paese loro, massime se ragguardevole, e mettere a repentaglio la riputazione già stabilitasi.

Molto difficile si è che accada a quei che esercitano arti meccaniche, ciò che accade con tanta frequenza a’ migliori ingegni, che professano scienze, o arti liberali, cioè di credersi costretti dalla gracidante invidia di loro emoli di più limitate facoltà di espatriare, per ispiegare in più benigno cielo i maggiori talenti, de’ quali sono dotati.

Sono in ogni evento i Fabbricatori di opere di Vetro per lo più esperti per abitudine soltanto, onde col cambiamento facilmente si trovino imbrogliati dalla diversità delle fornaci, dalle materie loro somministrate e dalle composizioni di esse.

Bisogna convincersi d’una verità, che non mi stancherò mai di ripetere: la buona fabbricazione del vetro è una delle più difficili operazioni della Chimica, in cui nascono frequentemente delle circostanze, degl’intoppi a’ quali non può riparare il semplice Fabbricatore, per abile che sia, onde si rende necessaria la soprantendenza del Chimico, a dispetto de’ gran lumi che hanno sparso sul suo particolare gli scritti de’ più cospicui membri delle Accademie primarie di Europa.

Che maggior pruova della difficoltà suddetta di quella che si trova nell’imperfezione, in cui è ancora un’arte tanto antica, l’origine della quale si confonde co’ tempi favolosi: imperfezione io dico in confronto delle operazioni della natura: ben lungi dall’eguagliare il diamante, ed altre preziose vetrificazioni naturali, a pena si è potuto giungere a far lavori, i quali per ogni verso gareggino col cristallo montano; e comunque la prodigiosa quantità di pietre preziose ammassatasi in qualche Corte Sovrana, abbia fatto sospettare, che si fosse potuto arrivare ad imitar perfettamente le gemme, quantunque coi risultati di multiplicate operazioni chimiche si siano scoperte le sostanze, le quali entrano nella coposizione del diamante, troppo lunga strada rimane ancora per giungere a verificare il modo in cui si forma. Da ciò i più acuti scrutatori de’ segreti della natura hanno conghietturato molto ragionevolmente l’esistenza di una terra talmente pura che, ammucchiatasi una volta non sia più suscettibile d’alterazione, chiamata da essi pietra vetrosa combustibile volatile; di cui non si conoscono ancora bene i principi; dev’esser però molto difficile a combinarsi, come si può dedurre dalla rarità delle pietre preziose, che ne sono il risultato; deve anzi supporsi un agente particolare, il quale operi la depurazione, o sia la separazione della terra elementare dalle altre materie, che compongono il nostro globo, onde seguirne l’ammassamento, di cui si tratta, perchè non potendo quella che considerarsi sparsa per tutta la terra, non si trovano le più preziose gemme che in pochissime Regioni.

Non si deve però, in vista di tanta difficoltà, abbandonar l’impresa, anzi la difficoltà appunto, che gli altri tentano di superare, debbono impegnar noi ancora a far lo stesso, essendo quello di tendere alla perfezione il più sicuro mezzo d’ottener buoni lavori, tanto maggiormente dappoichè più non si tengono celate le cognizioni, che si vanno di giorno in giorno acquistando nell’arte vetraria mercè i sudori degli eruditi.

Alla fin fine non si tratta già del modo di ottener la vetrificazione, ma del modo di ottenerla più bella, e più perfetta, che sia possibile, ed al tempo stesso d’impedirla ne’ materiali, che costituiscono la fornace, ed i crogiuoli, e possono rovinar le prime, o renderle difettose; la qual cosa richiede la più assidua vigilanza, di chi soprantende, per la disposizione a vetrificarsi colla mescolanza, o contatto de’ fondenti, la quale si trova nella maggior parte de’ materiali, cioè delle pietre e delle terre a noi cognite.

Parte Terza

Dei materiali atti a formar le fornaci, ed i crogiuoli, della preparazione di essi, e della costruzione delle fornaci e dei crogiuoli

Capitolo primo – De’ materiali atti a formar le fornaci, ed i crogiuoli

A dispetto dello stravagantissimo sistema dei per altro tanto celebri Buffon (15), e Daubenton (16), del quale, con mia gran sorpresa, veggo farsi non poco conto dall’eruditissimo Macquer (17) (Diction. de Chim. ), che la terra fosse in origine, o nel suo primiero stato un globo vetrificato, coperto d’una leggera crosta formata dalle scorie della materia in fusione d’una vera pomice accresciutasi coll’andar del tempo, e ridotta in polvere col movimento, ed agitazione delle acque, e dell’aria, donde sia venuta l’arena, dalla di cui scomposizione derivi la argilla vetrificabile anch’essa (sistema il più eretico, ed il più direttamente contrario alle dottrine contenute nelle Sacre Carte), l’argilla propriamente detta, scevera d’ogni altra materia, e sustanzia estranea, è generalmente riconosciuta in oggi per incapace di vetrificazione.

Non intendo però, in così dire, di negar l’esistenza di quella certa terra elementare, di cui nel capo precedente ammessa già da Becker (Becher) (18) e da Stahl (12), e da Pott (19), e la quale da costoro vien chiamata terra vetrificabile, perchè non avrebbe bisogno dell’aiuto d’alcun fondente, mentre non sarebbe in verun modo fusibile, per la qual cosa si vide Pott (nella Litogeognosia), costretto, per maggior chiarezza ad appellar vetrificabile in istretto significato la terra disposta alla fusione.

Bertrand (20) istesso attribuisce (Diz. dei fossili) a quasi tutte le argille la qualità di vetrificabili, ammette l’argilla refrattaria, che è in sostanza la vera argilla, cioè che resiste al fuoco, nè fonde, nè vitrificasi assolutamente.

Non entrerò nella questione se si diano delle sustanze assolutamente inalterabili all’azione di qualunque fuoco, per cui da alcuni si fa la distinzione fra sustanze refrattarie, e sustanze apire, avendo per dimostrare la perfetta inalterabilità adottato la voce greca ουπυροσ , apyros, la quale non ha altri significati, che quelli di crudo, privo di fuoco, e non avvicinato al fuoco, perchè nulla ha ciò da fare cogli oggetti, che mi ho proposto.

Contiene però l’argilla per lo più delle sostanze eterogenee, le quali tentano grandemente a disporla alla fusione, la rendono sempre meno adatta per la costruzione della parte essenziale delle fornaci, e per quella dei crogiuoli, che si debbono esporre a continuato, e veemente riverbero, per essere anch’esse o disposte ad entrare in fusione coll’unione de’ fondenti, o fusibile per se stesse; e sono per lo più la terra marziale, e piriti, l’acido vitriuolico, ora chiamato acido solforico, i sassolini, e l’arena, non sempre facili a riconoscersi tutte, neppur nell’argilla bianca.

Ad oggetto di verificare la purità dell’argilla, propose Pott, come unica pruova, il metterne un poco nell’acqua forte, nella quale se non entri in effervescenza, sia pura indubitatamente (vedansi altri mezzi presso Macquer nel diz. chim. ).

Bosc, che rimproverava a Wallerio (21) il confondere l’argilla colla creta, partendo dai principi di Pott, trova il caratteristico dell’argilla nel non calcinarsi mai per l’azione del fuoco, ed indurar soltanto, cioè nell’essere refrattaria, mentre le altre sustanze, terree, non esclusa la creta viscosa, si trasformano tutte in calcina.

Danno gli scrittori, i quali hanno parlato della costruzione delle fornaci, e de’ crogiuoli, in di cui difetto suggeriscono di servirsi delle altre qualità, le quali imbianchiscono, all’azione del fuoco: Pott ne nomina due, la bigia, e la turchina, e Bosc, seguendo Wallerio, quattro, la bigia, la nericcia, quella detta a porcellana, e l’altra conosciuta sotto il nome di terra a pippe.

da quanto sopra bisognerebbe conchiudere con Bosc, che l’argilla sola debba esser la sustanza, con cui formar si debbano i crogiuoli, e la parte della fornace esposta al riverbero. Se però fosse vero, che gl’Inglesi, come il medesimo asserisce nella maggior parte delle loro Vetraje si servissero per la costruzione delle fornaci della pietra detta pirimaca da Ferrante Imperato (22), che è una qualità di quella , di cui si servono in Sardegna i Tempiesi per costruire i loro edifizi, avrebbe bello sfiatarsi Bosc nel dimostrarmi gl’inconvenienti di tali fornaci, che io dubiterei sempre della di lui teoria: tanta deferenza ho per gli usi dei Fabbricatori di vetro Inglesi, i quali finora si sono più d’ogni altro approssimati alla perfezione, a segno d’essersi resi pressochè inimitabili.

Non so a chi ricorrere, per venire in chiaro dell’uso Inglese, di cui si tratta, non avendo fra le persone di quella Nazione, con cui ho trattato, trovato chi mi abbia soddisfatto per tal proposito.

L’Anonimo della Guida delle Arti mi avrebbe potuto illuminare, se avesse parlato della costruzione delle fornaci; egli però non se n’è curato, per supporla, come dice, troppo nota, onde non meriti la pena di entrare in alcuna discussione nel suo particolare.

Mi avrebbe almeno dato molto lume ciò che il medesimo insegna nella scelta, e preparazione delle terre proprie a far le padelle, se il capriccioso Le Vieil non me ne avesse privato il secondo estratto, che ne riporta per lo spezioso motivo, che sia fra gl’insegnamenti di tal natura, essendo utili agl’Inglesi non possano esser utili ad altre Nazioni ancora.

Si sa soltanto da Marrett (Merrett) (23) nelle note a Neri, che i crogiuoli si facevano già a’ suoi tempi d’argilla bruciata (Epist. ad Lector). ” Proximus est, ut de ollis fusoriis agamus, quae argilla constant.haec argilla optime lota in fornacibus ad hoc opus destinatis calcinatur (cioè comburitur, perchè l’argilla non è suscettibile di calcinazione) “.

Quante volte la pratica rovescia i teoremi delle Scuole se pur per teoremi chiamar si possano certe dimostrazioni di pretesa evidenza.

Può stare la privativa qualità di refrattaria per l’argilla, senza che se ne debba dedurre necessariamente con Bosc, che sia dannoso alle fornaci l’uso della pirimaca Inglese.

Ha egli veduto le vetraje Inglesi ? Ha egli osservato sulla faccia del luogo, quanto asserisce ? Cioè che le fornaci fatte con tal materia lascino perder molta fiamma per le giunture, consumino una gran quantità di legna, e siano di poca durata; che quelle pietre, per la maggior parte cariche d’una base marziale si vetrifichino, si fendano, si sgranino, ed a pena sopportino il lavoro di tre, o quattro mesi: od avrebbe tratto questi riscontri, amplificandoli a suo modo da Merrett nell’epistola suddetta ? Il quale dice, la faccia interna di queste fornaci non consta di mattoni, ma di una pietra renosa molto dura, qual genere di pietra chiama Imperato Pirimaca, biancheggiante, e che dà fuoco alle vicendevoli percosse, e questa sì dura pietra nullameno si consuma per lo più in un trimestre, o certamente si solca.

Merrett, quantunque Inglese, non può far testimonianza dell’uso delle buone Vitraje di quel Regno, perchè di suo tempo non erano ancora in fiore, avendo incominciato a fiorire sotto Guglielmo III (Joh. Cary corumes – dalla Gran Bretagna, traduz. del Genovesi tom. I, cap.9), e poi Merrett parla genericamente, non dell’Inghilterra in particolare.

Troppo avanzata mi pare la proposizione di Bosc, che il più abile Muratore evitar non saprebbe le giunture, far l’interno così unito, com’esser dovrebbe, nè dargli la forma più convenevole senza rinunziare alla solidità, senz’aver veduto la saldatura , che gl’Inglesi per unire quelle pietre, a l’intonico, che danno alla parte interna delle loro fornaci, potendo essere quella intonacatura d’argilla preparata secondo i principi di Pott: il supporre, che appunto, per la imperfezione delle loro fornaci, hanno gl’Inglesi la precauzione di coprire i crogiuoli, non mi par cosa degna dell’esattezza di quella Nazione.

Io non mi posso persuadere, che un osservatore così minuto, come l’Autore della Guida delle Arti, abbia lasciato di far de’ riflessi sulla costruzione delle fornaci, senza esser sicuro, che quella usata nel Paese, per cui scriveva, fosse giunta ad un grado sufficiente di perfezione.

Per refrattaria però loda il napolitano Imperato, dicendo (Stor. Nat. lib. 25): “la piromaca è nel geno dei sassi arenosi a grana bionda e senza spargimento di mica, così dicono le piccole pagliuole, che hanno lucidezza metallica Dunque non si calcina per la proprietà di sustanza arenosa, nè facilmente si sgretola per la piccolezza della grana non tramezzata da mica; oltrechè essa, per la varietà non è facilmente penetrata, e domata dal fuoco,ed è discosta dalla natura, s’intaglia comodamente, come altre pietre arenose di minuta grana, e non riceve splendor di pulimento: si servono di essa nelli vasi che hanno da tenere il vetro fuso, e ovunque bisogni resistere alla possanza del fuoco “.

Ecco nella piromaca d’Imperato i caratteri di detta pietra delle montagne di Tempio, grana tenera bionda e minuta, gran densità, privazione di mica, e niuna disposizione a prendere splendore dal pulimento.

Dico di più a Bosc, che non è necessario l’assoluto spoglio delle sustanze soggette a calcinazione, ed a fusione, per la costruzione della parte interna delle fornaci, purchè non sia in gran quantità, e lo dimostrò colle osservazioni dell’infaticabile Pott, il quale, dopo di aver provato per la costruzione de’ crogiuoli mille diverse composizioni di cemento, e d’argilla fresca, conchiuda di esser necessario d’unirvi qualche piccola quantità d’altra materia, per riparare alla porosità de’ crogiuoli di sola argilla, cioè scoria, terra di vitriuolo dolce, e simili, come si vedrà più sotto.

Se non è da temersi de’ crogiuoli che pur sono in perfetto continuo contatto colle materie in fusione, la mescolanza di qualche piccola quantità d’altra materia soggetta facilmente a calcinazione, ed a entrare in fusione, anzi è necessaria per otturare i pori quanto meno sarà da paventarsi nelle pareti e nella volta interna delle fornaci, qualora non sia che in piccola quantità.

Sembra che porti Bosc troppo fuori de’ limiti convenienti l’impegno di screditar gli altri sistemi usati nella costruzione delle fornaci, per esaltare il suo, il quale non ha poi bisogno di tanto per ottenere la preferenza.

Cap. 2 – Delle preparazioni de’ materiali con cui si debbon formar le fornaci, ed i crogiuoli.

§ 1 – Della preparazione dell’argilla

Ho detto di sopra, che l’argilla contiene delle sustanze eterogenee, le quali la rendono meno atta per la costruzione delle fornaci e dei crogiuoli; bisogna dunque spogliarla di tali sustanzie.

Pott (essais sur la maniere de preparer des vaisseaux plus solides: Hist. de l’Accad. des Scienc. de Berlin) propone il seguente metodo: si disecchi prima l’argilla, indi si batta con una mezzavanga, affinchè se ne stacchino le pietre più grosse, in modo però che non si riducano in polvere, poi si crivelli l’argilla, e si sciolga in acqua, acciò se ne separi l’arena, che , come più pesante, va a fondo, ed occorrendo si ripeta lo scioglimento, e in appresso si dissecchi, per poterne con certezza determinare il peso.

Propose anch’egli Bosc un modo di far quest’operazione come cosa da lui immaginata, il quale per altro non è diverso di quello, che lesse in Pott, ben più minutamente spiegato con quella chiarezza, che non può negarsi d’essergli molto naturale, e forse più esatta, in guisa che stimi cosa opportuna di trascriverlo quì tradotto dal Francese in Italiano negli stessi termini, ad istruzione dei padroni delle Vetraje.

Non vi ha Vetraja, dice, nella quale non si paventino i cattivi effetti dei corpi estranei; sì è colla mira di prevenirgli, che si monda l’argilla colla maggiore attenzione.

Si rompe in piccoli pezzi, e se ne separa tutto ciò che vi si vede di colorito, e d’eterogeneo. Ma è facile a comprendere, che, qualunque attenzione vi si usi, l’operazione è insufficiente.

La trista sperienza che io ne ho fatto per lunghissimo tempo, mi ha dato l’idea di un altro mezzo molto più sicuro, e meno dispendioso.

Si rompe grossolanamente l’argilla ben asciugata, si butta via i pezzi più macchiati di rosso, o di giallo, si mettono gli altri pezzi in una gran cassa di legno, che abbia almeno dieci pollici di profondità, e si riempie fino ai due terzi; in seguito si mette in quella cassa dell’acqua calda nell’inverno, e se si vuole dell’acqua fresca nell’estate, infino a che l’argilla ne sia coperta da circa due pollici, è importante di non rivolger la terra, se si desidera di estrarne le sustanzie marziali. l’indimani si vedrà sopra l’acqua come una materia oleosa rossa o gialla.

Si estrarrà l’acqua per mezzo d’una chiave a fontana detta da’ lombardi galetto, finchè cominci a intorbidarsi.

Dopo d’averne messa della nuova, si estrae l’acquarella per mezzo della chiave, e si versa a traverso d’uno staccio di crine in altre casse meno profonde, e così di mano in mano, finchè la buona argilla della prima cassa sia tutta uscita.

Allorchè la terra della colata è tutta precipitata, si estrae l’acqua chiara e si disecca l’argilla, sia esponendola a calor moderato, o al freddo, sia mescolandovi argilla secca già purificata e cemento alla maniera, che noi indicheremo più sotto.

Quest’operazione, comunque semplice, attacca tutte le materie eterogenee, che possono trovarsi nell’argilla; i corpi leggeri restano nello staccio, le pietre, i piriti, e l’arena rimangono in fondo della prima cassa, le sustanze marziali, e l’acido vitriuolico, cioè dette materie rosse, e gialle, se ve ne fosse, sono portate via dall’acqua.

Ognuno crede nell’operazione di Bosc la stessa proposta da Pott, meglio spiegata però e circa il modo e circa gli effetti.

Se Pott non ha parlato dell’estrazione delle sustanzie marziali e vitriuoliche (nome bandito nella rivoluzione delle nomenclature chimiche) dee ciò attribuirsi al di lui stile laconico, che lo rende di difficile intelligenza alle persone meno versate nelle materie, delle quali si tratta; l’acqua dell’operazione di Pott le porta via seco dalla stessa maniera, che l’acqua di quella di Bosc, cui tuttavia si dee la grande obbligazione d’averla spiegata in modo che chiunque sia in grado d’eseguirla.

§ 2 – Delle altre preparazioni dell’argilla

L’argilla così purificata, bisogna trovare il modo di metterla in opera (continuo a servirmi degl’insegnamenti dei due eruditi suddetti), se tale e quale si adoprasse, diverrebbe troppo compatta, e diminuirebbe troppo di volume nel diseccarsi colla rovina delle fornaci, e de’ crogiuoli.

Si trova già, dice Pott, in libri d’una certa antichità, che i chimici loro autori raccomandano l’argilla bruciata per cemento dell’argilla fresca; ed in oggi i crogiuoli che s’adoprano per la fusione del vetro, sono fatti di argilla fresca e d’argilla bruciata.

Bosc dopo d’aver esposto gl’inconvenienti degli altri intermedi da usarsi per impedire l’uno e l’altro, propone anch’egli per unico, e più sicuro l’argilla stessa purificata e bruciata al punto di non esser più suscettibile di ristrignimento, la quale si chiami cemento.

A tal effetto prescrive di mettere in gallette d’un piede in quadro sopra otto, o dieci linee di spessezza l’argilla purificata: allorchè le gallette sieno secche, farsi loro subire un fuoco veemente di riverbero, per sette, o otto giorni, ed in seguito ridurle in polvere con molta pulitezza sotto i pestelli d’un acciaccatojo.

Ove poi non si trattasse di nuovo stabilimento, suggerisce di servirsi, a preferenza per cemento de’ crogiuoli vecchj, e dell’interno delle vecchie fornaci.

Eccoci pertanto istruiti e della materia più atta alla formazione delle fornaci, e de’ crogiuoli, ed anche del cemento da mescolarvisi, perchè non diventi troppo compatta, e perchè non diminuisca troppo di volume la preparazione dei quali non è molto difficile, nè di tanta spesa che ci possa spaventare: e quand’anche lo fosse, massime nel caso di nuovo stabilimento, non si tratta già di una quantità grande, ma di quella soltanto necessaria per la parte interna del forno fusorio, e per la costruzione de’ crogiuoli.

La più difficile operazione stà nel trovare la conveniente sottigliezza da dare alla polvere del cemento, e la preparazione fra l’argilla fresca ed il cemento.

Gli unici Maestri, che abbiamo in questo particolare, sono sempre Pott, e Bosc, il primo de’ quali non parla che de’ crogiuoli, dà bensì nel trattarne molto lume anche per le fornaci, attesa l’affinità, che passa fra queste, e quelli, relativamente ai materiali.

Il male si è che non concordano essi nè nella maggior, o minor grossezza, che debb’avere il cemento polverizzato, nè nella proporzione più opportuna fra il cemento e l’argilla fresca: non è però vero che Pott, come vuol dare ad intendere Bosc, abbia avuto in mira i crogiuoli assai piccoli solamente, perchè i medesimi facessero l’obbietto delle ricerche di quel chimico, come riconoscerà chiunque voglia leggere lo scritto di sì famoso Prussiano (essais sur la man. de prep. des vaiss. – Hist. de l’Acad. R. des Sc. de Berlin an 1750), quantunque per la di lui modestia nel difficilmente decidere, trattato da irresoluto, e quasi sprezzato dai più moderni eruditi, o almeno da quelli di essi, i quali più presumono del vantaggio di certe nuove scoperte.

Quando Pott ha avuto in mira i soli crogiuoli piccoli, ha saputo dirlo. Bosc però, lo tenne avversario, e per non apporglisi di fronte, finge di interpretarlo, qualora così accomodi alla di lui opinione.

In qualunque modo non bisogna perdersi di coraggio, mentre la pratica ci fa conoscere, che in varie Vetraje, per diverse vie si giugne ad ottener buone fornaci, e crogiuoli sufficientemente ben costrutti, per procurarsi coi medesimi la conveniente fusione d’ottime composizioni per vetri, e per cristalli d’ogni sorta: i crogiuoli d’Assia tanto rinomati, secondo Pott, per tutta l’Europa, sono al dir del medesimo, formati d’argilla, e d’arena di mezzana grossezza (Roma è quel paese d’Italia, il quale con modica spesa può dar de’ crogiuoli che non invidierebbero gli Assiani).

Tuttavia dovendo io ragionare per la maggior perfezione, non disgiunta dall’economia, sentiamo i loro insegnamenti, da’ quali gran lume ritrarremo per la costruzione delle fornaci, e dei crogiuoli.

Fa Bosc sull’esmpio degli Assiani, che così facciano colla rena, tre separazioni di cemento già pesto, in grosso, in mezzano, ed in sottile, e prescrive quello di mezzana grossezza soltanto, o sia quello, che dopo separato il più grosso collo staccio di crine, nè troppo raro, nè troppo fitto, resti sullo staccio di seta nella seconda stacciata.

Pott ne fa due, e considera ottimo il gosso, men opportuno il più sottile, disapprova l’adoprarlo alla rinfusa, e non trova conveniente, che si mescolino in qualunque proporzione.

La proporzione fra l’argilla fresca , ed il cemento, in favor della quale si è dichiarato Bosc, è di quattro di cemento a cinque di argilla fresca: pur nondimeno non lascia di proporre un mezzo da riconoscere nelle diverse qualità d’argilla la più conveniente proporzione fra la fresca ed il cemento.

Desiderate dic’egli una pietra di paragone, un segno, al quale possiate riconoscere la quantità di cemento, che richiede ogni specie d’argilla pura senza esser costretti a separare il sabbione, fate molte schiacciate di quattro pollici in quadro e d’un pollice di grossezza, nelle quali avrete fatto entrare il cemento in diverse proporzioni di cui la pasta non sia nè troppo molle, nè troppo dura, che diseccherete, e che avrete battute una volta: quella di dette schiacciate, che a fuoco violento non avrà perduto che la decima parte del proprio volume, v’indicherà la miglior composizione per le fornaci, e per i crogiuoli.

Macquer nel Dizionario Chimico, nel dar conto del mezzo termine predetto di Bosc, ammette quel “sens être obligè d’en separer le sablon” e leva così una specie di contraddizione, in cui Bosc sarebbe con se stesso, e con tal sutterfuggio avrà forse voluto salvare la riputazione di Bosc, ma non l’ha che macchiata: avrebbe, a parer mio difeso meglio il suo Compatriotta, e fors’anche Collega, se riportandone il progetto più fedelmente, avesse detto, che Bosc non abbia già inteso di parlar del caso, in cui l’argilla non fosse stata purgata, perchè la dice pura, ma semplicemente di quello, in cui fosse stata bensì purgata, non però con troppa dispendiosa diligenza, in guisa che vi fosse potuta restare in mezzo qualche porzione della più minuta rena, che è quello che significa propriamente la voce sabbione.

Ciò è tanto vero, che aveva già detto prima lo stesso Bosc, essere un errore il credere, che ogni qualità d’argilla pura richiegga diversa dose di cemento.

Pott ci dà il risultato di moltissime composizioni da lui fatte con diverse materie per la costruzione de’ crogiuoli, e passando a trattar di quelle coll’argilla, dice che tre parti d’argilla con due di vasi figulini grossolanamente pesti fanno una composizione di buon uso, ugualmente che nove parti d’argilla con due di crogiuoli pesti: l’argilla fresca con peso uguale d’argilla bruciata grossolana aver riportato qualche screpolo col vetro di Piombo in fusione: per lo contrario una parte d’argilla fresca con due di cemento grossolano resistere al vetro di Piombo senza fendersi, penetrare però il vetro di Piombo per la gran porosità della materia, e più ancora nella composizione d’una parte d’argilla fresca con tre di cemento, la quale altronde resista meglio all’azione del fuoco.

Si vede adunque, continua Pott, che le ultime due composizioni possono essere impiegate molto utilmente per rivestire altre masse salde, a fin d’impedire, che la corrente d’aria non le infranga: che se si volesse servirsene per materie, le quali entrino in fusione, basterà intonicarle, o rivestirle prima, o mentre sono semiumide, versandovi internamente argilla ben monda temprata.

Le sperienze, che vengono d’esser riportate, fan credere che si tratti principalmente di trovare il modo da riparare alla porosità di tali crogiuoli, i quali per altro siano atti a sostenere l’azione del fuoco ad effetto di rendergli più saldi e ristringere i pori, d’onde risulta, che per arrivarvi bisogna aggiungervi una materia resa pura, che ne fonda insieme i pori, osservando soltanto di farlo in un grado, che non renda troppo fluida tutta la massa: il ferro bruciato, o la ruggine che abbiano perduto lo splendor metallico, ed il flogisto della superficie, come la scoria, la terra del vitriuolo dolce, il capo morto edulcorato dell’acqua forte, ogni sorta di croco marziale, tutte le schiume, e temperature di ferro, tutte le terre ferrigne, come il bolo rosso, le argille colorite, la polvere di mattone sono del caso.

Sette parti d’argilla fresca, e quattordici d’argilla bruciata grossolana, oppure dieci parti di fresca, ed altrettante di bruciata grossolana, con una dramma di capomorto, ho fatto, continua, di ciascuna composizione a parte un crogiuolo, ed avendogli rivestiti interiormente d’argilla fresca, e quindi bruciati, que’ due crogiuoli hanno contenuto per un tempo assai considerevole il piombo in fusione a fuoco violento, rendendosi anche migliori con fargli di maggior spessezza, ed atturandogli esteriormente.

Dev’essere ad oggetto di riparare alla porosità, che l’Anonimo, nel lodare come utile il sistema di dare ai crogiuoli, quantunque ben cotti, una seconda cottura, quando si tratta di vetro di gran prezzo, e che debba esser brillante, consiglia di vernicare internamente i crogiuoli con la polvere di vetro comune esente d’ogni colore; la quale operazione si faccia, inumidendo con acqua la parte interna de’ medesimi, e spargendovi sopra la polvere di vetro, con agitar poscia i crogiuoli, finchè si veggano ben ricoperti della stessa polvere, e poi buttar via il residuo, e quando sien ben asciutti, mettergli in una fornace assai calda, per vetrificar la vernice lasciandovegli per lungo tempo, ed in appresso fargli raffreddar gradatamente.

Non rimarrebbe ancora qualche pericolo di rovinar le materie nei crogiuoli dell’ultima composizione di Pott (Diction. de Chim. verbo vitrification), e non riparerebbe alla porosità senz’altra mescolanza lo spediente di Bosc, d’usare il cemento di mezzana grossezza commendato da Macquer.

L’esperienza che io non mi sono trovato in grado di farne è l’unica che possa dilucidarlo.

Intanto non lascerò di mettere in vista un’idea, che mi ha eccitato l’Anonimo, nel dire, a proposito del vetro a bottiglie, che la parte terrea delle ceneri, dopo la separazione dei sali, acquista la qualità di refrattaria (refraction dice la traduzione Francese per errore del traduttore, o di stampa, invece di qualità di refractoire), in modo che resista ai fondenti più attivi: l’idea è che detta parte terrea, così separata, possa impiegarsi utilmente per ricoprirne internamente i crogiuoli, già formati, a guisa di vernice, onde riparare alla porosità.

Cap. 3 – Della costruzione de’ crogiuoli, e delle fornaci

Ritenuto, quanto si è detto nel paragrafo precedente, trattando della preparazione dell’argilla, convien esaminar qual sia il miglior modo di costruirgli, se alla ruota de’ pentolaj, ovvero in forme.

