Categoria : letteratura sarda

“Giovanni Corona: Il poeta e narratore che sentiva la voce del vento” di Leandro Muoni

Giovanni Corona

I territori della produzione poetica del Novecento in Sardegna, che nella vulgata o meglio nel detto popolare è tradizionalmente chiamata “terra di poesia”, riservano, a chi si avvicini ad essa con curiosità e interesse estetico, notevoli e piacevoli sorprese.

A fronte di tanti poeti dialettali, orali e non (usiamo qui il termine “dialettale” non certo con valore diminutivo ma con un accento nazionalitario, per indicare la poesia in limba),  consacrati dal favore di un pubblico variegato, anche dotto e selettivo; a fronte di tanti poeti fieramente dialettali – dicevamo – riscontriamo una nutrita pattuglia di convinti poeti in lingua italiana, che risponde alle attese di un pubblico di lettori più orientato verso il gusto macro-nazionale e moderno (intendendo per “moderno” un gusto più in linea con le correnti linguistico-culturali maggioritarie a livello generale nel Paese, e non viceversa minoritarie o di nicchia, come potrebbe essere l’”antimodernità” o la “postmodernità” programmatica di certa produzione identitaria locale di élite (ma questo non vuol dire, beninteso, che non esistano contemporaneamente anche produzioni letterarie di nicchia in lingua italiana).

Fra queste gradevoli sorprese si può annoverare la figura e l’opera di uno scrittore appartato (come del resto molti suoi corregionali e correligionari) però incisivo e insieme duttile, che ben rappresenta il legame con la civiltà letteraria italiana e al contempo con quella che, un po’ retoricamente e romanticamente ma in fondo attendibilmente, è stata battezzata come l’”anima di Sardegna”.

Questo poeta si chiama Giovanni Corona (1914 – 1987) di Santu Lussurgiu. Aprendo una parentesi, vogliamo qui pure cogliere l’occasione per ricordare un altro astro nascosto – non sembri intempestivo questo  accostamento – coetaneo di Corona e per così dire suo dioscuro e spirito parallelo del pieno e secondo Novecento: insomma un altro poeta dagli analoghi requisiti e stigmate culturali e in qualche misura tematiche, oltre che per il culto e la rigorosa scelta della lingua italiana.

Un culto e una scelta che non sviano né offuscano lo sguardo interiore rivolto alla propria terra, uno sguardo sempre memore dell’isola nativa, del sapore inconfondibile d’infanzia e appartenenza alla propria culla ambientale e culturale.

Questo autore e gemello diverso di Giovanni Corona, e suo compartecipe ai valori e al credito delle relative quotazioni critiche nel panorama del Novecento letterario sardo, e non solo, si chiama Sergio Manca (1922 – 1958) de La Maddalena. Con le sue raccolte “Il Gallo blu” e “La vita è caporale”, Sergio Manca ha intonato alla maniera di un controcanto armonico il proprio parallelo “richiamo d’amore” (il riferimento è chiaramente all’omonimo titolo poetico di Giovanni Corona).

Entrambi obiettori di coscienza ante litteram, antimilitaristi e pacifisti nel secolo breve e bellicoso, questi ineffabili autori, ma anche e soprattutto disperatamente innamorati della vita e degli affetti veri, sincere luci negli affanni, appaiono autentici “esistenzialisti positivi”: così potremmo chiamarli, infatti, desumendo la formula definitoria dal lessico filosofico di Nicola Abbagnano.

Tornando a Corona, si deve precisare che egli è rimasto fino a ieri un autore quasi totalmente inedito e postumo.Le sue prime prove e pronunce poetiche si inscrivono all’interno di quello che è stato il futurismo o meglio il tardo futurismo sardo alla fine degli Anni Trenta. Fu quella una breve stagione regionale nel segno patronimico della scuola di Filippo Tommaso Marinetti, corifeo della rivoluzione futuristica italiana, divenuto poi ben presto maestro e amico del nostro autore.

