Categoria : storia

L’impero romano e l’Asia centrale di Ubaldo Lugli

 1. In quanto Romanista residente a Tashkent, non posso fare a meno di chiedermi quali siano state le relazioni tra quell’entità imperialista e cosmopolita che fu l’Impero romano e quel particolare angolo di mondo la cui collocazione geografica induce a definire Asia Centrale. Oggigiorno, quando io parlo ai miei connazionali dell’Uzbekistan, tutti sanno che si tratta di una moderna repubblica democratica, che intrattiene amichevoli rapporti con l’Italia; ma fino a non molti anni fa, anche se nessuno in Occidente ignorava i nomi di Samarcanda e Bukhara, essi rimandavano più alla sfera fiabesca delle Mille e una notte che non a quella della Storia.

Qual era la situazione una ventina di secoli fa ?

2. Con la vittoria su Antioco III a Magnesia, nel 189 a.C., i Romani entrano nel continente asiatico. Nel 129 a.C. nasce la Provincia d’Asia. Più tardi, attraverso conquiste e trattati d’alleanza, Roma estende la propria sfera d’influenza fino al Caucaso (con un’effimera occupazione dell’alta Mesopotamia, sotto Traiano). Erano, tutte queste, terre esotiche, popolate da genti con usi e costumi difficili da capire (come la prostituzione sacra o i sacerdoti eunuchi) e dove la lingua franca era il greco, non il latino: ma erano terre sottomesse! Al di là di esse, l’Asia era innanzitutto l’Impero persiano, vale a dire la principale minaccia alla sicurezza di Roma, il temibile nemico che nel 53 a.C., a Carre, aveva sconfitto e umiliato le legioni di Crasso. Di volta in volta, la guerra contro i vicini orientali rappresenta per i generali e gli imperatori romani la speranza del bottino e della gloria, oppure la sgradita necessità di vendicare l’onore o difendere i confini. La Persia costituisce un ben reale problema diplomatico e militare, ma allo stesso tempo è per gli autori classici una specie di mondo fantastico, dove tutto è esagerato. I persiani sono sfrenati nella lussuria, ma estremamente morigerati nel mangiare e nel bere; sono molli fino alla effeminatezza, ma anche guerrieri terribili ed usi alla disciplina più dura (Ammiano, 23, 6, 75 ss.). Soprattutto, armati del tipico arco composto a doppia curvatura, sono arcieri infallibili. La loro abilità di arcieri a cavallo era talmente nota da costituire un vero e proprio topos della letteratura etnografica. Oggetto di stupore e ammirazione era, in particolare, quella perizia nello scoccare le frecce sui propri inseguitori che tante volte aveva rovesciato le sorti di una battaglia apparentemente vinta. Tale particolare abilità militare è ritenuta da Ammiano un portato dell’origine “scitica” dei Persiani, e, nella realtà, era in effetti una caratteristica propria dei guerrieri nomadi dell’Asia Centrale, abituati fin dalla più tenera età a montare a cavallo e a tirare con l’arco. Dalla galassia dei popoli nomadi stanziati a sud-est del Caspio venivano i Parti Arsacidi e ad essa appartenevano i contingenti ausiliari, genericamente definiti dagli autori classici “scitici”, utilizzati dalla Persia in tutte le sue campagne militari (e qualche volta impiegati anche dagli stessi Romani, come nel 363 d.C., in occasione della sfortunata avventura partica di Giuliano). La fama guerriera dei nomadi delle steppe troverà la più brutale delle conferme quando, nel V sec., dopo un periodo di buoni rapporti con il governo imperiale, gli Unni – popolo dall’etnogenesi non ben chiara, ma certamente d’origine centrasiatica – metteranno a ferro e fuoco l’intera Europa.

3. L’Asia “profonda” non è solo una minaccia, ma anche una fonte di beni voluttuari. Grazie alla scoperta dei monsoni e al perfezionamento delle rotte marittime, dall’epoca di Augusto in poi i commerci con l’India furono assai intensi, arrivando ad estendersi fino all’isola di Ceylon e, forse, Sumatra e Giava. Dai porti indiani provenivano soprattutto le preziosissime spezie, mentre un altro articolo fondamentale delle importazioni romane, la seta – costoso status symbol di matronae e cortigiane e occasione d’indignazione per i moralisti come Seneca – aveva come punto d’origine la Cina. La passione dei Romani per questo materiale – di cui essi ignoravano l’origine animale, pensando che fosse ricavato dalla lanugine di un albero – rimonta a quando, probabilmente dopo la battaglia di Carre, furono riportati a Roma come trofeo alcuni stendardi catturati al nemico, di un lucido e sfavillante tessuto mai visto prima.

