15 Ottobre 2016 - Categoria: memoria e storia

“Giovanni Serafino Taddei (1916-1991), domenicano, fondatore del Centro Famiglia di Sassari” di Angelino Tedde

Padre Giovanni Serafino Taddei (1916-1991)

Padre Giovanni Serafino Taddei (1916-1991)

Conobbi padre Taddei a Sant’Agostino negli anni Settanta, quando promosse il Centro per la preparazione alla famiglia di cui io e mia moglie fummo anche fondatori. Non ebbi modo di frequentarlo molto nonostante i corsi da lui organizzati e da noi frequentati. Lo conobbi maggiormente alla “Madonnina” di Cuglieri dove la prima settimana di luglio il Centro organizzava una settimana d’incontri con personalità laiche ed ecclesiastiche di un certo spessore. La conoscenza più intensa fu sicuramente nel viaggio a Medjugorje nel  1988 durante il quale avemmo la possibilità di conversare, anzi, visto che ero dotato di telecamera, lo intervistai nei pressi della parrocchia. Ci s’intendeva abbastanza anche se non fui mai suo famulo come la compianta Mariella P. e il marito Walter, G. Maria Vittoria F. e Giuseppe Pintus, la coppia Paola e Enrico G.. I quattro figli ed il lavoro mi assorbivano troppo per permettermi di trascorrere le serate al Centro e dare una mano. Lo frequentai anche nel movimento dei Cursillos di Cristiandad e, infine, feci un turno di assistenza nella sua camera prima che morisse. Ricordo che gli suggerii una preghiera così commovente che gli scesero le lacrime.
Proposi ad una frequentante del Centro, laureanda in Pedagogia, di fare una tesi sul Centro famiglia e sulla raccolta dei documenti.
In quella circostanza ebbi modo di conoscere i suoi riferimenti continentali per il Centro e le sue molteplici relazioni con Milano e particolarmente con l’Università Cattolica. La tesi è poi diventata un volume della collana da me diretta e promossa dal compianto senatore Nino Giagu Demartini. Infine, otto anni fa ebbi modo di postarlo in Accademiasarda.it, il mio blog.
Che cosa posso dire di lui a cent’anni dalla nascita?

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12 Ottobre 2016 - Categoria: memoria e storia, narrativa

“Il cane pastore della mia infanzia” di Mario Nieddu

Il Cane Pastore.