Neri nulla ci dice su di ciò; ed il di lui commentatore si contenta di dir succintamente (Merrett: epist. ad lector) “vengon ora le padelle fusorie, le quali constano di argilla: questa perfettamente purgata si brucia in fornaci a tale effetto destinate, e si riduce nella mola in polvere fina, la qual polvere impastata con acqua, a forza di calpestarla coi piedi nudi, si rappiglia nella dovuta consistenza, si riduce con le mani in una certa forma, formata si asciuga in luogo conveniente, e poscia sopra e dentro una fornace si cuoce”: in sostanza non dice quasi niente, che non convenga a tutte le altre opere figuline.

Stabilito il principio, che generalmente le masse non debbano essere nè troppo secche, nè troppo umide, perchè altrimenti non si ottenga una lega convenientemente stretta, ne deduce Pott, che i crogiuoli fatti alla ruota dei Pentolaj di rado sieno buoni, perchè necessariamente bisogni servirsi di masse troppo umide: esser molto meglio il fargli in forme di legno, o di ottone, e battergli, o sottoporgli a forte soppressa, reiterandone l’azione di quando in quando, ovvero rastiargli con coltelli curvi, affinchè possa esser ben lavorato, ed ammassato tutto ciò che prima era stato inumidito, in appresso ribattere il modello con reiterati colpi di maglio di legno, diminuendo gradatamente la forza, il che fatto, doversi diseccare la materia, e battere un altro poco, a fin di impedire, che si attacchi nel cuocere, massime quando la parte maggiore è d’argilla.

Più grassa è l’argilla, più lentamente devesi disseccare i vasi: se però fosse magra, e contenesse un’addizione considerabile d’altra materia, potersi diseccare con maggior prontezza, e più al sicuro anch’esponendogli al calore del fuoco.

Che sebbene i crogiuoli si possano adoprar senza cuocergli ordinariamente convenga più il cuocergli nelle fornaci de’ Vasaj, e dei mattonieri, cominciando per fuoco dolce e non aumentandone la forza che molto dopo; più grassa è l’argilla, più lento doversi mantenere il fuoco, e l’opposto potersi fare con l’argilla più magra: i crogiuoli destinati alla fusione de’ sali, e del vetro di Piombo dover essere cotti sì solidamente che percuotendogli, possano dare scintille.

Non ho separato ciò che dice Pott de’ crogiuoli in genere, da quello che dice de’ crogiuoli delle Vetraje, per non defraudare il lettore, di quanto di più prezioso contiene quel trattato.

Bosc va d’accordo con Pott, nel preferir la costruzione in forme considerandola più facile, più spedita, e più sicura; e fra le figure che si sogliono dare ai crogiuoli, opina in favore di quella di cono rovesciato, proporzionato in modo, che il diametro superiore superi soltanto d’un settimo l’inferiore, onde nel tempo stesso, che presenteranno maggior superficie al fuoco di riverbero, per facilitar la migliore, e più pronta fondita, e raffinamento del vetro, abbiano la base sufficientemente larga.

Disapprova tutte le figure, le quali presentino degli angoli, perchè di minor resistenza, per la disuguaglianza della dilatazione, e per la poc’attitudine alla depurazione del vetro, difetto quest’ultimo, secondo lui, comune a quelli di figura sferica, i quali siano ugualmente dilatati dall’alto al basso, oppure panciuti, cioè di maggior diametro nel mezzo che superiormente, ed inferiormente.

Prescrive in ultimo per discreta spessezza quella d’un pollice e mezzo nei fianchi, o lati, e di due pollici nel fondo, e nella curvatura: esigendo inoltre molta mondezza nel trattargli, grande attenzione a costruirgli dritti, e ribattergli, lentezza nel diseccargli, a fuoco ardente, e continuando per lungo tempo nel cuocergli.

Ed ecco quanto mi par, che basti per natura d’un intelligente Fabbricator di crogiuoli.

§ 2 – Della costruzione delle fornaci, ed in particolare del forno fusorio

Per la costruzione delle fornaci sono rimasto con una sola guida, col solo Bosc, da cui perciò mi lascerò regolare colla maggior confidenza con aver sempre presenti gl’insegnamenti di Pott, che le possono riguardare, non parendomi di poter trarre alcun lume, da quanto dice Agricola (24) (De Re Metall., lib. 12: -si facciano dei mattoni crudi seccati al sole, che siano tratti da terra; la quale facilmente non fonda al fuoco nè si risolva in polvere, e che sia purgata dai sassolini e battuta con bacchette, e colla stessa terra si faccia la saldatura del mattone in luogo di calcina), il quale non istudiò che nelle fornaci di Murano, od il di lui seguace Merrett (nelle note a Neri).

Quando l’argilla caricata di sufficiente dose di cemento è stata sufficientemente rimescolata, ed impastata, i più de’ padroni di Vetraje la modellano in mattoni, per costruire le loro fornaci: gli uni fan cuocere que’ mattoni, prima di mettergli in opera, gli altri gli fanno diseccar bene;

L’uno e l’altro metodo, dice Bosc, mi pare ugualmente cattivo: non è possibile di far con mattoni l’interno della fornace perfettamente unito, nè di dargli la forma più vantaggiosa: le ineguaglianze sono una sorgente abbondante di lagrime e di rottami, e rendono il riverbero molto irregolare: al fuoco violento, e continuato i mattoni s’appicciolano disugualmente; lo smalto, che ne faceva la lega scorre, il vetro ne è infestato, le giunture s’aggrandiscono, il fuoco scappa per mille seni, il consumo della legna o del carbone di terra è immenso, la qualità del vetro men perfetta e la fornace di corta durata: quanti padroni di Vetraje fanno la trista esperienza de’ cattivi effetti di siffatti metodi! Vi ha un mezzo conosciuto nelle gran Vetraje di Normandia, ed in alcune del Palatinato, per ovviare a tutti quegl’inconvenienti, ed è molto facile a mettere in opera, quantunque Blancourt (Art de la Verrer.) (25) asserisca, d’essere un segreto rinchiuso nella famiglia di un Muratore.

Si modella l’argilla preparata, e composta in quattro specie di tegole: in tegole d’un piede in quadro, e di due pollici di spessezza per l’imbasamento, e per una parte della corona; in tegole di venti pollici di lunghezza, sopra dieci pollici di larghezza da un’estremità, e dall’altra sette e due pollici di spessezza per la corona; ed in tegole per le sedi, o seggi, o sia banchi di due pollici di spessezza, e di sufficiente larghezza, in guisa che messi in campo i seggi non siano nel basso che a sei pollici di distanza l’uno dall’altro, e nell’alto alla distanza di due quinti della larghezza della fornace: se si dà alle tegole minore spessezza, si moltiplicano le giunture senza necessità: se se ne dà una più grande, s’applicano imperfettamente le une sulle altre: allorchè le tegole sono un poco consistenti, si spazzolano leggermente, e si battono con una spatola di legno, ed in tale stato si adoprano per la costruzione della fornace.

Importa, continua Bosc, che il massiccio della fornace e la volta aperta fra i seggi, ed ove rispondono ad angoli retti quattro gallerie aperte dalla altra estremità, se si vuol far uso del carbon fossile, sia molto saldo, e che i quattro archi siano fatti colla maggior attenzione.

Il quadrato della fornace essendo disegnato, e formato di mattoni bianchi, o d’argilla di rifiuto, o sia ciarpame, o d’arena, e le casse essendo costrutte con buoni mattoni ordinarj, conviene cominciar per la costruzione de’ seggi che si è già detto, come debbano esser formati.

Non si ha tanta facilità nell’applicar le tegole l’una contro l’altra a gran colpi di mazzavanga, quanta allorquando l’imbasamento e la corona sono già fatte, e non corrono rischio di cagionar de’ crollamenti pericolosi: tutto riesce più solido: si fa un filare di tegole d’imbasamento, s’inumidisce quel filare con una granata fina saturata di colato assai chiaro fatto colla composizione delle tegole, e si ricuopre d’un secondo filare, che si ha cura di batter bene, e così di mano in mano finchè la fornace sia interamente innalzata: si formano gli archi, le bocche, le aperture, chiamate dai Franzesi “lunettes”, l’occhio, o gli occhi, e gli arconi del cinerario, o sia del focolare, detti dagli stessi Franzesi “Tonnelles”, con centine, od armature di legno le quali abbiano la figura che si vuol dare a quelli.

Per di fuori e per di dentro essendo ritagliato ed appianato il fabbricato, si ha cura di asciugar lentamente la fornace, e di ribatterla più volte al giorno: se nel tempo della tempera, o rasciugamento vi si fanno delle fessure, o per aver tenuto la composizione delle tegole troppo grassa, o per essere stato spinto il fuoco con troppa rapidità, oppure per non essere esattamente riempiti gli spazi, fra i fornelli e le casse.

Si sopprima con prudenza il fuoco, e quando la fornace è fredda, quanto basti per potervi entrare, si riempiano le fessure con canape ben saturato di colata della stessa composizione, e si faccia penetrare alla meglio quel canape con una lama di ferro larga un pollice circa, sopra quindici, o diciotto di lunghezza, e poscia si rimetta gradatamente il fuoco.

Si comprende facilmente, soggiunge Bosc, che seguendo tal metodo, nulla si ha da temere d’ineguaglianza, o riverbero irregolare: che si può dare all’interno della fornace la figura più vantaggiosa senza nuocere alla solidità, e che una fornace così costrutta, non avente giunture, almeno sensibili, non lascia perdere del calore, e può durare dieci o dodici anni, se si avrà cura di riparar l’atrio, i seggi, e le aperture sempre che sarà necessario, e di farle fare ottime durature.

Le riparazioni non sono difficili, la sola attenzione che si deve avere, si è di non lasciar rifreddar la fornace troppo prontamente, per evitar le scaglie, o scheggie.

Prescrive Bosc per dimensioni più vantaggiose quelle dei cinque agli otto piedi, asserendo che al di sopra, od al di sotto, il vetro si affinerà men bene, e crescerà in proporzione il consumo dei combustibili: l’intelligenza di ciò dipende dal piano dimostrativo di Bosc, che sto cercando di procurarmi, non avendolo veduto che nelle biblioteche.

Premettendo quindi, che sia tanto difficile, quanto importante di trovare una fornace, comoda per qualunque opera dell’arte vetraria, la quale, avendo sei, o dieci bocche, quattro lunette, e due tonnelle, produca il più gran fuoco possibile colla minor quantità di materia combustibile, dà il piano e lo spartimento della sua fornace, come quella che affinerà meglio, e più pulitamente il vetro con un terzo di meno di legna di quello, che ne consumino le meno imperfette fra le altre: sei operaj poter lavorarvi contemporaneamente, e ricuocer benissimo i loro lavori nelle casse per mezzo di vasi di terra, o di latta guarniti di terra, di un piede di diametro, e due di profondità, chiusi da un’estremità alla maniera di Germania.

E’ molto ingegnoso il metodo di Bosc, se sia poi l’unico di costrur bene le fornaci, non saprei dirlo, perchè le mie osservazioni sono sempre cadute su difetti, avendo studiato solo attorno a cattive fornaci: debbo però ripetere ciò che ho già detto in di lui bocca, che le fornaci delle Vetraje Inglesi sono formate di pietra bigia, e ch’egli non contenda agl’Inglesi il primato nelle opere di vetro, e di cristallo.

Quel che è certo, si è che co’ suoi ritrovati non chiuda Bosc il vasto campo, che ancor rimane agli Scrutatori delle operazioni della natura di trovare altre materie più atte alla costruzione delle fornaci, e de’ crogiuoli, nell’indagare il modo in cui procede per formare le più preziose cristallizzazioni, le gemme, e neppur l’avrà sognato.

§ 3- Del forno refrigeratorio

Non basta la buona costruzione del forno di riverbero per aver buoni vetri, e cristalli; vi è un’altra parte della fornace, la superiore, che interessa grandemente, per esser quella, la quale dà l’ultima mano alla perfezione dei lavori col ricuocergli, e refrigerargli, chiamata per ciò forno refrigeratorio.

Suol comunicare col forno di riverbero per mezzo d’un buco esistente in mezzo alla volta del medesimo, chiamato occhio, per mezzo del quale partecipa della fiamma, che riscalda quello di riverbero, onde abbia la tempra conveniente allo stato delle opere già formate, che vi si introducono, e vi si lasciano, finchè per insensibili gradi pervengano al perfetto raffreddamento: quando però è diviso in diverse camere, riceve la fiamma dal fuoco di riverbero per altrettanti buchi.

Conviene pertanto, che sia costrutto in modo, che quando dopo gli ultimi lavori gli si leva la comunicazione colla fiamma nè debba restar privo affatto dell’aria esterna, nè abbia delle aperture, per le quali l’aria si precipiti dentro con impeto, e rovini opere tanto dilicate, con rifreddarle prontamente.

Tutte le aperture laterali del forno refrigeratorio, dopo levata la comunicazione alla fiamma, debbono esser funeste alle opere di vetro, che vi si contengono, perchè la corrente d’aria più, o meno fredda (ma non sempre fredda relativamente alla temperatura del forno), che orizzontalmente vi s’introduce per quelle aperture, coll’impeto datole dalla pressione dell’aria superiore dell’atmosfera, rimpiazzando gli spazi, che va lasciando l’aria interna già rarefatta ed espansa nell’esser costretta dall’aria esterna stessa a subitaneo condensamento, precipita pure il rifreddamento de’ diversi lavori, e gli rovina siffattamente, che se ne trovano poi molti rotti, e per la maggior parte si trovano imperfettamente cotti.

Non può accader lo stesso, se le aperture siano verticali, purchè di piccolo diametro, mentre la colonna d’aria in perpendicolo, essendo trattenuta dalla pressione dell’aria laterale dell’atmosfera, molto debolmente comprime la aria rarefatta del forno, la quale ha così maggior campo a sostener molto più a lungo la sua elasticità, e solo lentamente si va condensando, onde anche le opere di vetro vadano rifreddandosi per gradi, e non ne soffrano alcun pregiudizio.

Pare che partendo da tali principi, suggerisca Bosc, che si faccia nella parte superiore del forno refrigeratorio uno, o più buchi, per secondare il rifreddamento, quando sia levata la comunicazione alla fiamma coll’otturamento dell’occhio, e sieno chiuse le aperture laterali, per le quali vi s’introducono i diversi lavori.

Se si chiude tutto il forno refrigeratorio ermeticamente, o quasi, come pur troppo suol farsi in molte Vetraje, si richiederebbe lungo tempo a raffreddarsi lo stesso forno, calcolato da Bosc fino di otto giorni, quando asserisce, che colle piccole aperture superiori, le quali non abbiano maggior diametro di cinque pollici, sarebbe compiuto in quattro o cinque giorni il perfetto rifreddamento anche delle opere.

Non è necessario, che il forno refrigeratorio sia sempre sopra quello di riverbero, può star separato anche dalla gran fornace, anzi a costo di maggior consumo di legne conviene qualche volta, che lo sia massime per i pezzi grandi, e più preziosi per la maggiore facilità in collocarveli.

Parte Quarta

Delle materie e sostanze, ch’entrar debbono nella composizione del vetro, e della loro preparazione.

Cap.1 – Delle materie e sostanze in genere relativamente alla vetrificazione

Ho accennato fin dall’introduzione, che tre qualità di sostanze sogliono entrare nella fabbricazione del vetro, le costituenti il corpo del medesimo, le fondenti, e le distruggitrici de’ colori che altri chiamano scoloranti, o purificanti, e non pochi coloranti, perchè appunto lo sono, ma il mutuo concorso de’ colori, fa dissipargli tutti.

Sonovi però delle materie, le quali o partecipano delle qualità de’ costituenti, e fondenti, come le ceneri, o quelle di fondenti, e purificanti, come il Salnitro e l’arsenico: pure siccome in ciascuna di esse predomina la natura o di costituente, o di fondente, o di purificante, secondo tale predominio le ho collocate, seguendo in ciò le pedate de’ migliori Scrittori d’arte vetraria.

Delle quattro specie di terre, e pietre, calcaria, gessosa, argillosa, e del gener de’ ciottoli, in cui vi comprendo anche l’arena, a noi note, dice Bosc, non ve n’è alcuna vetrificabile per sè stessa, al fuoco più violento: le sperienze di Pott nell’esame chimico delle pietre (Cap. 4), non ci permettono di dubitarne: ciascuna richiede l’addizione delle altre, o di basi metalliche, o di sali alcalini fissi.

Nessuna con una dose determinata dell’ultima forma il vetro così chiaro, e trasparente, come quella del genere dei ciottoli: ed è questa la combinazione più nota nelle Vetraje, e forse l’unica, che si creda necessaria a conoscersi.

Pott, veramente asserisce in quel trattato, d’aver trovato contro la di lui aspettazione, che certe mescolanze di terre e di pietre, senz’aiuto di sale di sorta alcuna, nè di vetro, nè di metallo, entrano in fusione a fuoco violento, ed acquistano considerabile trasparenza.

Haudicquer de Blancourt (25) va più avanti colla solita sua franchezza, e non dubita d’affermare (Art de la Verrer. cap. 4), che l’arena possa far vetro senz’alcun soccorso, perchè rinchiude molto nitro.

Se il sentimento di Blancourt non è vero in tutte le sue parti, non sarà affatto destituito di ragione a riguardo della arena men dura e particolarmente della marina, la quale potrebbe essere una delle materie, che mescolate con le altre costituenti diede a Pott del vetro senz’aiuto d’alcun fondente, appunto per quella qualunque porzione di nitro, o sal marino, o d’alcali minerale, che contenesse; e per lo stesso motivo potrebbe avere la maggior disposizione alla fusione, che l’Anonimo attribuisce all’arena men dura, combinando in tal guisa coll’austero sentimento di Bosc, che le rispettive specie di pietra, e d’arena non siano più o meno disposte alla fusione, che in ragione delle materie eterogenee, che contengano.

Disse già Neri, che l’arena di Val d’Arno ha in sè più copia di sali del Tarso, ciò che suppone del sale anche nel Tarso, alla qual cosa, avendo dato Blancourt più attenzione del dovere, abbia un usurpatore sì franco di tutta l’arte vetraria di Neri formato l’asserzione suddetta.

Cap. 2 – Delle materie costituenti

Per materie costituenti sono comunemente considerate l’arena e i ciottoli, i mogoli, e le altre pietre bianche, o che imbiancano per mezzo della calcinazione, non meno che quelle tutte, le quali percosse dan fuoco; e possono altresì enumerarsi fra le costituenti le altre ancora eccettuata l’argilla, sebbene non tutte possano servire per il vetro bianco, e per il cristallo.

Delle materie costituenti, le une sono migliori delle altre, della stessa specie: vi è una qualità d’arena migliore dell’altra, una qualità di ciottoli migliore dell’altra, e così delle rimanenti; quindi dalla scelta di essa dipende in gran parte la bontà e la bellezza del vetro.

Non si trova, a parer mio, Stato alcuno, Provincia alcuna, che non abbondi, se non di tutte le materie costituenti, di qualcheduna di esse almeno di ottima qualità.

Gl’Inglesi preferiscono l’arena perchè ne posseggono d’una qualità superiormente opportuna e perchè non richiede preparazione: Neri vi ha il Tarso, Bosc prepondera per i selci.

Non sono io, che m’abbia inventate le ragioni di preferenza degl’Inglesi, è l’Anonimo mia guida che me le addita, il quale così si spiega: “l’arena è quasi la sola materia, di cui si servono le Vetraje Inglesi, perchè non abbisogna della preparazione preliminare della calcinazione, necessaria, quando si adoprano i selci, o le pietre “, e dice altresì, che ne posseggono della bianca e risplendente, come il cristallo di rocca.

Continuiamo però a sentire quell’eccellente Scrittore nella descrizione de’ costituenti più usuali.

La migliore arena è quella di Linn, che è bianca e risplendente; nel microscopio rassomiglia a piccoli pezzi di cristallo di rocca, e ne ha le qualità: preferiscono questa rena a tutti i ciottoli, sebbene sia più lenta a vetrificarsi, per la qual cosa richiede più fondenti, e più fuoco: in ricompensa è più chiara e più scevera da corpi eterogenei, che sono ne’ ciottoli, ed i quali nuocono alla nettezza bianca del vetro.

L’arena non abbisogna d’alcuna preparazione quando si adopera col nitro, che purgando sempre la materia sulfurea delle sostanze animale e vegetabile, conseguentemente la calcina: ma siccome nelle opere dilicate non si fa uso di Salnitro, è d’uopo purificare l’arena, versandovi acqua sopra, agitarla bene nell’acqua, e tenere il vaso nel quale si lava, molto inclinato, affinchè l’acqua scorrendosene, possa trascinar seco le brutture.

Per lo vetro grossolano, e comune, s’adopera un’arena più dolce, la quale, oltre di essere a più vil prezzo, è più vetrificabile, e risparmia i fondenti.

Nelle prove, che producono soltanto piccola quantità di vetro, i ciottoli calcinati sono preferibili alla rena = la spesa della calcinazione non fa alzare il vetro al di sopra del prezzo corrente, che si sarebbe avuto dall’arena.

I migliori ciottoli sono quelli di color bianco trasparente e tirante sul nero: convien buttar via quelli che sono macchiati di bigio, o di giallo, a cagione delle parti ferrigne, che contengono, le quali levano al vetro molto della sua bianchezza: si calcinano mettendogli in una fornace a calor moderato, fino a che sieno diventati perfettamente bianchi, ciocchè richiede maggiore o minor tempo, secondo il loro volume, ed il grado del fuoco: si levano quindi dal fuoco, per immergergli nell’acqua fredda, fino a che sieno perfettamente rifreddati: se son ben calcinati, con poca pena si spezzano in minutissime parti facili a ridurre in polvere: se se ne trovasse qualche porzione che non sia perfettamente calcinata, si ricalcinerà, per ridurla in polvere nella mola quando lo sarà a sufficienza.

Si adopera il Talco ancora, ma radamente nelle grandi opere: convien qualche volta calcinarlo a fuoco più lento che i ciottoli, e senza spegnerlo nell’acqua.

Vi sono delle specie di Talco più o meno vetrificabili: si fanno entrare in fusione col sale di tartaro e col minerale di Piombo: nelle gran Vetraje gli si preferiscono i ciottoli, come meno rari, e che richieggono più poco fondente, e meno fuoco per la loro vetrificazione.

I fossili terrei, e petrigni, e tutte le materie, le quali danno fuoco alle percosse dell’acciajuolo, possono entrare nella composizione del vetro: io, dice sempre l’Anonimo, non farò l’enumerazione che di due qualità, perchè il poco vantaggio, che se ne ricava, ne ha fatto abbandonar l’uso in Inghilterra.

Una è la pietra molle di Francia, moilon (forse la stessa delle petriere di Cagliari più vicine alla città di cui si fa grand’uso per gli edifizi urbani), che si trova in gran quantità all’apertura delle petriere: dessa è disposta a pronta vetrificazione (g) : l’altra è una specie di breccia di fiume bianca, tonda, e semitrasparente (i mogoli d’Imperato – Istor. nat. Lib. 24), la quale si vetrifica colla stessa prontezza; più netta si sceglie, e più scevera di colori, più bianco riesce il vetro, che produce; fa bensì d’uopo di calcinarla a fuoco vivo, finchè arroventi, e poi spegnerla nell’acqua fredda, per ridurla in polvere.

Kunkel (Kunckel ) (26) confonde nella denominazione d’arena i ciottoli, ed altre materie petrigne, benchè egli stesso metta gran differenza nella loro vetrificazione: sono necessarie dic’egli, cento quaranta libbre di sali per fondere centocinquanta di pietre calcinate, mentrechè, per fondere dugento libbre d’arena, non ne abbisognano che centrenta (io non perderò tempo in dimostrare, quanto sia falso il calcolo di Kunkel, perchè da se stesso si manifesta facilissimo).

Sentito l’Anonimo, sentiamo Bosc nel capitolo delle materie da convertirsi in vetro, il quale così si spiega, dopo quanto si è detto in di lui bocca nel Cap. 1 di questa quarta parte.

La spezie di terra, o di pietra nota sotto i nomi di cristallo, di quartzo, di ciottolo, d’arena, di selce etc. fanno la base principale del Vetro: pochissime sono le Vetraje le quali adoprino i selci nella composizione del vetro: Merrett dice asseveratamente, che non possono servire a quest’uso, per tema senza dubbio, che non venga a costar troppo l’acciaccargli: eppure basta fargli arroventar nelle casse durante la fondita, smorzargli nell’acqua e battergli leggermente: l’operazione non sarà dispendiosa, a men che non fosse una specie di selice così duro, che raro: il vetro fatto co’ selci a lastricare, o altri biancastri, o giallicci, non differisce in durezza da quello, che sia fatto con arena, non ostante la contraria asserzione di Wallerio.

L’arena più colorita, e più argillosa è la migliore per il vetro a bottiglie, perchè richiede poco sale alcalino fisso, e fa il vetro assai saldo: basta impiegar l’arena bianca, ed i selci per il verde, ed anche pel bianco, le vene rosse, o gialle, che vi si veggono, spariscono ordinariamente nel fuoco. Se però non si hanno dei bei ciottoli, delle pietre focaje, come purificar l’arena, ed i selci al punto di farne il più bel cristallo, e più fine ?

Spesso le calcinazioni ripetute sono insufficienti; la base marziale, di cui difficilmente sono esenti, e che colora sempre più, o meno il vetro, vi resiste.

Il celebre Stahl (part. 2, sez. 3, cap. 3), consiglia di lavargli diligentemente con acqua di fiume saturata con un poco d’acqua forte: ma cotal metodo non sarebbe forse dispendioso ? E ci possiamo lusingare che riempirebbe il fine proposto, a men che l’arena, e i selci non fossero stati ridotti in polvere finissima ?

L’acqua Regia, e la Proserpina di Glauber (27) (Butirro d’Antimonio), (ora dette l’una l’acido nitromuriatico e l’altro l’acido solforicomuriatico antimoniato, quasi più difficili a pronunziare di quello che siano a prepararle), col soccorso delle quali si opererebbe sicuramente l’estrazione desiderata, sono troppo difficili a preparare, e di troppa spesa, perchè un padrone di vetraja debba determinarsi a servirsene.

Io vo, continua Bosc, ad indicare un mezzo assai più efficiente, assai più semplice, e meno dispendioso: si mescolino per dissoluzione in ogni cento libbre d’arena o di selci acciaccati quattro libbre di sal di vetro, e si metta la mistura in un crogiuolo vecchio, o in tutti, alla fine della fornace e la si faccia subire sette od otto ore di fuoco di Vetraja il più violento: il sal di vetro svanirà ma dubito molto per le ragioni che si diranno trattando del fiele di vetro, dissiperà fin l’atomo il più leggero di materia colorante, e l’arena resterà bianca come la neve, assai pura, e propria a fare il più bel cristallo.

Molti Autori hanno avanzato, che vi erano delle specie d’arena, e di ciottoli più disposte alla fusione che altre (di tal sentimento appoggiato alla pratica è l’Anonimo a riguardo della rena, come ho accennato di sopra): ciò non è vero che in ragione delle materie eterogenee, sopratutto della sostanza marziale delle quali sono cariche: è un errore il credere con Marrett, che il cristallo voglia arena molle, ed il vetro comune arena dura: fin quì Bosc.

Le mie due guide, tutto che l’una ignota all’altra (almeno Bosc non dà alcun indizio nella di lui memoria d’aver veduto l’opera Inglese, di cui i Giornali di Parigi diedero soltanto notizia nel Novembre 1759 – Mem. pour l’hist. des Sc. et des arts), mai si trovano tanto d’accordo, quanto in questa parte: l’Anonimo preferisce l’arena ai ciottoli, perchè non richiede la spesa della calcinazione, in sostanza però trova migliore l’uso dei ciottoli: Bosc non tanto economo, quanto l’Inglese, e che non ha nel suo Paese arena così bella , come quella d’Inghilterra, preferisce senza riguardo i ciotti all’arena ne’ lavori più fini: il primo raccomanda per economia l’arena tenera, ma pe’ lavori ordinari, e comuni soltanto: Bosc taccia d’erroneo il sentimento di Merrett che il cristallo richiegga rena molle: l’uno e l’altro crede necessaria la calcinazione, quando si tratti di ciottoli, e d’altre simili materie.

Il solo metodo dell’Anonimo di purgar l’arena è più semplice, e meno dispendioso di quello di Bosc: il punto stà in credere, se sarà sufficiente per l’arena non tanto pura, quanto quella d’Inghilterra, cosa peraltro facilissima a verificarsi da chiunque, col farne la prova: io inclino a crederlo sufficiente, se si farà, come si è detto per l’argilla.

Cap.3 – Dei fondenti

§ 1 – Delle diverse qualità dei fondenti

Passiamo ora ai fondenti, sotto nome de’ quali Bosc intende i sali alcalini fissi minerali, ed artificiali (non si può annoverar fra i fondenti lo alcali animale, detto pur volatile, perchè non atto alla combustione) o una mescolanza di sali alcalini fissi, e della loro parte cenerosa, d’una terra alcalina di natura salina (chi sa, perchè mai Bosc dimentico del cenno che ne fece poco prima, non nomini quì, nè abbia nominato più nella stessa Memoria le basi minerali fra i fondenti): l’Autore della Guida delle Arti ne enumera sette qualità, le quali secondo il traduttor Francese sarebbero il Piombo, le ceneri di Toscana, il nitro, il sale marino, il borrace, l’arsenico, e le ceneri di legno: non parla della soda, perchè, come asserisce, più non se ne servono in Inghilterra, ma vi suppliscono colla potassa, come ora vi suppliscono i Francesi con una composizione assolutamente artefatta, piuttosto a causa degli enormi dazi d’introduzione, messisi in Francia sulla soda in favor dello smercio d’una tal composizione, che per vantaggio delle loro opere di vetro, e di cristallo.

Sotto il nome di alcali minerale si intende generalmente la soda: e Chaptal ( 28 ) (Elem. de Chim. Tom I, sect. 8, chap. 1, art. 2) dice così chiamarsi, perchè sia la base del sal marino.