Soprattutto nel II sec. d.C., la prospera età degli Antonini, i traffici con la Cina, attraverso la terrestre “Via della seta”, dovettero essere piuttosto intensi. A separare i due grandi Imperi, ricavando il più alto profitto dal via vai delle merci, c’era ovviamente la potenza partica, ma in qualche occasione ci furono contatti diretti. Le fonti cinesi riportano che nel 97 d.C. una missione esplorativa organizzata dal generale BanChao raggiunse la regione del Mar Nero, mentre sessant’anni più tardi fu un’ambasciata romana ad arrivare in Cina, inviata dall’imperatore An-tun (Antonino Pio o Marco Aurelio Antonino?). Doni da Roma sono poi registrati intorno al 230 e nel 284. Questi contatti erano destinati però a rimanere del tutto privi di conseguenze pratiche (così come nessuna rilevanza storica – ammesso che sia vera – ebbe la vicenda della “legione perduta”, il gruppo di veterani finito, chissà come, a combattere per un signorotto degli Hsiung-nu). In ogni caso, come si può ricavare dalla vivida relazione di Ammiano Marcellino (23, 6, 68), tutti i convogli destinati a quella che i Romani chiamavano la Sera metropolis depositavano il proprio carico al confine (la Grande Muraglia cui lo storico sembra far cenno più sopra?), dove, “senz’alcuno scambio di parole, avvenivano le transazioni. Con i suoi Cinesi timidi e schivi, nonché inverosimilmente pacifici, il brano risente molto della ben nota tendenza degli autori antichi a proiettare sui popoli lontani e mal conosciuti l’immaginario relativo all’età dell’oro, ma dietro le rielaborazioni colte è facile scorgere la ben pragmatica realtà di uno stato centralizzato e formidabilmente organizzato, risoluto a non permettere ad alcuno straniero di varcare le sue frontiere, e l’ombra scura di una barriera linguistica quasi impenetrabile. Le grandi carovane che attraversavano il continente asiatico si fermavano dunque alle porte dell’impero degli Han, negli ospitali caravanserragli delle grandi città mercantili rese sicure dalla dominazione kushana. Anche se nella maggior parte dei casiprobabilmenteindiretti,certamente  mercanti romani dell’età imperiale avevano dunque dei rapporti piuttosto stretti con l’Asia centrale, tanto più che, secondo la Historia Augusta ed altre fonti parallele, i “re battriani” avevano inviato messi sia ad Adriano che al suo successore Antonino Pio per chiedere l’amicizia di Roma. Quale fosse il volume delle merci che dal centro dell’Impero raggiungevano gli snodi centrasiatici della “Via della seta” – e quindi quanto grande fosse l’interesse degli imprenditori romani per quelle regioni – lo dimostra l’abbondanza dei reperti d’origine italica ritrovati a Begram, sul sito dell’antica Kapisa: soprattutto oggetti di vetro, ma anche monete con le effigi di Ercole, di Serapide e della Dea Roma. In almeno un caso, inoltre, una spedizione commerciale proveniente dall’Impero romano raggiunse direttamente il Pamir. Marino di Tiro, un geografo del II sec. d.C. citato da Claudio Tolomeo (1, 11, 7), riferisce infatti di un mercante di origine macedone di nome Tiziano Maes che, quasi certamente in età adrianea, ma forse prima, era arrivato a Tashkurgan, nel Turkestan cinese (non lontano dalla frontiera con l’odierno Tajikistan), la “Torre di pietra” dalla quale partiva la strada per il Celeste Impero. Secondo i loro agiografi, inoltre, nei loro viaggi verso l’India avrebbero attraversato la regione anche l’apostolo Tommaso e Apollonio di Tiana, il celebre taumaturgo dell’età Flavia.