Il cane pastore di Mario NIeddu

Il cane pastore di Mario NIeddu

Mio padre l’aveva chiamato Veloce. Non so il perché, quel gomitolo non si reggeva sulle zampe e strisciava a mala pena sulla pancia. Non sapevo di che razza fosse, non mi importava proprio. Io ci giocavo a tutte le ore. E Veloce era contento di giocare con me.
A tempo debito mio padre iniziò l’addestramento. Cominciò con lo sfregargli il naso sulle pecore. All’inizio non sopportava l’odore della lana. Gli piaceva il latte e non fu difficile fargli fare la poppata direttamente dalla mammella di una pecora. Sempre la stessa. Quella, all’inizio recalcitrante, finì per adottarlo come un figlio e lui come tale la seguiva. Le altre pecore le prime volte erano infastidite dalla presenza estranea, ma poi si abituarono.
Veloce iniziò ben presto il suo lavoro. Si sentiva responsabile del gregge e ci viveva in mezzo a suo agio, come nella migliore delle famiglie.
Nei momenti di pausa dal suo impegno lavorativo, quando le pecore facevano il meriggio all’ombra di immense macchie di lentisco o durante la mungitura, avevamo modo di dedicarci ai nostri giochi. Avevamo convenuto un tenue fischio di riconoscimento. Correva da me e si lanciava tra le mie braccia. Era affezionato a me quanto al gregge.
Mio padre era soddisfatto di Veloce, era cresciuto bene, un vero pastore.
Ma un giorno scomparve. Mio padre non si capacitava, aveva perso un valido aiuto e il gregge un punto di riferimento. E io non mi davo pace. Inizialmente pensavamo che nell’arco di alcuni giorni sarebbe ritornato. Attendemmo invano. Pensai di tutto, anche che fosse morto, ma non mi rassegnai. Girovagai attorno al paese allontanandomi sempre più. Controllavo le varie greggi in cerca del mio cane. Ma inutilmente. Dopo alcuni mesi un compagno di giochi mi informa di aver visto il mio cane mentre prestava il suo devoto servizio ad un gregge, in località Padru’e Jobos. –Te l’ha rubato il tale- mi disse, sussurrandomi nome, cognome e soprannome. Mi descrisse anche le circostanze del furto, avvenuto durante la transumanza..
Ricevute le coordinate, mi recai nella zona. C’erano due greggi, molto distanti uno dall’altro. Veloce era in uno di quelli, in base all’informazione, ma non lo vedevo. Come ultimo tentativo feci il mio fischio e mi nascosi dietro una roccia di calcare bianco per non essere individuato dal padrone del gregge. Avevo paura.
Rimasi inginocchiato a guardare di tanto in tanto verso le greggi che si spostavano lentamente sul prato. Ed ecco Veloce, veloce come il vento venire verso di me. Si catapulta e mi abbraccia, in quella posizione sorpassa la mia statura. Posso dirvi che ero emozionato? Bene, il mio cane lo era più di me.
Il cane rimase abbracciato anche quando mi alzai furtivo. Nessuno ci aveva visto. Iniziai a correre con lui in braccio. Era pesante, ma correvo, correvo in discesa nelle mulattiere che mi portavano lontano, ma mi riportavano al mio gregge con Veloce. Dopo qualche chilometro di affannosa corsa rallentai il passo. Nessuno ci aveva seguito. Eravamo in salvo. Ma Veloce mi rimaneva abbarbicato addosso, e con lui abbracciato arrivai alla nostra capanna e al suo gregge…
Se ne sarebbe andato per sempre molti anni dopo, all’interno di un antro caliginoso. Anche negli ultimi momenti scodinzolava al mio fischio, e suoi occhi ormai senza luce erano bagnati.
Forse avevo dieci anni (ma non l’ho sognato)
Mario Nieddu

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12 Ottobre 2016 - Categoria: memoria e storia

Il riacquisto del sardo nella comunità giovanile di Perfugas di Mauro Maxia

mauro-2È appena uscito il saggio intitolato Il riacquisto del sardo nella comunità giovanile di Perfugas. Si tratta di una ricerca sociolinguistica che documenta e analizza un interessante fenomeno in atto da parecchi anni a Perfugas. La maggior parte dei giovani, diversamente dalla tendenza generale che si osserva nell’Isola, ha riacquistato l’uso del sardo dopo che le famiglie li avevano educati in italiano. La pubblicazione sarà presentata nella Biblioteca comunale di Perfugas venerdì 21 ottobre alle ore 19.

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11 Ottobre 2016 - Categoria: cultura, memoria e storia, storia

Sardegna da scoprire: i capitelli della chiesa di Santa Chiara in Cossoine di Tiziana Sotgiu Gassi

santa-chara-1La parrocchia di Santa Chiara in Cossoine (Sassari) rappresenta un interessante modello di confluenza di elementi stilistici diversi, interpretati attraverso un linguaggio popolaresco. Nelle strutture architettoniche e nelle decorazioni si realizza un ibridismo composto di motivi bizantini, romanici, gotico-catalani, rinascimentali e manieristi. Al suo interno e in un breve arco cronologico, si evidenziano caratteri distintivi e ben definiti di picapedrers, alcuni più legati al repertorio formale tardo-gotico, altri più trasgressivi.