La piccola schiera dei futuristi sardi era guidata dal capofila dei marinettiani locali, il dimenticato anzi esecrato, perché compromesso col regime fascista, Gaetano Pattarozzi, autore del notevole “Aeropoema futurista della Sardegna” e direttore della rivista “Ariel”, poi trasformata in “Mediterraneo futurista”, organo del gruppo letterario “Sant’Elia”, col quale assieme ad altri autori Corona firmò nel 1939 il “Manifesto futurista agli studenti d’Italia e del mondo”. Seguirà a questa meteora iniziale un periodo di silenzio, editoriale ma non di creatività letteraria, fino al 1958, data  in cui si registrerà l’inclusione di una breve ma

significativa presenza di Corona in un’antologia a livello nazionale dal titolo “Poeti italiani del secondo dopoguerra”.Successivamente il poeta Arnaldo Beccaria dedicava su “La Fiera letteraria” nel 1964 una penetrante e insieme delicata composizione poetica a “Giovanni Corona Poeta sardo di Santu Lussurgiu”, in cui definiva con felice formula letteraria il collega isolano come “cenobita laico”.

La prima comparsa  di un testo poetico completo del nostro autore, e dalla misura non più solo frammentaria o antologica, la si deve allo sprone di un gruppo di amici e all’oculata iniziativa di Nicola Valle, che nel 1966 pubblica sulla rivista cagliaritana da lui diretta, “Il Convegno”, dedicandovi un numero o fascicolo, la raccolta esemplificativa delle poesie di Giovanni Corona intitolata “Ho sentito la voce del vento”, con introduzioni critiche di Antonio Cossu e Mario Ciusa Romagna, i quali inaugurano e apparecchiano le prime appropriate chiavi interpretative e di lettura del testo coroniano.

Dopodiché l’autore resta inedito fino al 1988, quando viene pubblicata, postuma, l’opera “Richiamo d’amore” e posteriormente “Sassi della mia terra” nel 1992, entrambe a cura del fine e compianto esegeta Renzo Cau, che è anche redattore rispettivamente di due illuminanti e lungimiranti introduzioni ai testi.

In seguito a questi due eventi letterari, per lodevole iniziativa dell’Associazione culturale lussurgese Elighes ‘Uttiosos e per il fattivo e amoroso interessamento dell’infaticabile nipote dello scrittore, Francesca Manca, e ancora col puntuale quanto perspicace contributo storico-critico e la curatela di Francesco Porcu, a riepilogo e coronamento di tre successivi e annuali convegni di studio sulla figura e l’opera di Giovanni Corona e tre edizioni del Premio Internazionale di Poesia a lui dedicato; in seguito a tutti questi eventi letterari –  dicevamo – vedeva la luce nel 2009 il volume documentario e miscellaneo “Giovanni Corona. L’uomo e il poeta nei percorsi della critica e dell’editoria”.

Così pure uscivano a breve distanza le une dalle altre le riedizioni delle raccolte coroniane “Ho sentito la voce del vento” (2010) e “Sassi della mia terra” (2011) e inoltre il libro di poesie introdotto da Paola Lucarini “Incontro al vento” (2014). Nel 2008 era già apparsa la silloge antologica comprensiva di alcuni inediti, prefata da Paolo Fresu, “Mi fioriva un’isola nel cuore”. E’ invece del 2020 il prezioso volume carrocciano “Giovanni Corona scrittore e maestro. Nuovi studi sul poeta di Santo Lussurgiu (1914 – 1987)” a cura di Simona Cigliana, del quale intendiamo parlare qui più diffusamente.

Simona Cigliana, italianista accademica come la maggior parte degli autori di questa miscellanea di “nuovi studi”, nel capitolo introduttivo al volume dal titolo “Un poeta e la sua isola”, traccia una breve e compendiosa sintesi della fortuna critica di Giovanni Corona, dove tra l’altro ricostruisce e risarcisce con garbo, esattezza ed esaustività la vicenda umana e culturale, l’ampiezza delle letture e dei riferimenti culturali e la fortuna critica dello scrittore.

Le tappe salienti e principali di questa letterale “approssimazione” o avvicinamento e avvistamento del poeta lussurgese da parte della critica e del pubblico sono state da noi già sommariamente ripercorse attraverso le precedenti annotazioni storico-biografiche e le vicende  editoriali delle opere di questo autore.

