Manuale di Maurizio Serra per i maestri delle scuole normali di Sardegna

images-102Istruzioni del Teologo Maurizio Serra al reverendo Signor Sacerdote Gianantonio Vargiu, maestro della scuola normale (e viceparroco) di Bunnanaro. Dette istruzioni costituiscono una personale rielaborazione dei manuali lombardi procurati al parroco del villaggio citato e adottato poi da Carlo Felice per tutte le scuole dell’Isola di Sardegna. Per legge i precettori dovevano essere i viceparroci, salvo in quei paesi in cui vi era solo il parroco. I catechismi lombardi furono procurati al Serra dal Teologo Manunta, suo compaesano di Osilo, del quale si è già scritto in questo sito.

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AL REVERENDO SIGNOR SACERDOTE GIANANTONIO VARGIU MAESTRO DELLA SCUOLA NORMALE DI BUNNANARO

Reverendo Signore e mio collega amatissimo,

quantunque io già sapessi per esperienza che ogni anno di ogni regno dell’Augusto Sovrano che ci governa va distinto con nuovi benefizi, che il paterno suo cuore si compiace di spargere sui fortunati suoi Sudditi, non posso tuttavia esprimervi la gioja, da cui venni compreso quando, al comparire del Regio Editto del 24 di giugno dello scorso anno, io ne ravvisai tanti, e sì preziosi insieme accumulati in vantaggio della pubblica istruzione, e singolarmente dell’istruzione elementare che contava sinora fra noi così pochi Stabilimenti. Io non fui tardo a conoscere quali, e quanti vantaggi avrebbe recato alla Sardegna la salutare instituzione delle Scuole normali in quella savissima legge universalmente prescritta, e strettamente inculcata. Il volgo imperito, e la schiera de’ maligni non potrà forse, o non vorrà riconoscere a prima giunta, quale feconda sorgente di beni va per tal guisa ad aprirsi alla Sardegna. Ma un parroco che per dovere del sacro suo ministero è tenuto ad illuminarne il popolo, ed a servirgli di guida principalmente in quello che riguarda la morale e la religione, sarebbe troppo colpevole se non gioisse al pensiero dei miglioramenti che vanno a risultarne, e se non cercasse di cooperare con tutti i suoi mezzi alla prosperità di uno Stabilimento, di cui è per proprio ufficio e per disposizione del Re, il protettore, il sostegno e la guida.

L’accelerare ne’ vivaci nostri fanciulli lo sviluppo delle facoltà intellettuali, il dirigerle al vero scopo al quale debbono tendere unicamente, contribuirà eziando, a migliorando nel cuore ispirando loro per tempo coi sublimi precetti della divina legge, il santo timor di Dio, la via del buon costume, e del dolce amor fraterno che è la divisa dei Cristiani, e verrà a togliersi ai parroci l’ostacolo che presentemente incontrano nella difficoltà di farsi capire da troppo rozzi intelletti, allorché spezzano al popolo il pane spirituale della Divina Parola.

Meditando questi riflessi, non solo non mi fu grave, che addossata mi fosse, come a tutti gli altri parroci, l’ispezione di questa scuola; ma mi affrettai ad aprirla, quantunque mi trovassi sprovveduto di un conveniente locale, e quello, ch’era assai peggio, di un maestro, che la reggesse. Fu d’uopo, imprendessi io stesso ad insegnare ai fanciulli, e volentieri me ne occupai coll’ajuto de’ vice parroci, finché lo zelo vigilantissimo del nostro comun Padre, e Pastore Monsignor Arcivescovo di Sassari fissò i suoi sguardi sulla vostra degna persona, o mio collega amatissimo, e v’indusse a darmi sollievo col destinarvi ad institutore dei nostri cari fanciulli, che vi benediranno a suo tempo, e de’ quali forse, per mercé vostra, alcuni daranno più di lustro a un paese, ove nacque un Carboni .

Non vi rincresca pertanto d’aver perduto il vantaggio di qualche vostro interesse, ma tutto caldo di zelo e d’amor di patria consacratevi di buon grado a servirla senza che troppo vili considerazioni tolgano il pregio al vostro sacrifizio. Copiosa è quella mercede che Iddio va preparandovi, egli, che considera per se impiegate le cure, che vi darete per tutti questi fanciulli, e per ciascuno di essi in particolare: Quod uni ex minimis meis fecistis, mihi fecistis.