Rappresentativi di queste produzioni sono i capitelli delle paraste dell’aula e delle cappelle laterali, in pietra lavorata a vista e riccamente figurati.

santa-chiara-2Partendo dall’entrata, a destra, si trova il capitello da parasta “Musico e danzatori”. La composizione è armoniosamente equilibrata e simmetrica, al centro è collocato il suonatore di liuto con un ballerino alla sinistra e una ballerina alla destra, distinti tra loro dalla foggia degli abiti. I due danzatori, dai capelli lunghi, tengono le mani ai fianchi. La decorazione prosegue con una rosetta per parte, quattro grandi petali a punte ripiegate contengono una rosetta più piccola a cinque petali.

Nel capitello successivo sono rappresentate due aquile in posizione frontale i cui artigli reggono uno scudo a testa di cavallo (o italiano), in cui è scolpito il trigramma cristologico ihs (Iesus Hominum Salvator), un trattino orizzontale sormonta l’astina della h formando una croce.

Nel primo capitello (a sinistra) è raffigurato un vaso centrale classicheggiante da cui spunta, in posizione frontale, la testa di un genio con braccia fitomorfe. La decorazione, di ascendenza toscana, trova il suo interlocutore più diretto nei capitelli da parasta della chiesa della Santissima Annunziata ad Arezzo di Bartolomeo della Gatta e di Antonio da Sangallo il Vecchio. Molto verosimilmente tra gli scalpellini sardi giravano delle guide pratiche che derivavano dai manuali dei grandi maestri come il Libro Grande di Giuliano da Sangallo. Nel capitello successivo due serafini con tunica reggono uno scudo di tipo italiano, all’interno sono scolpiti gli stemmi stilizzati delle famiglie nobiliari dei Montañas-de Flors. Nella parte alta sono inserite tre montagnole (la centrale sovrasta le due laterali), nella parte sottostante una rosetta frontale a otto petali.

Nella cappella della Purissima e Immacolata (a sinistra partendo dall’abside) è scolpita la scena, purtroppo danneggiata, dell’”Annunciazione”. L’arcangelo alato con i capelli lunghi, vestito di tunica, è inginocchiato in posizione frontale, colto nel momento in cui dà la notizia alla Vergine. Nella mano sinistra regge un cartiglio a forma di P, l’altro braccio, leggermente piegato, ha l’indice alzato nel gesto della benedizione o nel cenno di prendere la parola. Il messaggero è separato dalla Vergine da alcuni oggetti che rievocano il luogo dell’avvenimento: un vaso a due anse, un volto barbuto su una nuvoletta e un’arcata. La Madonna, con i capelli lunghi e la tunica, è inginocchiata, porta le braccia al petto accettando umilmente l’evento. A destra della scena, in posizione ieratica, si trova un profeta con lunga barba, che simboleggia la testimonianza della chiesa. I frati degli ordini mendicanti sono l’esempio, attraverso la loro vita, dell’adesione alla fede. Solo con la guida della Chiesa e dei patriarchi, gli uomini possono accrescere la loro fede per arrivare alla salvezza. Questo capitello, databile ai primi decenni del Seicento, è coevo a quello del “Musico e danzatori” ed entrambi sono contemporanei della struttura muraria in cui sono inseriti, ma se si confronta l’esecuzione, si riscontra che essi testimoniano la presenza di due diverse manifestazioni artistiche di picapedrers che crearono le decorazioni. Il capitello del “Musico e danzatori” segue la tradizione tardogotica attraverso una realizzazione simmetrica ed elementi grafici bidimensionali, mentre, l’”Annunciazione” rappresenta uno spazio più articolato rispetto alla tradizione tardo-gotica, dove l’esecutore si accosta alla scultura rinascimentale italiana. Egli, autore colto e non più picapedrer, realizza un ornato tardo manieristico, è interessato a creare i riferimenti iconografici e narrativi della storia attraverso la plasticità, utilizzando piani scalati e la disposizione di uno spazio; abbandona il fantastico e il simbolico per occuparsi di un avvenimento “reale”, che colloca in una spazialità anch’essa reale. Si tratta di una vera e propria mescolanza di espressioni e di linguaggi, una simbiosi di vecchio e nuovo che prende il nome di Plateresco.

