Categoria : versi in italiano

“Tra finito e infinito: Il piccolo mondo antico di Giovanni Corona.” di Liviana Covre

 

” La vita umana viene alla vita come grido, e il grido contiene una domanda di soccorso, di presenza, di aiuto; tutti noi siamo stati un grido perduto nella notte.” Jacques Lacan

Le parole di Lacan sono riemerse dalla mia memoria, a mano a mano che mi addentravo fra i versi di Giovanni Corona, poeta originario di Santo Lussurgiu, piccolo comune della Sardegna.
È un grido sommesso il suo, il grido di un uomo che, a pochi anni d’età, perse il padre e nel dramma vissuto da bambino trovò le ragioni della propria sofferenza e quelle della poesia.

Sono grata alla nipote Francesca Manca, e ai suoi “mollia iussa”, che mi hanno permesso di leggere e capire la forza espressiva dei versi dello zio. Francesca ha saputo vincere una ritrosia dettata dal fatto che l’unica nozione che possedevo di lui era l’etichetta di poeta futurista. E la voce futurista che prediligo appartiene al russo Majakovskij. Il vitalismo apparentemente trasgressivo del movimento italiano, che poi sfociò nell’acceso interventismo della prima guerra mondiale, non mi si confà. Ma sbagliavo nel mio giudizio frettoloso. Giovanni Corona non era certo un futurista impregnato di velleitarismi bellici come tanti esemplari nostrani. Non aveva nemmeno la camicia nera per sfilare come giovane balilla: troppo povero per acquistarla. Ragione sufficiente per farmelo subito amare. Così l’ho cercato nei suoi versi e nelle sue parole: vi ho trovato l’autenticità di un uomo libero, figlio di una terra spigolosa come i suoi nuraghi, ma forte e generosa come la sua gente.

“Sono nato /con i nuraghi/. Mi piace/ritrovarmi /nella vostra voce/. Non sono un rudere/come un nuraghe/… I ciliegi sono in fiore /col tronco rugoso, contorto/anch’io sono un fiore… Mi sento giovane /anche se sono nato/coi nuraghi… Non amo Omero/e le”ire funeste”/e “gli infiniti lutti” /. Mi sento Alceo /e in me resta/il canto del poeta…”

Bastano questi pochi versi per coglierne l’anima autentica di poeta sincero e schivo, lontano dalle ostentazioni delle parate di regime.

La sua è una poesia fortemente aderente alla realtà, alla vita, ai problemi umani. “Hominem pagina nostra sapit”, direbbe Marziale. Una poesia che ha il sapore dell’uomo e spalanca nuovi orizzonti di senso, che ci aiuta a vedere il mondo sotto una luce diversa. Capace di proiezioni aperte, di suggestioni che hanno imparato la lezione di Leopardi e di Montale. Del primo, Giovanni Corona rivive il legame col borgo natio, dove trova la dimensione del proprio infinito. “Una fiammella che spegne il dolore/ e lascia una traccia di luce nel buio.”

Del secondo riecheggia il male di vivere, che connota tanta poesia novecentesca:
“Tu cerchi /una parola /un gesto/che da tempo /ho dimenticato./Altri accoglierà il richiamo /. Sono una riva/senza gabbiani.” Ma, diversamente da Montale, Corona trova risposte in una dimensione religiosa che conduce a Dio: “E ogni sera ringrazierai il Signore/ per la solitudine e la compagnia,/per la notte e per il domani,/ per l’ora trascorsa- la nostalgia/ e ciò che Egli vuole- esso sia.”
Qua e là si intuisce la lezione dei grandi lirici greci:” Mi sento Alceo /e in me resta/il canto del poeta:/odo primavera che giunge/colma di nuovi fiori”… Per poi passare alla Bibbia: “Caino /non mortifica/ilmondo/isterilito”…

La precarietà dell’esistenza, la rabbia pacata verso ogni forma di sopraffazione, ma anche l’amore di chi vola timidamente come un gabbiano e plana fra i suoi simili, sono descritti nei suoi versi con parole asciutte ed essenziali, incise nel tempo, come le rughe di uomini antichi e senza età. Perché Giovanni Corona ha capito che il poeta ha una missione da compiere. È un maestro che trasmette scoperta e conoscenza, mestizia e vigore. Protesta civile e pienezza dei sentimenti. Qualcuno che nel buio della notte accende la luce e dà senso alla vita, insegnando a riconoscere le persone che sono dietro le leggi.

 

“Dall’infanzia /odiai le grandi patrie/. Ora odio le patrie/. Odiai i marescialli e i generali/della terra/. Cesare /Napoleone e gli Zar/e i tanti Kaiser degli stivali/… Odio i caporali /i compassi /le scarpe chiodate /…
La sua poesia è capace dunque di farsi voce di tutti, come sempre è accaduto nella storia. Da Omero a Dante, da Ariosto a Foscolo, da Montale a Luzi o Pasolini, il verosimile delle vicende umane si illumina di una luce incantevole, la mite e durevole luce dell’arte, capace di svelare la vita meglio di tanti testi di storia o documenti notarili.

Corona ha il dono concesso dalle Muse ad ogni poeta: cogliere l’essenza del presente ed esprimerla con un linguaggio libero.