Ad esse si devono aggiungere le esperienze e gli studi riguardanti la vera e propria rivelazione del Corona narratore (oltre che poeta), in particolare la scoperta dell’unico romanzo che Corona ci ha lasciato (postumo):  “Scritto in prima persona polifonica approssimativamente tra il 1938 e il 1940 – avverte Silvia Boero nel suo saggio “Viaggio in e con la Sardegna: prosa e poesia di Giovanni Corona” – il romanzo fu intitolato dapprima ‘L’uomo è un uomo’”.

Riveduto e corretto per anni, terminato nel 1962 e pubblicato solo nel 2012, “’Questo nostro fratello’ è corale e intimista, straziante ed esilarante, un caso unico nel nostro panorama letterario”. Più in dettaglio, si tratterebbe – sempre per Silvia Boero – di “un’opera oscura, magnetica, che sfugge a ogni tentativo di incasellamento di genere; si passa dal Bildungsroman polifonico alla detective story, dal più graffiante neorealismo a quello che alcuni teorici definirebbero letteratura ambientalistica”.

Da parte nostra noteremo che la tematica e lo stile della redazione conclusiva di questo romanzo, iniziato a cavallo degli Anni Trenta-Quaranta e suggellato artisticamente soltanto nei primi Anni Sessanta, appaiono per tale periodo storico fortemente controcorrente rispetto alla narrativa sarda coeva, che si ispirava perlopiù a forme attardate di romanzo antropologico di marca umanitaria e sentimentale o si prolungava in una scia imitativa del romanzo deleddiano, stemperandosi in un deleddismo di maniera, e viceversa sembrano rapportarsi, caso mai, a esempi di narrativa italiana contemporanea compresi tra neorealismo e neoavanguardia.

Questo romanzo controcorrente rispetto alla produzione letteraria isolana del tempo apparirebbe – così suggerisce Silvia Boero – “reminiscente, nella tecnica narrativa del Faulkner di ‘The Sound and the Fury’” e per di più “percorsa da uno stream of consciousness alla Joyce  (entrambi all’epoca non ancora tradotti), sospeso come un ‘pasticciaccio’ gaddiano (all’epoca non ancora pubblicato), è dunque antesignano di tendenze in fieri”.

Silvia Boero si spinge fino a segnalare sul piano linguistico-stilistico che “l’autore  non esita a proporre un testo mistilingue comprensivo di sardo e italiano”. Le osservazioni di Silvia Boero sono molto acute e stimolanti, ma a nostro sommesso avviso forse prefigurano un rilievo alquanto anticipatorio di tendenze letterarie in fieri e in gestazione, che da parte nostra tenderemmo a identificare magari con modelli del passato riattualizzati o reinterpretati, piuttosto che con prefigurazione o presentimenti di istanze future. Specie se ci atteniamo alle forme della prima stesura del romanzo, quella degli anni Trenta-Quaranta.

Ad esempio, ci sembra che il pertinente riferimento al neorealismo non raccolga o contenga viceversa pure l’eco della grande prosa della scuola realistica o naturalistica ottocentesca: di un Flaubert o di un Maupassant o di uno Zola.

Tutto ciò – ribadiamolo – riferendoci alla prima versione, “Un uomo è un uomo”. Mentre nella seconda e definitiva versione degli anni Sessanta, “Questo nostro fratello”, il testo fa pensare piuttosto a Verga, e più tangenzialmente alla stessa Deledda, per quel suo taglio etico impregnato di antica e mistica religiosità, anche se l’opera coroniana si differenzia singolarmente e coraggiosamente dal deleddismo convenzionale e dall’accademismo antropologico della narrativa sarda di quegli anni.