Nell’altro capitello sono raffigurati due serafini alati con veste che mostrano il velo su cui è impresso il volto di Cristo. A sinistra si nasconde un serpente attorcigliato, mentre a destra è scolpito un frate francescano riconoscibile dalla chierica, il saio con cappuccio e il cingolo a tre nodi. Egli è rappresentato in atteggiamento da predica con il braccio destro piegato e l’indice alzato, come se volesse ammonire. Nell’altra mano tiene il libro sacro. Tra i due capitelli è stata creata una rispondenza narrativa: il peccato, rappresentato dal serpente, è lavato attraverso l’accettazione della Madonna che prepara e anticipa il riscatto; il Volto Santo simboleggia la salvezza con il sacrificio di Cristo, che rende attendibile e “storicizza” la predicazione del fraticello.

I capitelli della Capilla Mayor (Cappella della Madonna del Rosario) rappresentano uno splendido esempio di interpretazione, in ambito locale, dell’arte rinascimentale e manierista in cui ricorrono motivi di ascendenza toscana.

Il capitello di sinistra è decorato da una testa angelica, rappresentata con il volto frontale, i capelli fluenti e le ali spiegate; agli spigoli, sono collocate teste a mandorla di uomini barbuti. Prosegue un ornamento floreale e geometrico arricchito dal motivo a “perla” o a “pallina”. L’impiego di questo tipo di decorazione, utilizzato dagli scalpellini gotici del periodo rinascimentale, era già diffuso con il romanico ma diventa più consueto nell’architettura gotica tra la fine del Quattrocento e il Cinquecento proprio per la ricerca di maggiore enfasi spaziale e di semplificazione dei motivi ornamentali. Suddetto modulo decorativo fu adottato in Sardegna all’epoca di Filippo II a testimoniare il grande influsso dell’arte spagnola nell’Isola.

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7 Ottobre 2016 - Categoria: storia

Modelos de universidad en los dominios europeos de la monarquía hispánica (1550-1650) di Gian Paolo Brizzi

brizziEl amigo Gian Paolo Brizzi nos a tenido la cortesia  de publicar su discurso en los “Modelos de universidad en los dominios europeos de la monarquìa hispànica (1550-1850)”  en la Ciudad de México en los últimos días, en nuestro sitio accademiasarda de  cultura y  historia y lengua, para celebrar el octavo aniversario del nacimiento d’este blog que tuvo lugar el 8 de octubre de 2008. Le damos las gracias de todo corazón.