Ora desiderando ancor io di partecipare in qualche maniera alla ricompensa abbondante, che dovete sicuramente aspettare da chi non lascia senza mercede, neanche un bicchier d’acqua data in nome di un suo discepolo, risolvetti di contribuire ad agevolarvi il buon esercizio del vostro impiego: e letto avendo alcuni libri mandatimi da un degnissimo Ecclesiastico , institutore in un tempo de’ seminaristi della Diocesi, e uomo, che arde dal desiderio di procurar tutti i lumi e tutti i vantaggi possibili ai suoi connazionali, impiegai i ritagli del tempo, che fortunatamente lasciommi il mio pastorale Ministero per darvi un breve compendio delle massime più adattate a voi, al luogo, ed alle persone, che dovete instruire, onde formarvi qual vi desidero, e spero che diverrete un maestro veramente degno del gradimento del Governo, della riconoscenza del Pubblico, e della benedizione di Dio.

A giudizio di sommi uomini, l’uffizio, che intraprendete non è quello che il volgo crede, facile e di poca importanza. Se un buon pittore, ed un perito statuario vengono con ragione apprezzati perché sono rari gli ottimi artefici, più alta idea ancora bisogna farsi di un buon maestro di scuola, dice San Gio. Crisostomo: Quid majus quam adolescentulorum fingere mores? Omni certe pictore, omini certe statuario, ceterisque hujusmodi omnibus excellentiorem hunc puto, qui juvenum animos fingere non ignoret.

Un maestro che abbia a cuore d’adempiere al suo dovere in tutta la sua estensione, ed operi secondo gli impulsi della propria coscienza nell’instruire i fanciulli, sarà il riformatore dei costumi di tutto un Pubblico, il benemerito della Chiesa, e dello Stato, anzi l’Angelo tutelare, che addita il dritto sentiero per non sbagliare dal principio la via del Paradiso.

A poggiare a sì alta meta e riuscir nell’uffizio, vi abbisogna fatica, diligenza e pazienza, per quanto a voi s’appartiene, e molto più v’abbisognano speciali ajuti da Dio qui docet hominem scientiam: ora voi conseguirete questi ultimi, se li domanderete incessantemente nell’orazione, che tutto ottiene a chi crede: e non vi stancherete giammai, se per modello vi proporrete il nostro Signor Gesù Cristo, che con tanta tenerezza ed amore abbracciava i fanciulli, e diceva ai suoi Santi Apostoli sinite parvulos …ad me venire. Il Divin Redentore è quello, che soprattutto deve confortarvi; egli, che abbastanza vi fa intendere di non lasciarvi tentare da uno spirito di sciocca vanità, che forse vi suggerirà essere troppo vile e futile occupazione l’invigilar con impegno all’educazione dei fanciulli, quasi l’instituir quell’età non esigesse perizia e cura: no, mio collega amatissimo, non vi lasciate sedurre; ma siate appieno convinto, che il vostro impiego, è faticoso ed arduo di sua natura, richiede molta prudenza, e cognizioni teoriche insieme e pratiche, onde proporzionare l’istruzione a tutti, ed a ciascheduno; mentre dovete proporvi di non trascurarne neppure uno solo. Videte ne contemnatis unum de pusillis istis. Perciò non sarà inutile lo applicarvi a considerare sovente le compendiose istruzioni che ho compilate per voi, adoperandovi a metterle in pratica, ed a considerare di quando in quando come, e quanto vi riusciate.

Ad un giovine, qual voi siete, già consagrato al Signore e insignito del Sacerdozio, inclinato inoltre a fare il bene, e per natura e per dovere, è troppo ancora quello che ho detto: laonde, senza aggiunger parola, conviene entrare in materia.

La scuola detta Normale, perché, siccome io penso, dovrà dar norma al maestro per giudicar sanamente della naturale attitudine che aver possono i suoi discepoli alle professioni diverse che imprenderanno col tempo, e dovrà dar norma ai discepoli a ben regolarsi e condursi in qualsivoglia mestiere, a cui si possano dedicare col consiglio del loro maestro, e consenso de’ genitori, a tenore del Regio Editto, si restringe ad instituire i fanciulli nei buoni principi della Religione, e della Morale, dell’Agricoltura e del conteggio pratico. Ma poiché per tale instituto, e qualunque altro siffatto, conviene prima di tutto apprendere bene a leggere e scrivere, uopo è, che il maestro incominci dall’insegnar l’alfabeto.