Romè de l’Isle (29 ) (Crystallographie Tom I, § alkalis num. 2) dicendoci, che il regno vegetabile ci offre l’alcali minerale in certe piante marine, come la soda, il goemen, il varech e simili , ciocchè l’abbia fatto chiamare anche sal di soda, ed alcali fisso della soda, c’insegna che il nome d’alcali fisso minerale viene dal trovarsi in maggior abbondanza nel regno minerale che negli altri due regni, sia che serva di base al sal gemma, o sal marino, sia che si trovi pressochè puro, ed in forma concreta nella superficie della terra, o nelle arene che circondano certe lagune d’acqua salsa; che a riguardo del regno animale si trova pure in piccola quantità però, nelle sostanze ossee calcinate.

Sarebbe più appagantemente comune, secondo de l’Isle la denominazione di alcali minerale tanto alle diverse sode, quanto al natron, di quello che sia l’appellar con altri scrittori la prima alcali minerale, ed il secondo alcali nativo, quantunque il natron sia quello strato di sale, che rimane nella superficie di certe fosse nella stagione ardente, dopo evaporata l’acqua rosso-violacea, che trasudar sogliono dal fondo delle medesime in molta quantità nell’inverno.

Creduto già privativa dell’Egitto, ma poi scopertosi in diverse altre regioni.

Non ogni qualità di soda si chiama alcali minerale, ma quella sola che, piantata nella vicinanza del mare, o delle saline, e stagni salini, o in altri terreni di fondo salino, quantunque discosti dal mare, e dagli accennati stagni, conserva il sapor salso; mentre l’altra, che si coltiva entro terra, perdendo quel sapore salino, diventa della natura di tutte le altre piante, che danno l’alcali artificiale, e con esse si confonde nella riputazione, sebbene il suo seme sia ugualmente atto a produrre l’alcali minerale, piantandosi in terreni opportuni: tanto avendomi insegnato le mie lunghe osservazioni, e particolarmente nel corso del tempo, che in qualità di giudice del Consolato ne ho avuto la direzione, osservazioni queste in gran parte conformi a quanto ne dice Targioni Tozzetti (30) (par. 9, e 13 d’Agricolt. )

Damaste, secondo de l’Isle, nelle sue lettere sulla Chimica (Tom I) pretenderebbe che la modificazione , di cui si tratta, non accada nelle sode piantate nelle terre troppo lontane dalle acque salse che insensibilmente, ed in maniera che soltanto in capo a tre anni non diano più che dell’alcalino vegetabile: ciò non si accorda colle mie osservazioni, nè mi dà soggezione, essendo egli un erudito riputato troppo facile ad adottar delle nuove ipotesi.

Serva, quanto sopra, d’avviso a quegl’imprudenti Agricoltori, i quali allettati dai prezzi vantaggiosi, che le sode hanno avuto negli anni addietro, non fanno distinzione fra terreno e terreno, e levano al frumento le migliori terre, destinandole alla piantagione della soda: se mai non trovassero per le loro ceneri quei prezzi de’ quali si lusingassero, non incolpino già l’ingordigia de’ commercianti, nè l’imperizia dei Bruciatori, ma la sola loro avarizia, che gli avrebbe accecati nella scelta delle terre per una tal pianta gione.

Credano a me, che non gl’inganno, e rendano alle biade le terre, che i loro Maggiori aveano destinato alle medesime; riducan piuttosto in cenere quelle certe erbacce, le quali infestano i seminati, e dalle ceneri di esse estraggano i sali alcalini fissi, ed otterranno in vece d’uno incerto, due vantaggi, e quello di procurarsi più sicuro, ed abbondante raccolto colla diligente nettatura delle biade, ed il prodotto del sale alcalino fisso, che venderanno a prezzi migliori di quelli, che si possano immaginare.

Se non trovo troppo fedele il Traduttore della Guida delle Arti, nè tanto versato nella lingua Inglese, come lo predica le Vieil: mi traduce pearl ashes per cendre gravelee: come mai può stare questa traduzione colla descrizione che fa l’Anonimo del pearl ashes, pur tradotta dallo stesso Hernandez ne’ seguenti termini = il pearl ashes si prepara in Germania, in Russia, in Polonia: estraggono a tal effetto il sale dalle ceneri di legna, e riducono il ranno a siccità per evaporazione, e per lunga calcinazione in fornace a fuoco dolce (Beniamino Scholz (31) adduce la ragione per cui conviene l’uso della potassa di ceneri di legno nei paesi, in cui abbondano altri fondenti dicendo che per 400 quintali viennesi appena bastano 20.000 tese di legna dolce del 1821).

Chi non riconosce, ne’ sali de’ quali si tratta la potassa in specie, non già les cendres gravelees de’ Franzesi, cioè la feccia di vino, o sia la fondata combusta, chiamata in Italiano, secondo Alberti (nel suo dizion. alla voce gravelee), cenere di Toscana e anche allume di feccia.

Wallerio (Mineralog.Tom 2, pag. per me 186 della traduzione Francese d’Aleman), nel trattar degli alcali artificiali fissi mette in primo luogo le nitre fixe, alkali artificiale, nitri, alkaest, nitrum fixum; in secondo luogo les alcalis artificiels des vegetaux, alkali artificiale herbarum, salia lixiviosa plantarum; in terzo luogo les cendres gravelees, alkali artificiale infectorium cineres infectorii, e dice, on fait ce sel alcali en brulant la lie du vin (ed ecco che les cendres gravelees de’ Francesi sono appunto le ceneri di Toscana); in quarto luogo le potasse, alkali artificiale arborum robustiorum, cineres cravellati, on tire ce sel par lixiviation des cendres de bois de chene, ou de hatre; in quinto luogo la soude, alkali artificiale, kali herba, soda, salsol (Linneo (32) chiama la soda salsola class. 5 Pantandria Digynia monospermae num. 275 ediz. del 1756, descrivendola, salsola capsula unisperma semine cocleato). (Il motivo per cui in vista della gran distruzione dei boschi avessero già abbandonato la potassa l’ Inghilterra, e l’ Austria salitando la soda nonostante il prezzo maggiore della soda – Biblioteca Italiana del 1821 num. 71), alumen catinum; ed in sesto luogo le sal de tartre, alkali artificiale tartari, sal tartari.

Dunque secondo il traduttor di Wallerio il pearl ashes dell’Anonimo non è la cendre gravelee, la cenere di Toscana, ma la potassa, che io chiamerò in Italiano la potassa per maggior chiarezza, e nulla rilevando, l’aver veduto fra le denominazioni latine, della potassa quella ancora di cineres cravellati.

Non è solo il Wallerio, o meglio dire il di lui traduttore, da cui abbiamo, per le ceneri di Toscana la denominazione Francese di cendres gravelees: Savary (diction. du commerce), dice anch’egli: ” la cendre gravelee est de la lie du vin sechè et ensuite calcinee” . Valmont (33) (Diction. d’histoir. nat. ): ” quelques fois ils font brûler, et calciner cette lie du vin, et c’est ce q’on appelle cendre gravelee. Chaptal (Ser. 8, cap. 1, art. 1) , dice chiamarsi cendre gravelee la fondata del vino combusta.

Savary però non sapeva, che cosa fosse la vera potassa, quando disse, ch’era la stessa cosa colla cendre gravelee, bensì proveniente da Polonia, ed altre Regioni lontane: “au nom pres c’est precisement la même chose” , oppure seguendo la volgar maniera di spiegarsi, ha confuso l’un alcalino coll’altro; e chi sa che non sia desso, che ha strascinato il Traduttore dell’Anonimo Inglese in tal errore.

Che se il pearl ashes è la potassa, non può esser anche vera potassa la settima qualità, una cenere di vegetabili minori, seconda nell’enumerazione di Wallerio: anzi è certamente dessa, perchè l’Anonimo, nello spiegare qual sia, dice d’essere tutte le ceneri del genere delle eriche, e di tutti gli altri vegetabili, e più chiaramente ne fa la distinzione nella composizione quarta del vetro a vetri, come si vedrà nella quinta parte cap. 1, § 3.

Ho appellato potassa in specie, o vera l’alcalino, che si estrae dalle ceneri degli alberi più robusti, perchè non mancano Autori, i quali dicono potassa qualunque alcalino fisso estratto dalle ceneri di qualsivoglia vegetabile, d’alberi robusti, o deboli, di frutici, piante, o erbe, onde per maggior chiarezza possa appellarsi il primo la vera potassa, o potassa in specie, la qual cosa non dovrebbe dispiacere ai chimici moderni impegnati a semplificare le denominazioni.

Bosc pare, che dia tanta estensione al significato della voce potassa, quando la distingue in rossa, e in bianca, e dice, che la rossa sia il sale alcalino fisso estratto dalle ceneri di tutti i vegetabili per lisciviazione, ad eccezione della maggior parte dei marini, la bianca non altro che la rossa stessa calcinata a fuoco di riverbero.

Dopo aver detto, che i fondenti sono i sali alcalini fissi minerali, ed artificiali, o una mescolanza d’alcalini fissi, e della loro parte cenerosa, come si è riferito di sopra, e fatto vedere il gran contrasto di opinioni, che regna fra gli Scrittori, che l’hanno preceduto, non meno che fra i Fabbricatori nella questione, qual sia il migliore de’ fondenti, partendo Bosc da un principio molto ragionevole, decide che si debba mettere in opera quello de’ medesimi, che si avrà più alla mano, che ci potrem procurare con minore spesa, mentre da esperimenti variati, e ripetuti assai volte gli sia risultato, che tutti siano egualmente buoni, purchè la preparazione sia conveniente, le proporzioni nella composizione giuste, la fusione, e la depurazione sufficienti.

Decisione la più favorevole a tutte le parti, che si sia mai data, ed inappellabile di sua natura, perchè nessuno de’partiti se ne può chiamar gravato.

Francesco Redi (Consult. Med. per una gotta con nefrite), sebbene in altro senso, disse, che i sali di tutti i vegetabili hanno tutti ugualmente la stessa virtù, senza differenza alcuna fra di loro.

Nè mi pare di diverso sentimento l’Anonimo nel dire, trattando della potassa, che in oggi si preferisce in Inghilterra a qualunque sale alcalino, di essere il più puro degli alcalini fissi, che si possono avere a prezzo discreto.

Il Piombo dic’egli, che nelle manifatture Inglesi, è il più importante dei fondenti per lo vetro chiamato a ciottoli (che è quello, il quale non richiede troppa sparenza) e va ridotto per calcinazione allo stato di minio, o piombo rosso, dà un vetro più solido di quello dei sali lisciviali: Bosc non parla del piombo, ed a riguardo della solidità dice, che Gallet pensi, esser la soda la più propria a far del buon vetro durabile, abbisognar però d’un poco di nitro, tanto per distruggere il gialliccio, che dà al vetro, quanto per correggere la disposizione a corrodere, che riceve dalla impressione dell’aria.

La potassa che supplisce alle ceneri di levante, alle sode di Spagna, ed alle altre incinerazioni, delle quali si servissero prima gli Inglesi per lo vetro, e per il sapone, dover anteporsi al Piombo, ovunque si voglia della trasparenza, e non aver d’uopo d’essere purificata, salvo per gli specchi, e per i vetri d’invetriate.

Del nitro raffinato farsene uso comunemente più come scolorante, che come fondente, avendo minor forza degli alcalini fissi.

Il sal marino aver molta forza per eccitare la vetrificazione de’ corpi più duri: abbisognavavene però una gran quantità: produrre per altro vetro men solido, onde convenga mischiarlo con altri sali, anzi diseccarlo a fuoco lento per decrepitazione, senza però esporlo all’aria, perchè la sua forza esplosiva spingerebbe le materie fuori dai crogiuoli.

Il borrace, chiamato Tincal nelle Indie Orientali suo luogo nativo (così creduto per lo passato privativamente) essere il più potente de’ fondenti, ma troppo dispendioso.

L’Arsenico ancora essere assai buon fondente pel vetro a bottiglie, e pel vetro verde, doversi adoprare nel loro stato naturale, senza separar l’alcalino fisso dalle parti terree, in quale stato vetrifichino facilmente, e agiscano sulle altre sustanze da fondenti poderosi.

Quì dà l’Anonimo una nozione di grande importanza, con avvisare, che le parti terree separate da’ sali alcalini per lisciviazione, e quantunque adoprate cogli stessi sali, ripugnano alla vetrificazione, avendo preso una natura affatto diversa.

Nel dirsi da Bosc, che sia necessario d’aggiungere all’arena, e al sale alcalino fisso una terra alcalina, la quale procuri la perfetta mescolanza, dia corpo al vetro, lo renda solido, e faciliti la depurazione, par, che sia contrario agl’insegnamenti dell’Inglese: potrebbe però non esserlo, mentre non parla espressamente delle parti terree separate dall’alcalino fisso, le nomina bensì senza supporle, potendo benissimo calcinarsi le ceneri nello stato loro naturale, finchè vengano bianche, come si calcina il sale alcalino fisso, mentre nomina pure altre terre alcaline, la calcina spenta e la creta.

Che se Bosc intendesse di parlare altrimenti, non gli darei retta, seguirei bensì gl’insegnamenti per me convincentissimi dell’occultato scrittore Inglese più pratico di lui, ed istruito in un Paese, che supera ogn’altro nella bontà, e nella bellezza di qualunque lavoro vetrario.

Loda Neri per uno dei buoni fondenti il sale estratto dalla calcina da murare, purchè usato con parsimonia, ed in proporzione del due per cento cogli altri alcalini fissi.

Non enumera Bosc fra i fondenti il Piombo, come ho accennato, all’incontro ne nomina tre altri, de’ quali non fa menzione l’Anonimo: le ceneri delle coste di tabacco, le quali producono, secondo lui più del terzo di sale alcalino fisso; le ceneri della vinaccia, le quali producono almeno altrettanto che quelle della felce, cioè una nona parte di sale alcalino fisso, e le ceneri de’ sedimenti del lambicco de’ distillatori d’acquavite di vinaccia, che afferma d’avergli dato fino ad un quarto di bellissimo sale alcalino, al tempo stesso che dice esser difficil cosa, che da quei distillatori non vi si mescoli della feccia di vino, o fonduta: non parla però espressamente delle ceneri di Toscana, cendres gravelees, nelle quali stà il segreto che io indicai, di barattar coll’oro del Nord la feccia del nostro vino, tanto da noi sprezzata, con ridurla a cenere di Toscana.

E’ intanto certo, che le ceneri della feccia danno ottimo, ed abbondante sale alcalino.

D’onde mai può esser venuto il nome di cenere di Toscana a questa sostanza alcalina, se non dall’esser la Toscana il Paese, in cui si è cominciata a preparare, in cui si è inventato il suo uso, chi sa da quando: eppure ai nostri tempi non si sa in Toscana, che la fonduta così preparata sia uno dei migliori fondenti per la formazione del vetro, anzi neppur se ne conosce il nome, rimanendo a pena nota la utilità della feccia agli stampatori in rame per farne il loro bel nero, ed ai rivenditori di colori, i quali ai primi la somministrano.

Lo stesso Sig. Dottor Targioni Tozzetti, alle di cui profonde osservazioni era sfuggito l’alcalino fisso, che si ricava dalle ceneri della feccia di vino, almeno da quella che si fa dalle fondate dell’aceto e del vino distillato (Cap. 26, e 29 d’Agricolt. ), non che altri eruditi Toscani, co’ quali m’abboccai nel passare in Toscana nel Gennajo 1807, curioso di sapere, se vi si conservasse ancora, per quell’alcalino la denominazione di cenere di Toscana, con quella docilità che è caratteristica delle persone veramente erudite, mi confessarono ingenuamente che venieva loro nuova tal denominazione relativamente alle ceneri della fondata; Neri per certo non ne fa menzione nell’arte vetraria, e suggerisce soltanto di far uso della gromma come uno dei migliori fondenti da mescolarsi nella composizione del cristallo più fine, e dà il metodo d’estrarlo, a proposito del quale fa sentire Merrett, che il sale di tartaro era uno dei fondenti usati in Inghilterra, almeno a’ suoi tempi.

Mi lusingava di sentire dir qualche cosa da Redi nelle sperienze attorno ai sali fattizi, ma neppure il nome vi ho trovato registrato.

Con quanto mio rammarico veggo, spesso insegnarsi a noi delle cose dagli Oltramontani, ch’essi appurarono dai nostri Maggiori !

Può essere però verissimo, che il nome di cenere di Toscana sia stato dato all’allume di feccia fuori dalla Toscana, appunto perchè in Toscana si fosse incominciato ad usare, o almeno perchè dietro agl’insegnamenti di Neri sull’uso del sale di Tartaro, si fosse introdotto altrove anche l’uso del sale alcalino estratto dalle ceneri della fondata, non essendovi fra questa, e la gromma che la differenza della parte liquida dalla secca, di quanto depone il vino nella botte.

Secondo i suddetti principj poco riguardo si dovrebbe avere alla nuova nomenclatura di carbonato di potassa impuro dato a quelle ceneri, che i Francesi chiamano cendres gravelees.

Debbo quì ripetere, per essere il suo proprio luogo, che le ceneri di quasi tutti i vegetabili somministrano del sale alcalino fisso di buona qualità in maggiore, o minor copia, dei quali vegetabili alcuni ne nomina Neri, e maggior numero Merrett (Art. vetr. di Neri nelle note al cap. 6, Lib. 1), da cui mi viene insegnato, che i chimici appellano sale alcalizzato quello, che sopporta il fuoco più violento senza volatilizzarsi, presa la denominazione dal Cali, cioè dal sale estratto dal Cali.

Non par che approvi Bosc l’uso delle ceneri delle piante marine, le quali contengono anche molto sal neutro, come sono in particolare il Kali mayus geniculatum, l’Assenzio, ed il Finocchio marini; e dà il nome di potassa a tutte le ceneri de’ vegetabili, le quali non hanno nome proprio particolare, quantunque a rigore non sia dovuto che a quelle degli alberi più robusti, secondo la classificazione di Wallerio di sopra riportata; per la qual cosa io feci la distinzione fra potassa in genere e potassa in specie.

Uno degli alcalini che Neri più apprezzava, è quello della felce nel cap. 5, Lib. 1, nel quale dà il tempo ed il modo di coglierla, e di ridurla in cenere, ed estrarne il sale.

Loda molto la felce anche Bosc, ed asserisce, che dà una nona parte di sale alcalino fisso; e se non concorda con Neri nel tempo di coglierla, deve attribuirsi al diverso clima, in cui ognuno di loro si trovava, il primo che viveva nella parte settentrionale della Francia, vuole, che si colga verso la fine di Luglio, il secondo, che dimorava in Toscana, prescrive di coglierla dalla fine di Maggio alla metà di Giugno.

Redi nell’esperienze suddette dopo aver dato per costante, che si abbrucia qualsivoglia erba, fiore, frutto, legno, e checchessia, e se ne fa cenere, dalla quale si estrae del sale, e che non tutte l’erbe, nè tutti i fiori, nè tutti i frutti, nè tutti i legni abbruciati rendono egualmente la stessa quantità di sale, soggiugne, che fa qualche notabile diversità la stagione, nella quale sieno colte le piante, siccome il paese o montuoso, o campestre, o maremmano, o uliginoso.

I luoghi alpestri della Sardegna abbondano molto di felce, e quelli de’territori di Morgongiori ne abbondano moltissimo, come ho già accennato (Part. 1, cap. 4, § 1).

Prima di trattar del modo di estrarre il sale alcalino fisso dalle ceneri, diciamo di un altro ingrediente della composizione del vetro, di cui pare che si vanti Bosc d’essere il primo ad aver parlato, voglio dire del vetro rotto. (L’Anonimo Inglese ne ha fatto menzione nella composizione terza del vetro a ciottoli, e diciotto secoli prima, cioè sul principio dell’era volgare Plinio (34) – Stor. Nat. lib.36, cop. traduz.di Lud.Domenichi), in questi termini: “Alcuni Autori dicono, che in India si fa di cristallo rotto, e perciò niuno altro vetro si paragona con l’Indiano” , quindi anche prima di Plinio altri Scrittori.

Si lagna Bosc, che i fabbricatori l’abbiano condannato a non entrare che nel vetro comune, quandochè, facendo entrare il vetro rotto in tutte le composizioni, si deve ottenere non solo un gran risparmio, ma bonificazione ancora, e facilità nella depurazione.

Dice pertanto, che i pezzami, lungi dall’alterare le composizioni della medesima specie, rendono il cristallo, ed il vetro cristallino, che ne risulta, più netto, più solido, e più brillante: esser sorprendente, che prima non si sia affacciata una verità siffatta, parendogli una conseguenza del principio generalmente ricevuto, che il cristallo sia tanto migliore, tanto più bello, quanto più a lungo ha provato l’azione del fuoco, ed è stato spento nell’acqua maggior numero di volte.

Le sole attenzioni, che richieggono i pezzami, dice Bosc d’essere, il purgargli da ogni materia eterogenea, l’acciaccargli minutissimamente, che siano il prodotto di composizione della stessa natura di quello, in cui si fanno entrare che non formino mai più del terzo della composizione, ed il mescergli esattamente colle altre materie.

§ 2 – Metodo di Neri per estrarre il sale alcalino fisso

Per far conoscere il modo più conveniente d’estrarre il sale alcalino fisso dalle ceneri, mi è piaciuto di riportare il metodo prescritto da diversi Autori, da Neri, da Blancourt, da Bosc, e dall’autore dell’Ancella delle Arti.

Per estrarre il sale alcalino fisso, dice Neri, si vagli la cenere di Soria, col vaglietto fisso, acciò i pezzetti non passino, ma solo le ceneri: la rocchetta si pesti in pile di pietra, e non di metallo, perchè piglia il suo colore, con pestoni di ferro, e similmente la Soda di Spagna (Marrett nelle note dice più spedito il ridurre in polvere per mezzo della mola fatta girar da giumenti, che si usava di suo tempo) e si vaglino con vaglietto fitto, che in questo consiste il cavarne più o meno.

Si abbiano le caldaje murate con suoi fornelli, come quelle dei Tintori: queste caldaje si empino d’acqua comune pulita, e chiara, e si dia fuoco con legne secche che non facciano fumo; e quando l’acqua bolle bene, si butti sopra il polverino vagliato in onesta quantità, e proporzione secondo la quantità dell’acqua, e si continui il fuoco a far bollire, mescolando sempre con una pala di legno in fondo acciò il polverino s’incorpori nell’acqua, e n’esca tutto il sale, continuando a bollire, fino sia calato un terzo d’acqua: si riempino le caldaje di nov’acqua e bollino fino cali la metà: allora è fatto un ranno pieno di sale.

Ma acciò il sale sia in maggior quantità, e più bianco, si butti nella caldaja, quando bollono avanti del polverino, libbre dieci circa per caldaja, di gruma di botte di vino rosso, detta tartaro, prima bruciata solamente in color nero, e si lasci solver bene nell’acqua calda mescolando colla pala di legno, poi si metta il polverino, come sopra .

Questo del tartaro è modo segreto, con il quale si ha più sale, e si fa il cristallo più bianco e vistoso.

Quando l’acqua è calata i due terzi, e che il ranno è ben pregno di sale, si allenti il fuoco della caldaja, e si abbiano in ordine molte conche di terra, che prima siano state piene d’acqua comune per sei giorni, e questo acciò imbevano manco ranno, e sale, e così con ramajoli grandi di rame si cavi il ranno dalle caldaje, e si metta in dette conche, ed insieme si cavino le ceneri dalle caldaje, ed il tutto si metta in dette conche, e quelle son piene, si lascino stare così per dui giorni, che in detto tempo la cenere sarà tutta ita in fondo, ed il sale resterà assai chiaro: allora con ramajoli di rame pianamente acciò il fondo non si sollevi, e s’intorbidi, si cavi il ranno chiaro e si metta in altre conche vote, e si lasci stare il ranno per duoi giorni, e di nuovo dando in fondo altra terrestrità la rannata vien più chiara, e limpida; e questo si reiteri tre volte, che così si avranno le rannate limpidissime, e scariche d’ogni terrestrità, che si fa poi il sale assai fine, e perfetto.

Per istrignere dette rannate, ed estrarne il sale, si lavino prima bene le caldaje con acqua pulita, e si empino della predetta rannata, fino si veda ispessar la rannata, che vuol cominciare a buttare il sale, cosa che suol eseguire in capo de’ ventiquattr’ore incirca, che in superficie della caldaja si comincia a vedere il sale bianco, che pare una ragna, o tela bianca: allora si abbia una cassa bucata con più buchi, e si tenga in fondo alla caldaja, ed il sale vi cascherà sopra; e si cava di quando in quando, lasciando in prima bene scolare la rannata nella caldaja, e si mette il sale in mastelli ovvero conchette di terra, acciò il ranno scoli meglio; quale scolatura si recupera, e si torna nella caldaja, ed il sale si asciuga; e si continua così, fino si abbia tutto il sale della caldaja: ma bisogna avvertire, quando comincia a buttare il sale, di dargli fuoco gentile, e lento, perchè se dassi fuoco gagliardo, il sale si attaccherà alla caldaja, cosa a me intervenuta qualche volta; però si avverte questo sopra ogni cosa, e vi si usi pazienza e diligenza.

Il sale che è nelle conche, o mastelli, quando è scolato bene, si cava, e si mette in casse di legno, o tini di legno per asciugar meglio ogni umidità, che succede in più giorni, secondo le stagioni, in che si fa.

Però il segreto di fare assai sale, e bello consiste nel tartaro, come sovra si è dimostrato: io d’ogni trecento libbre di cenere di levante per ordinario cavavo ottanta in novanta libbre di sale.

§ 3- Metodo di Blancourt d’estrarre il sale alcalino

Haudicquer de Blancourt, il quale nella dedicatoria del suo libro de l’art de la verrerie tanto esagera le indagazioni, e scoperte da esso lui fatte per quelle sue veramente ladre fatiche (per le sue imposture meritò di esser condannato alla galera (h) – Nouveau diction. historiq.), dopo aver tradotto letteralmente, ma appropiatosi il metodo di Neri, ne dà un altro di sua invenzione, forse l’unica parte di quel libro, di cui egli sia autore: vero metodo però di discomporre i sali: comincia intanto per prevenire, che quantunque si ottenga in tal guisa di estrarlo di qualità a far cristallo veramente regale, ed emulo del cristallo montano, superandolo in isplendore, sia più faticoso, e penoso del precedente, e dia meno sale: e poi prescriva in sostanza come siegue: Si prenda rocchetta orientale polverizzata fina, si metta in cucurbite di vetro lutate in fondo, ed all’altezza di quattro dita, le quali si riempiano d’acqua comune assai chiara, e si collochino sui fornelli sopra cenere, o arena, a fuoco temperato per alcune ore, finchè l’acqua sia svaporata per la metà; dopo si cessi il fuoco, si lasci raffreddare, e quindi si decanti l’acqua rimasta nelle cucurbite in vasi di terra vernicati: si versi poi nuov’acqua sulla polvere rimasta nelle cucurbite, e si rimetta a digerir come prima, ciò che si continua più volte, finchè l’acqua abbia assorbito tutto il sale dalla polvere, il che si conosca al colore, ed al sapore.

Dopo si prenda il ranno, e si feltri in altri vasi vernicati, si lasci riposar cinque o sei giorni, per far bene il suo deposito, poi si feltri di nuovo; dopo di chè si riempiano nuovamente le cucurbite dell’acqua feltrata, e si mettano ad evaporare al calore suddetto (di bagno secco) più dolce, coll’avvertenza di moderare anche più il fuoco, quando il sale comincia a diseccare, acciò non bruci: dopo essiccate, si torni a sciogliere in acqua, ripetendo la stessa operazione, ed evaporazione più volte, finchè il sale sia interamente purificato, e nel farlo riposare fra una operazione, e l’altra, non lasci più il ranno alcuna terrestrità, nè feccia in fondo dei vasi.

§ 4 – Il metodo di Bosc d’estrarre il sale alcalino fisso

Ad effetto d’incoraggiare i padroni delle Vetraje, i quali suppone Bosc ispaventati dal metodo complicato, e dispendioso di Neri, ed anche più da quello di Kunkel, che io ignoro della lingua tedesca non sono stato in grado di conoscere, ne propone uno così semplice, e poco dispendioso, come egli lo annunzia, partendo però da’ principi di Neri, dall’uso della gromma in fuori, di cui non si fa noto.

Sostenendo per ciò, che basti una sola dissoluzione per separare assai perfettamente le parti saline dalle parti terree, e che la terra, che si ottiene nelle diverse soluzioni, sia meno la prova dell’insufficienza della prima, che della scomposizione del sale alcalino fisso, mentre quand’anche ritenesse questo una piccola quantità della parte terrea, ciò non sarebbe d’alcuna conseguenza, propone il seguente metodo.

Si formino tre fornelli di fila separati da due muretti, sopra di essi si mettano tre caldaje, il fuoco si faccia sotto il fornello di mezzo, si riempia d’acqua la prima caldaja per tre quarti della sua capacità; quando l’acqua sia sufficientemente calda, vi si metta la cenere polverizzata in proporzione d’una parte sopra otto parti d’acqua; l’acqua abbastanza calda per disciorre con facilità il sale e caricarsene, non potendo bollire, perchè non ha il fuoco sotto, non può impedire la pronta precipitazione della terra: quando l’acqua sia ben chiarificata, si faccia passare, o sia colare per mezzo d’una chiave a fontana, (detta dai Lombardi galetto), nella caldaja di mezzo, e sotto la quale si trova il gran fuoco, e dalla seconda nella terza caldaja, quando comincia a dar segni di voler buttare, per non rallentare l’evaporazione con un condensamento troppo grande del ranno, ove il sale precipiterà a calor dolce, e d’onde si prenderà poi con una cazza bucata di ferro, per metterlo a colare in un canale di latta inclinato sulla stessa caldaja.