Nel romanzo di Corona, specie in “Questo nostro Fratello”, ci trovi un fraseggio secco, spezzato, che fa pensare nei dialoghi a una sorta di rigore oggettivo e sticomitia tipica di un certo modo di narrare neorealistico. Senza dire poi che certi episodi del romanzo, specie nella prima stesura, che riteniamo per quel che ci riguarda perfino più interessante e intrigante di quella definitiva, come appunto lo è l’episodio della descrizione di una macabra e spettrale autopsia, ricordano in maniera impressionante la tecnica descrittiva e la tensione stilistica di un Poe o di un Baudelaire.

Quanto al prospettato accostamento con lo stream of consciousness alla Joyce e al mistilinguismo gaddiano, ci sembra forse indulgere oltremisura alla fascinazione critica: non vediamo infatti una vera commistione o contaminazione linguistica e di stili espressivi fra sardo e italiano, se non sul piano sintattico e della costruzione della frase, a livello di uso dell’italiano regionale, mentre lo stesso utilizzo del vocabolario sardo, peraltro piuttosto erratico, non ha valore ibridatorio o mescidatorio ma di semplice accostamento terminologico, in quanto l’autore preferisce piuttosto operare mediante interposizioni o inserti lessicali, quasi per scrupolo o gusto bilinguistico di traduzione e giustapposizione.

Come del resto conferma anche Renzo Cau, nel suo corposo libro saggistico e antologico “L’altra letteratura”, quando specifica che “Il racconto non disdegna equilibrate intrusioni del codice sardo, visibili nel lessico e nell’apparato sintattico”. Manifestandosi pertanto ancora culturalmente e non solo prudenzialmente differente o distante dal posteriore innesto e impasto “babelico” delle successive derivazioni e di lì a poco imminenti e sovrastanti tendenze della nuova narrativa regionale. Anche se non necessariamente e totalmente incompatibile con esse o ad esse alternativo.

Con tutto ciò, quello che sembra non tanto un tratto precursore ma piuttosto un ritrovamento e rinnovamento della tradizione, non impedisce al romanzo di Corona di essere un’opera comunque proiettiva e di gran classe, un esempio di schietta narrativa d’autore: che stimola non poco il “piacere della lettura”.

Dice bene Emanuele Pettener, nella brevissima e illuminante pagina critica dedicata a  “La prosa di Giovanni Corona”, che la sua è una “prosa viscerale, carnosa, pastosa: molto sensuale, nel senso che fa appello ai nostri sensi”. Ma si potrebbe aggiungere che fa appello  a un gusto, staremo per dire, “scientifico” e “razionale” dei sensi.

E da questo punto di vista, tornando al testo e alla pagina coroniana dell’autopsia, noteremo che riconosciamo in essa un gusto chirurgico-anatomico, una sensibilità quasi ossessiva della carne quale, se volessimo identificare a questo punto un precedente anticipatorio di tendenze successive, possiamo riscontrare nell’arte narrativa del compianto Giorgio Todde, che non a caso è anch’essa debitrice dello stile metafisico-carnale di Edgar Allan Poe (si veda in particolare il romanzo “La matta bestialità” dell’autore cagliaritano).

Ma veniamo finalmente ai testi di poesia, ai versi, insomma, del poeta che sentiva la voce del vento.  In un ampio saggio dal titolo “Il paesaggio di Sardegna si fa poesia: Giovanni Corona” Ilaria Serra esamina le “figure” del paesaggio sardo nelle composizioni di Corona che rappresentano “Non la Sardegna nella poesia, ma la Sardegna come poesia”. Aprendo così il discorso a una dimensione tanto ontologica quanto psicologica, a una ricerca del “paesaggio interiore”, del “sentimento del paesaggio”.

Qui lo “’spazio interiore’ e lo ‘spazio esteriore’ dialogano, coincidono e si rispecchiano” a vicenda. Estraendo, ponendo in essere e realizzando certe “corrispondences paesaggistiche, in senso baudelairiano”, che “sono estremamente sintetiche e metonimiche”. Ilaria Serra “scopre” sui “binari” di una “interpretazione geografica delle poesie di Giovanni Corona” il senso di pregnanti configurazioni.

Questi binari sono “quattro”. Il primo riguarda la “segnaletica” e la “toponomastica”. Poesie dunque dedicate a luoghi epicorici e itinerari odeporici segnati dalla geografia e dalla topografia.