CAPITOLO PRIMO

Del metodo d’insegnar l’alfabeto.

1. Affine di evitar la spesa dei libretti di alfabeto e degli altri di prima lettura dovrà affiggersi alla parete della scuola un cartellone scritto in grossi caratteri col mezzo dei rami traforati, od in altro modo. Si otterrà così il vantaggio di fare che gli occhi e le menti degli scolaretti dipendano sempre dall’indicazione che farà il Maestro con la punta della bacchetta sul cartellone.

2. Il Maestro deve procurare d’insegnare alla bella le prime cinque lettere vocali dell’alfabeto maiuscolo, e quindi le consonanti nell’ordine loro, mostrandone poche alla volta, senza più inoltrarsi, finché non sieno ben conosciute le prime.

3. Dovrà pronunziare le consonanti, e farle pronunziare ai fanciulli col loro puro valore, sicché appena si senta il suono di alcuna vocale B’, C’, D’, etc. e schiverà soprattutto di dire effa, ella, emme, enne, essa, per f, l, m, n, s.

4. Conosciute le lettere majuscole (è vano il saperle a memoria), si procederà a far conoscere le minuscole coll’ordine medesimo, cioè prima le vocali, poi le consonanti.

5. Quando siano conosciute le une e le altre, il Maestro confronterà ogni minuscola colla majuscola dello stesso valore, e quindi domanderà al fanciullo, che gli additi nell’alfabeto p. e. il D majuscolo, ed il d minuscolo, un C. c, un A. a, un R. r della stessa maniera.

6. La fatica del maestro sarà minore, e maggiore il profitto degli scolari, quando si sarà fatta venire una pietra lavagna ben nera e liscia, da collocarsi nella scuola: ed ecco l’uso da farne per l’alfabeto.

7. Il Maestro, cominciando dalle vocali, scriverà sulla pietra ciascuna lettera in carattere stampatello sotto gli occhi de’ fanciulli: l’additerà ai medesimi con una sottile bacchetta, pronunziando la lettera ad alta voce: la pronunzieranno allora i fanciulli uno dopo l’altro, per evitare la confusione, e perché si ripeta altrettante volte l’insegnamento, e si imprima vieppiù nella mente.

8. In mezz’ora di lezione non si scriveranno più di 4 o di 5 lettere, le quali non si dovran cancellare infino a tanto, che i fanciulli non abbiano imparato a ben conoscerle distintamente.

9. Si ripeterà la stessa lezione, e poi si obbligheranno gli scolaretti a ritrovar da se stessi quelle lettere nel libretto.

10. Di nuovo scriverà il maestro molte lettere sulla pietra: segnerà colla bacchetta or l’una, or l’altra saltuariamente: tutti avranno intenti gli occhi alla lettera indicata dal Maestro, ma risponderà solamente quel fanciullo, che sarà da lui indicato.

11. Quando i fanciulli abbian bene appreso a conoscer le lettere majuscole, si farà la stessa operazione per le minuscole, scrivendole però sempre in carattere stampatello.

12. Per vieppiù assicurarsi, se i fanciulli conoscano bene tutte le lettere, convien cangiar sulla pietra quelle che per configurazione sono più affini tra esse. Il Maestro scriverà per esempio una i, la farà pronunziare da un fanciullo, quindi congerà col gesso in una l, aggiungerà la c al fondo della l per farne una d; di nuovo cancellata la c, e rimasta altra volta la l, passeralla a traverso con piccola orizzontale per farne una t, domandando sempre al fanciullo qual sia la lettera trasformata. Così aggiungerà alla n la terza asta per farne una m, aggiungerà l’occhio alla c per farne una e, e di nuovo la cancellerà per rifare la c, etc. etc.

13. Scriva il Maestro sulla tavola nera le lettere, che sembrano avere quasi lo stesso suono: la b e p, la c, g, la d, t, la f, v, la s, z facendo rimarcare la diversa pronunzia di ciascheduna, come altresì la diversa conformazione della b, d, p, q, che sono spesso confuse dai principianti.