I due muri di separazione de’ fornelli non abbiano che otto pollici di spessezza, e ciascuno due aperture di due pollici in quadro sulla sua lunghezza, in guisa che quantunque il fuoco non si trovi che nel fornello di mezzo, gli altri due vengano riscaldati dal calore, che loro comunica dalle bragie, che somministra: la terra della caldaja ritrovasi nelle pile a ciò destinate, e si spruzzi più volte con acqua, a fine di estrarre tutto il sale alcalino, che vi fosse rimasto, e che si fa rientrare nella prima caldaja.

Pretende Bosc, che in tal modo due uomini con una corda (la corda misura di Parigi è di

8 piedi Parigini in lungo, e 4 di altezza. Nouvel Maison rustiq. p. 2, liv. 5, ch. 2, art. 2, § bois de chauffage, trattandovisi però della misura prescritta per la vendita della legna da bruciare soltanto, potrebbe non esser la stessa quella del carbone, che a tenore di quanto si legge ivi § charbon de bois; si suol comprare, in Francia a misura detta boisseau – § charbon de bois – che è della capacità di venti libbre di grano, come nel § Bleds, et Farines del cap. 1 di d. livre 5.

Siccome nella Maison Rustique non ci dice la grandezza della corda, dirò col Gassendi del nostro secolo nel suo libro intitolato Aide Memoire à l’usage des Officiers d’Artillerie p.743 ediz. del 1819, essere di 4 piedi; cosicchè la corda di cui si tratta è di piedi di Parigi 8 in lungo, 4 in alto, e 4 in basso), di carbonella possano estrarre in ventiquattro ore mille libbre di sale, onde si arrivi a costar meno di tre denajoli di Francia per ogni libbra.

Per la polverizzazione delle ceneri propone l’uso di acciaccatojo ordinario ad acqua, o a vento, più spedita ancora di quella della mola di Marrett, non che della pestatura di Neri.

Non parla della maniera di Blancourt, che pur gli doveva esser nota, forse per averla anch’egli considerata maniera di scomporre i sali, oppure come operazione di laboratorio chimico molto complicata, e dispendiosa, non mai di Vetraja, ove si richiede ogni semplicità, facilità, ed economia possibile.

Nel dirsi da Bosc, che il fuoco per l’estrazione del sale alcalino debba essere nel fornello, cioè della caldaja, a cui si fa passare l’acqua saturata d’alcalino della prima caldaja, non può aver preteso, che quella caldaja di mezzo fosse collocata sul suo fornello contemporaneamente alle altre, perchè dovendo rimaner vuota, per tutto il tempo della prima operazione, si rovinerebbe: quindi si dee credere, che abbia supposto di doversi aspettare a collocarla sul suo fornello al tempo prossimo a quello di farvi passare il ranno della prima, abbenchè il fuoco acceso sotto il medesimo debba prima consumarsi inutilmente per esso.

§ 5 – Metodo dell’Autore dell’Ancella delle Arti di estrarre il sale alcalino fisso

L’Anonimo Inglese non dà che il modo di purificare la potassa, che deve usarsi per la composizione del vetro degli specchj, ed è come siegue:

Si faccia scioglier la potassa nel quadruplo del suo peso d’acqua bollente, in una pentola da fondita, che sia di ferro; quando sia sciolta, si lavi, e si versi in una tinozza ben netta, vi si lasci riposare per ventiquattro ore, o più: si separi in seguito la dissoluzione dal sedimento versandola per inclinazione nella pentola, e si lasci svaporar l’acqua, finchè il sale sia giunto a perfetta siccità: la pentola non deve essere rugginosa perchè la ruggine darebbe al cristallo un color giallo assai nocevole: quando non si mette subito in opera, si dee conservare in giarri di pietra, riparata dall’aria, e dall’umido.

Cap. 4 – Delle diverse qualità dei fondenti

Altre qualità si riducono tutti i sali, ad acidi, ad alcalini, ed a neutri: si distinguono per la loro forma: gli acidi sono in forma di vapori, o di liquidi, gli alcalini in forma di polvere, e i neutri in quella di cristalli.

Corre tanta simpatia fra l’acido vitriuolico (detto dai più moderni acido solforico), il quale è sempre in forma di vapore, ed il sale alcalino fisso, che incontrandosi, si univano tanto strettamente, che fino ai principi del secolo XVIII, è stato un problema, che ha tenuto sospesi i chimici, se si potesse giugnere a separargli; e la cosa si considerava pressochè impossibile.

Il dottissimo Giorgio Erneste Stahl è stato il primo, che a forza di replicare esperimenti ha scoperto, che si poteva separare l’uno dall’altro, e l’ha ottenuto particolarmente facendogli fondere con una mistura di carbone, o di polvere di carbone, in sostanza per mezzo del flogisto, chiamato in oggi principio ipotetico di Stahl.

L’acido vitriuolico, o solforico, o sia vapore acido vitriuolico, o solforico, si trova sempre sparso nell’aria in gran quantità (Molto se ne trova pure incorporato ne’ diversi minerali, nelle argille, nelle terre, e nelle acque. V. de l’Isle Crystallograph. Tom I: des acides, num. 181 e 19), quindi se il sale alcalino fisso si tenga esposto all’aria, si saturerà ogni di più d’acido vitriuolico, o solforico, fino a diventar perfettamente tartare vitriuolato, ora solfato di potassa, che Pott avrebbe gradito di vederlo denominato sale alcalino vitriuolato.

Ecco la ragione, per cui la soda ridotta in polvere, ed esposta all’aria aumenta di peso; cosa che stuzzica l’avarizia di certi negozianti, e poi li punisce.

Siccome le operazioni di Stahl difficilmente si possono eseguire in grande senza molta spesa, la maggior cura del padrone di Vetraja dev’essere di trovare il modo d’evitar quella nuova spesa; e l’otterrà custodendo il sale alcalino in modo, che non sia esposto nè all’aria aperta nè ad alcuna libera corrente d’aria, e così preservarlo dall’incontro coll’acido vitriuolico, per quanto si potrà. (Waller. Mineral., Stahl opusc. Chim. Phys.Med., Pott e Neumann : Miscell. Barol. pag. 74 e 91, e rispettivamente segg.).

Non mi capacita la supposizione di Bosc a questo riguardo, che nelle diverse sode, nelle diverse potasse si contenga una certa quantità di sali neutri più, o meno grande, non essendo, a parer mio, quest’unione che accidentale, salvo nelle ceneri di alcune piante marine: oppure lo stesso Bosc pareva, che conoscesse questa verità, quando riprovò l’avarizia di coloro, i quali avend’osservato che le vecchie ceneri somministrano maggior quantità di sale delle nuove, le lasciano per lungo tempo esposte all’aria aperta, e in luogo, in cui l’aria esteriore abbia libero l’accesso, senza riflettere, che la maggior quantità di sale, che danno, dipende dall’acido vitriuolico sparso nell’aria, che continuamente assorbiscono, e per ispiegarmi a di lui modo del convertirsi una parte spesso considerabile del sale alcalino fisso, in tartaro vitriuolato, cioè in uno dei sali neutri.

Oltre di che tal supposto di Bosc lo pone in contraddizione con sè medesimo, il quale, come ho già detto di sopra, aver avanzato d’essergli risultate da sperienze molto ripetute e variate con molta frequenza, che tutti i sali alcalini fissi sono egualmente buoni, purchè la preparazione ne sia conveniente, le proporzioni della composizione giuste, e la fusione, o depurazione sufficiente.

Con tutte le accennate ragioni non posso lasciar di concorrere nell’opinione de’ moderni chimici, la qual fa sì che di niun pregiudizio sia alla buona, e provetta fondita degli alcalini, il trovarsi con essi unito dell’acido non più vitriuolico, ma solforoso, dacchè veggo l’esito felice, con cui gl’Inglesi si servono nelle loro Vetraje anche di sali neutri in diverse composizioni.

Cap. 5 – De’ purificanti, o scoloranti.

Passiamo a trattar della terza qualità d’ingredienti della composizione del vetro, degli scoloranti, e purificanti.

I tre più comuni sono il manganese, il borrace, e la zaffera; si adoprano però anche il nitro, il sale comune, l’arsenico, e l’antimonio.

§ 1 – Del Manganese

Se riportar volessi, quanto hanno scritto i chimici, ed i naturalisti sulla natura, e sull’indole del manganese, quanto vi hanno sofisticato attorno, gli uni volendolo una qualità di calamita, errore assai antico, gli altri un metallo, gli altri un minerale contenente del ferro, non farei che sfoggiare inutile erudizione: ho letto la maggior parte dei più classici, ed in niuno di essi ho trovato dove fissare il piede, ad onta della certezza, in cui pretendono di essere i più moderni, che sia un vero metallo non duttile, e di quel genere, che prima si chiamava dei semimetalli, finchè per suggerimento di Bosc sono ricorso all’esame chimico del manganese di Pott ( misc. favol. Tom 6 , pag. 4, e segg.), il risultato delle cui esperienze con tanta diligenza ripetute mi ha pienamente appagato, onde ho stimato di darne quì il più preciso estratto.

La patria del manganese, dic’egli, era un tempo la sola regione Pedemontana, e per ciò Magnesia Piemontesa si chiamava: in oggi si scava ugualmente pura in varj luoghi d’Italia, di Germania, di Francia, d’Inghilterra, e delle regioni Settentrionali.

S’affaccia soltanto nelle miniere di ferro, o in vicinanza di esse (l’Anonimo se non avrà ragione nel dire che partecipa della natura del ferro, senza contenerne molto, non dovrebbe aver torto nell’asserire, al par di Marrett, che se ne trovi spesso nelle miniere di Piombo migliore dell’altra, mentre nell’esaminare superficialmente quelle d’Iglesias in Sardegna, mi è sembrato di vederne delle gran traccie) il più degli Autori consente, che sia miniera marziale.

Conchiudo, che da’ miei sperimenti (i quali ho fedelmente riportati) si renda chiaro, che il manganese dei Vetraj è composto principalmente di una certa terra alcalina molto affine dell’alluminosa, strettamente unita ad un principio infiammabile tenero.

Dimostrano la presenza della terra alcalina le soluzioni ne’ menstrui acidi, dalle quali pe’ sali alcalini ovunque si precipita una terra bianca, e perchè questa terra è unita superficialmente con un principio infiammabile untuoso appena si scioglie negli acidi, salvo che ne sia rimosso cotal principio nella maggior parte per calcinazione, o per sulfurazione.

La presenza del flogisto si deduce dal color esterno metallico, dalla variazione dei colori cogli alcalini, e dalla colorazione del vetro: nè osta il non fulminar col nitro perchè la strettissima commistione colla terra alcalina impedisce quest’operazione, come succede in non pochi altri corpi.

Quindi ne viene in conseguenza la sovversione, e rovesciamento degl’antichi pregiudizi della natura marziale del manganese.

Vario è l’effetto, continua Pott, che produce nel vetro, secondo la quantità, che se ne mena; adoprato in piccola porzione purifica, e purga il vetro dal color, o turchino, che avesse, in certo modo precipitando, gli concilia un colore più oscuro, e più limpido, onde prese il nome di sapone di vetro (nome che gli avrebbe al certo dato l’Anonimo Inglese, il quale disapprovava l’uso del manganese, come si vedrà nel § 4, cap. 2, part. 5 ): una quantità mediocre rende il vetro rosso o purpureo, ed emulo del color granatino: una quantità maggiore lo rende nero.

Per l’effetto di purificare il vetro si calcina a riverbero, affinchè imbianchisca tutto: è inutile lo spruzzarlo d’aceto, o spegnerlo nell’aceto dopo la calcinazione (metodi commendati dagli Autori antichi, ma considerati inutili all’uopo anche dall’Anonimo, e da Bosc) : quindi si riduce in polvere, e poscia parte se ne mescola colla fritta, parte se ne va aggiungendo nel corso della fondita, secondo il bisogno; per poco che si ecceda, il vetro prende un certo bruno tirante al nero; se troppo poco se ne adopra, prende il vetro un certo bianco fosco, come quello del diaccio.

In qual modo si operi la depurazione, non si è verificato abbastanza: alcuni ne adducono per causa l’impossessarsi il manganese delle particelle marziali che si nascondevano nelle fessure dei ciottoli, e precipitarle.

Sarebbe per certo da ricercarsi con maggior diligenza il fondo del crogiuolo, ove non dubito, che se ne troverebbero gli avanzi precipitati: Scaligero (35) erroneamente pensa, che il manganese depuri il vetro per esalazione: la qual cosa non si può stabilire, in vista d’essere un corpo troppo costante, fisso, e niente affatto esalabile a fronte del fuoco più intenso: il cambiamento di figura di Merrett è una petizione di principio: fin quì Pott.

Fra le tante regioni, le quali producono il Manganese, non è dovuto l’ultimo luogo alla Sardegna, che ne produce abbondantissimamente nell’Isola di San Pietro (Vargas dissert. già citata): si trova nelle miniere di ferro del luogo denominato Becco Rosso, esistente nella parte occidentale dell’Isola predetta, riconosciuto della miglior qualità, per l’analisi replicate volte fattane da valenti chimici: e se si verifica il mio sospetto di sopra accennato, le miniere Sarde di piombo ne somministrerebbero anche della qualità tanto lodata dall’Anonimo Inglese, e da Merrett.(i).

§ 2 – Del Borrace

Il borrace, ora detto borato di soda, già definito da Wallerio un sale alcalino mescolato con terra, e che Pott nel trattato che ne ha scritto (Miscell. Barol. tom 7), sostiene di non esser preparato coll’alcali nativo, ma coll’allume, essendo stato per lo passato una sustanza pervegnente dalle Indie Orientali, e la di cui purificazione hanno eseguito per molto tempo i soli Veneziani ed Olandesi, tenendone segreto il metodo ha stancato per molto tempo la curiosità de’ più valenti chimici, i quali non poteron ottenere di certo, che il penetrare gli avari misteri di quelle due Nazioni.

Accintosi finalmente Uberte Francesco Hoefer (36) ad analizzare le acque minerali di Toscana, allorchè si imbattè in quelle del lagone di Cerchiajo ne’ territori di Monterotondo Provincia di Siena, ottenne colle di lui fatiche di procurar due preziosi vantaggi, uno agli eruditi, e l’altro al commercio della nostra Italia, il primo colla scoperta delle sustanze, colle quali si forma il borrace, ed il secondo col farci trovare nel seno della stessa Penisola le sustanzie medesime, in guisa che più non debba essa abbisognare del borrace Indiano, nè comprarlo a peso d’oro da que’ tanto industriosi Speculatori, anzi possa somministrarne abbondantemente alle altre Regioni.

Ha quell’infaticabile chimico scoperto in quelle acque, e quindi in altre della stessa Provincia col sale sedativo la base principale del borrace (Secondo Romè de l’Isle: Crystallogr. Tom I, acides num. 13, quest’acido era conosciuto dopo Homberg (37) come un principio costituente il borrace), e con ripetute operazioni chimiche, qual sia l’altra sustanza, con cui si compone, cioè l’alcali minerale, e così svelato un arcano di tanta importanza (Molto maggiori lumi ci ha dato sul sale sedativo e sulla formazione del borrace l’impareggiabile sig. Dottore Paolo Mascagni (38) nel di lui aureo commentario dei lagoni del Senese, e del Volterrano).

Sarebbe in conseguenza caduto in un errore gravissimo il tanto stimabile Pott, nell’aver preteso che nella composizione del borrace non entri l’alcali, sebbene parli solo del nativo, ma l’allume.

Io non m’inoltrerò in discussioni sulle scoperte di Hoefer, potendo chiunque ritrovar su di esse il più soddisfaciente pascolo nella dissertazione, che ne ha pubblicato lo stesso autore nel 1778 e nell’unitavi lettera del barone di Crantz (39) al medesimo; e mi contento semplicemente di dire, che la descrizione, ch’egli fa delle acque del Cerchiajo, combina tanto colle apparenze, che ho trovato nelle acque di Fordongianus in Sardegna, tutto chè dichiarate sulfuree dall’eruditissimo Conte Napione (40) nell’analisi, che ne fece sul posto a mia insinuazione, che mi fanno sospettar grandemente di contener esse il sale sedativo, onde si possa in Sardegna ancora ottenere dell’ottimo borrace, stante l’abbondanza che vi ha d’alcali minerale.(l).

Sono le acque di Fordongianus particolarmente latteo-torbide, e prive di sapore, come quelle del lagone di Cerchiajo.(m)

Confido pertanto nell’attività, e penetrazione di qualche buon chimico, il quale si accinga con tal prevenzione a farvi le più minute osservazioni, di sentir verificato il mio sospetto.

Forse non sarebbe più necessario il borrace dopo la scoperta della sua base, e basterebbe l’adoprare invece del medesimo il sale sedativo semplicemente in minor dose.

§ 3 – Della zaffera, dell’arsenico, e degli altri purificanti

La zaffera, o sia, secondo la nuova nomenclatura l’ossido di cobalt, non è altro, che il semimetallo, o metallo non duttile cobalt (ottimo cobalt si trova in Sardegna in territori d’Alghero) (n), spogliato per calcinazione della parte arsenicale, che conteneva, polverizzato, ed impastato per mezzo dell’acqua con peso eguale di materia vetrificabile, e così lasciato indurare.

In tal guisa esce dalla Germania col nome di Zaffera, e Neri, il quale pur fa testo nella lingua Toscana, lo chiama Zaffera, e serve per dare al vetro il color turchino, ed in piccola quantità per distruggere gli altri colori verde, giallo, e rosso, che si trovassero nella massa del vetro.

L’impastamento del cobalto purificato colle materie vetrificabili non serve, a parer mio, che a mascherar la Zaffera, onde la sua formazione passi per un segreto, ormai abbastanza reso pubblico dall’oculatezza de’ Naturalisti, ed in particolare da Valmont (33) (Tom. 2 de la Mineral.).

L’arsenico è una sostanza più generalmente considerata per semimetallo, in oggi metallica non duttile, molto nota, massime per la sua natura venefica: siccome assai noti sono l’antimonio, il salnitro, ed il sale comune, che se la Sardegna abbonda di Sal Comune e potrebbe produr molto nitro, non iscarseggia neppur d’antimonio (Vargas dissert. citat. ).(o).

Dico che la Sardegna potrebbe produr molto nitro, per accennare, a tenor di ciò, che ho detto in una nota, all’art. 1, Cap. 2 della prima parte, quanto poco riguardo meriti la pretenzione di certuni, d’essere risultato da esperimenti, e prove, che la vicinanza dell’aria marittima impedisca la formazione del Salnitro nella nostra Isola, per saturarsi subito le materie di parti saline, cioè di sal comune, salvo che si volesse fare in grandissima distanza dal mare: e farò soltanto presente, che nell’Isola di Malta, di gran lunga più ristretta della Sardegna, si fa molto Salnitro in non gran distanza dal mare.

Cap.6 – Dell’uso de’ purificanti

Per quanto ho potuto dedurre dall’Anonimo, gl’Inglesi non si servono nelle Vetraje della Zaffera in qualità di scolorante, o sia per purificare il vetro; se ne servono soltanto per vero colorante, quando vogliono imitare, o meglio adombrare il Zaffiro: i sali discoloranti, de’ quali per lo più fanno uso, sono il salnitro, ed il manganese; e si servono in certe composizioni anche del borrace, e dell’arsenico.

Del Salnitro se ne servono nelle composizioni, nelle quali entra il piombo, per distruggere il giallo che dà al vetro, ed anche nelle composizioni fatte con alcalini, le quali richieggano molta trasparenza: nelle altre fanno uso del manganese: adoprano l’arsenico, ed il borrace, ovunque si desideri particolar nitidezza, e bianchezza.

Si usava molto anticamente il Salnitro nella fabbricazione del vetro in qualità di fondente quantunque molti pretendano, che sotto nome di nitro abbiano gli Scrittori antichi potuto parlare de’ sali alcalini de’ vegetabili: Agricola (24) autore del Secolo XVI dice (De Re Metall. lib.12 ), che di suo tempo si dava la preferenza al Salnitro; si è però, secondo Merrett (Not. ad Cap. VI di Neri), abbandonato, in appresso l’uso del nitro, avendo insegnato il tempo, e l’esperienza, che troppo molle, e troppo debole si risolveva in sale alcalino (Sal di vetro vuol dire, o fiele di vetro).

Vi sarà contraddizione fra i due scrittori Compatrioti Merrett, e lo Anonimo ?, o avranno entrambi ragione ciascuno relativamente al tempo in cui scriveva, in guisa che a’ tempi di Merrett fosse già abbandonato in Inghilterra l’uso del nitro, ed ai tempi dell’Anonimo fosse già stato ripreso ?

Io non trovo nè l’uno, nè l’altro, perchè l’Anonimo qualifica bensì di fondente il salnitro, non suggerisce però per alcuna composizione l’uso del medesimo in qualità di solo fondente, anzi lo esclude da molte composizioni unito ad altri fondenti: Merrett non nega al Salnitro la natura di fondente.

Può star quindi, che in Inghilterra si fosse abbandonato l’uso antico d’adoprarlo solo (come) fondente, e che se ne sia riconosciuta l’utilità, qualora si usi in quantità discreta per purificar certe composizioni fin dalle ombre pregiudiziali alla candidezza, e trasparenza, che vi si richiede.

Dice l’Anonimo, che il nitro, considerato in aspetto di discolorante, ha le facoltà di riscaldare, e sostenere in stato di combustibili tutti i corpi, i quali contengono materia flogistica e sulfurea, per l’incontro colle medesime a un certo grado di calore: per mezzo del nitro la materia sulfurea vien distrutta, ed i corpi sono ridotti a calcinazione, quindi si debba far entrare il nitro nelle composizioni, nelle quali entra il piombo, che carica sempre il vetro d’un colore giallo, di cui il nitro opera la distruzione, ed anche in quella dei sali, nelle quali è necessaria molta trasparenza: nelle altre composizioni si debba usare il manganese.

A dir vero però non lascia l’anonimo d’insinuare che il motivo principale di preferirsi al nitro gli alcalini fissi per fondenti debba essere l’economia, il prezzo del Salnitro superando di molto quello dell’alcalino (Rincarimento, che non può contar la sua origine che dal secolo XIV, cioè dall’invenzione della polvere da fuoco, o sia introduzione della medesima in Europa incerto essendo, se i Franzesi si fossero già serviti della polvere da fuoco nell’assedio di Puy Guillaume del 1336, o gli Affricani se ne siano serviti i primi, ed in terra, ed in mare contro gli Spagnuoli nel 1343, o il Chimico di Friburgo Schwart(z) (41) l’abbia inventata nel 1376, o che da molto tempo prima fosse conosciuta nella China).

E supponendo ancora il prezzo del nitro, uguale a quello degli alcalini fissi, rintuzzerebbe sempre la spesa nel preferirlo, perchè non operando potentemente, finchè non sia spogliato degli acidi, che contiene, non può andar del pari coll’alcalino, che tutto al più in proporzione del terzo dell’ordinario suo peso; e vale a dire, che le composizioni fatte col solo nitro si richieggono triplicata quantità del medesimo, in confronto co’ sali alcalini fissi.

Ed ecco un nuovo motivo di persuadersi, che il fondente degli Antichi fosse il vero nitro, mentre l’abbiamo da Plinio (Cap.2 del cit.lib.36 d. traduz: mescolarsi poi con tre parti di nitro a peso, o a misura), che nella composizione del vetro ad una data quantità d’arena si mesceva tre volte tanto il nitro.

Il manganese poi crede l’Anonimo, che debba evitarsi ogni qualvolta si desidera molta trasparenza, perchè il rosso tirante al turchino del medesimo, nel confondersi coi colori giallo, e verde nelle composizioni, e distruggerne ogni apparenza, il vetro ne ricava un certo nero, o fosco in proporzione dei colori dissipati, comunque non avvertibile all’occhio nudo che in confronto d’altro vetro più trasparente.

Cap. 7 – Della calcinazione, o sia della fritta, e suoi effetti

Sarà ormai tempo di trattar del modo di disporre alla fondita la composizione del vetro, e di spogliarla dal principio colorante, dai colori, che pregiudicano alla bellezza di esso.

Si dispone alla fondita colla calcinazione, si spoglia del principio colorante, parte colla calcinazione medesima, cioè grossolano, parte coll’addizione d’altre sostanze produttrici di colori diversi, essendo fuor di dubbio, che l’incontro di certi colori fra di loro in quantità proporzionata produce il bianco coll’azione del fuoco, comunque sia un fenomeno difficile da spiegare.

Si richiami non pertanto alla memoria, ciò che ho detto di sopra in bocca di Pott, trattando del manganese.

Si fa la calcinazione coll’esporre le materie separate, la composizione tutta del vetro all’azione del fuoco in una fornace chiamata calcara, la quale, quando si trova unita alla gran fornace, chiamarsi suol cassa.

Della calcinazione, che si fa separatamente, ne ho parlato, quando l’opportunità l’ha richiesto; mi rimane a parlar di quella composizione, la quale quantunque operi la dissipazione ancora del principio colorante grossolano, ha per oggetto principale il mescer le materie, consumarne l’umidità, incorporarle, e disporle alla fusione.

Quest’operazione si chiama frittare, e la composizione così preparata fritta, ed anche bollito: ciò che fece dire a Merrett nelle note a Neri (cap. 8, lib. 1): “la voce fritta par, che venga dal verbo frittare, che è lo stesso che friggere, mentre la fritta non è altro che il sale, e le ceneri coll’arena compigliate, friggendo………e secondariamente la fritta quando comincia ad illanguidire, si stagna in massa a guisa di frittelli, chiamati così dagli Italiani, e dagl’Inglesi “little fritts”: anticamente si chiamava da non pochi ammonitrum con voce composta da αμμ e νιτρον arena nitro: espressamente Cesalpino (42) , dall’arena, e dal nitro si fa una massa, che Plinio appella ammonitro, ed in oggi si dice fritta “.

Rippartiamo pertanto in tanti paragrafi il modo di far la fritta de’ principali Maestri.

§ 1 – Fritta di Neri

Adunque per farla, dice Neri, il polverino si stacci con setaccio fitto, i minozzoli, che non passano, si pestino in pile di pietra, e non di metallo, acciò non piglino del suo colore; il simile si faccia alla rocchetta, ed alla soda, però ciascheduna da per sè, ed in effetto operare, che sieno ben peste, e stacciate per istaccio fitto, che come dice il proverbio dell’arte vetraria, staccio fitto, e legna secca, fan onore alla fornace.

Adunque qualsisia di queste sode, per esempio libbre cento di soda vuole ordinariamente ottantacinque in novanta libbre di tarso, quale vuol essere sottilmente pesto in pile di pietra sempre mai, e non altrimenti, e passate per istaccio fitto, e più e manco secondo la bontà delle sode, e la loro grandezza, che se ne deve fare sempre il saggio, di quanto porti come è noto nell’arte.

Trovata la debita dose dell’arena, e del tarso, si dee mescolare, ed unire prima benissimo insieme con la soda, o polverini bene stacciati, e così mettere in calcara, quando è calda, e distenderla bene, ed in principio mescolandola, ed agitarla con il riavolo in la calcare, acciò si calcini bene, continuando sempre il fuoco per cinque ore, che quando il fuoco è stato continuato a ragione, e sia fatta la fritta ben lavorata con il riavolo in detto spazio di cinque ore, la fritta è fatta in tutta perfezione: e quando vuoi vedere se è fatta, cavandone un poco, come è fredda, se è bianca e giallosa, e pare leggera, allora è fatta: il calcinarla più di cinque ore non è male, perchè, quanto è più fatta e calcinata, meglio e più presto fonde in padella, e nello stare un poco più in calcara, consuma, e perde il gialligno o sozzura che ha in sè, ed il vetro viene più purgato, e purificato.

Cavata che è la fritta dalla calcara, così calda, ed infocata se li dà per sopra tre o quattro secchie d’acqua fresca, poi si mette in terreno in luogo umido e fresco.

Il fango, che avanza, quando si fa il sale, si costuma metterlo nelle medesime conche, dove è stata la liscia del polverino, e sovraempie d’acqua, che a poco a poco stilla per dette residenzie, e fango che venirà una liscia assai forte: questa pulita, e chiara si tiene a parte, e con essa di quando in quando si va annaffiando la fritta sopraddetta, la quale, quando è stata ammontata in luogo umido, ed annaffiata con questa lixia per ispazio di duoi, o tre mesi, o più che quanto meglio, allora, detta fritta si ammassa insieme come una pietra che bisogna con il zappone spezzarla: allora, come è in padella, in poche ore fonde stupendamente, e fa un vetro bianchissimo, quasi come un cristallo, perchè questo ranno gli lascia addosso il suo sale, che fa questo effetto.

Quando non si ha questo ranno, si deve annaffiare con acqua comune, che sebbene non fa quell’effetto grande della liscia sopraddetta, tuttavia gli fa bene, e la rende più facile alla fusione.

Però la fritta vorrebbe sempre star fatta qualche mese, che sempre così acquisita, fa consumare meno legna, e fa il vetro pulito, e dolce a lavorare.

Aveva Neri già detto, che la fritta del cristallo non si bagna dopo fatta, anzi si mette in luogo asciutto sopra palco, ove non sia umidità, perchè in luoghi umidi patirebbe assai, si sciorrebbe il suo sale, ed andrebbe in acqua, e rimarrebbe il tarso solo, e che si tenga separata dalla polvere, ed altre immondezze.

Disse pure, che la calcara dev’essere prima scaldata bene perchè a calcara fredda non si faria: ed il riavolo essere uno strumento di ferro assai lungo.