 messinaEntre 1550 y 1650 se fundaron en Europa más de 60 universidades y muchas de estas surgieron en los dominios de la Monarquía hispánica: si se exceptúa el mundo germánico donde la fractura de confesión tuvo un efecto multiplicador sobre los asentamientos universitarios, la Monarquía de los pequeños Austrias, sometida a insistentes demandas de los gobiernos locales, resulta en Europa la más activa incentivando la fundación de nuevas universidades y exportando, a su vez, el modelo institucional al Nuevo Mundo. A lo largo del extenso reinado de Felipe II se echaron las bases para una más sistemática oferta de instrucción superior. Se trató de un trámite complejo que requirió, en algunos casos, un esfuerzo que se prolongó durante varios decenios, pero que llevó, en el arco de tiempo aquí considerado, a resultados que modificaron sensiblemente la geografía del orbis academicus. Al inicio de su reinado Felipe II podía contar en los territorios europeos de la Monarquía hispánica con una equilibrada distribución de sedes universitarias: Catania en el Reino de Sicilia; Nápoles en el homónimo reino; Pavía en el Ducado de Milán; Lovaina en los Países Bajos. Con exclusión del Reino de Cerdeña, las principales presencias territoriales de los dominios hispánicos en Europa disponían, desde principios de siglo, de la presencia de un centro de la vida cultural y de la difusión de la instrucción superior; con todo, en la primera Edad Moderna las sedes universitarias de esos territorios incluso duplicaron su número. Esta actividad efervescente fue fruto de múltiples factores que maduraron durante la primera Edad Moderna y marcaron el inicio del abandono de la tradicional forma corporativa, anticipando la centralización del gobierno de las universidades, consideradas no ya como una realidad independiente del contexto de los otros lugares de instrucción, sino como segmento englobado en el conjunto del sistema de instrucción pública dependiente del Estado. Las universidades nacidas en los dominios europeos de la Monarquía hispánica en la primera Edad Moderna consienten individuar, comparando las nuevas sedes universitarias y las ya existentes, los factores de cambio que constituyeron un paso hacia la universidad moderna. El crecimiento numérico de las sedes universitarias fue fruto de extenuantes negociaciones, enérgicos conflictos entre las diversas partes en juego, elaboradas acciones de presión y hábiles mediaciones. Baste considerar, para mostrar cuanto hemos dicho, el tiempo transcurrido, en las universidades de las que trataremos, entre el primer proyecto y el concreto inicio de la actividad didáctica. Transcurrieron nada menos que 31 años entre la instancia presentada en 1531 por la junta ciudadana de Douai al emperador Carlos V –para satisfacer una exigencia muy sentida por la comunidad de hablantes en lengua francesa que vivían en las provincias meridionales de los Países Bajos- y la inauguración del nuevo Studium generale en 1562. Mucho más laborioso fue el nacimiento de las dos universidades sardas, Cagliari y Sassari: la primera hubo de esperar 83 años y la segunda 89 años. Proceso, por lo tanto, elaborado, donde nada se daba por descontado, entre otras cosas porque a menudo la petición de fundación se enfrentaba con la resistencia de los ateneos que ya operaban y que veían en cada nuevo asentamiento universitario una potencial reducción del propio papel. Junto a los tradicionales promotores de un nuevo Studium generale – patriciados urbanos, principes territoriales, corporaciones doctorales- a mitad del s. XVI asoma un nuevo sujeto, la Compañía de Jesús, que en pocos decenios realizó en Europa una red supranacional de universidades y semi-universidades. Otras órdenes religiosas se dedicaban a la enseñanza y otras se sumaron más tarde, tras el Concilio de Trento, aunque el papel de los jesuitas representó en el contexto de la instrucción pública una realidad realmente extraordinaria tanto por sus dimensiones, cuanto por los efectos que produjo. La universidad “batie en homme” (es decir constituida de hombres), como le gustaba definirla al jurista francés Ètienne Pasquier, para recordar la importancia del elemento corporativo como eje portante de las universidades tradicionales, del papel social y político de la clase doctoral, tuvo que medirse con la fuerza novedosa del modelo organizativo e institucional de los colegios creados por los jesuitas para ejercer la enseñanza pública. En los antiguos estados italianos el éxito de los jesuitas se encuadra en el clima general de afirmación del Estado confesional y avanza con el arraigo del dominio español; no fueron diversas las condiciones y las circunstancias que favorecieron la afirmación de los colegios de la Compañía en las ciudades universitarias de los Países Bajos españoles. Fue el virrey de Sicilia, Juan de Vega, quien favoreció el asentamiento en Mesina de los jesuitas para crear la segunda Universidad del reino; establecieron también buenas relaciones con el virrey de Nápoles, los gobernadores de Milán y los embajadores españoles en Roma. Fue una princesa de origen español, Eleonora de Toledo, mujer de Cósimo I de los Medici, quien los introdujo en Toscana, mientras que en Venecia se divulgaba la voz de que los jesuitas trabajaban al servicio del rey de España como espías. Excepto Roma, la propia geografía de sus asentamientos escolares revela dicha relación privilegiada: las escuelas más importantes se encuentran en las ciudades bajo dominio español: Mesina, Siracusa, Nápoles, Palermo; Milán se convertirá en la sede del principal colegio de Italia septentrional, debilitando así el papel monopolizador de la Universidad de Pavía. Para comprender plenamente el papel como promotor de institutos de instrucción superior y de un modelo organizativo e institucional alternativo al de las universidades históricas, podemos adoptar la distinción propuesta por Karl Hengst, el cual distinghe modalidades y papeles diversos, por ejemplo, pequeños colegios que disponían de alguna clase literaria y de alguna potencial enseñanza de filosofía, de los que no nos ocuparemos en este trabajo; colegios donde estaban presentes todas las materias previstas por la Ratio Studiorum, hasta las clases del curso teológico, definidas semi-universidad y que podían asumir, valiéndose de docentes externos para la enseñanza de las materias jurídicas y médicas, el estatus de una universidad, es decir, de un Studium generale, según el modelo de sus colegios de Graz, Paderborn, Dillingen, adoptando una fórmula de total independencia de cualquier autoridad externa.