Il secondo concerne le “poesie-camminata”, che “portano a passeggio il lettore fra acciottolati e sentieri, muri e case, erbe e alberi, venti e piogge”. Poesie ancora una volta squisitamente itineranti come “Il mio paese”, “Ho sentito la voce del vento” eccetera. Il terzo binario è “retorico e uditivo” e “analizza i suoni, le rime, i silenzi della Sardegna”. Poesie che “si riversano nella dimensione aurale”.

Il quarto binario interpretativo è “retorico-visivo”. Qui la “composizione fisica dei versi sul foglio dipinge un paesaggio” dell’anima. Poesie come “Scricciolo”, “Via Salvatore Cambosu”, “Odiai le grandi patrie”.

La vita, l’attività e la produzione poetica di Corona sono segnate da un evento che accomuna in un certo senso nella medesima condizione e dimensione psicologico-esistenziale il poeta sardo al grande rinnovatore della poesia italiana, Giovanni Pascoli: l’orfanità del padre in tenera età. Queste parole detta e scolpisce il poeta lussurgese: “Giovanni Maria Corona/ figlio di carradore/ orfano senza sussidi/ ha cominciato a morire/ dall’età di quattro anni”. La tristezza e l’abbandono, il sentimento della perdita di sé, lo smarrimento di fronte al mistero della vita, e al contempo il bisogno di rifugio nel grembo della natura sono tematiche dominanti di questo mondo poetico.

La ricerca dell’idillio, la contemplazione insieme alla movimentazione lirica dei ricordi e delle emozioni percepite nella “voce del vento”, estro incoercibile di Corona, il vento del suo paese, “su ‘entu lussurzesu”, il maestrale vivificatore e ispiratore dei fremiti e dei fiati della memoria sostanziano questa poesia.

Il paesaggio del Montiferru, il territorio di Santu Lussurgiu, il monte d’origine vulcanica, il mare del lambito contorno insulare, la dimensione rassicurante della casa nascosta e adagiata in una plaga d’anima sono gli elementi naturali dell’universo poetico di Corona. Sono “Lo spazio personale del poeta, delineato dai versi, come in una scatola cinese – cosi suggerisce acutamente Ilaria Serra –. Dal  mare all’isola. Dall’isola all’interno, il Montiferru. Dai monti al cratere. Dal cratere alla casa-pozzo”.

Spazio o meglio spazi e squarci paesaggistici che risultano poi essere le “stazioni” memorabili della “via crucis” poetica del nostro autore.

Le descrive bene Leonardo Sole, negli atti di un convegno sulla figura e l’opera di Corona, analizzando la natura e dimensione di “confine” che si colloca nella topografia ideale coroniana sulla linea dell’orizzonte lontano e sulla vicinanza del cuore: topologie che fanno appunto del nostro autore un poeta elettivamente “liminare”. Un poeta insomma di “frontiera” fra specialità culturale sarda e civiltà letteraria italiana.

Posizione che, per quanto ci riguarda, possiamo già scorgere in tutta la sua interezza nel capostipite della poesia sarda contemporanea, di inizi Novecento, ma con uno sguardo e un piede rivolti al passato tradizionale, ancestrale e simbolico, ottocentesco ma ancor meglio arcaico, che ricorda, per certi aspetti paralleli di similarità, la poetica dei felibristi mistraliani. Stiamo parlando di Sebastiano Satta.

Di Sebastiano Satta Corona possiede la sensibilità quasi femminea e casta del genius loci materno e l’apertura al discorso pedagogico e umanitario, alla sollecitudine, all’empatia e alla solidarietà sociale. Contaminate nel nostro caso da tutti gli umori e gli attributi della  grande poesia del Novecento.

Nei confronti della sua terra, del suo paese, il nostro poeta mantiene un atteggiamento contrastante: odi et amo: “Non mi dirai altre menzogne/ o mio paese,/ unico e solo/ tra questi scoperti monti”…”Sei sempre fermo/ all’odio/ e alla rapina/ come tanti secoli prima”. A questa immagine maligna e diabolica si contrappone la “casa” intesa come grembo, luogo della meditazione, riparazione e rifugio.

