Due interviste attualissime anche se datate di due sacerdoti impegnati: Turtas e Tamponi

Raimondo Turtas         gesuita

Raimondo Turtas
gesuita

Periodicamente  vado a caccia tra i links alla ricerca di contenuti che mi piacciono, tra questi, oggi amo proporre quest’articolo che credo piaccia anche ai miei visitatori. (A.T.)

L’UNIONE SARDA, 29 marzo 2007

Intervista all’autore del nuovo saggio “Pregare in sardo. Scritti su Chiesa e Lingua in Sardegna”
La limba perduta dei sacerdoti di Sardegna

Padre Raimondo Turtas: «In Catalogna e Friuli si celebra nelle lingue locali, perché da noi no?»

Il Padre Raimondo Turtas , 75 anni, gesuita, di Bitti, ha insegnato Storia della Chiesa all’Università di Sassari. Il suo libro, “Storia della Chiesa in Sardegna dalle origini al Duemila” (Roma, 1999), rappresenta la più importante opera di storia sulla Sardegna dell’ultimo decennio.
Qualche mese fa è uscito il suo ultimo libro: “Pregare in sardo. Scritti su Chiesa e Lingua in Sardegna” (Cuec, 2006, pagine 239, euro 16).
In esso vengono raccolti gli articoli che il più importante storico vivente della Chiesa sarda ha scritto per i settimanali diocesani a partire dal 2002. Si tratta di una vera e propria immersione nella storia cristiana della Sardegna lungo i suoi duemila anni.

Quale lingua hanno parlato i cristiani? Quale utilizzavano nella liturgia?

Settantadue capitoli, l’esatto corrispondente di altrettanti articoli raccolti dal glottologo Giovanni Luppinu, accompagnano il lettore lungo un percorso che, mentre descrive la lingua parlata dalla Chiesa cattolica in Sardegna, ci racconta la vicenda lunga della Chiesa nell’Isola.
Ci troviamo, cioè, di fronte alla storia della lingua che cammina accanto e ci descrive la storia della Chiesa sarda. Con il nostro gesuita bittese che si sofferma su ciò che da sempre si sa, ma che non smette di suscitare meraviglia, nonostante tutto: la storia della lingua di un popolo è la storia della sua identità, racconta il percorso della sua libertà. O della sua oppressione. Una consapevolezza che, nello storico della cristianità sarda, si trasforma in richiesta decisa di quanto da secoli è stato negato: sa limba nella liturgia.

L’introduzione al suo nuovo libro titola: “Deus ti salvet… Sardigna!”. Cosa sta succedendo?

«Purtroppo la malattia ha impedito al cardinal Pompedda di scrivere l’introduzione che gli avevo chiesto. Mi sono perciò rivolto a monsignor Duilio Corgnali, un parroco del Friuli che con altri preti e laici ha contribuito a fare del friulano una lingua liturgica ed ora messa e sacramenti vi si celebrano anche in quella lingua. Perché allora quel suo grido di dolore, “Deus ti salvet, Sardigna”? Forse perché ha conosciuto la ritrosia dei vescovi sardi che, dopo avere dichiarato nel recente Concilio Plenario Sardo del 2001 che la lingua sarda è stata l’unico strumento che ha “tramandato per generazioni un grande patrimonio di fede e di sapienza cristiana” ora, dopo sei anni da quel Concilio, sembra l’abbiano dimenticato e si mostrano esitanti a impegnarsi per una liturgia in lingua sarda, come se questo compito non toccasse prima di tutti a loro.
Se una dichiarazione può bastare all’Unesco, che ha indicato il canto a tenore sardo come “patrimonio intangibile dell’umanità”, dai vescovi si pretende molto più che semplici dichiarazioni».

Si legge che siamo arrivati al punto che si celebrano messe “clandestine” in sardo…

«Non credo siano messe clandestine vere e proprie. Si tratta, al più, di messe nelle quali le letture bibliche e l’omelia sono fatte in sardo con l’aggiunta, magari, del canto di qualche gosos».

Il Concilio regionale sardo è finito da appena qualche anno. Non poteva non cogliere l’aria identitaria che si respira in Sardegna. Cos’è che frena una disponibilità verso tali temi?