Per eccitare poi il diletto ne’ fanciulli, e fissarne l’attenzione, gioverà invitare alcuni di essi a scrivere sulla tavola nera dentro due sottili righe parallele orizzontali una i obliqua dalla dritta alla sinistra. Dimostrerà a tutti gli allievi, che da questa i si forma la l, la t.

Scriverà un altro la l, e ne farà la b. di nuovo dalla i formerà la u. da un’asta, formerà la r, e da questa la n, m, h. scriverà poi una c da cui si forma la e, e la d, la g. chiudendo poi la c in circolo formerà o, a. Due c rivoltate e contrapposte fanno la x; siccome la p si fa da un’asta colla c rivoltata, e dalla metà di due c rivoltate, e sovrapposte l’una all’altra e sovrapposte l’una all’altra si forma la s da cui la v.

Facendo il Maestro osservare la differenza delle linee rette, oblique, curve, e delle medie fra le due righe a, e, n, u, e le altre, che le oltrepassano b, p, f, come altresì facendo egli rimarcare il cangiamento, e l’ordine, con cui una lettera nasce dall’altra: otterrà in breve il doppio fine d’aver instruiti senza noia i suoi allievi nella distinta cognizione delle lettere corsive, e di averli preparati allo studio della calligrafia.

Potrà inoltre ridurre tutte le lettere majuscole, e corsive a tre forme: 1° quelle che si formano con una o più linee dritte I i ec.: 2° quelle dipendenti dalla formazione di un angolo, o di linee oblique A, V, ec.: quelle formate da un cerchio, o da una linea curva o, u, ec., avvertendo soprattutto di dare le lezioni con ordinata chiarezza, ed in modo che si passi alla seconda, prima che sia ben impressa la precedente.

CAPO SECONDO

Della Compitazione e Sillabazione.

1. Dacché i fanciulli conosceranno bene le lettere, comincerà il maestro a scrivere sopra la pietra una vocale unita a consonante, e viceversa, seguendo l’ordine del sillabario.

2. Il Maestro segnando colla bacchetta ogni lettera, pronuncerà a – b ab, e – b eb, i – b ib ec.: e quando questa lezione sarà data tante volte, quante crederà necessarie, comanderà ai fanciulli di dire lo stesso, uno dopo l’altro.

3. In seguito si farà la stessa operazione per insegnar a pronunziare i dittonghi, e i trittonghi, ae – re, aere, a – ria, aria, au – ra, aura, ec.; miei, tuoi, suoi ec.

4. Infino a tanto che si abbia la tavola nera, il Maestro potrà servirsi del cartellone superiormente indicato inculcando strettamente la maggior attenzione, ed adoperando per esercitarla il metodo di interrogar or l’uno, or l’altro, come già si è detto.

5. Compitate per qualche tempo le sillabe isolate, i dittonghi e trittonghi, si comincerà a far compitare le parole di due sillabe, per esempio ac – qua, acqua; boc –ca, bocca; bar – ca, barca, ec. Quindi le trisillabe, o polisillabe, p. e. abi – to, abito; bam – bi – no, bambino; ca – pret – to, capretto; fan – ciul – lo, fanciullo; pa – e – sa – no, paesano, ec.

6. Sarà bene che quando abbiano i fanciulli acquistato qualche esercizio, il Maestro li faccia compitare a memoria. Egli dirà p. e. p – a – c – e ed il fanciullo ripeterà pace: ovvero pronuncerà l’intera parola, e faralla scomporre dal fanciullo, in guisa, che pronunciando il Maestro pace dica lo scolaro p – a – c – e, pace.

7. Esercitati nel compitare, saranno introdotti i fanciulli a sillabare, cioè a pronunciare ogni sillaba senza nominar le lettere le lettere e dicendo addirittura ab, eb, ib, ob, ub; ba, be, bi, bo, bu.

8. Per risparmio di fatica e di tempo, si assegneranno sulla tavola a molti fanciulli le stesse parole da compitare, ed altre da sillabare. Compiterà quindi uno di essi ad alta voce, e gli altri faranno lo stesso sotto voce, seguendo con l’occhio la parola che verrà indicata dalla bacchetta e compitata: così anche per sillabare.

9. Quando saran giunti i fanciulli a ben compitare, e ben sillabare, si dovrà loro spiegare che cosa sieno vocale, consonante, sillaba, parola, dicendo per es., che le vocali sono così dette perché hanno voce da sé medesime, e si pronunciano con semplice apertura di bocca; e che le consonanti sono così chiamate, perché per se stesse non hanno suono perfetto, ma debbono andar congiunte con le vocali ec.