Canta allocutivamente di lui il poeta Arnaldo Beccaria, che aveva visto bene nel cuore della personalità coroniana: “O Giovanni Corona, nella tua/ stanzetta, la tua cella/ di cenobita laico”… “O Giovanni Corona,/ che, al contrario di me,/ hai trovato la luna in fondo al pozzo”.

Si possono riscontrare in questi paraggi e contesti testuali elementi e tracce di crepuscolarismo: nel rapporto con le cose, con i luoghi, le persone, con gli spazi del paese. In più ci ritrovi e riscontri un certo spirito indagatore e vivificatore che oltrepassa le   semplici “buone cose di pessimo gusto” (Corona è un lettore curioso e cultore appassionato di Guido Gozzano, e del suo crepuscolarismo ironico); spirito indagatore e vivificatore – dicevamo – che non reca quasi più le tracce di un labile modulo artistico giovanile di marca tardo futuristica, retaggio che non si è realmente depositato e non ha lasciato profonde e indelebili impronte nella coscienza poetica dell’artista.

Oltre il senso della fragilità incantata delle piccole cose e la loro crepuscolare “deposizione” sull’anima del poeta, appare in Corona un giubilo di epifania, che va al di là della carezza psicologica e della “simpatia” correlativa, per aprirsi un varco verso l’infinito e la trascendenza: “Mi fioriva un’isola nel cuore,/ annegava nell’anima un grande fiore di luce”: dove si avverte un certo fremito di infinito leopardiano. Il che accade diffusamente nei versi di Corona, come ha ben intravisto il curator maximus dello stesso Corona, Renzo Cau.

Ma registriamo qui anche le opportune osservazioni e precisazioni critiche sul piano di una non peregrina differenziazione rispetto a quel supposto spirito panteistico leopardiano postulato da Cau, apportate da Paolo Pillonca, il quale oppone alla pur fondata tesi del congeniale leopardismo di questa poetica la rettifica di una presenza della fede nel soprannaturale e nella trascendenza, insomma nell’afflato cristiano del divino, all’interno dell’opera e della poetica coroniana.

Da parte sua Francesco Porcu, inquadrando il problema critico, ripercorrendo e riproponendo la sintesi dei temi della poesia del nostro autore, annota a ragione tra l’altro come il “vento” sia il filo conduttore, il leit-motiv dell’intera opera coroniana: quel vento “sempre presente con la sua voce insistente, quasi una colonna sonora del mondo esterno, ma anche interno, del poeta”.

Porcu elenca i temi e i motivi della musa coroniana: il vento prima di tutto, e poi il paese, la morte, la fraternità universale, il rifiuto della violenza, la pace,la religiosità, l’amicizia, la solitudine, il male di vivere. Citeremo da parte nostra pure la memoria. A cui bisognerà aggiungere anche e soprattutto l’amore, che talvolta è vicino alla dimensione erotica, carnale e sensuale, ma perlopiù è sognato vagheggiato, agognato.

Infatti, come del resto annota lo stesso Porcu, “anche il tema della donna ha un largo spazio nell’opera” del poeta lussurgese. Il tema esaltante e angosciante, per meglio dire, della presenza-assenza della donna nella sua vita. Ma soprattutto “Il tempo e la morte sono il filo rosso di tutta la poesia di Corona”.

Quella morte che sembra nelle sue pagine più perfetta della vita, perché è eterna, infinita, definitiva, sottratta al moto e al degrado, al mutamento, al rischio, allo scandalo, all’errore, all’effimero. In quanto incorruttibile. Spalancata sul trascendente.

Ma un’altra assenza-presenza nella poesia coroniana è quella del padre: “Sentiva forte – rileva Porcu – il sentimento di privazione per l’assenza del padre nella sua vita, lui orfano in tenera età”.