«E come se l’ha colta! Ha infatti riconosciuto che vi era in Sardegna “una diffusa istanza che vede nella lingua sarda un singolare strumento comunicativo della fede per il nostro popolo”; non si capisce perché ora essi lamentano che la richiesta della liturgia in lingua sarda non sia “più generale, autentica, condivisa da sacerdoti e fedeli”; con un po’ di provocazione, avevo chiesto loro se s’aspettavano un tiro di sassi contro le loro finestre: la liturgia in lingua sarda è un compito che tocca anzitutto a loro e non per dirci che ci sono difficoltà, ma per darsi da fare perché, tutti insieme, possiamo superarle».

Cosa fa e potrebbe fare, la Chiesa?

«I filologi romanzi di tutto il mondo la studiano con passione, le nostre scholae cantorum e i nostri gruppi folkoristici fanno il giro del mondo con grandi successi, ho appena ricordato la ben nota dichiarazione dell’Unesco, si assiste al fiorire di associazioni pro loco in tutti i paesi, ecc., e i vescovi si contentano di una “Commissione per lo studio della possibilità dell’uso della lingua sarda nella liturgia”, che per di più non ha mosso un passo dopo il 1999. Eppure, il solo tentativo di fare esperimenti seri nell’uso della lingua sarda nella liturgia costituirebbe anche un fatto culturale di prim’ordine.
Dopo quanto hanno detto del sardo nel Concilio Plenario, esso è più che abilitato all’uso liturgico».

Come si è arrivati a questa situazione?

«Gli ultimi 500 anni di storia della Chiesa sarda mostrano che quasi il cento per cento dei vescovi ha scelto la lingua dei dominatori; fortunatamente o, meglio, grazie a Dio, la “Chiesa dei parroci” ha preferito il sardo: come potevano parlare di Dio ai Sardi se non in sardo? Per le visite pastorali i vescovi si portavano dietro l’interprete».

In Friuli la Chiesa ha promosso la Bibbia integrale in lingua friulana con l’approvazione della Conferenza Episcopale Italiana. Con il Legionario domenicale festivo e con il Messale romano in friulano si va alla celebrazione della messa e dei sacramenti in quella lingua. Fuori dall’Italia, i catalani hanno affrontato e risolto il problema qualche anno fa. Ai sardi tutto questo è precluso?

«Perché, dopo un anno dal Concilio plenario sardo, ogni volta che i vescovi parlano della liturgia in lingua sarda, lo fanno solo per additare le difficoltà che vi si oppongono e, invece, negli atti dello stesso Concilio, non se ne parla mai? Chi ha ragione? E come mai ad Alghero ci si può servire del catalano, promosso dai vescovi catalani, mentre nel resto della Sardegna niente sardo perché i nostri vescovi se ne disinteressano?».

In questi giorni i vescovi sardi svolgono la loro visita ad limina presso Benedetto XVI.
Come sta la Chiesa in Sardegna? Come la descriverebbe al Papa?

«Con la stessa dolente definizione che ne ha dato un grande vescovo, l’emerito di Oristano Francesco Spanedda: un “arcipelago di diocesi” che si esprime nella tendenza radicata verso una quasi inesistente collaborazione tra i vescovi. Una tendenza di lunga durata se si pensa che prima che tutti i vescovi sardi si riunissero ad Oristano nel 1924 per il Primo Concilio Plenario Sardo erano trascorsi circa 700 anni (sinodo di Santa Giusta del 1226); fra le circostanze che vi influirono, soprattutto la sciocca e poco evangelica contesa tra gli arcivescovi di Cagliari e di Sassari per il titolo di “primate di Sardegna e Corsica” che si erano autoattribuito. Solo nel “congresso vescovile” del 1876, si prese coscienza che essa era stato “il muro di divisione nella Chiesa sarda” che bisognava “abbattere”. Ma tra il dire e il fare … Anche superata quella contesa, quel “muro di divisione” rimane la tentazione più grande per la Chiesa sarda.