10. Finalmente avvertirà il Maestro, che nell’esercitarsi i fanciulli, al compitare, o sillabare, niuno di loro si avezzi a far cantilena, o a masticar parole, a precipitare, od a strascinar la pronuncia: correggane i difetti, ed li conforti ed ajuti a spiegar chiara, piacevole ed alta quanto basti, la voce.

CAPO TERZO

Dell’insegnar a leggere.

1. Dopo che sapranno i fanciulli ben compitare e ben sillabare, comincerà il Maestro a divezzarli dal pronunciar lettere o sillabe isolate, ma, permettendo al principio, che lo facciano sotto voce, esigerà che preferiscano soltanto le intiere parole, concedendo eziando che possano farlo con qualche tardanza tra l’una e l’altra delle medesime.

2. Quando essi ciò eseguiscano con più prestezza, leggendo alquanto più speditamente, procurerà, che da loro siano ben pronunciati gli accenti, che facciano ben sentire le consonanti addoppiate, e non raddoppino la pronuncia delle consonanti semplici, che calchino le sillabe finali, e sappiano pronunciare, e distinguere le parole tronche, e apostrofate.

3. Per avezzarli a leggere in modo piano e naturale, dovrà il Maestro preleggere egli stesso due o più volte le piccola lezione assegnata, affinché gli scolari ne sappiano incitare le pause e la pronuncia.

4. Da principio il Maestro leggerà poche righe, o corte sentenze, e si varrà a preferenza di quelle che si trovano raccolte infine di questo scritto, spiegandone e commentandone i precetti .

5. Quando il Maestro abbia letto, farà leggere ad uno scolare la prima massima, poi la seconda ad un altro, e la seguente ad un terzo, affinché tutti si trovino nell’impegno di stare attenti; e mentre lo scolare interpellato legge ad alta voce un pensiero, in modo, che tutti sentano, gli altri abbiano fissi gli occhi al libro, e leggano lo stesso tacitamente.

6. Perciò non permetterà il Maestro, che i più abili scolari leggano più speditamente degli altri nel primo tempo, e ciò affine che i meno abili possano seguir la lettura cogli occhi, senza essere costretti a trascorrere qualche parola da essi non ben veduta: laonde sarà sempre meglio esercitare con più frequenza i meno capaci, costringendoli a leggere ad alta voce.

7. Finito, che abbia ciascuno finito di leggere la sua parte, il Maestro rileggerà tutta la lezione di nuovo: e nei primi due anni ne ripeterà le parole in dialetto sardo, p. e.: Ascolta, o figlio, la voce del padre tuo: obbedisci al comando della madre tua: Isculta o fizzu sa oghe de babbu tou: obbidi a su comandu de mamma tua.

8.Farà poi separatamente delle domande intorno alle parole lette, p.e. : fizzu, che è sardo, come si dice in italiano? La tal parola come si esprime in sardo? Ec.

9. Il dialetto sardo potrà convenire ove d’uopo a dichiarare il senso di una voce, e la tessitura di una frase. Sarà utile cosa, che il fanciullo si eserciti nel tradurre nel suo dialetto le sentenze italiane, che si proporranno. Il confronto dei due idiomi servirà pur molto a renderne più stabile l’intelligenza.

10. Allorché i fanciulli saranno esercitati fino ad un certo segno nella lettura, converrà far loro osservare le interpunzioni, cioè da prima il punto fermo, poi la virgola, il punto e virgola, i due punti, ed i punti interrogativo ed esclamativo. Da prima si deve dir loro, che tali segni servono ad indicare le pause, che bisogna fare nel leggere, conforme a quelle, che fa il maestro nella sua prelezione, ed il tono di voce, che deve farsi alle domande, ed esclamazioni; e poi al debito tempo s’indicheranno ancora le ragioni, per le quali bisogna apporre il punto alla fine d’ogni periodo, e nel decorso qua una virgola, là un punto e virgola, o due punti.

CAPO QUARTO

Della scelta dei libri da leggere, e del metodo da tenersi nella lettura.