Per lui vivere è scrivere versi. Cercare la bellezza nella semplicità del quotidiano, nei ritmi della natura e nel ritorno delle stagioni, in una ricerca di un’ armonia della struttura, in qualcosa insomma che renda degno ed eterno l’istante precario che ci è concesso. In quest’ottica anche i morti diventano “presenza del domani”. Perché “tutti/concepiamo altra vita/per non dover morire.

Ciò che lo distingue è il modo di guardare. Cogliere l’umanità in un gesto, uno sguardo, una scelta; un modo di affacciarsi alla vita con stupore, per scoprire la relazione con gli altri. A noi resta il compito di intuire il punto in cui la poesia supera lo spazio limitato del poeta e persegue la conoscenza della diversità nel suo aspetto più profondo.

Su tutto brilla la luce della Sardegna, di cui perfino i chiaroscuri del mare diventano occhi per guardare il cielo del borgo natio e capirne le regole, che sono le stesse del vasto mondo in cui scelse di non andare. Le acque, le nuvole, il sole e i profumi della Sardegna sembrano aver covato a lungo quei tanti frutti che si sono raccolti in una dimensione artistica che è figlia della bellezza. Corona canta la sua terra, il profumo di un’isola fra sogno e realtà, che diventa paradigma universale, per comprendere il senso di ogni esistenza. Anche la nostra. La sua Sardegna ha profumi aspri e dolci allo stesso tempo. Così la sua poesia, in cui liriche asciutte e versicoli si aprono a dolcezze improvvise, evocate nella solitudine di un “paese che è un assieme di uomini soli”. Come sono soli tutti gli uomini del mondo a cui il poeta rivolge un invito a ritrovare l’amore fraterno. Perché è meglio una “vita senza ideale/ se per l’ideale devo ammazzare”.

Grazie alla pubblicazione delle sue opere e agli studi più recenti, il ruolo della sua attività di intellettuale sta trovando la giusta collocazione nel panorama letterario del Novecento.

A Simona Cigliana, docente di Critica militante presso l’università “La Sapienza” di Roma e di Sociologia della Letteratura e dell’Arte presso l’Università del Molise, saggista e critica d’arte, dobbiamo l’ultima raccolta di saggi, “Giovanni Corona, scrittore e maestro”, per Carocci editore. Questi nuovi studi su Corona hanno una duplice valenza. Da una parte ne ricostruiscono le vicende umane, riflettendo sulla sua produzione in versi e in prosa. Dall’altra suscitano il desiderio di conoscerne le opere, come è successo per me che, in breve tempo, non solo ho scoperto i suoi versi, ma anche l’Epistolario e gli altri scritti in prosa.

Leggendo le pagine critiche, scelte dalla professoressa, si sente, oltre alla profonda e rigorosa competenza, una grande attenzione per la dimensione umana dello scrittore di cui, fin dalle note introduttive, si coglie l’amore per il paesaggio naturale della Sardegna, correlativo oggettivo di una poesia universale, che assume i connotati di un impegno morale mai venuto meno.

Giovanni Corona, scrittore e maestro, resta insegnante anche fuori dell’aula scolastica, anche nei suoi versi che scrive su foglietti sparsi da donare agli amici, senza preoccuparsi di pubblicarli. Così lo descrive Simona Cigliana: “Desideroso di diffondere cultura, di provocare interrogativi e di suscitare confronti; passeggiava assorto nella bellezza della sua terra, che gli offriva innumerevoli spunti di meditazione, e faceva scuola anche al di fuori delle pareti dell’aula. Un maestro laico, innamorato della poesia…”

Sono gli ideali di un uomo che credeva nell’impegno sociale e politico, ma che seppe rifiutare le sfilate del “sabato fascista” o scelse di dimettersi dall’ attività politica “per il suo dissenso alle dinamiche interne di partito” della Democrazia Cristiana. La vita di una persona per bene, che scelse una poesia onesta, nel significato più caro a Umberto Saba. Un’etica rigorosa e severa. La stessa che ritorna nell’epistolario e, in qualche forma, anche nel romanzo “Questo nostro fratello”, a cui tante pagine sono dedicate nella raccolta della professoressa Cigliana.

Riveduto e corretto per anni, ” Questo nostro fratello”, che nella prima stesura si intitolava L’Uomo è uomo”, è un romanzo corale e intimista, straziante ed esilarante, un caso unico nel nostro panorama letterario, secondo le parole di Silvia Boero, un’opera oscura, magnetica, che sfugge a “ogni tentativo di incasellamento di genere”. Un racconto che procede sul filo della memoria di un io narrante, non privo di discontinuità e contrasti, come ben evidenzia Francesco Porcu nell’introduzione. Un romanzo controcorrente, rispetto alla produzione isolana del tempo, e interessante sul piano linguistico per l’uso sapiente di un linguaggio che, nella fusione di sardo e italiano, rimanda alla lezione verghiana e apre alla modernità del neorealismo, senza dimenticare le grandi voci dei narratori dell’Ottocento europeo.

A questo punto non resta che rileggerne gli scritti alla luce di questi nuovi studi, il miglior servizio che la critica militante possa fare all’arte e a Giovanni Corona, il poeta che dipingeva i colori del vento.

Liviana Covre

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