4. Grazie al commercio internazionale, l’Asia Centrale esce (almeno parzialmente) dalle nebbie del mito, e diventa per la scienza geografica occidentale un’entità chiaramente delineata. Erodoto, nel V sec. a.C., pur elencando i Bactriani, i Sogdiani e i Saka tra i sudditi del Gran re, ammetteva che le regioni dell’Asia interiore, “le terre oltre il paese degli Argippei”, erano del tutto sconosciute (4, 24). La spedizione di Alessandro Magno le aveva fatte entrare nella Storia, ma senza contribuire in modo significativo alla loro conoscenza geografico-etnografica. Strabone, denunciando le carenze dell’informazione data dagli storici di quella straordinaria avventura – generici al punto di chiamare Caucaso tutto un insieme di sistemi montuosi differenti, chiaramente distinti dagli indigeni -, riconosce esplicitamente ai Romani il merito di aver migliorato la conoscenza di quelle zone. In effetti, il grande geografo mostra di avere non solo una buona conoscenza delle vicende dei regni greco-battriani, ma anche precise nozioni sulle città, l’idrografia, le risorse e il popolamento della regione. Beninteso, le steppe e le montagne dell’ Asia più remota continuano ad essere piene di mirabilia. Se non sono più la patria di popolazioni mitologiche come le Amazzoni o gli Arimaspi, continuano tuttavia ad essere una sorta di “mondo alla rovescia”, dove l’adulterio è consumato pubblicamente e i vecchi vengono ritualmente divorati. Anche nella civilissima città di Bactra, finoall’arrivo dei Macedoni, i malati e i moribondi sarebbero stati dati in pasto ai cani, e l’interno delle sue mura sarebbe ancora pieno delle loro ossa (Strabone, 11, 3, 11; cfr. 8, 6). 5. Punto di raccolta e passaggio delle merci provenienti dal sub-continente indiano e dall’Estremo oriente, l’Asia Centrale è anche la zona d’origine di numerosi beni: feltri, turchesi e animali, soprattutto quei cammelli bactriani la cui forza i Romani avevano avuto modo di osservare in occasione della campagna contro Mitridate. Dall’area centrasiatica arriverà nel mondo romano anche un dettaglio dell’abbigliamento destinato a rivoluzionare il modo di vestire tardo-antico: la camisa. E’ questa un nuovo tipo di tunica, tessuta in un pezzo unico ma modellata da quattro cuciture; un vestito di tipo moderno, aderente al corpo e dotato di vere e proprie maniche. Abito tradizionale dei cavalieri nomadi, il suo uso è attestato in Siria e in Egitto intorno al 250 d.C., e da lì si imporrà rapidamente in tutto il mondo romano. Purtroppo, insieme alle merci viaggiano le malattie. È questa una regola di validità generale che non risparmia l’Impero romano, che alla fine del II sec. d.C. sarà devastato da un’epidemia di vaiolo, contratta dalle truppe di Avidio Crasso in Mesopotamia e il cui focolaio è stato con precisione individuato nel cuore centrasiatico del regno Kushana.

6. Da quando, nel 204 a.C., la divinità anatolica Cibele fece il suo trionfale ingresso a Roma, divenendo la veneratissima Magna Mater, l’Asia ha continuato ad essere per l’Impero romano una fonte inesauribile di idee e culti religiosi: ex oriente lux! Per quel che riguarda le dottrine di Zoroastro – che da Ctesia in poi tutte le fonti greco-romane riconoscono essere originario della Bactriana – l’interesse dell’Occidente risale all’Accademia platonica del III sec. a.C., che in esse vedeva l’origine della filosofia greca. Ben più tardi, verso la metà del II sec. d.C., Apuleio addirittura parlerà di Zoroastro come di colui che per primo ha insegnato agli uomini il giusto modo di onorare gli dei. Ma all’ammirazione per una sapienza ritenuta antichissima si accompagna il consueto sospetto per tutto ciò che appartiene ad un mondo lontano e – per definizione – nemico. Nelle pagine di Plinio il Vecchio, quella magia che viene dall’Oriente è un’abominevole “arte di andare contro natura” che lo stato romano ha il compito storico e il dovere morale di combattere. Paradossalmente, insieme alla “scienza dei Magi”, dall’area iranica arriva però anche il culto di Mitra, una severa dottrina di salvezza, destinata ad incontrare un enorme successo nell’Impero romano, in particolare tra i militari. Come documentano gli scritti di Clemente alessandrino, nel mondo romano era giunto almeno una qualche eco delle dottrine buddhiste. Se è possibile, come alcuni pensano, che dei missionari buddhisti siano giunti ad Alessandria a bordo delle navi che facevano la spola tra l’Oceano Indiano e il Mediterraneo, si può anche pensare che qualche frammento d’idea sia stata raccolto tra i sudditi di Kanishka, il grande sovrano sotto il cui dominio la religione del Buddha conobbe un decisivo impulso, diffondendosi in tutta l’Asia Centrale e in Cina. A comunità monastiche come quelle di Fayaz Tepe o di Bamiyan potrebbe riferirsi Ammiano Marcellino quando, citando Omero, parla di “uomini pii e giustissimi, avvezzi a spregiare le cose mortali”(23, 6, 53; 62). 7. L’intransigenza dello stato romano in materia ideologica e religiosa già manifestatasi nei confronti della magia si fa estrema in epoca tardo-antica, quando ormai il Cristianesimo è la sola religione ammessa nell’Impero. A quel punto, l’Asia diventa terra di rifugio.ì Quando nel 529 Giustiniano decreta la chiusura delle scuole filosofiche di Atene, Damascio, ultimo esponente della gloriosa Accademia platonica, vecchia di ben nove secoli, si trasferisce con alcuni discepoli alla corte del Gran re sassanide Cosroe I. Già prima di loro, la via dell’esilio asiatico era stata presa da molti tra i seguaci delle correnti cristiane via via considerate eretiche, in particolare dai Giacobiti e dai Nestoriani. Duramente perseguitati dalle autorità imperiali, questi cristiani dalle eterodosse idee cristologiche trovarono una nuova patria nelle terre centrasiatiche, dove diedero vita a prospere e rispettate comunità, come quella di Samarcanda di cui farà menzione, nel XIII sec., Marco Polo.

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(UWED)

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