“Il Ciclo della vita a Sanluri” di Rosanna Pisanu

Si parla e si scrive sovente di cicli. Ad esempio si dice ciclo della vita che comprende la nascita, le varie tappe dell’età, il matrimonio e la morte. Esiste anche il ciclo del tempo per indicare le stagioni: primavera, estate autunno e inverno. Ma esiste anche il ciclo liturgico che in genere collima col ciclo della luna. E potremmo continuare coi cicli. In questo capitolo della sua opera Rosanna Pisanu parla del ciclo della vita coi suoi riti conosciuti a Sanluri attraverso le testimonianze raccolte sul campo, letteratura o opere bibliografiche, ricerche di dati presso il Comune di Sanluri. L’argomento è interessante, ma occorre tener presente che si tratta di accenni alle tradizioni popolari, eventi di antropologia culturale che costituiscono una discipline interessante, ma abbastanza difficile da trattare da parte degli stessi  storici, antropologi culturali e etnologi. La nostra professoressa si è dedicata per quanto è nelle sue abilità ad effettuare questa ricerca che noi volentieri pubblichiamo fermo restando che non siamo specialisti ai quali spetta l’ultimo giudizio su questo lavoro di raccolta. (La Redazione).
Questo contributo è tratto dal libro di Rosanna Pisanu, Sanluri. Biblioteca della memoria.s.l  s.e. 2003, pp. 361
Il ciclo della vita a Sanluri pp. 17-27.
La vita moderna é assai diversa da quella dei nostri nonni: il nostro ritmo di vita poco o nulla concede al loro, scandito e misurato sul far delle stagioni, dove la vita stessa era assimilabile al tempo della terra: l’infanzia e la giovinezza per la primavera, l’età adulta della maturità per l’estate e la saggezza della senescenza per l’autunno e l’inverno. Nei post che seguiranno, si descriveranno usi e costumi dei riti di passaggio, ormai sempre più spesso affidati solo all’esile filo della memoria.
Nascita e infanzia
Nel passato non si disdegnavano le famiglie numerose: si mettevano al mondo dieci e anche più figli. Era da scartare l’idea di un unico figlio: “Abì dindadi unu è cummenti se non di siada nemancunu ( avere un solo figlio è come non averne). Nello spazio di un secolo, dal 1782 al 1881, a Sanluri nacquero 12.421 bambini, ma ne morirono 8.802. Nel decennio 1872/81 ci furono 1465 nascite, con una media di 146,5 per anno: il maggior numero si ebbe nei mesi di gennaio, febbraio, e marzo.
Gravidanza
Nella cultura popolare il periodo della gravidanza era ricco di spunti, dicerie e consigli di vario tipo, tesi a indovinare il sesso del nascituro o a evitare influssi negativi sullo stato di salute della madre e del bambino. Il desiderio da parte del padre di avere un figlio maschio, quale aiuto per il lavoro nei campi ed erede del patrimonio familiare, così come della madre e della suocera di avere una femmina, quale ausilio nei gravosi compiti domestici, aveva dato luogo a curiosi metodi di previsione del sesso del nascituro.
Si ricorreva allora, alla prova, notissima dello sterno di pollo detto “tira-tira”,spezzato tra un uomo e una donna, perciò se “la cuffia”, il pezzo più grosso restava all’uomo, il nascituro sarebbe stato maschio, altrimenti femmina. Anche l’aspetto della futura mamma era indicatore del sesso:se il ventre si presentava a forma molto sporgente sarebbe nato un maschio, il caratteristico simbolo fallico; se la rotondità era uniforme, sarebbe stata una femmina. Un altro metodo molto diffuso era quello di versare una goccia di latte in un bicchiere pieno d’acqua: se la goccia si spandeva sarebbe nata una femmina, se cadeva fino in fondo, rimanendo intatta, un maschio. E ancora, maschio se inavvertitamente la madre girava il mestolo verso destra, femmina se verso sinistra. Un altro, era quello di chiedere, improvvisamente, a una gravida che cosa era accaduto alle proprie mani: se questa guardava il dorso, sarebbe nato un maschio, altrimenti, una bambina. Si usava anche contare i chicchi di grano in un pugno ben pieno: i chicchi in numero dispari, annunciavano un maschio; pari, una femmina. Il bambino che si agitava molto nel grembo materno, era sicuramente un maschio, il movimento, infatti, era segno di virilità e potenza; se restava quieto, sarebbe stata una femmina. Alcuni osservavano il viso della futura madre: se la pelle era normale, il nascituro sarebbe stato di sesso maschile; se invece, era deturpata da macchie scure, sarebbe nata una femmina.
