Tra i ricordi evanescenti, e certamente rielaborati dalle emozioni, della mia fanciullezza chiaramontese
emergono spesso gli artigiani, in particolare carpentieri e falegnami, fabbri e calzolai. A tiu Antoninu Falchi lo escludo dal numero, perché, avvicinandolo a distanza, quando passavo nella piazzetta dell’Avvocato, m’incuteva a momenti soggezione, a tratti curiosità, per la sua lunga e fluente barba bianca e per gli occhiali.
In certi momenti sembrava una statua michelangiolesca, protetta dalla vetrina della sua bottega di orologiaio, che pareva collocarlo un gradino più su degli artigiani. Se dovevo recarmi in piatta da tia Tarsilla, per acquistare dello zucchero, mi tenevo lontano, se invece dovevo recarmi da tia Nannedda Calzone, per farmi appunto qualche paio di calzoncini, o a casa de tiu Giuannandria o di giaju Pira, in carruzzu de ballas, passando per sa carrela de su putu, dovevo essere guardingo e più svelto per non provocare i significativi movimenti della sua faccia espressiva.
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28 Febbraio 2021
- Categoria:
cultura
Con vero piacere pubblichiamo quest’articolo di Mons. Pietro Meloni già vescovo di Tempio Ampurias e poi di Nuoro e ancor prima professore di Letteratura Cristiana Antica presso la Facoltà di Magistero di Sassari. Da laico sempre impegnato nell’Azione Cattolica. Oggi, in pensione, continua a studiare le figure più illustri del mondo cattolico sia laici che sacerdoti con brevi profili storici sul Settimanale Libertà, ma anche su accademiasarda.it.
In occasione del centesimo anniversario della fondazione dell’Università Cattolica pubblichiamo volentieri questo profilo di Battista Falchi che svolse in momenti cruciali della mia esistenza un’autentica supplenza “paterna” insieme alla sua indimenticabile madre Grazietta Cocco coniugata col chiaramontese illustre prof. Francesco Falchi, professore e Preside della Facoltà di Medicina dell’Università di Pavia e luminare a livello internazionale di Oculistica.
Battista Falchi è “ il personaggio più eminente del laicato cattolico della Chiesa Turritana del Novecento”, scrisse il vescovo Mons. Enea Selis nel terzo anniversario della sua morte, avvenuta a Sassari il 13 marzo 1988 (Libertà, 8 marzo 1991).
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Il carruggio quasi gemello di Carruzzu Longu, che s’inerpica come quello verso Monte de Cheja, è quello che stranamente vien detto Via delle Balle, espressione presumibilmente sorta nel Ventennio Fascista durante il quale l’uso dell’Italiano veniva comandato dai gerarchi, in genere maestri elementari, e di segretari del fascio, ugualmente maestri elementari come il Duce.
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Bentu malu e furiosu
de dimoniu putzinosu
bentu feu, malu e reu
chi ti mandighet s’inferru
e ti gitene a s’interru
e t’ingugliet su trainu
e non chirches Angelinu
chi est liju che i sa chera
deo ti fumo a tebachéra
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Sala d’attesa, tutte donne.
E poi lui. Cuffie nelle orecchie, occhi sul cellulare, gambe lunghe che stese vanno da un panchetto all’altro, diciotto, diciannove anni a dire tanto e mascherina messa a casaccio.
Le altre lo osservano stranite, io mi siedo e gli faccio un cenno.
“Per favore, puoi metterti meglio la mascherina.” dico e la frase non termina con un punto di domanda.
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Eravamo un gruppo di nove ragazzini, in Chiaramonti, nel rione de Sa Niera: nei pochi metri quadrati di via Garibaldi 17, il più grandicello era Giuanninu mentre Angelinu, Ico, Faricu quasi coetanei; le ragazze: Margherita, Giuannedda, Giuannina, Toiedda e Matteuccia, queste, mie sorelle. Si giocava insieme dalla mattina alla sera, scorrazzando tra la casa Grixoni e quella meno agevole dei fratelli Pisanu: Placida, Ottavio, Giulio, Toeddu.
Corsa, bagliaroculos, imbrestia (gioco al sasso piatto) monteluna e le ragazze, a brucio, saltellando ad una gamba dentro i quadrati disegnati con la carbonella.
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Un ringraziamento a tutti i compaesani che mi hanno fornito notizie su questa via storica del borgo, risalente alla sua fondazione di 761 anni fa [secondo il nostro archeologo principe Gian Luigi Marras] sia pure nella parte a pianoterra delle case a schiera che s’inerpicano in su Monte ‘e Cheja. Un particolare grazie a Carlo Patatu, a Mario Unali,che mi ha fornito le fotografie oltre che revisionato il testo, a Domitilla Mannu e al fratello Ettore Mannu che con grande pazienza mi ha fornito i nomi degli abitatori, integrati da Mario Unali e dalle altre persone citate. Senza il loro apporto non avrei potuto scrivere questo breve contributo della via regale del nostro borgo tardomedievale edificato dalla numerosa famiglia Doria nel momento in cui cacciati dai Catalani Aragonesi da Alghero, poi da Castelgenovese e, infine, da Casteldoria, sul nostro più vasto e alto monte (467 metri sldm) hanno deciso di arroccarsi per affrontare i nuovi conquistadores “inzuzzati” dal Papa Bonifacio VIII.
Tra i castellani oltre a Brancaleone Doria, che sposò in seconde nozze Costanza Chiaramonte, dalla quale rocca e castello presero sicuramente il nome, ma dalla quale non ebbe figli. Il figlio illegittimo glielo forni la concubina Giacomina-ci è lecito pensare del nostro borgo- che poi riuscì a farselo legittimare. Si trattava di quello che io chiamo Brancaleoncino, e non con il suo nome Brancaleone, andato sposo alla sardo-catalana Eleonora d’Arborea Bass-Serra e che seppe a momenti tener testa ai Catalani Aragonoesi che vigliaccamente chiamatolo a Barcellona per dargli delle benemerenze lo tennero prigioniero per sette anni e poi liberato per i buoni uffici della stessa moglie Eleonora governò il giudicato d’Arborea dopo la morte della moglie. (Angelino Tedde) Cfr, Marras in accademiasarda.it. Casula F. C. in Genealogia dei Doria.
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Era bella, colta ed emancipata. Il suo destino di grande donna, però, dovette pagarlo a caro prezzo. Si innamorò di Francesco, famiglia altolocata e provenienza da Gaeta, impiegato all’Ufficio del Registro in trasferta. Anche lui era preso, innamorato, appena ventenne, e per sposarla dovette vincere le resistenze della sua famiglia che voleva per lui un matrimonio migliore. I primi anni furono felici, ma presto iniziarono i problemi. Precisamente quando Nino (così fu sempre chiamato in famiglia Antonio), il quarto figlio, a diciotto mesi di vita manifestò i sintomi del suo male. Dolori alle ossa, una protuberanza sulla schiena, tremori e vomito. I medici lo danno per spacciato.
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