§ 2 – Fritta di Marrett (Merrett)

Marrett osserva, che il modo di far la fritta di Neri opera, che gli ingredienti si mescolino benissimo, e l’umor superfluo, se ve ne fosse, svaporando, si consumi. Dice poi che la fritta del vetro comune, la quale ha la materia meno pulita, a ragione della bontà, e mollezza dell’arena, si perfeziona in dieci, o dodici ore più, o meno: che i materiali si riducono in polvere finissima, si lavano, si vagliano, si rimescolano, e messi al fuoco della calcara, esattamente e per minime particelle, ed atomi si riuniscono: che se altrimenti si facesse, il sale, e l’arena nel fondere costituirebbero diversi corpi; la qual cosa seguirebbe pure, se con frequenza non si agitassero col riavolo: e che in Inghilterra non si usi il bagnar la fritta, ma si cerchi di consumarla fra pochi mesi, mettendola in opera, quantunque l’uso della bagnatura debba contribuire molto alla purità del vetro.

Essere in uso in Inghilterra tre qualità di fritta, quella del cristallo di sale di polverino, e soda senza estrazione di sale: e la comune per lo vetro verde fatta d’una mescolanza di ceneri senz’alcuna preparazione, o di ceneri polverizzate, alle quali si aggiugne arena più dura: il che fino a qual segno sia vero, ognuno lo potrà giudicare da quanto dice l’Anonimo, e gli accaderà di leggere sparsamente in appresso.

§ 3 – Fritta di Bosc

La fritta, secondo Bosc, non è altro che la calcinazione della composizione, e questa calcinazione non serve che unicamente a mescer le materie, a levar loro il principio colorante grossolano.

Essere indispensabile il frittar le composizioni, nelle quali si sia fatta entrar la soda in natura; ma le altre composizioni non averne bisogno, se le materie sieno state ben calcinate separatamente, la mescolanza potendosene fare sì esattamente, fuori dalla fornace, che nella fornace, e che non guadagni in essere conservata, che in quanto si faccia passare per nuova calcinazione.

Non si trattiene però Bosc in descrivere minutamente il modo, in cui si dee far la fritta.

§ 4 – Fritta dell’Anonimo Inglese

L’Anonimo, quantunque poco si fermi nell’insegnare il modo di fare la fritta, ci dà a riguardo del frittare, o non frittare degl’insegnamenti della più grande importanza.

Si procede, dic’egli, alla mescolanza degl’ingredienti delle composizioni del vetro con diversi metodi, secondo i varii ingredienti.

Quando s’adoperano insieme arena, e sali alcalini fissi, sia in forma di potassa, sia in natura, le ceneri di tutti i vegetabili, si debbono mescolar bene, e granulare in luogo asciutto, e mettere a calcinare a fuoco moderato per cinque, o sei ore, rimescolando spesso con un riavolo; poi levarle dal fuoco, e se si vogliono conservare, metterle al riparo dall’umido.

La materia in questo stato chiamarsi fritta: poter essere convertita in vetro senz’altra preparazione, che di ridurla in polvere grossolana, e metterla nei crogiuoli, a men che non fosse necessario d’aggiungervi altr’ingredienti, che vi si mesceranno secondo i seguenti metodi.

Se sarà Salnitro, la mescolanza se ne faccia dopo la calcinazione, quando sia ben ridotto in polvere; potersi mescere colla fritta senza gramolarlo assieme.

Se fosse arsenico, dopo averlo ben pestato, potersi metter col nitro, prima di polverizzar quest’ultimo, ed aggiungergli insieme alla fritta: quando non si adopera del nitro, deve gramolarsi l’arsenico con qualche libbra di fritta, e ancor meglio coi sali, ch’entrano nella composizione.

Quando nel vetro a ciottoli si usa molto piombo, e nitro, e in tutti i casi di composizione di vetro dolce, in cui si usano fondenti poderosi, non calcinarsi la fritta, mescolarsi solo, e gramolarsi assieme tutti gli ingredienti: se però s’adopra la fritta calcinata, e grossolanamente polverizzata, mettersi ne’ vasi cogl’altri ingredienti.

Allorchè il borrace è il solo fondente, che si deve aggiungere alla fritta, bisogna gramolarlo con una piccola porzione dello stesso bollito, poi metterlo col rimanente; se vi si aggiunge degli altr’ingredienti, si può gramolar coi medesimi: prima d’adoprare il borrace, convien sempre calcinarlo, cioè metterlo a fuoco moderato, finchè dall’ebullizione passi a siccità.

Quando si usa il sal comune, si unisce ai sali alcalini e all’arena, si gramola bene il tutto, ciocchè accorcia la crepitazione di esso sale, e si mette in un vaso pulito a fuoco dolce, finchè cessi di scoppiare: se la fritta è fatta in modo, che il sale possa calcinarsi colla medesima, si può mescolare gl’altri ingredienti; ma bisogna preservarlo da ogni umidità, la quale perderebbe la materia, dissipandola a forza d’esplosioni.

Il manganese, adoprato solo, si dee prima gramolar separatamente, poi con qualche libbra di bollito; se però vi si aggiunga piombo, nitro, od altro ingrediente, si mescolano assieme per gramolargli: quando la fritta non fosse preparata, si potrebbe mescer con ciascuno degli ingredienti fondenti, e quindi con tutta la massa.

§ 5 – Osservazioni sui quattro paragrafi precedenti

Circa il modo di calcinare, io non trovo discrepanza fra Neri, Merrett, Bosc, e l’Anonimo: lo spesso innaffiar la fritta colranno, o con l’acqua di Neri, quantunque lodato da Merrett, non mi par cosa da imitare, non comprendendo io, come possa essere di tanta utilità, anzi dal non vederlo commendato nè da Bosc, nè dall’Anonimo, sospetto che possa esser stato riconosciuto da essi pericoloso, anche per le composizioni di semplice vetro bianco, nell’opinione del qual pericolo mi conferma lo stesso Neri colle ragioni, che adduce, per le quali si debba preservar dall’umido, non che inumidire la fritta del cristallo fatto col tarso: forse ch’egli ebbe in mira la conservazione della fritta per lungo tempo con un tal procedere.

Mi sembra troppo timido Bosc nel disapprovare l’uso della fritta conservata senza nuova calcinazione mentre gl’Inglesi non esitano a farlo: io per me adoprerei la fritta conservata in luogo sciutto senza nuova calcinazione, finchè la trovassi ben condizionata; non mi esporrei però a conservarla troppo a lungo, e sin a mettere in opera senza nuova calcinazione quella conservata troppo a lungo: si può in tal modo guadagnar molto tempo, e forse risparmiare, con farne in gran quantità tutto in una volta.Parte Quinta

Delle composizioni specifiche per fare il vetro, e della fondita, e precauzioni di essa

Data un’idea la più distinta, che da me si è potuta dare della costruzione delle fornaci, e della formazione de’ crogiuoli, e delle materie, che conviene impiegarvi, come pur delle materie e sustanze, ch’entrar sogliono nella composizione d’ogni qualità di vetro in genere, e delle rispettive preparazioni, rimane a parlar delle diverse composizioni specificatamente, della fondita, per di cui mezzo il vetro si forma, e si perfeziona, non meno che delle precauzioni, che debbono prendersi nel corso della medesima fondita, e dopo formate le opere di vetro.

Parlerò quì di quanto concerne le composizioni in ispecie della fondita e delle precauzioni di essa, riserbando alla parte sesta le precauzioni da prendersi dopo formate le opere di vetro.

Cap.1 – Delle composizioni del vetro in ispecie

A riguardo delle composizioni in ispecie, Neri non parla che del cristallo di Tarso, come si è veduto nel di lui metodo di far la fritta, e del vantaggio di mettere in certe composizioni dieci per cento di sal tartaro.

Bosc propone le seguenti composizioni: parti uguali della miglior soda, e d’arena, o ciottoli, di pezzame della stessa ispecie, e cinque oncie per cento di manganese: parti uguali di bella rena, di calcina ben calcinata, di potassa bianca, di rottami della stessa ispecie, e quattr’oncie per cento di manganese: tre parti di arena molto bianca, ed assai pura, due parti di sale alcalino fisso di soda, o di potassa molto purificata, una parte di pezzami della stessa specie, mezza parte di calcina calcinata colla maggior esattezza, e quattr’oncie per cento di manganese, formano ordinariamente, mediante una buona fornace, le migliori composizioni per lo vetro bianco comune, e per il vetro bianco fine cristallino, e per lo cristallo.

Possono nondimeno essere la soda, ed il sale alcalino fisso, più o meno carichi di sali neutri, i quali non fanno mai un’unione omogenea coll’arena, e colla calcina, almeno nella composizione de’ quali entra l’acido vitriuolico (in oggi acido solforico), e quello del sal marino (in oggi acido muriatico).

Sarebbe, prosiegue fuor di dubbio da desiderare una regola sicura, per dirigersi in un punto sì dilicato, e così importante: vo a comunicare, un mezzo di trovare le proporzioni più vantaggiose de’ fondenti, che mi è riuscito perfettamente.

Io fo due o tre libbre di composizione nelle proporzioni di sopra per l’arena, per la terra vegetabile, o calcina, pe’ pezzami, e per lo manganese, e scemo la dose del fondente: quando ho trovato il punto, in cui questa composizione, messa in un piccolo crogiuolo sopra la bocca della fornace, fonda semplicemente nel tempo dell’affinamento, v’aggiungo una decima di fondente, ed il vetro, che ne risulta, ha la qualità, che bramo; è solido, molto netto, molto brillante, e conserva benissimo il polito (questa è una prova poco bene spiegata, non un mezzo da trovar le proporzioni).

Le composizioni però più soddisfacienti le dà il gran Maestro d’arte Vetraria, l’Anonimo Inglese, il di cui metodo trascrivo quì pressochè per intero nelle cinque diverse qualità di vetro, di cui dà la composizione.

§ 1 – Della natura e composizione del vetro a ciottoli, o del Cristallo di Germania

Il vetro a ciottoli, cosidetto, perchè prima dell’uso dell’arena bianca si preparava con ciotti calcinati, è della stessa natura del vetro, che comunemente si chiama di cristallo: ne differisce però per la composizione, mentre in vece di non impiegarvi che i sali, o l’arsenico, si forma in parte di piombo, ed altronde il corpo di questo vetro in luogo d’esser di ciottoli o cuogoli calcinati, è d’una arena bianca, che non si trova fuori dall’Inghilterra.

E’ dunque principalmente composto d’arena bianca e di Piombo con un poco di nitro, di manganese e qualche volta d’arsenico, ed indipendentemente dal nitro vi si aggiungono altri sali, scemando il Piombo in proporzione, diminuzione che apparisce dal minor peso, e dalla maggior trasparenza, che vi si trova in oggi, oltrechè i vasi sono soffiati a minore spessezza.

Rende il piombo addivero il vetro men duro, e meno trasparente che i sali, ma il suo vetro ha il vantaggio di rifletter meglio la luce, come il diamante, ed il topazio: i vasi tondi ricevono dal piombo un lustro, che non dan loro i sali: più s’accresce la dose di nitro, e de’ sali, diminuendo quella del piombo, più forte sarà la testura del vetro, e viceversa.

Darò dunque la composizione di tali vetri, relativamente alle suddette differenze.

Composizione 1

Cento libbre d’arena bianca, cinquanta di piombo rosso, o minio, quaranta della miglior potassa, venti di nitro, e cinque oncie di manganese: si fondono a fuoco forte per il tempo necessario: questa composizione è più dispendiosa della seguente, ma s’avvicina più alla perfezione, che consiste nell’unire lo splendore colla durezza: se se ne vuole accelerar la vetrificazione, e lasciarla meno al fuoco, vi si può aggiungere una, o due libbre d’arsenico.

Composizione 2

Centoventi libbre d’arena bianca, trentacinque della miglior potassa, trentasei di piombo rosso, dodici di nitro, e sei oncie di manganese; si fonda al medesimo fuoco: questa composizione sarà più dura della precedente, ma rifletterà meno la luce: vi si potrà aggiugner l’arsenico per l’effetto della precedente: se si diminuisce la quantità sell’arena, il vetro sarà più dolce, e più debole.

Composizione 3

Centoventi libbre d’arena bianca, trentacinque della miglior potassa, quaranta di piombo rosso, tredici di salnitro, sei d’arsenico, e quattr’oncie di manganese; si lasci per lungo tempo il tutto in fusione, senza innalzarla troppo nel principio, mentre l’arsenico a fuoco gagliardo si sublima; è bene d’aggiungere a questa composizione una forte dose di frammenti di vetro imperfetto, perchè tali pezzami, fondendo prima degli altri ingredienti, fissano l’arsenico: conviene lasciargli nel fuoco, finchè l’arsenico sia svanito interamente, mentre, a dispetto della resistenza di esso, divien sempre un vetro molto trasparente, e comunica la stessa qualità agli altr’ingredienti: sarà questo vetro men duro degli altri, ma più chiaro, e più atto a formar de’ vasi grandi.

Composizione 4

Le stesse dosi della precedente ricetta, omesso l’arsenico, e surrogate al medesimo quindici libbre di sale comune: il vetro è meno fragile, ma non è buono che per vasi di minor forza.

Composizione 5

Centoventi libbre d’arena bianca, trenta di piombo rosso, venti della miglior potassa, dieci di nitro, quindici di sal comune, e sei d’arsenico; si mette il tutto in fusione a fuoco moderato di lunga durata, per levar l’esteriore latticinoso dell’arsenico: sarà un vetro più dolce dell’ultimo, e perciò il peggiore di tutti, sebbene di buona apparenza.

Composizione 6

Centoventi libbre di ciottoli macinati, o d’arena bianca, settanta della miglior potassa, dieci di nitro, mezza libbra di arsenico, e cinque oncie di manganese: questa composizione darà del più buon vetro: altre volte vi si metteva il borrace, ma il suo prezzo eccessivo ne ha fatto passar la voglia, anche perchè non si fa uso di questo vetro che per lavori di prezzo basso (potrà cessar la ragione in Italia dopo le scoperte d’Hoefer).

Composizione 7

Centoventi libbre di ciottoli calcinati, o d’arena bianca, quarantasei di potassa, sette di nitro, sei d’arsenico, e cinque oncie di manganese, lasciando la composizione a lunga fusione a causa dell’arsenico: questo vetro sarà tanto trasparente, e più del precedente, ma un poco fragile.

Altronde l’arsenico è un ingrediente sì spiacevole, e sì pernicioso, a cagione del fumo, che esala fino alla sua perfetta vetrificazione, che conviene altrettanto di servirsi dell’altra composizione.

§ 2 – Della natura, e composizione del vetro da specchj

Il vetro da specchj è il più difficile a preparare, è quello che richiede maggior dilicatezza, nella sua composizione, non gli si possono dare tante qualità diverse, come al precedente senz’alterarne la bontà.

Le qualità che gli sono proprie, sono d’esser trasparente in supremo grado, di non ammetter colore alcuno estraneo, di rifletter la luce il meno, che sia possibile, d’essere affatto esente da bolle, e di fondere a fuoco dolce: la durezza di consistenza è meno importante in questo vetro, che nel precedente, è però un vantaggio di più, quando tal qualità si può unire alle altre, mentre allora le lastre possono esser lavorate più sottili,ed aver lo stesso grado di forza, qualità molto utile per la perfezione degli specchj.

L’arena bianca è la vera base di questo vetro ancora, il fondente principale di esso è il sale alcalino de’ vegetabili, che le potasse somministrano più di tutte le altre ceneri; dee però essere aiutato nella fusione dal borrace, e dal sale comune, che per altra parte impedisce di figgersi la materia vetrificata, conservandola nel grado di calore necessario per formare le lastre.

Il piombo e l’arsenico non debbono entrare in questa composizione, perchè riflettono troppo la luce.

La cura di purgar d’ogni bruttura l’arena, che vi s’impiega, non sarà mai troppa; bisogna pure calcinare, e polverizzare il borrace, e la potassa dev’essere prima purificata esattamente.

Composizione 1

Sessanta libbre d’arena ben purificata, venticinque di potassa non meno purificata, quindici di nitro e sette di borrace; si lasci per lungo tempo nel fuoco assai forte sul principio, e poi moderato per gradi, acciò il vetro sia esente da bolle; se per mala sorte il vetro fosse un poco macchiato di giallo, non vi sarebbe altro rimedio, che d’aggiungervi avanti di lavarlo un poco di manganese misto con altrettanto d’arsenico, e dopo d’aver raddoppiato il fuoco, lasciarvelo a disbrigarsi, di quanto può cagionar le bolle.

Se il color giallo è leggero, si farà la pruova con un’oncia di manganese, o due, se non fosse sufficiente: ma è da osservarsi, che , quanto più n’entrerà, tanto più oscuro sarà il vetro, sebbene l’oscurità non sia tanto grande, da poter essere sensibile al primo colpo d’occhio.

Il borrace rende la composizione un poco cara, ma il prezzo delle lastre, che è assai considerevole, può farne sopportabile la spesa.

Composizione 2

Sessanta libbre d’arena bianca, venti di potassa, dieci di sal marino, sette di nitro, due d’arsenico, ed una di borrace; questo vetro non richiede nella fusione fuoco più forte del primo, sarà però più fragile, e rifletterà più la luce; essendo in conseguenza men buono del precedente, vale più l’arrischiar maggiore spesa, per procurarsiene coll’altro procedere: alla fin fine è più l’industria e la fattura necessaria per la perfezione delle lastre, che le fanno rincarire, che il prezzo degl’ingredienti, i quali entrano nella composizione di essi.

§ 3 – Della natura, e composizione del vetro a vetri

Il vetro a vetri più perfetto esige le stesse qualità del precedente, e lo stesso trattamento: possono usarsi le medesime composizioni per coloro, i quali vogliono pagare il valore, ma siccome dessi sono rari, si fa ordinariamente una composizione manco cara, e si risparmia la spesa della preparazione, che consiste nel calcinare, e pestar la composizione.

Composizione 1

Sessanta libbre d’arena bianca, venticinque di potassa purificata, quindici di nitro, una di borrace, e mezza libbra d’arsenico: questo vetro, quando gl’ingredienti sono buoni, è assai più chiaro, senza esser caro, enra in fusione a fuoco moderato; quando si vuol rendere più fusibile, e più dolce, vi si aggiunge mezza libbra, o una libbra d’arsenico, se piglia del giallo, si può rischiarare con manganese, come sopra.

Composizione 2

Sessanta libbre d’arena bianca, trenta di potassa non purificata, dieci di sal comune, cinque di nitro, due d’arsenico, una oncia e mezza di manganese: farà vetro inferiore al precedente, ma purificando in modo la potassa da liberarla dalle parti terree tutte che le danno qualche opacità, e ne impediscono la vetrificazione, si può rendere più perfetto, e al tempo stesso meno soggetto a caricarsi di giallo: quando si sia riconosciuta la bontà della cenere per una pruova sufficiente, si può risparmiare un’oncia di manganese e forse più.

Composizione 3

Sessanta libbre d’arena bianca, trenta di potassa non purificata, dieci di sal comune, due d’arsenico, e due oncie di manganese: questo vetro senza inclinar troppo al verde non mancherà di trasparenza, e sarà poco dispendioso.

Composizione 4

Centoventi libbre d’arena bianca del prezzo più basso, trenta di potassa purificata, sessanta di cenere di vegetabili (ed ecco la distinzione, che ho accennato nel § 1, Cap. 2, part. 4), ben bruciata, e vagliata, venti di sal comune, e cinque d’arsenico: questo vetro sarà però più verde di colore, ma a più buon mercato.

§ 4 – Della natura, e composizione del vetro di ampolle, ed altri vasi piccoli

Il vetro d’ampolle, ed altri vasi piccoli stà fra il vetro a ciottoli, ed il vetro di bottiglie comune.

Composizione 1

Centoventi libbre d’arena bianca, cinquanta di potassa non purificata, dieci di sal comune, cinque d’arsenico, e cinque oncie di manganese; si fonda a fuoco moderato, e si schiumi di tempo in tempo durante la fusione, a cagione dell’arsenico: quando tal vetro riesce, s’approssima a quello del cristallo.

Composizione 2

Centoventi libbre d’arena bianca del prezzo più basso, ottanta di cenere di vegetabili ben bruciata, e vagliata, venti di potassa, quindici di sal comune, ed una d’arsenico; si fonda a fuoco moderato; se il fuoco è forte, la vetrificazione è più pronta: il vetro tira sul verde, ed è passabilmente trasparente.

§ 5 – Della natura, e composizione del vetro a bottiglie, e suo trattamento

Il vetro verde comune delle bottiglie, se si eccettua la bellezza del colore, e della trasparenza, è il più perfetto di quelli che si manifatturano, e riguardata la sua utilità, la composizione ne è tanto importante, quanto quella degli altri.

Si forma d’ogni sorta d’arena fusa con ceneri di legno, o d’altri vegetabili, quantunque non siano disbrigate dai loro sali, che soli possono comunicare al vetro la trasparenza, cariche della parte terrea calcinata delle sustanze vegetabili, da cui sono prodotte, danno al vetro la consistenza.

questa parte terrea, separata dai sali, acquista la qualità di refrattaria, e resiste non solo ai suoi medesimi sali, ma ai fondenti più attivi ancora, nel mentre che ad essi unita per incenerazione, e si vetrifica perfettamente, e diventa fondente; anzi mescolando l’arena colle ceneri in natura, se ne converte in vetro una quantità più grande di quella che si potrebbe ottenere dai sali contenuti nelle ceneri, se si adoprassero senza la loro parte terrea.

Il vetro di bottiglia è generalmente composto di detti due ingredienti: se per altro si potesse avere una quantità sufficiente di scoria, o schiuma di ferro ” Klinkert ” (klinker), se ne trarrebbe gran vantaggio, perchè sarebbe necessaria minor quantità di cenere, ed il vetro si troverebbe di qualità più perfetta; le scorie delle gran fonderie, e delle gran ferriere, in cui s’impiega fuoco più forte, sono le migliori.

Ecco le composizioni particolari di questa sorta di vetro, le proporzioni delle quali suppongono l’arena più dolce, la scelta dell’arena procurando un gran risparmio di ceneri.

Composizione 1

Dugento libbre di ceneri, cento d’arena; si mescola il tutto, gramolando; questa è la dose conveniente, quando l’arena è buona, e che si adopran le ceneri senz’altr’addizione; vi ha però delle vene d’arena sì disposte alla vetrificazione, che se ne può caricar la dose.

Composizione 2

Centosessanta libbre di ceneri, cento d’arena, e cinquanta di scorie, il tutto gramolato; le scorie che sieno ben macinate, prima d’adoprarle; siccome però spesso sono troppo dure, si frangono solamente in piccoli pezzi, e si mescolano senza gramolare, mentre quanto più son dure, meno importa di ridurle in polvere, entrando da sè stesse più facilmente in fusione.

Se non si fossero potute avere delle scorie in quantità sufficiente, bisognerebbe averne almeno un poco, per farne uso, quando la vetrificazione è difettosa, giacchè vale più l’aggiungere alla composizione parti uguali di scorie di ceneri, che sole ceneri le quali, a cagione della loro diversità, possono esser non di rado un fondente troppo debole.

§ 6 – Operazioni ed avvertimenti riguardanti tutte le composizioni

Delle diverse composizioni suddette degl’Inglesi, nelle quali fanno essi entrare il sal comune, si deduce quanto sia falso ciò, che dice Macquer nel suo dizionario chimico, cioè che il sal comune non entri mai in alcuna composizione, o specie di vetrificazione, nè possa servir per la medesima, e quanto sieno assurde le ragioni, che ne adduce, forse appoggiato a quanto ho accennato in bocca a Bosc sul principio di questo capitolo.

Le composizioni dell’Anonimo non debbono poi considerarsi sì precise, che non ammettano variazioni circa la qualità delle materie costituenti, e dei fondenti, e degli scoloranti, perchè ciò dipende da circostanze locali, secondo i principi già stabiliti, e da’ dettami della buona economia.

Se il Paese abbonda di buon’arena, come l’Inghilterra, converrà preferirla il più delle volte, anche perchè richiede minore spesa, e fatica nella preparazione; ove però l’arena non sia tanto buona, dovran preferirsi alla medesima i cuogoli, i ciottoli, le pietre focaje, ed ogni altra delle materie già accennate, preparate a dovere, secondo l’abbondanza, che se ne avrà delle migliori qualità, colle convenienti variazioni di proporzione; anzi dovranno spesso preferirsi all’arena, quantunque buona, gli altri costituenti, cioè or l’uno, ora l’altro di essi.

Lo stesso dee dirsi de’ purificanti, e de’ fondenti, i quali qualora si tratti di sali alcalini fissi, poco faranno sofisticare per le proporzioni, essendo, secondo Bosc, tutti della stessa indole: la qual cosa però sarà vera nel solo caso, in cui si tratti di sali alcalini fissi separati colla maggior esattezza dalla terreità, colla quale si trovino uniti nelle ceneri dei vegetabili, e purchè sieno stati diligentemente preservati da’ sali acidi, e più di qualunque altro sale dell’acido vitriuolico, o solforico, che voglia chiamarsi, con cui fanno sì stretta unione, troppo contraria alla buona fondita, ed alla depurazione del vetro, e ciò secondo la comune opinione de’ Fabbricatori, mentre par dimostrato abbastanza, che i sali neutri non pregiudicano alla buona fondita, ed alla depurazione del vetro, come ho osservato nel cap. 4, part. 4, salvochè la pratica continuasse ad insegnare, che l’acido solforico vi fosse contrario.

Non così può dirsi nel caso d’adoprarsi le ceneri in natura, ognuna delle quali abbonda più o meno di sali alcalini fissi con tanta varietà, che non solo quelle di diversi vegetabili, ma fin anche le ceneri della stessa specie ne contengono maggiore, o minor quantità, secondo il suolo, che le ha prodotte, il grado di maturità, in cui sono colte, ed il modo, in cui sono state bruciate: quindi, per regolarsi, convien conoscere, se contengan le ceneri con metà, due quinti, un terzo, un quarto, un quinto, e così progredendo, di sale alcalino fisso, per mezzo della prova di separazione.

Si proceda pertanto, nel far le composizioni a norma di queste avvertenze, che difficilmente si potrà sbagliare.

Cap. 2 – Della fondita, e delle precauzioni della medesima

Preparate, come si è detto, le diverse composizioni, si mettono le materie nei crogiuoli, in modo che ne possano contenere un terzo di più; ma si mettano dopo che i crogiuoli sieno collocati dentro la fornace; anzi secondo gl’insegnamenti di Bosc, prima di metter la fritta ne’ crogiuoli, conviene che la fornace sia ben calda, perchè altrimenti, penetrando il fuoco disugualmente, fonderebbe con minor facilità.

Qualunque sia la struttura della fornace, introdottivisi i crogiuoli con una pala grande di ferro, e che sia forte, si debbono posar sui seggi, o banchi, e collocare in modo, che le materie ricevano il calor necessario, e che non vi possano entrar nè carboni nè altre immondezze, murando debitamente le aperture, per cui s’introdussero.

Per prevenir quegli effetti, dice l’Anonimo, è bene, che ogni padella abbia il suo coperchio con un buco, per cui si possa introdurre la solita canna di ferro per trarne gli assaggi, onde assicurarsi del grado di vetrificazione.

L’uso del coperchio, non ignoto all’Italia, dev’essere, secondo me imbarazzante per la schiumatura, e qualora la fornace sia ben costrutta, e di materiali non soggetti a vetrificazione, come pur servita con legne non leggere, e le quali non iscoppiettino, mi parrebbe superflua la precauzione del coperchio, salvo la necessità di preservar le composizioni dal fumo del carbone fossile, nel caso di servir con esso la fornace.

Collocate così le padelle, si dà, giusta l’Anonimo, alle medesime per la prima ora, ed anche ulteriormente un grado di fuoco capace di farle arroventare, a men che vi sia nella composizione gran dose d’arsenico, in qual caso bisogna cercar di fissarlo, e impedire che si sublimi.

Una cura importantissima è quella di schiumar esattamente con una mestola le impurità che producono i diversi ingredienti nel corso della cottura, prima di lavorare il vetro, senza di che le macchie, che contrarrebbe gli farebbero perder tutto il suo pregio.

Prima però di parlar della schiumatura, convien dir qualche cosa del fuoco di fondita.

§ 1 – Del fuoco di fondita

Si opera la fondita col riverbero, il quale non è altro che il ripiegamento in vortici della fiamma in sè stessa, per di cui mezzo attacca tutti i corpi, che le stanno d’intorno; ed è la fiamma quel corpo sottile, leggero, luminoso, ed ardente, che si eleva sulle materie accese, formato dalle parti volatili delle medesime, allorchè sono intimamente penetrate dal fuoco, uscendo per un buco.

Stahl, e dopo di lui Pott, appoggiati ad osservazioni, ed esperimenti, stabiliscono, che l’acqua contribuisca molto alla produzione della fiamma, salvochè i combustibili da sè stessi sieno disposti ad attivar l’umido dell’atmosfera (Il gaz ossigeno de’ più moderni, sul quale leggasi a questo proposito, quanto ne scrive Chaptal: Elem. di Chim., Tom.1, part. 1 , sez. 5, cap. 2), come il Carbone, e quindi lo stesso fluido, che in gran quantità l’estingue, in piccola quantità serve a produr la fiamma, ed anche ad accrescerla ne’ combustibili disposti, come sovra, il che giornalmente veggiamo nelle fucine de’ Fabbri ferrari.(p).

Non perciò opinano Stahl , e Pott per l’uso della legna verde: lungi da sì grandi uomini il sospetto d’uno sproposito tanto massiccio: vogliono esser secche le legne, non però avide affatto, e provviste d’ogni umore.

La fiamma scalda tanto più i corpi, quanto è più pura, e contiene più poca sustanzia viscosa, ed eterogenea: abbisogna d’aria libera pel suo nutrimento, che però non la comprima, e non sia troppo forte; perciò mentre s’accresce ad un soffio leggero, si estingue alla violenza del vento.

Fra i teoremi, che stabilisce Chaptal in detto luogo sul principio, che (in) qualunque combustione si sviluppi calore e luce, vi sono i tre seguenti: che il solo mezzo di produrre un calore violento sia quello di bruciare i corpi nell’aria più pura: che il fuoco, ed il calore debbano essere tanto più intensi, quanto l’aria è più condensata: che le correnti d’aria siano necessarie per mantenere e promuovere la combustione.