E’ struggente questo “sentimento di privazione”, che denota e da cui trapela, come abbiamo già evidenziato, un certo parallelismo, una qualche suggestiva similarità pascoliana. Come si evince dalla splendida poesia “Io, tuo figlio”, una delle composizioni più belle, strazianti e luminose dedicate alla figura del padre fra gli esempi di tutta la lirica italiana del Novecento: “O padre, che non conobbi/ tanto/ da dire: questo è mio padre/ (…) Non so, o padre, spingere l’aratro/ non so guidare gioghi, e la mia angoscia/ è questa inerzia, o padre, questa voce/ che s’incarna alla tua e che mi inganna/ perché di te non resta altro che un nome”.

Interessante e rivelatorio appare poi – passando oltre – l’Epistolario di Giovanni Corona, cui dedica la propria attenzione critica Silvia Boero nel capitolo “Epistolario come romanzo di sé e degli altri”.

“Le sue lettere – attesta l’autrice – mai autoreferenziali, mai monologhi, confermano questo loro carattere di apertura su un universo comune ad autore e destinatario”. Ciò a dimostrazione che un simile rapporto epistolare si pone soprattutto come rapporto di complicità, secondo la concezione e la prassi classica.

Le lettere di Corona costituiscono la continuazione con altri mezzi del romanzo di formazione, che abbiamo visto tradursi brillantemente nella sua unica opera narrativa. Anzi, secondo Silvia Boero, si mostrano come un “Bildungsroman sui generis” vale a dire più propriamente e contemporaneamente come un “Zeitroman o romanzo d’epoca”, atteso che l’autore procede “storicizzando gli eventi che presenta, racconta, elabora”.

“Altro elemento da non trascurare – prosegue Silvia Boero – è la collezione di riferimenti letterari che scaturisce da questo Epistolario”. Ampio è il ventaglio degli autori con cui si confronta il poeta lussurgese. Lo scrittore sardo spazia dai “classici antichi a quelli italiani, ma anche agli autori e ai filosofi moderni”: per citare qualche nome mutueremo un parziale elenco dal repertorio individuato da Silvia Boero: “Bellow. Borges, Melville, Sartre, Pratolini, Pasolini, Gatto, Luzi, Lorca, Hemingway, Verga”. Da integrarsi con il ricco canone letterario esemplificato da Simona Cigliana in apertura del suo saggio preliminare.

Da questa galleria di personalità culturali di prima grandezza emerge come Corona fosse un lettore curioso e aggiornato e che, anche vivendo appartato nel suo nido di affetti isolano, fosse “schivo eppure socievole”. Aggiungeremo anche selettivo ed esigente.

Secondo una certa tradizione dei migliori scrittori sardi, che pur essendo spesso volontariamente “scrittori alla macchia” (formula attribuita da Michelangelo Pira a Bachiso Zizi, altro autore virtuoso oggi quasi dimenticato, ma che si può estendere a numerosi scrittori corregionali, narratori e poeti: e che solo attualmente sembra superata e scongiurata da una maggiore visibilità conseguita dalla nouvelle vague dei talenti letterari sardi contemporanei nel campo della narrativa, talvolta però a scapito, nell’affannosa rincorsa di molti tra le più giovani generazioni verso un successo commerciale, di quella serietà appartata dei padri, abbandonata per inseguire improbabili mode globalistiche).

Non intendiamo certo paludarci da laudatores temporis acti, riconosciamo il valore dell’autentica e quasi rivoluzionaria fioritura negli ultimi tempi di veri fuoriclasse, specie nella categoria dei narratori isolani, (non staremo qui a snocciolare nomi a tutti noti, mentre registriamo invece una preoccupante carenza di nuove leve e uno squilibrio gravemente sintomatico nel campo della poesia). Il fatto è che ci pare di scorgere un nuovo galoppante manierismo sulle orme di quella stessa nouvelle vague ormai storicamente acquisita e acclarata.

E proprio perciò oggi guardiamo con interesse e meraviglia, come “esercizi di ammirazione” (direbbe Cioran), alla vecchia guardia, specie quando sa rivestirsi di novità, riportandoci al tempo stesso alle radici ideali del nostro futuro. Come nel caso di Giovanni Corona, l’artista che sapeva fiutare e sentire la voce del vento.

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