La nascita di un figlio maschio rappresentava sempre un avvenimento felice, la nascita di una bambina spesso era vista come un peso. Ne era testimonianza l’usanza ancora attuale di rivolgere a uno dei coniugi, e specialmente al marito, quando starnuta, l’augurio “fillu mascu”, mai, di figlia femmina: a questo saluto spesso si sentiva aggiungere “e trigu”: “Saludi, trigu e fillu mascu”, salute, grano e figlio maschio.
Ogni voglia materna doveva essere immediatamente esaudita, altrimenti, si sarebbe potuta interrompere la stessa gestazione, perché si riteneva che la voglia non soddisfatta, causasse l’aborto. Per evitare ciò, alla gestante era offerto tutto quello che lei vedeva; non solo cibi ma anche fiori. Non si doveva, inoltre, parlare in sua presenza di alimenti che non si era in grado di procurarle subito, tipo frutta e ortaggi fuori stagione, oppure dolci o cacciagione. La gestante appena, avvertiva il desiderio di qualcosa, doveva toccarsi in una parte ben nascosta del corpo per evitare di sfiorarsi in faccia: secondo la credenza popolare erano molto pericolosi i desideri di vino nero, perché la macchia poteva apparire in una zona molto estesa del corpo; terribile nel viso. Era ritenuto molto pericoloso anche il desiderio di carne di maiale o di cinghiale; perché, oltre alla solita macchia, potevano apparire anche le setole. Qualsiasi malore della madre era interpretato come un desiderio non esaudito.
Durante la gravidanza non doveva scavalcare la corda dove era legato il cavallo al pascolo, altrimenti avrebbe portato il bambino per dieci mesi. Si riteneva, inoltre, che lo scavalcare una catena o una corda potesse comportare, durante il parto, il rischio dell’annodamento del cordone ombelicale intorno al collo del nascituro. Non doveva, pertanto, portare cordoni o altro intorno al collo, né catene, né legacci o addirittura, se stava cucendo, neanche la gugliata del filo perché al momento della nascita il cordone ombelicale avrebbe strozzato il bambino. Non poteva più dare da mangiare a un asino, altrimenti la gravidanza si sarebbe prolungata per tredici mesi, portando in grembo un feto morto. Una donna incinta non poteva far da madrina, né per Battesimo, né per Cresima perché si credeva che il suo o l’altro bambino, sarebbero morti.
Tre mesi prima del lieto evento si provvedeva al corredino: questo accadeva, solitamente, solo per il primo figlio e pertanto, doveva comprendere diversi capi anche piuttosto resistenti che sarebbero serviti, in seguito, anche per gli altri figli. Il corredino “sa spogliedda”, consisteva in alcuni capi: camisèdda, giponèddu, pannizzu, bistireddu, brabissa (camicetta, giubbottino, pannolino, vestitino, bavaglino;era usanza regalare la prima camicetta come portafortuna. Seguivano un gran numero di lenzuolini, copertine e indumenti di lana. Le nonne (is aiaiasa) si prodigavano nel dare consigli e nel procurare tutto l’occorrente.
Alcune settimane prima del parto, la donna insieme con i propri familiari, “imbiancava”la casa e la ripuliva da cima a fondo. Svuotava il materasso di crine, ne lavava la fodera e lo riempiva nuovamente con la stessa fibra, lasciata all’aria e cardata per liberarla dalla polvere e renderla più soffice.
Le nostre ave solevano partorire davanti al focolare della casa, in “sa stoia”o in una pelle di capra o d’agnello conciata: l’origine di quest’antica usanza è da collegare ai Lari, dèi protettori della casa e del focolare, cui erano offerti i neonati. Preparava, infine, la biancheria necessaria per il parto. Finite queste fatiche, poteva riposare e attendere la nascita del figlio.
Dopo i nove mesi di gravidanza, contati però secondo nove lunazioni, giungeva il momento del parto. Protettrice delle partorienti era Sant’Anna; si chiedeva sempre il suo aiuto esclamando questa invocazione:
Sant’Anna mea, Sant’Anna
In corte celestiale
Seisi sa prusu manna.