Quanto più bella, e più chiara è la fiamma, tanto meglio riesce la fondita; può essere però bella , e vivace, senza che sia molto gagliarda, checchè ne dica Imperato.

La limpidezza della fiamma, parlando di fornace servita con legne, dipende dalla qualità delle medesime: le legne dolci sogliono dar ceneri troppo leggere, in guisa che facilmente s’innalzano colla fiamma stessa, svolazzano in essa, e cadono dentro i crogiuoli attratte dall’ebullizione delle materie: le legne che scoppiettano, sogliono spigner su de’ carboni unitamente alla fiamma, i quali non mancano di cadere in gran parte dentro i crogiuoli: le une e le altre sono tanto più pregiudiziali, quanto più fina è la composizione; pregiudiziali però sempre, le rimanenti sono buone.

Più vivace, e più bella è la fiamma di quelle legne, le quali più facilmente s’accendono, e men presto vengono distrutte dal fuoco.

Chi dà la preferenza alla fiamma di quercia, come Neri; Bosc ne teme gli effetti, quando non è ben secca per lo frequente suo scoppiare, e dà la preferenza al cerro, al carpine, alla betula, al ciliegio, al frassino, gli vuole però senza corteccia: Ferrante Imperato (Istor. nat., lib.2, cap. 16 ) dice, che il Vetrajo si serve del frassino, la di cui cui fiamma trova Merrett assai bella, ma di poca durata, e con Camerario (43) (Hort. med. junip.: nessuna qualità di legna somministra carboni, i quali conservino il fuoco più a lungo) commenda il ginepro.

Io non conosco fiamma più bella, più chiara, e più durevole di quella del ginepro; e siccome di ginepro tanto arboreo, che fruticoso, abbonda molto la Sardegna, e dell’arboreo particolarmente nella parte orientale, in guisa che in Cagliari se ne fa gran consumo al fuoco, mi auguro per suo mezzo l’ottenimento in Sardegna de’ più bei cristalli.

La grossezza pure contribuisce molto alla vitalità della fiamma: le legne molto grosse, oltre che sono assai incomode, e difficili a trattare, ne impediscono, e ritardano l’elevazione, la rendono meno uguale, e l’interrompono: le troppo sottili non la sostengono: bisogna quindi servirsi di legna di tal grossezza, che nè si consumino troppo prestamente per la loro sottigliezza, nè per lo volume loro, impediscano, ritardino, ed interrompano l’elevazione della fiamma, ed imbarazzino l’ attizzatore.

Sarà bene di seguir per approssimazione la regola di Bosc, il quale dà per grossezza conveniente delle legne ad uso delle vetraje quella di tre in quattro pollici di circonferenza, e preferir le naturalmente tondette a quelle formate da grossi tronchi colla scure.

Si rinfranchino pertanto gli Abitatori del Campidano di Cagliari, e della Contea di Sarrabus, e del Giudicato d’Ogliastra, e d’altre Contrade di Sardegna, se mai gli avessi spaventati col mio progetto di destinare l’uno e l’altro ginepro al fuoco delle fornaci vetrarie, ch’io non ho inteso di levar loro le più durevoli, ed incorruttibili travature delle case (Plinio: natur. hist., lib.16, cap.4, traduz. del Domenichi: non intarlan, e non invecchiano mai il cipresso, il cedro, l’ebeno, il loto, il bosso, il nasco, il ginepro, l’ulivo selvatico, nè domestico ……….ma gli alberi che hanno migliore odore, sono più eterni), ed i sostegni degli atri, e porticati, e soffrano solo, che gli si privi d’una qualità di pali per sostegno, ed appoggio delle viti, e di teneri arboscelli, i quali facilmente si rimpiazzano; soffrano le cucine di Cagliari, ch’io levi loro gran parte della miglior fiamma per le fritture: ed i dilettanti della pesca notturna soffrano che scemi l’alimento migliore di quel fuoco, alla di cui risplendente fiamma dardano sicuri colpi di fiocina sovra gli addormentati, o abbagliati pesci.

Io non so comprendere, come il ginepro, chiamato dai Greci αρκαδοσ ανκεντηοσ , cioè che rimuove le maledizioni, mentre tutti i rettili aborrono il suo odore, si sia collocato fra gli arbusti soltanto, mentre l’arboreo somministra travi sufficientemente grosse per sostenere qualsivoglia solajo, e le quali spesso sovrastano fin la lunghezza di quaranta palmi, ciocchè suppone molto maggior larghezza nell’albero: mi si assicura pari da persone le quali conoscer debbono le gineprosissime Alpi, che in quelle montagne, tanto abbondanti di ginepro, si presenti sempre in qualità d’arbusto, cioè il solo fruticoso, onde abbia cagionato loro gran sorpresa il vederlo in Saedegna uno degli alberi d’alto fusto.

Pur tal sorpresa non avrebbe dovuto cagionare, a chi avesse letto in Plinio nel citato lib., cap.40 : “…..ed a Sagunto in Ispagna dicono essere il Tempio di Diana, portata quivi dall’Isola di Zante….dugento anni innanzi la rissa di Troja, secondo che scrive Bocco……e le travi di ginepro vi durano ancora oggi….., il faggio, e il noce anch’essi stanno bene sotto terra, e così il ginepro, il quale è però buono anco allo scoperto “.

Targioni intanto, il quale avanza (Lez.33 d’Agricolt.) essere il ginepro di lunga durata, e odoroso ammette che possa divenire albero, quantunque non lo sia in Toscana, per lo stesso tagliarlo, dicendo, fra noi non cresce molto, perchè è tagliato spesso per il fuoco, ma lasciato intatto, diviene albero, onde Bauhino (44) ne conta due specie, o piuttosto varietà, una arborea, e l’altra fruticosa.

Io concorro con Bauhino nel contar due specie vere di ginepro, non semplici varietà, perchè trovo molto diverso il ginepro arboreo di Sardegna dal fruticoso, chiamato volgarmente ginepro bastardo, essendo entrambi assolutamente selvatici.

Chi poi non avesse ginepro in abondanza, si serva di quelle legne, di cui avrà maggior copia, purchè per la fusione del vetro bianco, e del cristallo non s’allontani dalle legne di frasssino, di cerro, di carpine, di betula, di ciriegio, d’oleastro, d’ulivo e di lentisco, l’oleastro ed il lentisco potendo, secondo me collocarsi immediatamente dopo il ginepro per l’uso, di cui si tratta.

§ 2 – Del fiele di vetro

Entro a trattare d’un gran nemico da combattere, ma nemico necessario, e cui uopo è d’usare de’ gran riguardi, del fiele di vetro.

Non è già il fiele di vetro un ammasso di materie impure, bensì quella sostanza, che le strascina seco come osserva opportunamente Pott (Recherch. sur la nat. et propr. du fiel de verre; § 12, Hist. de l’A. des Scien. de Berlin 1748), trovandole nella massa del vetro.

Comparisce una tal materia ne’ crogiuoli sulla superficie della massa del vetro, dopo che la medesima è già entrata bene in fusione, in forma di schiuma, più o meno abbondantemente in proporzione del sale alcalino fisso, che sia entrato nella composizione.

Tutti la riconoscono; sulla sua natura però si disputa molto fra i chimici: chi la vuole un sale comune, chi un sale alcalino, chi una sustanzia particolare, pressochè dell’indole del sal mirabile di Glauber, ora chiamato solfato di soda.

Sal comune non può essere, perchè non si vede a fulminare in mezzo alla composizione all’azione del fuoco, come non manca mai di fare il sal comune; sale alcalino fisso neppure, perchè non si separerebbe dalla massa del vetro, come non se ne separa il vero sale alcalino fisso, ma placidamente fonde sempre unito alle altre materie; Boyle (45) ( De producibil.; prin.chim.) la riconobbe già di diversa natura del sale alcalino: io l’ho creduta un tartaro vitriuolato, o solfato di potassa, che si voglia dire, nè abbastanza volatile per elevarsi in vapore, nè a sufficienza domo dalla superiorità della parte alcalina, per seguir l’indole medesima, finchè il rispetto, che ho ai lumi di Pott, mi ha fatto cedere alla di lui autorità, e considerarlo un sale neutro partecipante nella massima parte della natura del sal mirabile di Glaubero.

Pott non sostiene, magistralmente il suo sentimento, ma lo dimostra e col raziocinio, e con gli esperimenti, che asserisce d’aver fatti, e de’ quali da minute coorti nel trattato citato di sopra, onde meritar d’esser seguito; e definisce il fiele di vetro una mescolanza di terra e di sale, che scorre come schiuma sulla superficie del vetro in fusione, e che durante la fusione ne è separata per astrazione.

Si danno ad essa sustanzia diversi nomi: Neri la chiama sale alcali, i Francesi per lo più “suin de verre”, grasso di vetro, e Sanderer, grasso di vetro, gl’Inglesi comunemente, altri sale di vetro, ed i più fiele di vetro co’ Tedeschi, i quali dicono “glass galle”.

Pott opina, che il nome di fiele di vetro dipenda da un errore di traduzione della voce Alemanna “galle”, la quale si sia presa nel significato moderno di fiele, come se avesse qualche sorta d’amarezza, e non nell’antico più opportuno di bolla, di schiuma, onde piuttosto si dovesse dire schiuma di vetro, secondo il significato antico di “galle”.

Io credo che di tante denominazioni non le convenga affatto quella di sale alcali, perchè sia contraria alla natura di essa, e neppur quella di grasso di vetro, perchè nulla ha di grassume, salvo per la maniera, in cui si fa vedere, le convenga bensì quella di sale di vetro, per essere di natura salina, quella di schiuma di vetro, per la forma, in cui comparisce, e quella di fiele di vetro, cui dò io la preferenza, perchè conforme la trovo agli effetti, che produce nella materia in fusione, benefici nell’atto, pericolosi però per le conseguenze, non altrimenti che il fiele nel corpo umano, e degli animali.

Possa tant’analogia fra gli effetti dell’uno, e dell’altro fiele, che siccome il fiele del corpo umano distribuito con parsimonia dalla vescica in cui è contenuto, contribuisce alla perfetta formazione del chilo, o chilificazione, ma se si spande in gran copia la rovina, e mette in pericolo la macchina tutta, così il fiele di vetro contribuisce alla buona fusione della massa del vetro, ed al suo depuramento, finchè una sola porzione ve ne resta mescolato, e l’altra sta a galla, se però non si leva a tempo la soprannatante sustanza, precipita i lavori, che si fanno colla pasta del vetro, cagionandovi e puliche e punti, e vergature, e sfogli, e risudamenti, e ruggine, e degradazioni, e tanti altri difetti, quando pur non corroda fino il crogiuolo, e gran parte spender faccia di sì preziosa composizione.

A più del vantaggio di disporre le materie alla fusione, si attribuisce da Bosc al fiele di vetro l’altro di dissipare i colori della composizione, perchè la materia colorante, avendo maggior affinità col fiele, che col vetro, con quello si combini, e rimanga unita.

Sarebbe un gran bene, aveva egli detto, che non ne rimanesse nel vetro, ma sarebbe assai dispiacevole, che non ve ne avesse nel sale alcalino una piccola quantità: dispone le materie alla fusione; ne facilita il perfetto mescolamento, contribuisce infinitamente alla depurazione del vetro, strascina seco le materie eterogenee, e sopratutto il principio colorante grossolano: per convincersene, non si ha che a far fondere collo stesso fiele quel vetro, che per il soggiorno nel fondo delle fornaci di fusione è divenuto nero, ed opaco, e si vedrà, che riacquista la trasparenza, ed il colore naturale, perdendo fino la virtù elettrica.

La depurazione però operata col fiele di vetro sarà vera, anche in senso di Bosc, fino a un certo segno, perchè non lascia egli ancora di suggerire gli altri mezzi per levare i colori dalla massa del vetro, ed in tal modo sembra, che da lui non discordi l’Anonimo, quando dice, che collo schiumarla le si levino le impurità.

§ 3 – Della schiumatura del vetro

Per levare il fiele di vetro prescrive Neri di traggettarlo più volte, cioè attuffarlo nell’acqua fresca, quando è ben fuso, e poi rimetterlo nei crogiuoli, ripetendo l’operazione se si tratta di cristallo, mentre per lo vetro cristallino, e per il comune non lo creda necessario, sebbene lo commendi.

Bosc non disapprova il metodo di Neri: non lo trova però sufficiente a spogliare il vetro dal fiele, e siccome non trova sufficiente quello, pur altre volte usato, di prolungar l’affinamento: bisogna dunque levarlo, secondo lui a forza di schiumar la composizione.

Merrett dice, d’esser quest’ultimo, non già quello di Neri il metodo degl’Inglesi, e l’Anonimo raccomanda la schiumatura esatta, come una cura della massima importanza.

Il tempo di cominciare a schiumare facilmente si comprende dai principi di sopra stabiliti, che debba essere, quando il fiele non si consideri più necessario per agevolar la fusione, e la purificazione della massa: nè altra regola precisa si può stabilire; pur non di meno convenendo di dar qualche novina, consiglia Bosc di non levare il fiele dal vetro alla prima fondita, perocchè tre se ne sogliono fare: concorderebbe in ciò coll’Anonimo, il quale prescrive la schiumatura dopo terminata la fondita; prima di lavorarsi il vetro.

Per fare le tre fondite però non è necessario di travasare ogni volta il vetro, basta l’aggiungere al crogiuolo dell’altra fritta per due volte, acciò non vi resti un vacuo troppo grande col restrignimento, e condensamento che si opera dal raffinamento delle materie, a misura che va inoltrandosi.

Il metodo di levare il fiele di vetro nella prima fondita, dice Bosc, mi pare cattivo, ho sempre osservato utile di non fare la seconda, e la terza fondita, che allorquando non compariscono più bolle nelle lagrime d’assaggio; il vetro depura meglio assai, e più prontamente; se il sal di vetro si trova in abbondanza nell’ultima fondita, è vantaggioso il portarlo via con una mestola di ferro, perchè corrode i crogiuoli.

Diverse pratiche di Vetraje introdotte con altre mire, è sempre Bosc, che parla, contribuiscono alla dissipazione del sale di vetro: si mette dell’arsenico, dell’antimonio, delle scorze verdi d’albero nel vetro in fusione, si rimescola con un ramo verde di frassino, di nocciolo, o di tiglio coll’idea di renderlo candido, di distruggere i suoi colori troppo forti.

Queste diverse pratiche non hanno effetto, che in quanto esiste il fiele di vetro; ne facilitano il disbrigamento mediante il passo che si aprono a traverso il vetro l’arsenico, la carta in cui è involto (vedremo fra poco che cosa dica di tali cartocci l’Anonimo), l’antimonio, le scorze, le parti legnose e la scorza delle rame, il sal di vetro tiene dietro a tali materie, e porta via seco il principio colorante grossolano.

Il gramolamento, che si fa per mescolar la magnesia col vetro produce lo stesso effetto.

Dopo siffatte operazioni, il vetro della parte superiore del crogiuolo è molto scrosciante, e si trova carico di metà più di grassume di quello di mezzo, e del fondo; si può accertarsene coll’esperienza

Cotai mezzi non saprebbero riempir perfettamente il loro oggetto: non bisogna lusingarsi di distruggere interamente il sal di vetro, che in quanto la composizione sarà stata fatta in convenienti proporzioni, e che s’impiegherà fuoco assai violento, e continuato molto a lungo, che vi sarà nella composizione il sale alcalino fisso necessario per saturare compiutamente l’arena, e la calcina a fuoco molto violento: si farà allora la depurazione perfetta, senza che si debba ricorrere ad alcun altro mezzo.

In seguito a ciò, che si vien di dire, continua Bosc, sivede ciò, che si dee pensare, di quanto hanno scritto gli Autori dell’arte vetraria sui colori del vetro, che il fuoco gli consuma, che bisogni prendergli al volo, per così dire, che i sali minerali possono somministrargli.

I colori non ispariscono che per l’affinità maggiore che ha la materia colorante col fiele di vetro, che col vetro medesimo, per cui con quello si combina, e si dissipa.

Allorchè il vetro è esattamente purgato dai sali neutri, tartaro vitriuolato, sale marino, e sal mirabile, i colori sono fissi al fuoco più ardente, e più lungamente continuato: il color giallo che danno la fuliggine, ed i carboni de’ vegetabili, e degli animali, è così fisso che il turchino della zaffera, ed il rosso del manganese: il sal di vetro, conchiude Bosc, mi pare il più sicuro mezzo, che si possa mettere in opera, per portare i colori al tuono, ed all’unione desiderata.

§ 4 – Continuazione della fondita, e precauzioni della medesima

Per meglio conoscere le operazioni, e precauzioni dell’affinamento, si continua, dice l’Anonimo, il fuoco, finchè tutta la massa diventa un fluido uniforme, e che abbia acquistato le qualità necessarie alla specie di vetro, che si vuol fabbricare.

Non si possono stabilir regole certe sul grado di calore necessario per vetrificare le materie in fusione, e neppur circa il tempo, essendovi delle variazioni a riguardo della quantità, e della loro natura: se molto arsenico entri nella composizione, e quantunque sia necessario d’accelerare la vetrificazione, bisogna lasciarla più a lungo al fuoco, per purgarla dalle ombre, di cui rende il vetro suscettibile.

La durata del fuoco dipende pure dalla sua maggiore , o minore attività, e dalla forza più o meno grande de’ fondenti, della quale si può giudicare per la natura, e per la dose degl’ingredienti: nel rimanente, con lasciar più a lungo il vetro in fusione, non s’arrischia che il tempo, ed il carbone, perchè la cottura lunga dà sempre al vetro maggiore consistenza, e lo rende più nitido.

Il vetro bianco opaco però formato d’arsenico dee levarsi dal fuoco precisamente, quando gl’ingredienti sono bene incorporati, poichè la vetrificazione più completa convertirebbe in trasparenza l’opacità, che si desidera.

Per assicurarsi del vero stato di vetrificazione, si prende una canna di ferro, la cui estremità sia ben lustrata, e almeno esente da ruggine, e s’attuffa nella massa in fusione, quanto più duttile, e più facile a filare sarà la materia colla medesima estratta, tanto più certa sia la vetrificazione: si giudica pure della sua qualità, rifreddata che sia la materia estratta, dal colore, e dalla chiarezza; se è trasparente senza colore, e senza macchie, e senza bolle, è nel suo stato di perfezione, e si può lavorare; se tali qualità le mancano, si lascia più a lungo in fusione provandola, finchè si abbia motivi d’essere contenti del colore, e delle altre qualità.

Come potrebbe accadere, che la materia, dopo d’esser stata lungo tempo al fuoco, non avesse potuto pervenire allo stato di perfezione desiderato, o per difetto di materiali, o per difetto di buona composizione, bisognerebbe cercar di riconoscere il motivo.

Se non avesse una fluidità uniforme, se paresse torbida, e latticinosa, se abbondasse di onde dopo qualche diminuzione di fuoco, se ne dovrebbe conchiudere, che il fondente fosse troppo debole, ed aggiungergliene nella stessa proporzione, che avanti la cottura, ma gradatamente, in modo che un’ebullizione pronta non faccia gonfiare, e stravasar la materia.

Bisogna regolarsi per la dose, a tenor di ciò, che sembrerà di aver cagionato il ritardo nella vetrificazione; si comincerà per metterne una dose men forte, salvo ad aumentarla in progresso, finchè si riconosca sufficiente.

Troppo fondente nuocerebbe alla qualità del vetro, ed i sali non potendo essere rettificati che per la durata della fusione, la più piccola quantità eccedente fa spesso un effetto, che pareva di non doversi aspettare.

Si usa talvolta lo spediente che siegue, per accelerar la vetrificazione: si prendono quattro, o cinque oncie d’arsenico, le quali si mescolano con un’oncia di manganese, il tutto essendo ben chiuso in un cartoccio attorcigliato, s’attacca il cartoccio all’estremità della canna, e si comincia a rischiarsi verso il fondo, e così successivamente sino alla superficie.

Io non approvo, dice lo stesso Anonimo, l’uso del manganese, perchè , se il vetro non ha preso il color giallo gliene dà uno tirante sul porporino, che quantunque poco sensibile, è sempre una imperfezione, di cui s’accorge, chi lo mette in confronto d’altro perfettamente bianco: credo dunque, che potrebbe meglio mescer coll’arsenico due, o tre once di borrace calcinato, spediente, che non nuoce al vetro, e non aumenta la spesa a fronte della qualità del prodotto, che dà il vetro lavorato.

Quando il vetro, altronde perfetto, pecca per color giallo, o verde, si scemerà, aggiungendo una, o due libbre di salnitro, se prima se ne fosse adoprato poco nella composizione.

In tal caso si farà fondere il nitro con della fritta, o con qualche altro vetro della stessa natura di quello, che sarà nella padella, prima di mescolarlo cogl’ingredienti, che sono in attual fusione: è questo il mezzo di farlo incorporare più facilmente con tutta la materia, ed impedire, che strabocchi per ebullizione cagionata dall’umidità contenuta nel salnitro.

Se uno spediente di tal natura fosse sufficiente, si avrà ricorso al manganese misto con due, o tre once d’arsenico, che s’introdurrà nel crogiuolo nel modo già detto, nel mentre che l’arsenico si sublimerebbe, e non produrrebbe alcun effetto.

Così l’Anonimo: sentasi però di nuovo Bosc ancora per poco, ed avremo il corso della fusione, o sia la maniera di regolarla messa in più chiaro aspetto.

Un’ora circa dopo, che non compariscono più bolle, nelle lacrime d’assaggio, e che il vetro bianco, ed il cristallo sono al punto di fluidità, che si desidera, si può fermare il fuoco, otturar esattamente la fornace, e tenerla in tal modo ben chiusa per lo spazio di tre ore, o quattro; circostanza di gran conseguenza, perchè molto contribuisce all’affinamento, non già, come comunemente si crede, con dare al vetro la facilità di cacciar l’aria da’ suoi interstizi nell’avvallarsi, e per tal via esentarsi dalle bolle, ma con lasciare alle materie eterogenee, e particolarmente al sal di vetro, che ancor potesse contenere, il tempo di salire alla parte superiore del crogiuolo.

Non entra Bosc in osservazioni sul modo di lavorare il vetro, per esser materia troppo vasta, e raccomanda solo agli Operaj la più gran pulizia, che ognuno comprende, quanto debba contribuire alla bellezza de’ lavori: aveva solamente notato, che il ritrovato da lui attribuito ad Abramo Therar (Thevart ?) nella fine del secolo XVII, di colare, o sia gettare in forme le bombole degli specchj, in luogo di soffiarle, non aveva prodotto altro vantaggio, che il facilitar la formazione degli specchj di maggior volume.

Neppur io farò parola di tali operazioni, nè degli strumenti, ed utensili per esse necessari, e lascio tutto ciò alla direzione de’ Padroni delle Vetraje, i quali debbono saperlo per pratica, e potranno veder descritti gli strumenti, ed utensili presso varj scrittori molto noti, e particolarmente nel Dizionario Enciclopedico (46) (libro a cui vorrei, che si ricorresse spesso, come agli altri Dizionari istruttivi, senza farsene però l’unico libro da studiare, sprezzando, come purtroppo si fa, ogni altro scrittore, perchè non può da sè solo formare che degl’Ignoranti, pretendenti al rango di eruditi), regolandosi relativamente ai lavori secondo i dettami del loro interesse, ed a tenore delle richieste di coloro, i quali ordinassero particolari lavori.

Parte Sesta

Del ricuocimento, e refrigeramento delle opere di vetro

Capitolo unico

Sarebbe il tempo di parlare del ricuocimento, o del refrigeramento de’ diversi lavori di vetro già formati, siccome però ne ho già dato una competente idea, nel trattare della costruzione delle fornaci, e della parte che si chiama forno refrigeratorio, non parrebbe forse necessario di trattarla di nuovo, pur nondimeno, essendo questa un’operazione, da cui dipende il cogliere il frutto di tante cure, spese e fatiche, trascriverò almeno quì quanto ne dice sensatamente Bosc d’Antic, a rischio ancora di qualche, non però inutile, ripetizione.

Di qualunque importanza sia il ricuocimento del vetro, non conosco Autore, dice Bosc, che ne abbia parlato; nelle Vetraje se ne ha delle idee molt’oscure, nè mancano quelle, nelle quali si crede, che venga operato da una specie di virtù occulta.

Facil cosa è l’assicurarsi, altro non essere, che il rifreddamento condotto per insensibili gradi, quantunque molta difficoltà s’incontri nel procurare al vetro tal qualità di rifreddamento sopratutto ne’ pezzi d’ineguale spessezza, ed alle lastre, o bombole degli specchj.

Siffatta difficoltà senz’altro è quella, che fa, che i piatti di vetro a vetri di certe fabbriche, o sia Vetraje, sieno mal ricotti, e che, per quanto sottili siano, a pena se ne trovi qualcheduno, che sostenga convenevolmente l’impressione del diamante, che non sia più fragile di quello, che dovrebbe essere il vetro di sua natura.

La maniera in cui si fan ricuocere ordinariamente i pezzi grossi, le lanterne, i gran vetri d’ottica, le bombole, ed altre opere, dee produrre una cattiva refrigerazione.

Allorchè si son messi in un forno molto caldo tutti i lavori, che si vogliono mettere, si margina diligentemente, è fuor d’ogni dubbio, che i vetri ricevono, e quasi subitamente un più alto grado di calore, dopo che si è marginato, basta guardar nel forno, per convincersene.

Oltre il riempimento, o lo schiacciamento, che risulta ordinariamente da siffatto aumento di calore, si deve aspettare a lungo il rifreddamento del forno, a meno che, come si usa generalmente, non si cominci a smarginare, e dar aria in capo a due o tre giorni: quanto più calda è la fornace, con tanta maggior rapidità, si precipita dentro l’aria esterna.

Non è difficile a comprendersi che lo smarginamento suddetto faccia provare ai vetri un cambiamento troppo pronto, perchè non ne soffrano; onde si trovi sempre un gran numero d’opere rotte, e tutte si trovino mal ricotte.

Vi ha un mezzo assai semplice d’ovviare ad inconvenienti tanto rovinosi per il padrone della Vetraja, e molto assai semplice d’ovviare ad inconvenienti tanto rovinosi per il padrone della Vetraja, e molto pregiudiziali all’interesse del Pubblico, e di ben ricuocere in pochi giorni nel forno medesimo, tutto il cambiamento sta in far forare nel mezzo della volta una, o più aperture di cinque pollici di diametro, secondo la grandezza del forno.

Una apertura bastar dee per il forno a ricuocere, e refrigerare il vetro piatto soffiato senza bodello, o alla Boema; dev’esser formata nel mezzo della volta: subito dopo che si saranno marginate le aperture laterali, e l’occhio, si smargini l’apertura, o le aperture della volta, ed in appresso si marginino le due estremità dello attizzatoio.

Per tal mezzo non vi è a paventare dischiacciamento o rompimento alcuno, i vetri sono ricotti così perfettamente, che possa considerarsi, ed in capo a quattro, o cinque giorni, in vece di otto, che ne abbisognava per ricuocergli bene.

Si scorge facilmente che il grado di calore non può aumentare, anzi deve diminuire insensibilmente, e che lo stesso calore non si dissipa per l’apertura, o aperture della volta, senza che l’aria esterna possa introdursi nel forno in maniera sensibile.

Fin quì Bosc: nè io aggiungerò altri riflessi sul particolare del ricuocimento delle opere di vetro, contento di rimandare il lettore, a quanto ne ho detto del paragrafo terzo cap.3, part. 3 persuaso, che i padroni delle Vetraje non diprezzeranno questi avvertimenti, dal profittar de’ quali dipende la loro fortuna.

Conclusione

Abbandonato dall’anonimo Inglese, il quale dopo i precetti da me riferiti e per la scelta delle materie, e sustanzie necessarie nella fabbricazione del vetro, e per le diverse composizioni di esso, e per la fusione, ed affinamento più perfetto, ritorna a parlare della pittura sul vetro, principale oggetto del di lui trattato, e del modo di imitar le gemme, avrei potuto seguire ancora per poco le pedate di Bosc.

Lo zelo patriottico, da cui è animato, prima di terminar lo scritto sui mezzi più propri a portar perfezione, e l’economia nelle fabbriche di vetro Francesi, gli fa proporre il modo di tirar partito dal fuoco superfluo, e dall’ozio troppo lungo, del quale per intervalli assai frequenti godono gli Operaj delle Vetraje, onde ritrargli dalla rilassatezza, dalla dissipazione, ed anche dalla dissolutezza.

Suggerisce di farvi lavorare per mezzo de’ medesimi Operaj gli smalti, preparare i colori ad uso dei Pittori, e le diverse paste vetrificate pe’ lavori in musaico, fabbricar la porcellana alla chinese, e convertire il ferro in acciajo secondo gli insegnamenti di Reamour (47).

Io però nulla dirò di tutto ciò, lasciando la sedi principali delle arti primarie nel pacifico possesso di lavorar gli smalti, e preparare i colori, Roma in quello di far privatamente i vetri per le opere in musaico, ed eseguire i musaici stessi, Firenze, Venezia, e Napoli, per quanto riguarda l’Italia, in quello di fabbricar porcellane, sebbene non alla chinese, e la conversione del ferro nel più puro acciajo degl’Inglesi.

Saranno sempre i padroni delle Vetraje in piena balia di secondar quel genio, che avessero di applicare a qualunque delle accennate manifatture.

Intento più agli oggetti per gli usi della Società, che non a quelli di mero lusso, vorrei, che in vicinanza delle Vetraje si fabbricasse anche il buon sapone dagli stessi Operaj nei lunghi intervalli, in cui debbono stare oziosi; e più d’ogni altra cosa si tenessero le caldaje in continua attività per l’estrazione del sale alcalino fisso, senza restringersi al solo occorrente per la fabbricazione del vetro, onde farne anche un ramo di commercio Sardo di gran lunga più vantaggioso, e meno dispendioso nei trasporti di terra, e di mare di quello della soda in natura.