Lo scopo della Scuola Elementare Normale, essendo d’insegnare a ben leggere, a ben scrivere, ad avezzar l’intelletto al buon ordine delle idee, onde s’apprendano prima le massime di nostra santa Religione, e restino profondamente scolpite nel tenero cuor dei fanciulli, e quindi s’abbiano giuste nozioni intorno all’agricoltura, che potrebbe essere per questo Regno la più copiosa sorgente della pubblica prosperità, e si faciliti a tutti un mezzo d’economia col buon uso dell’aritmetica, non parmi, che dal Maestro seguir si possa l’antico metodo delle scuole primarie, imbarazzando i fanciulli colla lettura or dell’Uffizio latino della Beatissima Vergine, or del Donato, degli Elementi della stessa lingua latina, ed altri simili libri.

1. Il perché, infino a tanto, che il Magistrato sopra gli studj, non assegni e prefigga egli quei libri, che devono leggersi nelle incominciata Scuole Normali, è mio massimo desiderio, che appena i nostri fanciulli leggano mediocremente, siano messi tra le loro mani il secondo, e terzo fascicolo delle bellissime letture, che all’infanzia propone il Professore Anselmi, unitamente ai due primi fascicoli di Storia Sacra: fascicoli, che a discretissimo prezzo si vendono sciolti in Torino.

2. Il Maestro dovrà prepararsi in casa la lezione che ha da far nella scuola ai suoi scolari: vegga se ben la intenda egli stesso e mediti i mezzi più facili da farla capire ai fanciulli. Preparandosi previamente, non gli mancheranno paragoni, esempi, modi di dire usuali per farsi intendere, e rendere tutto palpabile.

3. Obbligherà gli scolari a parlare, e leggere in modo, che possano essere condiscesi dai discepoli tutti, schivando però d’alzar la voce soverchiamente, o di intralciare le parole.

4. Dopoché ciascuno abbia letto una porzione della lezione, come si è detto (cap. 3 n. 5), il Maestro interrogherà or l’uno, or l’altro degli scolari saltuariamente, affinché neppur uno sia disattento. Le sue interrogazioni si aggireranno soltanto sulla fatta lettura, onde assicurarsi così, se i fanciulli abbiano capito, e come sappiano manifestare quei pensieri che han concepiti.

5. Se rispondono nulla o male, il Maestro li domanderà nuovamente, ma in modo, che la domanda possa suggerir la risposta, che converrebbe di dare.

6. Le domande del Maestro dovranno essere brevi, chiare, precise, e riguardare una sola cosa per volta. A ciò posson servir d’esempio i dialoghetti, che si ritrovano dopo alcune poche lezioni, nei fascicoli di sopra indicati dell’Anselmi.

7. Il Maestro non starà sempre letteralmente attaccato alle domande di que’ dialoghetti, ma potrà, e dovrà variarle in più maniere, affinché si avezzino gli scolari a rispondere senza attenersi troppo alla materialità delle parole.

8. Nel caso, che lo scolare dica di non capire neppur la domanda, che accennava la risposta, insista il Maestro a proporla ancora con altri termini, e per quanto sarà fattibile procuri, che il fanciullo risponda in qualunque modo.

9. Dandosi dallo scolare una risposta falsa o incompleta, o eccedente i confini della domanda, il Maestro ne raddrizzi i difetti, e spieghi allo stesso tempo la qualità di ciascun difetto in particolare.

10. Mentre colle letture fatte con metodo va procurandosi lo sviluppo delle facoltà intellettuali de’ fanciulli, si faccia conto eziando della memoria. Ad esercizio della medesima serviranno ora gl’indicati dialoghi, che seguono le lezioni dei prelodati fascicoli, ora le parti previamente bene spiegate del breve Catechismo Cristiano, ovvero del Catechismo d’Agricoltura, che sarà prescritto alla scuola.

CAPO QUINTO

Della Calligrafia.

1. Quando i fanciulli saranno arrivati a saper leggere mediocremente, sarà cura del Maestro d’istradarli nella scrittura. A questo fine importando di evitare sul bel principio l’inutile imbrattamento della carta, il Maestro comincerà ad avezzarli alla formazione delle lettere sulla pietra nera, se si avrà, oppure sulla sabbia fina, e li animerà ad applicarsi con tutto l’impegno allo studio di tal arte facendone valere l’utilità che si ricava dal manifestare le proprie idee a persone assenti, e molto lontane per via delle lettere missive, ed al preservarsi dai danni della dimenticanza collo scrivere ciò, che si vuole tenere a memoria, ec. ec.