Oppure:
Sant’Anna, Sant’Anna,
sa mamma nostra manna.
Di solito non s’andava in ospedale; era l’ostetrica, che avvisata prontamente assisteva al parto. A Sanluri dal 1939 al 1981 prestava servizio come ostetrica Scanu Anna; dal 1947 al 1976 Scanu Doloretta; dal 1945 al 1980 Scanu Maria e signorina Graziosa.
La gravidanza era quasi sempre bene accettata dalle donne ma diventava una tragedia se erano ancora nubili e non si prospettava il matrimonio (nel decennio 1872/1881 si registrarono 13 nascite illegittime su 155 legittime). Per queste ragazze la vita non era facile: i più anziani raccontano che, anticamente, a loro era riservata una crudele punizione come testimoniava un grosso masso granitico, sa pedra de sa bregungia , posto, fino ai primi decenni del Novecento, a fianco del Palazzo municipale. Le ragazze madri, per questa loro “grave colpa” venivano accomunate ai malfattori e ne subivano la stessa condanna: erano condotte a forza, spesso anche dai parenti stessi, il padre o i fratelli che si sentivano disonorati, per essere incatenate, a questo masso; vi venivano lasciate anche per più di ventiquattrore, alla berlina di tutti i passanti che potevano, non solo oltraggiarle con parole volgari, bestemmie e percosse ma anche sputarle in senso di disprezzo.
Nascita
Nato il bambino, si versava dell’acqua tiepida dentro un recipiente di ferro smaltato o di terracotta, poggiato su una sedia capovolta. Prima di immergervelo, il padre vi gettava una manciata di monete, da dieci a trenta lire; era il compenso per l’ostetrica.
Il bambino, che nasceva “Cun sa camisa”, detta la “Camicia della Madonna” era ritenuto molto fortunato: “Nato con la camicia”, si credeva, infatti, che questa possedesse molte virtù, fra cui quella di guarire diverse malattie. Si tamponava l’ombelico con tabacco in polvere; s’appoggiava una moneta per schiacciarlo, impedendogli così, una volta seccato di venir fuori e si fasciava strettamente l’addome. L’ombelico era custodito gelosamente, mentre la placenta era sepolta sotto una pianta d’agrumi, possibilmente lontano da dove avrebbe poi, giocato il bambino; non doveva, infatti, mai passarci sopra.
Il bambino era coperto con una fasciatura stretta che lo avvolgeva completamente dal collo ai piedi: le braccia e le gambe non avevano nessuna libertà di movimento. Dopo alcuni giorni, la fascia interna, quella che immobilizzava le braccia veniva tolta ed era lasciata “sa fasca”, la fascia esterna, anche questa impediva di muoversi liberamente; solo la testa, in effetti, era libera. Questo rispondeva a una precisa esigenza: infatti, appena la mamma riprendeva le forze, riprendeva il lavoro in campagna e portava con sé il neonato, trasportandolo in un cesto. Lo depositava ai piedi di un albero, ogni tanto, gli dava un’occhiata, interrompendo il suo lavoro solo al momento della poppata. Ritenevano, quindi, necessario per la loro stessa incolumità, che i neonati stessero immobili, inoltre, si pensava che il fasciare strettamente insieme le gambine, contribuisse a farle crescere diritte e perfette.
Questo metodo di fasciatura durava tre mesi. Era ritenuto indispensabile per la sua crescita armoniosa e per evitargli “sa carr’e segada”: i dolorini che potevano provocargli chi lo prendeva in braccio in modo maldestro. Come pannolino si preparava un panno di picchè che veniva steso sul letto e sopra, si sovrapponeva un altro di spugna o un trapuntino e un telino. Il tutto, inserito tra le gambine del bimbo, era sovrapposto, chiudendo le varie parti. Non gli mancava mai la cuffietta: di giorno, se le giornate erano fredde, ne indossava addirittura, due: una esterna finemente ricamata e sotto, un’altra di picchè felpato, rifinito con un piccolo pizzo che sporgeva dall’altra cuffia. Ne indossava una anche di notte per evitargli il mal d’orecchie.