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6 Ottobre 2016 - Categoria: memoria e storia

“Isola Rossa 82” Numero unico, ormai storico, curato e scritto da Angelino Tedde

isola-rossa_nCominciai a frequentare l’Isola Rossa dal 1971 e ogni anno predisponevo interviste e pezzi giornalistici  dal momento che penso che per un lavoratore intellettuale non esistano vacanze assolute. Sull’Isola Rossa ho pubblicato tanti servizi apparsi sulla Nuova Sardegna, particolarmente nell’agosto del 1974 e 1975, le due grandi pagine centrali, con foto e qualche poesia oltre che servizi. Nel 1982 decisi di pubblicare un numero unico con gli articoli che l’amico Antonio Maria Murgia da Pinerolo ha avuto la pazienza di copiare scrupolosamente. Tra non molto mi manderà anche le foto apparse su questo numero unico. Oggi questi pezzi, essendo passati ben 34 anni, possono considerarsi storici. Peccato che non possa recuperare tutti i servizi pubblicati sulla Nuova Sardegna che accrescerebbero sicuramente il prezioso bagaglio storico di questo numero unico dal titolo “Isola Rossa 1982”. Ricordo che la moglie del  pescatore Morlé, la signora Carmela Vitiello, vedendo il giornale, di 6 pagine, illustrato da tante fotografie dei pescatori e degli operatori, mi disse:- Professò, chissà quanti soldi ha fatto da questo giornale?- Risposi:-Signora, senza contare il mio lavoro, ci ho rimesso nella tipografia di Tempio, per 3000 copie, ben 700 mila lire!- Nella vita non tutto si fa pensando al denaro, ma ci sono ben altri e più nobili motivi per fare un lavoro intellettuale.-

Questi testi li offro a chi ama sapere la storia dell’Isola Rossa, spero che oggi (2016) qualcuno abbia il piacere di completarla scrivendo sul Porticciolo realizzato, sulla sabbia aumentata sia nella Spiaggia Longa sia all’ingresso del centro abitato. Allora si temeva che il Porticciolo avrebbe fatto scomparire la sabbia. Così non è stato, anzi è avvenuto il contrario!