Sebbene in quanto al troppo lungo, e pericoloso riposo dei Fabbricatori si potrebbe adottare un mezzo più conforme alla loro professione per evitarlo, cioè quello di riunir diverse fornaci nello stesso recinto, regolate in modo, che dalla fornace di vetro ordinario, dopo un competente riposo, passar potessero a lavorar nella fornace del vetro di bottiglie, e da questa a quella del vetro cristalino, o del cristallo, senza obbligargli a cambiar di professione: nè vi sarebbe mai pericolo di non arrivare a tempo debito, anche coll’intervallo di discreto riposo, se è vero, ciò che è verissimo, che nulla si rischia nel lasciar più a lungo la massa del vetro in fusione, salvo in radissimi casi, anzi contribuisce alla maggior perfezione.

La necessità per tanto di stabilirsi Vetraje d’ogni sorta dovrebb’essere stata da me dimostrata evidentemente, non solo dall’uso indispensabile d’innumerevoli opere di vetro pe’ bisogni, e comodi della vita, per l’ornamento delle abitazioni civili, per gli sperimenti, ed osservazioni fisiche, e matematiche, per l’esercizio della maggior parte delle arti tanto liberali, che meccaniche, ma ancora dal sommo interesse, che vi ha la pubblica, e la privata economia; la pubblica in evitar l’uscita dallo Stato d’enormi partite di numerario, e nel trarre maggior vantaggio dalle diverse produzioni teritoriali; la privata nel prezzo più discreto delle diverse opere di vetro che debbono immancabilmente portar seco, quando non ottengano delle privative, che riescono sempre pregiudiziali.

Non meno dimostrata mi pare l’inconsistenza, ed irragionevolezza del timore, che possano influire le Vetraje in Sardegna nella maggior scarsezza, se non nella distruzione de’ combustibili, e de’ legnami da opera, anzi l’abbondanza che debbono esse arrecare degli uni e degli altri, e particolarmente se si profitterà più della comodità dei porti, e se si vorrà mettere a partito la disposizione a navigarsi, al meno in una buona parte dell’anno, di certi fiumi vicini a ricchissime selve, boschi, e macchie, quand’anche non si pensasse a formare canali navigabili, ove le circostanze locali lo comportino, e lo richieggano ancora per dar sfogo alle pienare.

Evidente del pari dovrebbe ravvisarsi, che ogni Stato, e pressochè ogni Provincia del Continente, e delle Isole d’Italia abbondi d’ottimi materiali per la costruzione delle fornaci, e per la formazione de’ crogiuoli, e d’eccellenti materie, e sustanze per la composizione, purificazione, e fondita di qualunque vetro, o che tali possano diventare per mezzo di preparazioni non gravosamente dispendiose, e non difficili ad eseguire: il modo di costrurre le buone fornaci, di formare i migliori crogiuoli, d’estrarre i sali, di calcinare le materie, di frittare le composizioni esser molto agevole, per chiunque voglia applicarvi: e che la buona riuscita della fondita, e del riconoscimento de’lavori già fatti non dipenda da segreti, e misteriose operazioni, ma dalle fornaci ben costrutte, dai buoni crogiuoli, dalla scelta de’ combustibili, dal regolare il fuoco colla dovuta discrezione, ed attenzione, dallo schiumar diligentemente le composizioni già fuse, dal riparar in tempo alla difficoltà di fondere, all’eccesso di fluidità, ed ai colori, che vengano a manifestarsi, e finalmente dal sistemar le aperture del forno refrigeratorio in maniera, che nè troppo precipitoso riesca il rifreddamento delle opere, nè troppo lento.

Avrò portato all’Italia quel tempo auguratole per zelo dell’onor di essa dall’eruditissimo Francesco Redi (esperim. intorno a cose natur. ), dicendo sul proposito della superiorità dei cristalli oltramontani sugl’Italiani: “verrà forse tempo, nel quale non si troverà vera, secondo la diversità dell’arte, e de’ materiali, che nella fabbrica de’ cristalli si userà in Pisa, in Venezia, in Parigi, ed in Roma”.

La buona volontà l’ho avuta; le diligenze le ho trovate se un giudizio favorevole degl’intendimenti, di cui non pochi mi hanno già lusingato, coronerà i miei sudori, con quanta mia soddisfazione vantaggiarsi vedrò a sì grande utilità dello Stato, a cui appartenga, chiunque metter vorrà a profitto questi miei insegnamenti, che pur miei posso chiamargli, quantunque da me per la maggior parte attinti da fonti ricchissimi di vasta erudizione, mentre: “il buon giudizio è il capital primiero dell’ottimo Scrittor. La merce, ond’egli fornir si dee, raccoglierà, se vuole, da Socratici fogli”.

Potrò in ogni evento meritar benigno compatimento dai non inesorabili critici, come sogliono essere i più intelligenti, i quali, se sanno: “ch’io non deggio suppor, che i falli miei / conosca ognuno, l’assicurarmi senza / bisogno di Perdon. Nè tutto ancora / conseguirò con ciò. Sol biasmo evito / lode così non merto / persuasi son dessi alcuni / che non rispondan sempre / Alla mente, alla man, ma spesso acute / A chi gravi le vuol suonan le corde: / nè ognor colpisce, ove diretto è il dardo” .(Orazio da Art. Poet. traduz. di Metastasio).

Note e considerazioni sul testo

a) – Il Mameli fa menzione degli incendi; il problema è ben più antico.La piromania, in Sardegna, è ancestralmente connessa con “la cultura” agro-pastorale, pur se può presentarsi anche in individui estranei a questa, sotto l’impulso di sentimenti deteriori, quali xenofobia, invidia, odio, od altro.

b) – L’idea di rendere navigabili alcuni fiumi della Sardegna, e di costruire un canale navigabile che possa congiungere lo Stagno di Santa Gilla con quello di Cabras, attraverso gli Stagni intermedi, è senza dubbio suggestiva, ma faraonica ed irrealizzabile, se non altro per il regime idrologico dell’Isola.

c) – La segnalazione dell’esistenza del Carbon Fossile in Sardegna da parte del Vargas e del Mameli, se pur limitata alla sola presenza di questo macerale, precede di alcuni anni la scoperta del La Marmora.

d) – Il “Principio ipotetico di Stahl”, delineato dal Mameli, è di fatto, il monossido di Carbonio. Questo, pur ottenuto per la prima volta da Lasonne (1776), e da Priestley (796), fu riconosciuto, come un gas che bruciando formava anidride carbonica, da Cruikshank nel 1796. La sua composizione chimica fu stabilita da Clément e Désormes, nel 1801, che ne riconobbero anche la tossicità. L’errore del Mameli, nel chiamare il “principio ipotetico” acido carbonico, è giustificabile col fatto che lo stesso nome di Ossido di Carbonio è stato coniato dal Berzelius, suo contemporaneo, dopo il 1810.

e) – Intuizione, quella di Duhamel, quanto mai esatta.

f) – La vicinanza del mare, in verità, influenza negativamente lo sviluppo e l’azione dei Nitrosomonas e dei Nitrobacter.

g) – Se quì il Mameli allude alla Pietra da Cantone delle cave di Cagliari (Calcare cristallino di Bonaria, o tufo calcareo incoerente di Sa Duchessa, Tuvixeddu, e Tuvumannu, ciò non è vero, in quanto il materiale calcareo non è utilizzabile, nelle composizioni per la preparazione del vetro, se non in piccola quantità.

h) – Quì il Mameli è volutamente impietoso. Il de Blancourt fu effettivamente incarcerato per falsità, ma il falso riguardava, non la Chimica o la Tecnologia, bensì la Genealogia Araldica. Già al tempo del Mameli la falsificazione di Titoli Nobiliari non era punita così gravemente, pur essendo ancora un reato. Oggi, poi stante la Costituzione della Repubblica Italiana, un fatto del genere non verrebbe considerato se non una millanteria.

i) – I minerali di Manganese individuati in Sardegna sono: Centrolite, Manganite, Pirolusite.(E. Billows: Lessico Mineralogico per l’Isola di Sardegna – Cagliari, Società Tipografica Sarda 1921).

l) – In Sardegna non sono mai stati individuati, purtroppo, minerali contenenti Boro.

m) – L’analisi delle acque di Fordongianus, fatta da E. Puxeddu, e A. Rattu (Annali di Chimica Applicata 24, (8), 409-426, (1934) ), ha mostrato la notevole presenza del Sodio, discreta del Calcio e Magnesio, insieme a una abbondante quantità di cloruri, discreta di solfati, e carbonati, e l’assoluta assenza dell’acido borico.

n) – I minerali di Cobalto individuati in Sardegna, per lo piu sotto forma di arseniuri, sono: Cobaltite, Eritrite, e Smaltite.(E. Billows: Lessico Mineralogico – prec. cit.)

o) – I minerali di Antimonio individuati in Sardegna sono: Antimonite, Chermesite, Berthierite, Bindheimite, Bournonite, Breithauptite, Cervantite, Jamesonite, Pirargirite, Polibasite, Senarmontite, Stibiconite, Ullmannite, Valentinite. (E. Billows: Lessico Mineralogico – prec. cit.).

p) – Per effetto della formazione di Gas d’Acqua (Idrogeno e Ossido di Carbonio) dalla reazione tra l’acqua e il carbone.

Bibliografia e note biografiche dei personaggi citati

1) – Biblioteca Universitaria di Cagliari – Manoscritti. Collocaz.S. P. 6 bis – 1, 8 .

2) – Neri – Antonio Neri: Tecnologo fiorentino, morto nel 1614. Scrisse, nel 1612, il Trattato: “De Arte Vitraria”, in cui è compendiato tutto il sapere del tempo, sull’Arte della Fabbricazione del Vetro.

3) – Anonimo Inglese – Robert Dossie: Farmacista Inglese, morto nel 1777. Pur essendo poco noto, scrisse opere di una certa importanza per la Chimica Applicata e la Chimica Farmaceutica. Scrisse: “The Handmaid to the Arts” (Londra 1758, II ed. 1764 );”The Elaboratory laid open”. E’ questo un Trattato di Chimica Farmaceutica, che l’Autore scrisse nell’intento di far diminuire il prezzo dei medicinali, eccessivo, a suo dire, a quel tempo. A ciò si deve, probabilmente, il fatto che viene tramandato solo colla denominazione di Anonimo Inglese.Scrisse ancora: “Institutes of Experimental Chemistry; being an essay towards reducing that branch of Natural Philosophy to a regular system” (Nourse, Londra 1759), in cui descrive curiose esperienze sugli usi medicinali delle piante e su alcuni veleni. “Theory and Practice of Chirurgical Pharmacy” (Londra 1761). Fondatore della Società per l’incoraggiamento delle Arti, collaborò alla edizione del “Journal of the Society of the Arts”.Scrisse ancora: “Observation on the Pot-Ash brought from America. Processes for making Pot-Ash and Barilla in North America” (Londra 1767); “Memoirs of Agricolture, and others oeconomical arts by Robert Dossie”. L’opera, in tre volumi, contiene: nel primo volume (1768), un ragguaglio dei premi proposti dalla Società per l’incoraggiamento delle Arti, e degli sforzi da essa fatti per propagare la coltivazione della Robbia e dei Prati Artificiali; nel secondo (1771), la descrizione di svariate esperienze su metodi di coltura agricola; il terzo volume apparve postumo (1781). “An essay on Spiritous Liquors; with regard to their effects on health; in which the comparative wholesomeness of Rum and Brandy are particularly considered” (Ridley, Londra 1770 ?).

4) – Bosc d’Antic – Paul Bosc d’Antic: Scienziato e tecnologo francese (1726-1784).Nato in Linguadoca, di antica famiglia di mercanti calvinisti, studiò medicina, ma dovette laurearsi in Olanda, perchè, in Francia, non era concesso, ai calvinisti, di laurearsi. Esercitò comunque la professione di medico, a Parigi, dove divenne medico, per trimestre, del Re Luigi XV. Fu in relazione con gli Scienziati del suo tempo, Abate Nollet e Rèaumur. Si occupò della produzione di cristalli nella Manifattura di Saint Gobin, perfezionando le tecniche di fabbricazione.Entrò in società con industriali del vetro, ma si arricchì solo di conoscenze tecniche.Scrisse molte opere sul vetro e sulla ceramica che furono riunite e pubblicate, nel 1780, sotto il titolo: “Oeuvres de M. B. d’A. contenant plusieurs mémoires sur l’art de la verrerie, sur la fajencerie, la poterie, l’art des forges, la minéralogie, l’electricité, et sur la medecine” (Parigi 1780). Esse comprendono: “La causa delle ‘Pulci’ che si formano nel vetro”; “La causa delle bolle che si formano nei metalli in fusione”; “Osservazioni sul falso smeraldo d’Alvernia”; “Memoria intorno ai mezzi per perfezionare l’arte vetraria in Francia”; “Memoria intorno alle cause dell’ ‘Untume’ del vetro”; “Intorno alla fabbricazione della Majolica”; “Analisi delle acque termali di Chaudes Aigues”; “Esperimenti sull’uso del basalto nella fabbricazione del vetro”; “Indagini sulla natura della materia elettrica”; “Arte di saggiare le miniere col fuoco”; “Sul commercio della Potassa”; “Fabbricazione del vetro in tavole”; “Un mezzo semplice per ordinare in classe tutti i ferri conosciuti”; “Sull’evaporazione dell’acqua gettata sul vetro in fusione”; “Memoria sulla cristallizzazione del ghiaccio”; “Introduzione allo studio delle Arti Utili”. Il figlio Guglielmo (Parigi 1759-1828), ottimo naturalista e professore al Jardin des Plantes (già Jardin du Roi) e membro de l’Institut, fu l’autore del “Dictionnaire raisonné d’Agriculture”; del “Nouveau Dictionnaire d’Histoire Naturelle” (Parigi 1803-1804); dell'”Histoire Naturelle des Coquilles” (1801); dell'”Histoire Naturelle des Crustacees” (1802). Il figlio cadetto, direttore dei “Diritti Umani” nel Dipartimento dell’Alta Marna, scrisse molte memorie sulla Chimica Applicata alle Arti, e sull’Economia Politica.

5) – Le Vieil – Pierre Le Vieil: Artista e Scrittore francese (1708-1772). Figlio di Guglielmo Le Viel , Pittore Vetraio (1676-1731).Studiò a fondo la preparazione degli smalti, e restaurò le vetrate delle chiese di Nôtre Dame e di Saint Victor. Si devono a lui , fra l’altro: “Essais sur la peinture en mosaique” (1768); “Traité historique et pratique de la peinture sur verre” (1772).

6) – Redi – Francesco Redi: Medico enciclopedico toscano (Arezzo 1626-Pisa 1698). Scrisse: “Consulti Medici”; “Osservazioni intorno alle vipere” (1664); “Esperienze intorno alla generazione degli insetti” (1668); “Esperienze intorno alle cose naturali portate dall’India” (1671); “Esperienze intorno a quell’acqua che si dice stagna subito i flussi di sangue” (1673); “Esperienze intorno ai sali fattizi” (1674); “Lettera intorno all’invenzione degli occhiali” (1678); “Osservazioni intorno agli animali che si trovano negli animali” (1684). Fu uno dei fondatori dell’Accademia del Cimento.

7) – Savary – Jacques Savary des Bruslons: Erudito francese (1656-1716).Ispettore Generale delle Manifatture Reali e delle Dogane, fu l’autore, in collaborazione col fratello Louis Filemone, Canonico della chiesa di Saint Maure (1654-1727), del famoso “Dictionnaire Universel de Commerce, d’Histoire Naturelle, d’Art et Métiers” (1723).Entrambi erano figli di quel Jacques Savary (Doué 1622-Parigi 1690), che, ricco commerciante ritiratosi da questa attività, diresse le proprietà reali finchè non cadde in disgrazia presso il Sovrano, e che redasse il “Code Marchand”, meglio noto come “Code Savary”, ed autore, ancora di “Le perfait Négociant”.

8) – Giovanni Mameli de’ Mannelli : Dotto Giurista sardo. Alto funzionario del Governo Sabaudo (Cagliari 1758-Cagliari 1843). Scrisse “La ‘Carta de Logu’ della Giudicessa Eleonora d’ Arborea” (Roma 1805), interessante commentario alla ‘Carta de Logu’, con richiami storici ed etnografici.

9) – La Marre – Nicolas Delamare: Giureconsulto francese (1639-1723). Scrisse “Traité de la policie, ou l’on trouve l’histoire de son établissement, les fonctions et les prérogatives de ses magistrats et toutes les lois et réglements qui se rapportent à cette institution”. Nell’edizione di questo Trattato il Delamare dilapidò il suo patrimonio, finendo in miseria.La sua opera fu proseguita e conclusa da Leclerc du Brillet.

10) – Duhamel – Henrì Louis Duhamel du Monceau : Ingegnere, Chimico, Fisico, Medico, Botanico, ed Agronomo francese (1700-1782).Membro dell’Accademia, scrisse, per l’Accademia delle Scienze moltissime monografie pubblicate sotto il titolo di “Descriptions des Arts et Métiers par l’Academie Royale des Sciences” (1761-1771).Fra le sue opere ricordiamo: “Traité de la fabrique des manoeuvres pour les vaisseaux, où l’Art de la corderie pefectionné” (Impr. Royale, Parigi 1747-1769); “Experiences sur quelques effets de la poudre à canon” (Mémoires de l’Accademie des Sci. 1750); “Tratado de cultivo de las tierras” (de Orga, Madrid 1751); “Avis pour le transport par mer des arbres, des plantes vivaces, des semences, des animaux, et de differents autres morceaux d’histoire naturelle” (1752); “Expériences et réflexions sur la culture des terres, faites pendant l’année 1752” (Guerin et Delatour, Parigi 1753); “Traité de la conservation des grains, et en particulier du froment” (Guerin et Delatour, Parigi 1753); “Supplement au traité de la conservation des grains, avec plusieurs mémoires d’agriculture adressés à l’auteur” (Guerin et Delatour, Parigi 1750-1761); “Traité de la culture des terres suivant les principes de M. Tull” (Guerin et Delatour, Parigi 1753-1761); “Traité des arbres et arbustes qui se cultivent en France en pleine terre” (Guerin et Delatour, Parigi 1755);”La Phisique des arbres où il est traité de l’anatomie des plantes et de l’economie végetale” (Guerin et Delatour, Parigi 1758); “Elements de l’Architecture navale ou Traité pratique de la construction des vaisseaux” (Jombert, Parigi, 1758); “Mémoire sur la garance et sa culture, avec la description des étuves pour la dessécher et des moulins pour la pulvériser” (Impr. Royale, Parigi 1757); “Ecole d’Agriculture” (Estienne, Parigi 1759); “Des semis et plantations des arbres et de leur culture” (Guerin et Delatour, Parigi 1760); “Die Nieuwe wyze van landbouwen, voorgeschreven door de heeren Tull….etc” (Houttuyn, Amsterdam 1762); “Prairies artificielles. Mémoire sur le fromental et la culture anglaise” (Lione 1762); “Elements d’Agriculture” (Guerin et Delatour, Parigi 1762); “Réflexions sur la police des grains en France et en Angleterre” (1764); “Histoire d’un insecte qui dévore les grains de l’Angoumois, avec les moyens que l’on peut emploier pour le détruire” (Guerin et Delatour, Parigi 1762); “De l’exploitation des bois, ou moyens de tirer un parti avantageux des taillis, demi-futaies , et hautes-futaies” (Guerin et Delatour, Parigi 1764); “A Treatise on ship-building and navigation” (Millar, Londra 1765); “Du transport, de la conservation et de la force des bois” (Delatour,Parigi 1767); “Traité des arbres fruitiers contenant leur figure, leurdescription, leur culture” (Saillant , Parigi 1768);”Traité général des pêches et histoire des poissons qu’elles fournissent” (Saillant et Nyon, Parigi 1769-1782); “Physica de los arboles, en la qual se trata de la anatomia de las plantas y de la economia vegetal” (Ibarra, Madrid 1772); “Tratado de las siembras y plantio de arboles y de su cultivo” (Ibarra, Madrid 1773); “Tratado del cuidado y aprovechamiento de los montes y bosques, carta, poda, beneficio y uso de sus maderas y leñas” (Ibarra, Madrid 1773); “La Fisica degli alberi in cui si tratta dell’anatomia delle piante e dell’economia vegetabile” (Palese, Venezia 1774); “Naturgeschichte oder ausführliche Beschreibung der Erdbeerpflanzen, aus dessen ‘Abhandlung von den Obstbannen besonders herausgegeben, und unmehrerer Vollständigkeit willen mit dem nötigsten vermehret” (Winterschmidt , Norimberga 1775);”Beschreibung der Weinstöcke……etc.” (Winterschmidt, Norimberga 1783); “Arte do Carvoeiro, ou Methodo de fazer Carvão de madeira” (Arco de Cego, Lisbona,1801); “Traité des arbres et arbustes que l’on cultive en France” (Michel, Parigi 1806-1819); “L’art de faire les colles” (Moronval, Parigi 1812); “L’art de raffiner le sucre” (Moronval, Parigi 1812); “Art du Savonnier où Maniere de faire differents espèces de savon” (Moronval, Parigi 1812); “Enciclopédie méthodique-chimique, de pharmacie et de Metallurgie” (Pauckoucke, Parigi, Plomtex, Liegi 1786-1815); “Art du Chandelier” (Moronval, Parigi 1818); “Art de l’amidonnier” (Moronval, Parigi 1820); “Réfléxions sur la policie des grains”.

11) – De Vargas – Eduardo Romeo , Conte di Vargas, Marchese di Bedemar: Imprenditore industriale che rilevò, nel 1806, dall’Intendenza Generale del Regno di Sardegna, le miniere di Monteponi, Montevecchio, e la fonderia di Villacidro, già della concessione mineraria dell’ingegner Carlo Gustavo Mandell, Console di Svezia a Cagliari. Autore di una: “Dissertazione sulle miniere di Sardegna” (Vignozzi, Livorno 1806).

12) – Stahl – Georg Ernst Stahl: Medico e Chimico tedesco (Ausbach 1660-Berlino 1734). Professore di medicina all’Università di Jena, poi Professore di medicina e chimica a Halle, dal 1693 al 1716, fu medico del Re di Prussia a Berlino. Fondatore della teoria del Flogisto, contribuì grandemente alla diffusione delle conoscenze chimiche del suo tempo. Scrisse: “Zymotechnia Fundamentalis” (1697); “Specimen Becherianum” (1702); “Fundamenta Chymiae Dogmaticae et Experimentalis” (1723)

13) – Baccio – Andrea Bacci o Baccio: Medico e Naturalista Italiano (S. Elpidio a mare 1524-Roma 1600). Insegnò Botanica e Farmacologia al Collegio della Sapienza di Roma dal 1567. Nel 1587 fu nominato Archiatra pontificio da Sisto V. Scrisse: “De Thermis, Lacubus, Fluminibus, Balneis, totius orbis, Libri VII” (Venezia, 1571); “Tabula simplicium medicamentorum” (Roma, 1577); “Tabula de Theriaca quae ad instituta veterum Galeni atque Andromachi inventa fuit” (Roma, 1582); “De venenis et antidotis prolegomena” (Roma, 1580); “De naturali vinorum historia, de vinis Italiae et de conviviis antiquorum, Libri VII” (Roma 1596, Francoforte 1607).

14) – Claudiano – Claudio Claudiano: Fu l’ultimo poeta classico latino. Da Alessandria giunse a Roma, nel 395 d.C. Amico e confidente di Stilicone , fu stimato dall’Imperatore Onorio, che lo innalzò al patriziato, e gli conferì l’onore di una statua nel Foro Traiano. Morì a Roma nel 404. Scrisse: “De Bello Gildonico”; “De Consulatu Honorii”; De Consulatu Stilichonis”; “Panegirici”; “De Raptu Proserpinae”; ” Gigantomachia”.

15) – Buffon – George Louis Leclerc, Conte di Buffon. Erudito francese (Montbard 1707-Parigi 1788). Fu l’autore di una immensa :”Histoire naturelle générale et particuliére avec description du cabinet du Roi” in 44 volumi (1749-1804). Nella stesura di quest’opera ebbe per collaboratori: Daubenton per l’Anatomia, l’abate Bexon per la Zoologia, Guyton de Morveau e Faujas de Saint Fond per la Mineralogia. Organizzò il “Jardin des Plantes”, già “Jardin du Roi”. L’Histoire del Buffon riscosse gran successo, tanto che l’autore fu denominato il Plinio del suo tempo. La sua celebrità eguagliò quella di Rousseau. Di lui si conoscono ancora: “Histoire de la Terre” (1749); “Histoire des Animaux”; “Histoire de l’Homme”; “Epoques de la Nature” (1778); “Histoire des quadrupedes” (1750-1776); “Histoire des Oiseaux” (1770-1783). “Histoire des Mineraux” (1783-1788); “Oeuvres Complétes”, in 36 volumi (1774-1804).

16) – Daubenton – Louis Jean Marie Daubenton : Naturalista francese (Montbaud 1716-Parigi 1800).Dimostratore presso il Jardin du Roi, fu titolare, nel 1742, della Cattedra di Zoologia Generale al College de France, e di quella di Economia Rurale a Alfort, nel 1778.Nominato, nel 1793, Professore di Mineralogia al Museo, e di Storia Naturale all’Ecole Normale, nel 1793. Nominato, nel 1799 Senatore, morì per apoplessia, durante una seduta del Senato, nel 1800. Membro dell’Accademia delle Scienze, nel 1760, e dell’Institut, nel 1795, collaborò con Buffon, alla preparazione dell'”Histoire Naturelle”.

17) – Macquer – Pierre Joseph Macquer: Tecnologo francese (1718-1784). Professore al Jardin des Plantes, contribuì notevolmente allo sviluppo della Chimica Applicata, in Francia. Si occupò, in particolare, dell’industria delle porcellane e della tintoria. Seguace delle teorie di Stahl sul Flogisto, ebbe una vasta conoscenza della Chimica, che si evince dalle sue opere: “Eléments de Chymie Theorique” (1749); “Eléments de Chymie Pratique” (1751); “Dictionnaire de Chymie” (1766, II ed.1778). Può essere considerato uno dei precursori della dottrina dell’affinità chimica.

18) – Becker – Johann Joachim Becher: Medico ed Alchimista tedesco (Speyer 1635-Londra 1682). Operò a Monaco ed a Vienna. Fu Professore di medicina all’Università di Magonza. Trasferitosi ad Haarlem, in Olanda, nel 1660, propose agli Stati Generali di quel Paese, un metodo per l’estrazione dell’oro dalle sabbie delle dune. Fu un precursore dell’idea del Flogisto, sviluppata più tardi da Stahl. Le sue idee sulla composizione delle sostanze, pur se sviluppate diversamente, sostanzialmente coincisero con quelle di Teofrasto Paracelso. Scrisse: “Physica Subterranea” (1669); e “Theses Chimicae” (1682).

19) – Pott – Johann Heinrich Pott: Chimico tedesco (1692-1777). Successore di Stahl come Professore di Chimica Teorica a Berlino, studiò i sali ed i solfuri metallici, e si occupò dell’industria della porcellana. I suoi scritti di Chimica Minerale furono tradotti in francese, nel 1753, sotto il titolo: “Litogeognosie où examen chymique des pierres et des terres en génèral et du Talc, de la Topaze et de la Stéatite en particulier, avec une dissertation sur le Feu et la Lumiére” e “Observationum et animadversionum chimicarum praecipue circa Sal Commune, acidum Salis Vinosum et Wismuthum” (Berlino 1739).

20) – Bertrand – Elia Bertrand: Geologo e Naturalista svizzero (1710-1790). Pastore della Chiesa francese di Berna, fu membro di molte Accademie, e consigliere privato del Re di Polonia. Scrisse: “Dictionnaire eryctologique où Dictionnaire Universel des Fossiles” (Avignone 1766); e “Recueil de divers traités sur l’histoire naturelle de la Terre et de Fossiles” (Avignone 1766); “La Filantropia” (Losanna 1738); “Memorie sulla struttura interna della Terra” (1752); “Saggi sugli usi delle montagne, con una lettera sul Nilo” (1754); “Memorie per istruire sui terremoti della Svizzera”.

21) – Wallerio – Wallerius Nicolaus: Scrisse “Tentamina physicochymica circa aquas termales aquisgranenses, quibus adjecta, ex anglico ab eo versa Roberti Boylei specimina historiae naturalis et experimentalis aquarum mineralium” (Londra Batavia 1699); “Tres elegantes tractatus de aquis medicatis” (Amsterdam 1718).

oppure – Johann Gotschalk Wallerius: Chimico svedese (1709-1785). Professore a Upsala fu uno dei pionieri della Chimica Vegetale.Scrisse: “Dissertatio de principiis vegetationis” 1751); “Dissertatio de artificiosa foecundatione immersiva seminum” (1752); “Dissertatio de origine oleorum in vegetalibus” (1761); “Decades binae Thesium Medicarum” (1741).

22) – Imperato – Ferrante Imperato: Farmacista e Naturalista napoletano (1550-1631 ?). Fondò un Orto Botanico e raccolse una collezione di minerali. Fu in corrispondenza con i più famosi naturalisti del suo tempo.Scrisse: “Dell’Historia Naturale” (1599), che è un catalogo ragionato di piante, minerali, e pietre preziose.Scrisse ancora: “De Fossilibus” (1672); e “Discorso sopra le mutazioni dei Paesi”. In quest’opera, uscita postuma, formula alcune teorie geologiche “inventate” posteriormente.