La madre restava a letto per sette giorni, accudita amorevolmente dai parenti che cercavano di non farle mancare niente e di farla riprendere in fretta dalle fatiche del parto con gustosi brodi di gallina vecchia. Il settimo giorno si alzava, faceva un giretto per la casa, ma non poteva uscire, per nessun motivo. L’ottavo giorno invitava a pranzo la donna che l’aveva aiutata durante il parto: questa accendeva un piccolo fuoco su una tegola, vi spargeva degli aromi (zucchero, caffè…) e invitava la puerpera a saltarlo per ben tre volte, mentre si pronunciavano queste parole: “Forti che ferru” (che tu divenga forte come il ferro). Un antico proverbio sardo, infatti, ammoniva le puerpere con queste parole: < A sa femina partorscia stadi sa sepoltura caranta disi abetta>, cioè, la puerpera resta in pericolo di vita per quaranta giorni. Durante il periodo del parto e del puerperio, la suocera assumeva la direzione della casa e ne diventava la diretta responsabile.
Seguendo la tradizione, al primo maschio spettava il nome del nonno paterno, e alla prima femmina, quello della nonna materna. Al secondo maschio, il nome del nonno materno, ed alla seconda femmina, quello della nonna paterna. Quest’usanza del nome, più che una scelta, era un obbligo. Per gli altri figli si ricorreva ai nomi dei santi più venerati o a quello dei padrini. L’imposizione del nome avveniva il terzo giorno, dopo la nascita, e si rendeva pubblico solo dopo che il padre lo aveva registrato all’anagrafe. L’augurio che si faceva ai genitori era: “A ddu bì mannu e bonu” e loro rispondevano “Deus bollada!
IL BATTESIMO
Prima che fosse battezzato, il piccolo non doveva essere baciato, né chiamato per nome, né poteva ricevere regali: tutto doveva essere rimandato a dopo. Il neonato si doveva battezzare entro quindici giorni dalla nascita; battezzato entro le ventiquattrore, avrebbe liberato un’anima del purgatorio che sarebbe stata portata dagli angeli in Paradiso.
In tutta segretezza si sceglievano i padrini. Il comparatico, detto anche il San Giovanni “su Sant’Uanni”, era ritenuto un vincolo sacro. Anticamente, i padrini per il primogenito erano “is aiaius”, i nonni. In sardo antico, infatti, “aiaiu” significava padrino. La scelta, in seguito, molto raramente, cadeva su persone provenienti dalla stessa famiglia; si preferiva scegliere estranei e di diverso ceto, spesso, notabili del posto. La richiesta ai padrini andava fatta dal padre del neonato che si recava di pomeriggio a casa loro. Lo ricevevano nella camera buona, chiamata “sa stanz’e prandi” e qui, faceva la richiesta, “Seu beniu a domandai sa caridadi de fai fillu miu cristianu”.
Wagner riporta nel suo libro “Vita Rustica” che anticamente, la frase che si utilizzava in quel frangente era: “Seu beniu ca teneusu genti noba, se ddi fai sa caritadi de fai unu moru cristianu”.Questa formula era di sicura derivazione spagnola.
La richiesta di solito, era accettata: era, infatti, disonorevole da entrambi le parti, un rifiuto.
I primi anni di vita dei bambini
La vita dei bambini era segnata da un susseguirsi di riti che servivano a preservarlo dalle avversità. Un bimbo con meno di un anno non era mai posto davanti a uno specchio perché si tramandava che in esso si nascondesse un’entità che gli avrebbe rubato l’anima. Tale superstizione parrebbe trarre origine dal fatto che il piccolo Dionisio (divinità greca, il cui culto era stato introdotto in Sardegna, quasi certamente da tempi antichissimi da popolazioni orientali) fu fatto a pezzi, cotto e divorato dai Titani proprio quando si guardava in uno specchio e fu attirato nell’inganno con una sfera, un astragalo e dei sonagli. Alla stessa credenza può essere legata la superstizione che rompere uno specchio porti male.
Prima dell’anno non dovevano mai far toccare fiori ai bambini perché credevano che sarebbero morti in tenera età. Le mamme, che avevano un figlio d’età inferiore a un anno, il giorno di “Corpus Domini” sostavano di fronte alle Cappelle preparate per l’occasione nelle strade del paese. Aspettavano con trepidazione che il sacerdote, finita la benedizione, si sollevasse dal cuscino per poterci appoggiare per tre volte consecutive i bimbi, segnandoli, ogni volta, con un segno di Croce.
Se la mamma doveva occuparsi d’altre faccende o recarsi in campagna, nei periodi di maggior lavoro, portava il figlio con sé oppure lo affidava ai fratelli o alle sorelline più grandi: il bambino imparava così a essere autonomo.