L’Isola Rossa

La località dell’isola Rossa, situata a metà strada tra Sassari e Santa Teresa di Gallura, e ad appena 30 chilometri da Aggius e da Tempio. non è un’isola, ma una penisola, anzi la più bella tra le penisole che tempestano la costa che va da Castelsardo a Santa Teresa. Il nome deriva dall’isolotto rossastro, scoglioso, ma facilmente accessibile che le sorge d’avanti. Nel promontorio dell’Isola Rossa sorge una suggestiva e ben conservata torre costiera simile per forma e dimensioni a quella di Vignola e di Santa Teresa di Gallura. Da questa torre si ha una visione completa della penisola il cui dorso divide il mare in due bacini, quello della Marinedda a nord e della spiaggia “grande” a sud. Il centro urbano si estende per circa due chilometri quadrati e gravità sul versante sud della penisola, a ridosso sul mare. Le prime case e magazzini di pescatori sardi e ponzesi, sono sorte verso la fine dell’ottocento e i primi anni del novecento all’ombra della torre spagnola. Queste modeste abitazioni, negli ultimi anni, sono state man mano demolite e al loro posto sono sorte le case mono famigliari allineate, caratteristiche dei piccoli centri rurali e marinari che di anno in anno sono state sopraelevate e che oggi caratterizzano il primo nucleo storico dell’isola Rossa. Amministrativamente questo minuscolo centro marinaro è frazione del Comune di Trinità d’ Agultu da cui dista appena 6 chilometri. A 4 chilometri sono situate però le frazioni di Paduledda, più popolata dell’isola Rossa, e della Scalitta, più stazzo che frazione. Il centro urbano tuttavia, nei trent’anni, ma soprattutto nell’ultimo decennio, si è talmente sviluppato da assumere i connotati di un piccolo centro marinaro paragonabile per estensione territoriale al centro territoriale di Stintino, col vantaggio però delle due spiagge, al posto della della scogliera stintinese. Eppure l’isola Rossa conta appena 120 abitanti stabilmente residenti, le cui famiglie, quasi tutte imparentate tra loro, superano appena la decina. La quasi totalità degli abitanti si dedica stabilmente alla pesca, una minima parte, all’attività alberghiera e commerciale.

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4 Ottobre 2016 - Categoria: versi in italiano

“Laudato si” di San Francesco e “Salmo di lode e di ringraziamento” di Ange de Clermont

francscoOltre che una delle prime poesie in lingua volgare questa lirica è una delle più belle preghiere del mondo e non solo della Cristianità.

« Altissimu, onnipotente, bon Signore,
tue so’ le laude, la gloria e ‘honore et onne benedictione.
Ad te solo, Altissimo, se konfàno et nullu homo ène dignu te mentovare.
Laudato sie, mi’ Signore, cum tucte le tue creature, spetialmente messor lo frate sole, lo qual è iorno, et allumini noi per lui. Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore, de te, Altissimo, porta significatione.
Laudato si’, mi’ Signore, per sora luna e le stelle, in celu l’ài formate clarite et pretiose et belle.
Laudato si’, mi’ Signore, per frate vento et per aere et nubilo et sereno et onne tempo, per lo quale a le tue creature dài sustentamento.
Laudato si’, mi’ Signore, per sor’aqua, la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta.
Laudato si’, mi’ Signore, per frate focu, per lo quale ennallumini la nocte, et ello è bello et iocundo et robustoso et forte.
Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre terra, la quale ne sustenta et governa, et produce diversi fructi con coloriti flori et herba.
Laudato si’, mi’ Signore, per quelli ke perdonano per lo tuo amore, et sostengo infirmitate et tribulatione.
Beati quelli ke ‘l sosterrano in pace, ka da te, Altissimo, sirano incoronati.
Laudato si’ mi’ Signore per sora nostra morte corporale, da la quale nullu homo vivente pò skappare: guai a quelli ke morrano ne le peccata mortali; beati quelli ke trovarà ne le tue santissime voluntati, ka la morte secunda no ‘l farrà male.
Laudate et benedicete mi’ Signore’ et ringratiate et serviateli cum grande humilitate »

 

ange-de-clermontSALMO DI LODE
E
DI RINGRAZIAMENTO

di Ange de Clermont (1991)

