La mestizia dell’anima di Chiaramonti di Ange de Clermont

 

L’anima di Chiaramonti l’abbiamo lasciata sulla meticcia torre parrocchiale  di San Matteo al Monte, a ricordare la sua nascita, la sua infanzia e la sua adolescenza. La madre, prima di scomparire, l’aveva abbandonata lì, tra i costruttori del castello e lei aveva trascorso la sua adolescenza in mezzo a quel via vai di soldati, carpentieri, ferraioli, carriaggi, sassi piatti, conci rossastri e marroncini di trachite. Di tanto in tanto si presentavano i padroni genovesi dai vestiti sgargianti ad impartire ordini fino al termine della costruzione. Lei si rallegrava e cresceva man mano che i lavori venivano ultimati. La vista, dalla torre, era superba, il paesaggio incantevole. I boschi si succedevano ai boschi e gli animali selvatici scorrazzavano per tutto il territorio. A sud ovest si snodava in forma ellittica una vasta collina le cui pendici degradanti erano boscosissime, a ovest, dove in lontananza spiccava orgoglioso il castello degli Spinola. Vicino dirimpettaio, quasi tondeggiante, stava un altro colle, separato da un immenso vallone, dal castello dove lei dimorava. Più in là un lungo costone, detto dell’Anglona, e poi altre valli e monti. Ad est  nell’azzurro sfumava la cima del Limbara da cui pareva nascere la Gallura che comprendeva solo in parte le proprietà dei signori del castello, i Doria, così aveva sentito dire e così ricordava. Quanto si era divertita a curiosare negli alloggiamenti, nelle armerie, specie nelle stanze delle corazze. Tanti abitatori dei villaggi a valle man mano andavano accostandosi alla Rocca quasi ad averne protezione e a trovarvi attività artigianale o ad arruolarsi per la custodia e la manutenzione delle abitazioni dei castellani. Devotamente aveva visitato la cappella di San Matteo, protettore dei Doria a Genova e qui nel castello, a cui era stato dato il nome dei Claramonte, quasi un omaggio per l’apparentamento tra le due famiglie. Questi ricordi tuttavia la spingevano al pianto e alla nostalgia.

Scacciati i ricordi, guardando lo spazio ellittico e deserto di oggi, le vennero le lacrime agli occhi e spiccò il volo verso il monte dirimpettaio del Carmelo, e si sdraiò piangente, lungo gli alti filari dei cipressi centenari dove i corpi dei chiaramontesi accolti dal 1879 giacevano nel riposo eterno. Vide, attraverso i marmi,quasi fossero cristalli, i giovani volti di coloro che se n’erano andati prematuramente e pianse su ogni volto di fanciulla o giovinetta, di ragazzo o giovinetto. Si asciugò le lacrime tra i rami dei cipressi odorosi e continuò a contemplare i vari campi di quel cimitero che le dava mestizia e conforto al tempo stesso. Si consolava pensando che li stavano i corpi, ma le loro anime erano volate lassù, nel cielo più alto, dove di notte brillavano le stelle più lontane. Anzi, volle attendere la notte e, sdraiata sulle cime dei cipressi, cominciò a contare le stelle ad una ad una e le parve di vedere le anime come raggi di luce che emanavano una musica dolcissima che sembrava perdersi nel cosmo. Pensò che li, forse c’era anche la sua mamma, estesissima, luminosa che la guardava. Provò un dolce languore e si addormentò.

Il sole del mattino colpì il suo volto e l’anima claramontana si risvegliò per vivere la sua intensa giornata. S’incuriosì osservando l’arrivo delle vedove e delle madri e dei padri che venivano a ricordare i loro cari, deponendo dei fiori sulle tombe e quasi lucidando i volti che brillavano nelle fotografie. Il sole fece brillare anche i volti delle mamme e dei padri e le lacrime che scorrevano silenziose sulle loro guance. Spinta dalla  commozione  pianse anche lei per l’anima della madre che era vissuta pellegrinando tra le ville alto e basso medievali di quel vasto territorio che da qualche tempo una coppia di giovani archeologi cercava di esplorare. L’anima spiccò il volo e andò a ristorarsi presso il vicino Monte Ozastru dalla cui cima osservò l’antica chiesa di Santa Maria Maddalena che volle presto rivedere, poi, pensò all’oasi dolce di Santa Giusta e andò a divertirsi come una fanciulla nel boschetto degli alti pioppi e presso la fonte per giocare con l’acqua. Visitò la chiesa, s’inchinò davanti alla Santa fanciulla e spiccò di nuovo il volo per planare sulle pendici di Monte Ledda. Udì il cinguettio degli uccelli dell’incipiente primavera, vide l’agile corsa delle lepri e sorrise contenta. Quel profumo di cisto in fiore e di acre lentisco, quasi la ubriacò. Abbandonò il Monte e librandosi in volo raggiunse s’Istradone dove i soliti piccoli uomini avevano già iniziato, tra un bicchiere e l’altro di acqua minerale, ad analizzare la condotta del sindaco e del vicesindaco, in occasione della commemorazione dell’Unità d’Italia, degli assessori e dei consiglieri comunali, del mondo intero che non andava secondo i loro intendimenti. Giuravano che essi sarebbero stati più idonei ad amministrare Chiaramonti e il mondo  che andava alla rovescia, ma concludevano che forse non ne sarebbe valsa la pena.

Si era fatto mezzogiorno e i discorsi andavano estinguendovi davanti ai morsi dell’appetito e ad uno ad uno i governatori virtuali del mondo rientravano a casa dove solerti donne avevano imbandito la tavola di cui  essi tra un brontolio  e l’altro consumavano i pasti. Del resto la giornata era stata dura dopo le fatiche linguistiche della piazza. La siesta era a portata di mano e i pettegolezzi dei giornali di cui  avrebbero semplicemente annusato i titoli avrebbero conciliato un breve sonno. Il giorno dopo la vita sarebbe andata come al solito, con qualche spunto in più, rubato dai giornali.

L’anima claramontana potè così spiccare il volo sull’altana solitaria che fu dei Madau, che sovrasta il paese, e potè godersi le stravaganze pomeridiane  degli abitatori di Chiaramonti, che era poi il suo corpo urticante. Avvertì un pò di stanchezza e nuotando nell’aria tiepida di Putugonzu andò a meriggiare presso il bosco  dei folti frassini tra il profumo del sottobosco e lo stormire degli alberi.

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