La natalità era altissima e le famiglie veramente numerose ma sopravvivevano solo gli individui più forti e robusti. La loro sarebbe stata anche un’infanzia felice se non fosse stata continuamente minacciata dalle malattie che avevano, spesso, ragione di un fisico gracile e non alimentato adeguatamente. I bambini erano denutriti, dissenterici, tracomatosi, in preda alla malaria, con il pancino gonfio come otri per la febbre provocata dalla zanzara anofele.
Fa impressione, scorrendo le pagine del “Registro delle morti della Parrocchia” di Sanluri, notare l’elevatissimo numero dei decessi di bambini. Nel decennio 1872/81 il 41,9 per cento della mortalità generale riguardava i bambini della prima infanzia, fino a cinque anni: ne morirono, infatti, 493. Dei fanciulli della seconda infanzia, dai sei ai quindici anni, ne morirono 90.
Le cause di morte infantile erano imputabili a vari motivi: sicuramente a un carente sistema immunitario, a malattie, che, ora facilmente guaribili, risultavano letali, come difterite, nel 1877, vaiolo nel 1872/1873, gastroenterite, polmonite, tifo, pertosse, malaria e alle scarse cure mediche che, allora, i poveri non potevano affrontare. Molti bambini nascevano già morti, infatti, nel decennio 1872/81 se n’ebbero 32, con una media del 2,6 % tra tutti i nati: molti morivano per asfissia, spesso, infatti, le levatrici senza l’ausilio del medico, che veniva chiamato raramente, non sempre erano capaci di prestare il dovuto soccorso alle partorienti.
I bambini piccoli erano nutriti, il più possibile, con latte materno (un anno e anche più). Una madre che non poteva allattare un figlio, in un tempo in cui non esisteva la possibilità d’allattamento artificiale, si sentiva del tutta persa. La sopravvivenza del neonato, infatti, dipendeva esclusivamente dal latte materno: l’unica alternativa consisteva nel far allattare il bimbo da un’altra madre; i due piccini erano perciò chiamati fradisi de latti.
Per “far ritornare il latte”, le nonne consigliavano di rubare il cibo a una gatta che stava allattando ma di stare molto attente che l’animale non mangiasse, a sua volta, dal piatto della puerpera perché poteva rubare il suo latte. Un altro rimedio consisteva nel recarsi presso il convento dei Cappuccini di Sanluri per chiedere una scodella della loro minestra, sa minestra de is paras, per darla alla neomamma. Un rimedio, a quanto raccontano, sempre efficacissimo!
La prima infanzia
I neonati erano amorevolmente accuditi, ma non viziati: le nonne, s’aiaiasa,consigliavano di non tenerli troppo in braccio per non viziarli. Non esistevano tettarelle e ciucciotti: quando il bambino piangeva si prendeva un pizzico di zucchero, lo si avvolgeva strettamente dentro una pezzuola bianca, inumidita sa ximingioniera e gliela facevano succhiare.
Pochi possedevano su brazzollu, la culla fatta in sughero o in legno: alcuni se la facevano prestare dai parenti ma la maggior parte dei genitori faceva dormire i figli piccoli nel proprio letto. Per proteggere il materasso, si usava stendervi sopra una pelle conciata di pecora che, oltre a difendere il letto dagli “incidenti”, lo rendeva anche più caldo. Durante la giornata, se non si aveva la culla, il bambino veniva messo dentro una corbula.
Diventato più grande, veniva fatto sedere su un sacco steso per terra, o su una stuoia fatta di feu ‘e stoia, un vegetale che cresceva vicino ai ruscelli. Da qui, il piccolo cominciava a muoversi carponi, a pampadas, solo i più ricchi possedevano su scap’a pei, un girello di legno. Le mamme preparavano u coccoi, un pane speciale, di forma circolare, ornato di punte, di pasta bianca. Lo affidavano a una bambina di sei/sette anni che doveva correre intorno a un isolato; un’altra bambina, al quale non era stato dato niente, doveva correre nella direzione opposta. Quando s’incontravano, la bimba, che non aveva il pane, doveva cercare di strapparlo all’altra; se il pane si spezzava, si diceva che il bambino aveva segau is trobeas, tagliato le cordicelle che gli impedivano di camminare; e, spesso, capitava che, in quell’occasione, facesse i suoi primi passi.

 

 

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