23) – Marrett o Merrett – Cristoforo Merrett: Medico e Naturalista inglese (Winchombe 1614-Londra 1695). Laureato ad Oxford esercitò, con molta rinomanza a Londra; fu membro del Collegio dei Medici e della Royal Society. Scrisse: “A letter concerning the present state of physick, and the regulation of the practice of it in this Kingdom, written to a doctor here in London” (Martin and Allestry, Londra 1665); “Pinax rerum naturalium britannicarum, continens vegetabilia, animalia et fossilia in hanc insula reperta, inchoatus auctore Christophoro Merrett” (Pulleyn, Londra 1667); “Self conviction, or a Enumeration of the absurdities, railings, against the College, and physicians in general (but not especially, the writers against the apothecaries)….etc. of a nameless person, and also an Answer to the rest of Lex Talionis, collected, and made by Christopher Merrett”; “A short reply to the Postscript etc. of H. S. , schewing many falsities in matter of fact, the impertinencies of his promised answers to some physicians with apothecaries to defame them, The R. S. and many learned men of our Nation, made by Christopher Merrett” (Allestry, Londra 1670); “A short wiew of the frauds and abuses committed by apothecaries, as well in relation to patients as physicians: and of only remedy thereof by physicians making their own medicines, by Christopher Merrett” (Londra 1670); “The Art of Glass (a translation of the ‘De Arte Vitraria’ of A. Neri), whereunto is added on account of the glass drops (given by Sir Robert Moray), made by the Royal Society Meeting at Gresham College” (Londra 1662).Scrisse poi ancora: “Raccolta di scritti riferiti al Collegio di Medicina” (1660); “Il carattere del perfetto medico, occhiata sulle frodi che commettono gli speziali” (1669); “Esperienze per impedire che i frutti cadano prima di maturare”; “Osservazioni sulla riunione della scorza al tronco dell’albero da cui è stata separata”; “Osservazione del peso dell’Aloe Americana” (1667); “Descrizione delle miniere di Stagno di Cornwall, e del modo in cui si lavora lo Stagno”; “L’arte di raffinare l’Oro e l’Argento” (1678).

24) – Agricola – Georg Bauer, alias Georgius Agricola: Erudito Umanista e Tecnologo tedesco (Glauchau 24/3/1494-Chemnitz 21/11/1555). Studiò Teologia, Filosofia e Filologia, ed insegnò il latino.Si addottorò in medicina a Padova, ma frequentò anche l’Università di Bologna.Tornato in Patria, nel 1527, esercitò la professione medica a Joachimsthal, nota città mineraria. Attratto dai minerali, ne studiò l’escavazione ed il trattamento, fino all’ottenimento dei metalli. Nel 1530 pubblicò un breve dialogo in latino, dal titolo: “Bermannus” (Bergmann = Minatore), che trattava dei concetti fondamentali dell’Arte Mineraria. Subì l’influsso di Vannoccio Biringuccio (Siena 1480-1539), che nel 1540 aveva pubblicato “De la Pirotechnia”, e ne riportò interi brani nelle sue opere. Trasferitosi a Chemnitz, parteggiò attivamente per la Chiesa Romana nelle discussioni con i partigiani della Riforma. Forse a causa d’una troppo accalorata discussione, morì d’apoplessia.Uomo di grande cultura classica, a differenza di Biringuccio, Agricola scrisse in latino, dilungandosi però in citazioni classiche greche e latine , che talvolta appesantiscono il testo.Insieme a Biringuccio può venir considerato uno dei fondatori della Minero-Metallurgia. Scrisse ancora: “De ortu et causis subterraneorum, Libri V”, che è un trattato di quella Scienza che oggi si chiama Geologia Dinamica e Stratigrafia; “De natura eorum quae effluunt ex terra, Libri IV”, che è un trattato di Idrogeologia; “De natura Fossilium, Libri X”, che è un trattato sui minerali : i “Fossilia”;”De veteribus et novis metallis, Libri II “, che è un trattato vero e proprio di Arte Mineraria , (“metalla” = miniere), tutti stampati a Basilea nel 1546, ed infine il “De Re Metallica, Libri XII”, pubblicato postumo a Basilea nel 1556.Quest’opera che è uno splendido trattato sia d’Arte Mineraria che di Minero-Metallurgia, corredato di ammirevoli esaurientissime illustrazioni, che è stato tradotto in svariate lingue, costituisce oggi un tesoro per chi lo possieda. Agricola scrisse anche opere di varia erudizione, fra le quali si ricorda: “De Mensuris et de Ponderibus Romanorum atque Graecorum” (Basilea 1533).

25) -Blancourt – Jean (o François) Haudicquer de Blancourt: Araldista ed Alchimista francese (nato in Picardia nel 1650-morto in carcere a Parigi nel 1704). Trasferitosi giovanissimo dalla natia Picardia, a Parigi, si dedicò a ricerche araldiche e chimiche, sostenendo di possedere alcuni segreti dell’Alchimia. Si occupò della Nobiltà della sua Regione, ma , accusato d’aver falsificato antichi titoli di nobiltà, fu condannato in perpetuo al remo delle Galee nel 1701, pena commutata nella prigione a vita, e la confisca dei beni. Scrisse: “Nobiliaire de Picardie”, nel quale inserì le falsità che gli procurarono la triste fine; “Recherches historiques de l’Ordre du Saint Esprit” (Parigi 1695); e “De l’Art de la Verrerie” (Jombert, Parigi 1697).

26) – Kunkel – Johann Kunckel, Barone di Loewenstjern: Chimico tedesco (Hutten 1638-Stoccolma 1703). Fu dapprima Farmacista dei Duchi Carlo ed Enrico di Lauenburg, e poi di Johann Georg II di Sassonia.Più tardi, su invito di Federico Guglielmo di Prussia, diresse, a Berlino, il laboratorio e la manifattura del vetro dell’Elettore di Brandemburgo. nel 1693 Carlo IX lo chiamò a Stoccolma come Consigliere delle miniere del Regno. A lui si deve la scoperta del Fosforo come elemento (già però individuato dall’alchimista Brand). Studiò i Rubini artificiali, e la fermentazione e la putrefazione, e fu il primo che fece delle osservazioni sull’azione della luce sulla vegetazione. Scrisse: “Offentliche Zuschrift von dem Phosphor mirabili…etc.” (Lipsia 1678); “Ars Vitraria experimentalis” (Francoforte 1679); “Collegium physico-chimico experimentale” (Lipsia 1716); e “Laboratorium Chymicum”, pubblicati postumi (Amburgo 1716).

27) – Glauber – Rudolph Johann Glauber: Chimico -Tecnico tedesco (Karlstadt 1604-Amsterdam 1670). Durante la sua attività, che si svolse in Austria, Germania, ed Olanda, fece numerose osservazioni sui composti salini, fra i quali il solfato di Sodio decaidrato, il “Sal Mirabilis” degli alchimisti, che in suo onore fu chiamato anche “Sale di Glauber”. Scrisse: “Tractatus de Natura Salium”, e “Tractatus de medicina Universalis”.

28) – Chaptal – Jean Antoine Chaptal, Conte di Chanteloup. Importante Uomo Politico e Chimico francese (Rogaret 1756-Parigi 1832). Laureatosi in medicina a Montpellier, esercitò la professione, ed insegnò Chimica. Divenuto, nel 1793, direttore della fabbrica di Salnitro di Grénoble, perfezionò e semplificò il procedimento di fabbricazione adottato. Fu Professore di Chimica all’Università di Montpellier. Ottimo chimico perfezionò le tecniche di fabbricazione dell’Allume, della Soda, e dell’acido solforico. Introdusse in Francia il “Rosso di Andrinopolis” ed un nuovo procedimento per il miglioramento dei vini. Membro de l’Institut, nel 1798, e del Consiglio di Stato, nel 1799, ebbe, nel 1800, il Dicastero dell’Interno. Promulgò un nuovo Codice del Commercio, diede sviluppo all’Industria, creò delle borse di studio, e promosse la cultura ed il benessere delle classi lavoratrici, sfruttando, a vantaggio del proprio Paese, le acquisizioni ed i progressi tecnici conseguiti in Inghilterra, sopratutto nell’utilizzo delle macchine nell’Industria. Fondò, a Compiegne, la prima scuola artistico-industriale, e contribuì a raccogliere, e classificare tutti i tesori e le collezioni di proprietà del Conservatorio delle Arti e dell’Industria. Promosse la costruzione di ponti, canali, e nuove strade, e liberalizzando la navigazione fluviale, diede un forte impulso all’Industria ed al Commercio. Costituì una commissione egittologica e stimolò la creazione di Cattedre ed Istituzioni Scientifiche. Tenne il Dicastero dell’Interno per quattro anni, fino al 1804. Nel 1805 fu eletto Senatore, e nel 1811 Napoleone I lo creò Conte di Chanteloup. Dopo “i Cento Giorni”, durante i quali fu Ministro di Stato e direttore del Commercio e dell’Industria manifatturiera, durante la “Restaurazione”, si ritirò a vita privata; ciònonostante fu nominato membro della Camera dei Pari. Scrisse: “Traité des Salpétres et des godrons” (1796); “Essai sur le perfectionnement des arts chimiques en France” (1800); “Essai sur le blanchissement” (1801); “Art de faire, de gouverner et du perfectionnement des vins” (1801); “Traité theorique et pratique de la culture des vignes” (1802); “Eléments de Chemie” (IV ed. 1803); “Chimie Appliquée aux arts” (1807, IIed. 1827); “Art de la teinture du coton en rouge” (1807); “Art des principes chimiques du teinturier degraisseur” (1807); “Chimie Appliquée à l’agriculture” (1823 e 1829); “De l’Industrie Française” (1829).

29) – Romé de l’Isle – Jean Baptiste Louis Romé de l’Isle: Mineralogista francese (Gray 1736-Parigi 1790).Segretario d’un distaccamento di Artiglieria francese in India, nel 1757 cadde prigioniero degli Inglesi a Pondichery. Lavorò per molto tempo a Tranquebar, San Thomas, ed in Cina. Tornato in Francia, nel 1764, visse a Parigi dando lezioni private. Scrisse: “Essai de Cristallographie” (Parigi 1772); “L’action du feu céntrale bannie de la surface de la terre et le soleil rétabli dans les droits” (1778 e 1781); “Cristallographie où description des formes propres à tous les corps du regne mineral …etc.” (Parigi 1783); “Des caractéres exterieurs des mineraux” (Parigi 1784); “Métrologie où tables pour sérvir à l’intelligence des poids et des mésures des Anciens … etc.” (Parigi 1781); “Sur les altérations qui surviennent naturellement à differents mines métalliques et particulièrement aux Pyrites Martiales” (1776). Pubblicò ancora, in varie riviste scientifiche, altre opere di Mineralogia.

30) – Targioni Tozzetti – Giovanni Targioni-Tozzetti: Naturalista toscano (Firenze 1712-Firenze 1783).Studiò a Pisa, dove insegnò all’Università. Collaboratore, a Firenze, dell’insigne naturalista Pier Antonio Micheli (1679-1737), gli subentrò nella Cattedra di Botanica, e nella direzione dell’Orto Botanico. Completò il catalogo dell’Orto che il suo Maestro aveva iniziato; ordinò e fu Conservatore della Biblioteca Magliabechiana. Propose utili provvedimenti per impedire le inondazioni dell’Arno, e si dilettò d’Archeologia, descrivendo gli oggetti d’arte e le antichità di Firenze. Scrisse: “Viaggi fatti in diverse parti della Toscana per osservare le produzioni naturali e gli antichi monumenti di essa” (1751-1754); “Catalogus vegetabilium marinorum”, apparso postumo (1826); ed altre pregiate pubblicazioni.

31) -Scolz – Beniamino Scholz: Medico e Chimico austriaco (Vienna 1786-Vienna 1833).Studente, dottore in medicina, assistente alla Scuola di Chimica, e Professore di medicina all’Università di Vienna, scrisse: “Lehrbuch der Chemie” (Vienna 1824); “Anfangsgründe der Physik” (Vienna 1816); Ueber Porzellan und Porzellanerde”.

32) – Linneo – Karl Linneus (Von Linné): Sommo Naturalista svedese (Roshult 1707-Upsala 1778). Primogenito del Parroco protestante della sua città, era stato dal padre destinato agli studi ecclesiastici. Appassionato però di botanica, trascurò tanto gli studi ai quali era stato indirizzato, che suo padre lo ritirò dalla scuola per occuparlo come sarto o ciabattino. Potè però proseguire gli studi, grazie al medico della sua città, il dottor Rothman, che considerate le sue attitudini lo indirizzò alla medicina , ed alle scienze naturali.Apprese dallo stesso dottore alcune nozioni di Fisiologia, iniziò a studiare medicina all’Università di Lund. Passato a quella di Upsala, Linneo si dibattè in ristrettezze economiche, finchè l’amico Olaf Celsius, Professore di Teologia, attratto dalle straordinarie conoscenze botaniche di questi, gli procurò sostentamento ed alloggio, insieme con l’incarico di studiare le piante della Bibbia. L’attenzione di Linneo fu attratta dai lavori di Sebastian Vaillant sulla struttura dei fiori. L’esame attento degli stami e dei pistilli lo condusse infatti a concepire un sistema di classificazione dei vegetali, basato sugli organi riproduttivi. La lettura del “Gamòs Phyton, sive nuptiae arborum dissertatio”, di Wallin gli ispirò il trattato sul sesso delle piante. Diventato coadiutore e supplente di Olaf Rudbeck, anziano Professore di Botanica all’Università di Upsala, incominciò ad insegnare in quella Università, nel 1730, e ad occuparsi di quell’Orto Botanico che riformò integralmente, introducendovi nuove specie vegetali. L’Accademia delle Scienze lo incaricò di effettuare una spedizione scientifica in Lapponia, nella quale percorse 8000 Km. Tornato a Upsala, al fine di impedirgli di studiare ed insegnare Botanica, gli si diede l’incarico di insegnare metodi di saggio dei minerali. Durante un’altra spedizione scientifica in Dalecarlia, ebbe modo però di farsi apprezzare per le sue dotte conferenze, che risultarono frequentatissime.Su consiglio dell’ecclesiastico Browallius, ripresi gli studi di medicina si laureò a Harderwijk, dopo aver frequentato, però anche ad Amburgo ed a Lubecca. Nuovamente in ristrettezze economiche, le superò grazie al Gronovius, che pubblicò a sue spese il suo “Systema Naturae”, e a Boerhave , che lo presentò a J. Burman, professore di Botanica ad Amsterdam. Il ricco banchiere G. Clifford, inoltre, gli diede l’incarico di gestirgli il suo magnifico giardino. Linneo, per provvedere di piante questo giardino, viaggiò in Inghilterra, nel 1736, dove fu in relazione con Sloane, Shaw, Dillenius e con Miller che operava nel Physic Garden di Chelsea. Tornato in Svezia esercitò come medico della Marina, e nel 1741 fu chiamato alla Cattedra di medicina all’Università di Upsala dalla quale, nel 1742 passò a quella di Botanica. Invitato da Ferdinando VI re di Spagna a recarsi a Madrid, ricusò, per non lasciare la sua Patria, mandando, in sua vece, uno dei suoi migliori allievi, il Löfling.Nel 1753 fu creato Cavaliere dell’Ordine della Stella Polare, decorazione mai prima concessa, in Svezia, ad un Uomo di Scienza.

Nel 1761 fu nobilitato con retroattività al 1757.Da allora si chiamò von Linné, e non più Linneus come prima. La sua presenza a Upsala richiamò folle di studiosi da molte parti del mondo, per cui la popolazione universitaria risultò triplicata. A 60 anni incominciò a perdere la memoria, e nel 1774, sofferse una emiplegia a carico del lato destro . Morì quattro anni dopo a Upsala , e fu sepolto in quella cattedrale.I suoi libri e le collezioni costituirono la dotazione della Linnean Society di Londra.Nella biblioteca dell’Orto Botanico di Madrid, fondato, sotto Filippo II, dal celebre medico Botanico-Farmacologo Andrés Laguna, son tutt’oggi conservate le lettere che Linneo inviò al Löfling durante la permanenza di questi colà. Lo stile di Linneo, contrariamente a quello di molti suoi contemporanei di tutto il mondo, risulta chiaro, preciso, essenziale se non laconico, caratterizzato dalla esattezza e dal rigore delle sue regole di classificazione. Scrisse: “Systema Naturae, sive regna tria naturae systematice proposita” (Leida 1735); “Fundamenta botanica, quae majorum operum prodromi instar theoriam scientia botanices per breves aphorismos tradunt” (Amsterdam 1736); “Bibliotheca botanica recensens libros plus mille de plantis lucusque editos” (Amsterdam 1736); “Hortus Cliffortianus” (Amsterdam 1737); “Flora Lapponica” (Amsterdam 1737); “Genera Plantarum” (Leida 1737); “Critica botanica, fundamenta botanica pars IV” (Leida 1737); “Classes Plantarum, seu systemata plantarum omnium, fundamenta botanica pars II (Leida 1738); “Oländska och Gotländska Resa” (Stoccolma 1745); “Flora Suecica” (Stoccolma 1745); “Flora Zeylanica” (Stoccolma 1747); “Hortus Upsaliensis” (Stoccolma 1748); “Materia Medica e regno vegetabili” (Stoccolma 1749); “Materia Medica e regno animali” (Stoccolma 1750); “Materia Medica e mondo lapideo” (Stoccolma 1752); “Amoenitates Academicaes” (Stoccolma 1749-1779); “Philosophia botanica, in qua explicantur fundamenta botanica” (Stoccolma 1751; “Species Plantarum” (Stoccolma 1753); “Mantissa Plantarum” (Stoccolma 1767-1771).

33) – Valmont – Jacques Christophore Valmont de Bomare: Farmacista e Naturalista francese (Ruàn 1731-Parigi 1807). Avendo compiuto, per conto del Governo, un viaggio di studio in gran parte dell’Europa, al suo ritorno (1756-1788), tenne erudite conferenze su ciò che aveva appreso circa la Mineralogia. Altre conferenze tenne più tardi (1791-1806) al Jardin des Plantes. Nominato Prefetto degli Studi del Liceo “Carlo Magno” di Parigi, unì quest’incarico a quello di Professore all’ “Ecole Céntrale”, dove insegnava già dal 1796. Essendo stato in relazione epistolare con Rousseau e Linneo, durante il “Terrore” temendo che l’eventuale scoperta dell’epistolario potesse nuocergli, lo distrusse col fuoco. Fu membro dell’Accademia delle Scienze. Scrisse: “Catalogue d’un Cabinet d’histoire naturelle” (Parigi 1758); “Extrait nomenclateur du système complet de minéralogie” (Parigi 1759); “Traité de Minéralogie, où Nouvelle exposition du regne minéral avec un Dictionnaire nomenclateur et des tables synoptiques” (Parigi 1762, II ed.1774); “Dictionnaire raisonné universel d’histoire naturelle” (Parigi 1765, V ed. 1800).

34) – Plinio – Caio Plinio Secundo , detto il Vecchio: Erudito Studioso latino (Como 23-Napoli 79 d.C.). Dopo aver studiato grammatica a Roma, intraprese la carriera militare. Combattè in Germania nel 45, e assurse al grado di “Praefectus Alae”. Per i suoi meriti militari ebbe il rango di “Miles Equestres”. L’Imperatore Tito lo nominò “Praefectus Classis Misenensis”. Come tale, durante l’eruzione del Vesuvio che distrusse Ercolano e Pompei, essendo accorso con la flotta sul litorale per portare soccorso alle popolazioni colpite dalla sciagura, ed essendosi avventurato a piedi il più vicino possibile alle bocche eruttanti del Vulcano, per osservare e studiare quel singolare fenomeno, morì asfissiato dai fumi e vapori del Vulcano. Scrisse: “Vita Pomponii Secundi libri II”; “De jaculatione equestris, unus liber”; “Bellorum Germaniae, libri XX”; “Studiosi, libri III”; “De Dubio Sermone, libri VIII”; “A fine Auffidii Bassi, libri XXXI”; “Historia Generalis Romanorum”; “Naturae Historiarum, libri XXXVII”.

35) – Scaligero – Giulio Cesare Scaligero: Medico e Naturalista veronese (Riva del Garda 1484-Agen ?). Prese parte alla battaglia di Ravenna del 1512. Studiò medicina a Bologna e colà si laureò negli anni 1515-1519. Passato in Francia, fu medico del Vescovo Angelo della Rovere. Scrisse una violenta satira contro Erasmo da Rotterdam e il suo “Ciceronianus” nel 1540. In quello stesso anno scrisse: “De causis linguae latinae”, che fu il primo tentativo scientifico di grammatica latina, ed ancora: “De Plantis”; “De Subtilitate”; “Poetica” (1561).

36) – Hoefer – Hubert Franz Hoefer: Chimico e Farmacista tedesco. Nativo di Colonia, fu direttore della Farmacia del Granduca Leopoldo I di Toscana. Nel 1777 scoprì l’acido borico nelle acque del Lagone di Monterotondo, detto il Cerchiaio, in provincia di Siena.

37) – Homberg – Wilhelm Homberg: Medico e Chimico olandese (Batavia 1652-Parigi 1715). Studiò Diritto a Jena e a Lipsia, e nel 1674 esercitò la professione di Avvocato a Magdeburgo, però subito dopo, su consiglio di Guerricke studiò medicina e Chimica. Si stabilì a Parigi, nel 1682, dopo aver viaggiato in Italia, Inghilterra, Francia, Olanda, Ungheria e Svezia. Dal 1685 al 1690 esercitò l’Arte Medica a Roma. Tornato a Parigi fu nominato membro dell’Accademia delle Scienze e direttore di quel Laboratorio. Nel 1702 fu Professore di Chimica e Fisica Sperimentale, e nel 1704 Protomedico del Duca d’Orleans. Studiò il congelamento dell’acqua, l’evaporazione nel vuoto, e il cloruro di Calcio fuso, la cui fosforescenza fu il primo a segnalare (Fosforo di Homberg). Studiò l’acido borico che isolò dal Borace, che per ciò fu chiamato “Sale Sedativo di Homberg”. Studiò ancora le proprietà del Fosforo, e la neutralizzazione delle basi con gli acidi. Perfezionò la macchina pneumatica ed il microscopio. Pubblicò, nell’Accademia delle Scienze, un gran numero di Memorie.

38) – Mascagni – Paolo Mascagni: Medico ed Erudito toscano (Pomarance 1755-Castelletto 1815).Studiò medicina, a Siena, e si dedicò all’Anatomia sotto la guida del Professor Tabarroni, al quale subentrò nella Cattedra Universitaria. Amico di Felice Fontana scrisse: “Vasorum Lymphaticorum corporis humani historia et iconographia” (1787). Nel 1801 insegnò Anatomia, Fisiologia e Chimica all’Ospedale di Santa Maria Nuova di Firenze. Pur essendosi occupato, oltre che di medicina, anche di Chimica e di Agricoltura, il Mascagni è oggi ricordato quasi esclusivamente come Anatomico.

39) – Crantz – Heinrich Johann Nepomucenus de Crantz: Medico e Botanico tedesco (Lussemburgo 1722-Vienna 1799). Professore di Botanica all’Università di Vienna. Scrisse: “Materia Medica et Chirurgia” (Vienna 1765); “Institutiones rei herbariae (Vienna 1766); “Classis Umbrelliferarum” (Lipsia 1767); “Classis Cruciformium” (Lipsia 1769); “Stirpes Austriacae” (Vienna 1769).

40) – Conte Napione – Carlo Antonio Galeani Napione dei conti di Coconato: Ufficiale di Artiglieria ed esperto minerario piemontese (1756 – 1814) Come Ufficiale d’Artiglieria fu inviato, negli anni 1787 – 1790 dal Re Vittorio Amedeo III a frequentare la scuola mineraria di Freyberg, sotto la guida del celebre Werner.

Dopo questo periodo il Napione visitò le principali realizzazioni minerarie di mezza Europa e, diventato Ispettore delle Miniere si occupò anche dei minerali della Sardegna. Questa sua attività lo mise in relazione col Mameli de’ Mannelli.

Avendo partecipato, durante la Repubblica Cisalpina, alla battaglia di Marengo come Ufficiale dell’Armata repubblicana, caduto Napoleone e ritornati i Savoia a Torino il Napione dovette esiliare in Portogallo e quì per le sue doti fu nominato generale d’Artiglieria. Trasferitosi al seguito della Corte portoghese in Brasile, morì a Rio de Janeiro.

Nel 1970 L. Bulferetti descrisse la sua personalità in: “I viaggi minerari di Carlo Antonio Napione innovatore nel Piemonte e nel Brasile”.

41) – Schwartz – Berthold Schwartz, al secolo Konstantin Anklitzen: Monaco Benedettino, Alchimista del Secolo XIV. Nato a Friburgo, fu uno dei primi a riconoscere, verso il 1310, l’importanza della Polvere Nera, di cui seppur criptograficamente, aveva già riportato la composizione Ruggero Bacone, come propellente per le armi da getto. Lo Schwartz è considerato, e come tale è commemorato in un monumento della sua città natale, l’inventore dell’artiglieria. Da alcuni documenti della Repubblica veneta risulta che Konstantin Anklitzen fornì a questa delle bocche da fuoco di grosso calibro, di sua fabbricazione, che furono impiegate dai Veneziani, contro i Genovesi , nella battaglia di “Fossa Caudeana”, presso l’attuale Chioggia.

42) – Cesalpino – Andrea Cesalpino: Medico e Naturalista toscano (Arezzo 1520-Roma 1603).Professò medicina e Botanica all’Università di Pisa. Chiamato a Roma fu medico di Papa Clemente VIII, e Professore al Collegio della Sapienza. Averroista, fu sospettato d’eresia e di ateismo, ma non subì persecuzioni. Studiò la circolazione sanguigna. Ancor prima di Linneo propose una suddivisione delle piante sulla base di una classificazione, e una nomenclatura.Si occupò anche di problemi di Chimica Applicata. Scrisse: “De Metallis” (1590), dove riporta interessanti osservazioni sulla cristallizzazione di varie sostanze.

43) – Camerario – Rudolph Jakob Camerarius: Medico e Botanico tedesco (Tubinga 1665-Tubinga 1721). Viaggiò molto per l’Europa, nominato Professore straordinario di Botanica e di medicina all’Università di Tubinga, nel 1668 fu anche direttore del locale Orto Botanico. Scrisse: “De sexu plantarum epistola” (Tubinga 1694), in cui tratta dell’importanza , e della funzione degli stami e dei pistilli nelle piante; e “De generatione hominis et animalium” (Tubinga 1715).

44) – Bauhino – Giovanni e/o Gaspare Bauhin: Medici e Botanici svizzeri (Basilea).

Giovanni (1541), fu allievo di Fuchs, Gesner, e Rondelet. Venuto in Italia, a Padova fu in relazione con Cortusi, Pasqualigo, Priuli , ed altri Botanici; a Bologna fu amico di Ulisse Aldovrandi. In Francia scrisse: “Historia Naturalis Plantarum Bauhini et Cherlerii”.

Gaspare. Anatomico che fu allievo, a Padova, di Fabrizio d’Acquapendente. Scrisse: “De hominis horatione” (1614); “Pinax theatri botanici” (1623); “Stirpium Sciagraphia et icones ex museo Dom. Cherlerii” ( 1666).

45) – Boyle – Robert Boyle: Chimico e Naturalista irlandese (Lismore 1626-Londra 1691).Settimo figlio di Riccardo, Conte di Cork, studiò a Eton. Viaggiò molto in Francia, Svizzera, Italia. Stabilitosi, nel 1654, a Oxford, si dedicò alla ricerca scientifica e fondò “The invisible College”, una società scientifica dalla quale derivò la “Royal Society” di Londra (fondata nel 1660). Trasferitosi a Londra, nel 1668, prestò opera assidua allo sviluppo della Royal Society, della quale divenne Presidente , nel 1680. Formulò la Legge dei Gas dal suo nome, ed emise una “teoria corpuscolare” per spiegare le reazioni chimiche che hanno luogo tra i corpi. Fu il fondatore dell’Analisi Chimica. Scrisse: “The scheptical chemist, or chymico-physical doubt and paradoxes, touching the Spagirist’s principles commonly call’d Hypostatical, as they are part of another Discourse relating to the same subject” (Prooke, Londra 1661); “Experimenta et considerationes de coloribus” (1663); “Tentamina quaedam physiologica” (1661); “The origin of formes and qualities according to the Corpuscolar Philosophy” (16667; “De specificorum remediorum cum Corpuscolari Philosophia” (1685).

46) – Dizionario Enciclopedico – Encyclopédie ou Dictionnaire raisonné des Sciences, des Arts et des Métièrs – D. Diderot et J. B. D’Alembert – 1762-1777.

47) – Reamour – René Antoine Ferchault de Réaumur: Fisico e Naturalista francese (La Rochelle 1683-La Bermondiere 1757). Inventore del termometro ad alcole e della scala termometrica dal suo nome (1730), si occupò dell’industria della porcellana, e di Chimica Applicata, però le sue più importanti ricerche concernono la Zoologia.Scrisse: “Mémoires pour sevir à l’histoire naturelle des insectes” (Parigi 1734-1742).

Fonti biografiche

1) – Biografia Universale antica e moderna – Gio Battista Missiaglia, Venezia 1822

2) – La Grande Enciclopédie – Inventaire raisonné des Sciences, des Lettres et des Arts – H. Lamirault et Cie.Edit., Paris.

3) – Enciclopedia Universal Ilustrada Europeo – Americana – Espasa Calpe, Madrid 1926.

4) – Enciclopedia “Larousse du XX Siècle” – Librairie Larousse, Paris 1928.

5) – Enciclopedia Italiana “Treccani” – Rizzoli e C, Milano 1929.

6) – P. Fedele – Grande Dizionario Enciclopedico – UTET , Torino 1934.

7) – M. Giua, C.Giua – Lollini – Dizionario di Chimica Generale e Industriale II Ed.

UTET, Torino 1948.

8) – A. Benedicenti – Medici, Malati, Farmacisti – Voll.I e II Hoepli, Milano 1947-1951

9) – M. Giua – Storia della Chimica – Vol. II di: Storia delle Scienze, di N. Abbagnano,

UTET, Torino 1963.

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