Il cielo man mano s’imbianca
e tu, o Signore, dal sonno mi convochi
alla tua presenza per cantare le tue lodi mattutine
e darmi anche oggi certezza di vita.
Ti contemplo e ti amo mio Dio
Tu sei grande e non c’è nessuno come te.
Per me hai creato il cielo e le stelle.
Per me hai plasmato il sole e la luna.
Mi fai dolce il riposo dopo le fatiche.
Mi fai amare il lavoro dopo il riposo.
Provvedi a saziarmi come una madre,
mi rivesti con abiti adatti al mio corpo.
Mi raccogli pietoso dopo le sventure
e mi sollevi forte verso il cielo.
Mi hai dato una sposa feconda
che allieta la mia vita come il vino.
Belli e sani sono i miei figli
per loro sospirano le giovani donne
e festose li accompagnano
ai canti e ai balli.
Hai dato loro intelletto e vigore.
Mi hai dato una casa nel caos cittadino
per ripararmi con la sposa e i figli
mi hai donato una casa vicino al mare
per offrire salute a tutta la mia nidiata.
Mi hai concesso dopo cinquant’anni
di riavere una casa  al mio paese natio.
Da tutte queste case mi offri il tuo cielo
il tuo mare, le tue valli e i tuoi monti
il verde smagliante dei campi primaverili
il giallo estivo dei campi di frumento.
Al colle, nel mio settimanale riposo,
fai giungere l’abbaiare dei cani e il belato delle greggi.
Nella pianura circondata dai monti mi fai
udire i dolci flutti del mare.
Come non dirti grazie mio Dio
che mi hai raccolto orfano e indigente
e mi hai donato  con materno gesto
il calore dolce di una  sposa feconda
e tanti figli come olivi alla mia mensa.

Clermont, 1991

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28 Settembre 2016 - Categoria: memoria e storia

“Elisa Budroni ved.Lezzeri (Ch.1914): una donna longeva attraversa un secolo, funestato da due grandi guerre mondiali, continuando la sua serena esistenza, vivendo i suoi 103 anni” di Angelino Tedde

budroni-lisedda-1Elisabetta Budroni, nota Elisa, 102 anni ovvero la traversata di oltre un secolo.

Dalla nascita al matrimonio con Giommaria Lezzeri 1914-1937

Mentre a Chiaramonti, loc. Edras Carrelighedu, Elisa Budroni nasceva il 19 maggio del 1914, da Eliseo e da Antonia Piseddu, l’Italia non era ancora entrata a far parte della Grande Guerra, ma lo farà quattro giorni dopo che lei ebbe compiuto il suo primo anno di età, il 25 maggio 1915,  quartogenita di sette figli, (Vincenzo, Beniamino, Angelina, Elisa, Maria, Concetta, Mattea)  poté ricevere poche carezze dal padre, perché fu chiamato in guerra e, pur ritornato vivo (1918), quattro anni più tardi morì,  a causa delle terribili prove a cui era stato sottoposto durante il conflitto come sostiene il memorialista Giorgio Falchi.
Eliseo Budroni andò a raggiungere la schiera dei ventotto commilitoni chiaramontesi che avevano perso la vita in quella guerra. Quel tragico evento vide scomparire ben 13 mila sardi, su centomila chiamati a in guerra.

La vasta parentela paterna dei Budroni, di estrazione borghese agraria, non fece mancare mai la sua solidarietà alla famiglia, composta da due figli e da cinque figlie. Dai maschi alle bambine la famigliola di Antonia Melone, così era nota, alta e bella, robusta e attiva, prese coraggio e si diede da fare, per mandare avanti la famiglia, che abitava nella casa avita nel centro storico del paese, detta anche Carrela Longa.

Elisa alla morte del padre aveva compiuto i dieci anni (1924) e come tutti  i fanciulli e le fanciulle dell’epoca dovette contribuire con le sue energie  al ménage della famiglia, rivelandosi molto attiva e riservata.

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