SALVATORE CUBEDDU

Francesco Tamponi        sacerdote

Francesco Tamponi
sacerdote

Intervista a don Francesco Tamponi, diocesi Tempio-Ampurias

“La Chiesa dovrebbe rispettare l’individuo, a prescindere da come esercita la sua sessualità. Nel caso degli omosessuali, da sempre discriminati, dovrebbe prendere posizione e stare con loro, difenderli da un Occidente omofobo”. Don Francesco Tamponi, 48 anni, direttore dell’ufficio beni culturali e artistici della diocesi di Tempio-Ampurias, sull’argomento ha le idee chiare, chiarissime. E non gli importa di metterle in piazza. Undici anni fa, quando era parroco di Bulzi, al vescovo che gli impedì di celebrare la messa in sardo dopo un precedente accordo che aveva coinvolto l’intero paese, rispose togliendosi i sandali e i paramenti sacri: “Non continuerò a fare il parroco”. Era scoppiato il finimondo, con i massimi prelati isolani a chiedere la testa del sacerdote (volevano sospenderlo a divinis) il quale, nel frattempo, riceveva valanghe di attestati di solidarietà. Il dibattito sul tema, andato avanti per mesi, aveva messo in moto intellettuali e politici. Tant’è che due anni più tardi, la legge di tutela della lingua venne finalmente approvata dal Consiglio regionale. “Non ho alcun merito in questo ? precisa don Francesco ? diciamo che ho fatto da testimonial. Il merito è della Chiesa, dei preti di campagna. Mi avevano chiamato mosca cocchiera, senza sapere che quel tipo di mosca punge i cavalli e li fa correre”. Appunto. Nello studio di Palazzo Villamarina, splendido edificio nel cuore di Tempio, vecchi cimeli religiosi sistemati tipo soprammobili e uno scrigno contenente un osso di San Simplicio, il martire patrono di Olbia. “L’ho acquistato a un’asta su E-bay ? sorride ? anche se non ho ancora capito come abbia potuto finire sulla rete”. Comunque adesso è qui, insieme a statue del Cristo e della Madonna tirate fuori chissà dove e in attesa di essere restaurate, in un ambiente che, non fosse per questi reperti, di Chiesa non avrebbe niente. “L’Ufficio beni culturali molti pensano si occupi di cose vecchie. È vero, però nell’arco di sei mesi ha creato ben 422 posti di lavoro dei 1800 previsti entro il 2008. Molti a tempo determinato, la gran parte a tempo indeterminato. Diciamo che è una risposta alle esigenze di lavoro della nostra terra”. Don Francesco, cos’è oggi la Chiesa? “È tutto e nulla, e non sempre la si conosce bene. Ci vorrebbe una full immersion. Sì, perché non tutti hanno capito che ci si deve anche sporcare le mani in prima persona, fare qualcosa e non aspettare che altri la facciano per noi”. Che significa? “Guardi, io mi sento responsabile pure dei preti mandroni, non voglio dire che io lavori più degli altri, ma c’è modo e modo di farlo. Le persone da un sacerdote si aspettano che le ascolti, che dia un senso ai loro dubbi e alle loro perplessità. La Chiesa in questo ha punte di eccellenza, in positivo e in negativo, perché si è fatta travolgere da una società disarticolata”. Vanno bene i don Borrotzu che difendono gli operai di Ottana? “La sua è una battaglia sacrosanta. Mi chiedo dov’era la Chiesa di Nuoro quando si firmavano gli accordi di programma. Bisogna stare vicino ai potenti, certo, ma stando attenti, cercando di capire cosa potrebbe succedere. E non cedere alla tentazione di una Chiesa costantiniana, cioè guardare agli utili economici, al potere e a qualsiasi forma di prostituzione. Dobbiamo metterci a disposizione dei politici, per consigliarli”. E invece? “Invece ci manca la profezia, la voglia di scommettere sul futuro. In Gallura la Chiesa aveva favorito l’Aga Khan, organizzato un convegno per sostenere le sue proposte di sviluppo. Oggi non si vigila più su chi viene a depredare il territorio per poi scappare con le tasche piene”. Esiste il collateralismo tra Chiesa e potentati politici ed economici? “Esiste quando la Chiesa è succube di idee preconcette. In Sardegna il vero collateralismo è il silenzio, fatta salva qualche rara eccezione. Il lavoro che si fa non è da esempio”. Coppie di fatto. “Nessun problema, e la società si dovrebbe astenere dal giudicare. Piuttosto la Chiesa, per la sua natura stessa, parla ma riferendosi al matrimonio in quanto sacramento, porta aperta su una realtà spirituale. E sintesi di due principi universali, il maschile e il femminile che generano la vita”. Niente in contrario sul fatto che lo Stato le riconosca? “No, lo Stato può prevedere istituti giuridici per i diritti individuali e non è compito della Chiesa interferire”. Ruini però parla troppo. “Spesso viene strumentalizzato, lui chiede attenzione e cautela. Talvolta, magari, esagera”. Vito Fiori 05/04/2006

Unione Sarda, del 05/04/2006

Bi nde esserent meda de-i custos!!

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