2. Proporrà prima un abbicidario in lettere majuscole: quindi un altro colle medesime majuscole unite alle minuscole in carattere corsivo: e finalmente una tavoletta di cifre arabiche numeriche.

3. Dando poscia ai fanciulli il primo esemplare, mostrerà loro come se lo debbano tenere davanti, come abbiasi a rigar la carta, su cui debbono scrivere, come colla mano sinistra abbiasi da tener ferma, e come abbiano da sedere scrivendo.

4. Dando loro in mano la penna insegnerà ai medesimi come la debban tenere per non imbrattarsi d’inchiostro, e per girarla facilmente, come condurre per imitare le lettere che devonsi formare sul modello di quelle che han sotto l’occhio, considerandone prima le parti, che compongono ciascuna lettera, e tirando una linea dopo l’altra per ben formarla.

5. Il Maestro farà concepire la differenza di queste linee: a tal fine darà ai fanciulli varie prelezioni sopra la pietra lavagna, formando egli sulla medesima diverse linee rette, curve, trasversali, oblique ec.

6. Da principio si contenterà, che i fanciulli sappiano dire qual linea è retta, qual curva, qual trasversale, quale obliqua, quali curve si pieghino a sinistra, quali alla destra: e dopo d’aver impiegate alcune ore del giorno a quest’utile insegnamento, comincerà a dir loro, che tutte le lettere vengono a formarsi col buon uso di tali linee, che basta p. e. una retta per formare la l, che sotto questa verso sinistra si attacca un c, s’avrà un d piccolo, se le si attacca alla destra a rovescio, si avrà un b piccolo, e così un B grande, attaccandovi un c al rovescio per due volte ec.

7. Egli ripeterà molto spesso la medesima operazione sopra la pietra, e dopo farà osservare sugli esemplari, e separatamente, le linee che compongono ciascuna lettera, e tutto ciò prima d’obbligare i fanciulli a scrivere, acciocché, prevenuti bene da queste nozioni, abbiano nella loro mente una forma di quella quasi pittura, che la mano dovrà formare sulla carta.

8. Anche dopo che i fanciulli avran cominciato a scrivere, ripeterà sulla pietra gli stessi precetti, e specialmente per correggere gli errori di ciascheduno a vista di tutti.

9. Ai principianti dovrà temprarsi la penna, e rigarsi la carta. Il Maestro insegnerà la maniera, onde possano poi farlo da se medesimi e gli avvertirà di scrivere le lettere tra le righe.

10. Per l’abbicidario delle majuscole formerà due righe parallele in proporzionata distanza, e quando i fanciulli sapranno scrivere l’abbicidario majuscolo, il Maestro tirando altra linea fra le due ch’erano distanti, scriverà nuovamente le majuscole, come prima, fra le due linee estreme, e le minuscole fra la riga di mezzo, e l’ultima inferiore.

11. Dopoché sapranno i fanciulli formare questi abbicidari, si avezzeranno con altro nuovo esemplare a scrivere sillabando sopra la carta, come sillabarono prima a voce, e finalmente dovranno scrivere le intiere parole, e divezzarsi col tempo dalla rigatura.

12. Per que’ fanciulli che si prevedono destinati ai lavori della campagna o ad altri meccanici, basterà, che imparino a scrivere in modo leggibile, ma dovranno avere tanto esercizio, che più non possano più facilmente dimenticare ciò che hanno appreso.

13. Riguardo agli altri, che debbono progredir negli studj, potrà il Maestro procacciarsi il libro intitolato Avviamento alla Calligrafia colle quattro tavole incise, che vi sono annesse. Studiando egli sopra il metodo di quel libro potrà dare migliori lezioni ai discepoli, profittandone ancor per se stesso, qualora sia bene al fatto di capirne tutte le regole.

CAPO SESTO

Dell’Aritmetica

Sezione prima

Dell’Aritmetica mentale.

Prima d’introdurre i fanciulli all’aritmetica scritta, dovranno esercitarsi nel conteggiare a memoria.

1. S’insegnerà loro a numerare sulle dita 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10.: poi a numerare i condiscepoli, i libri, le penne, e simili cose palpabili.

2. Dopo ciò s’insegnerà a sommare per via d’esempi, v. g. <Un padre ha dato al suo figlio due pere alla colazione, tre al pranzo, una alla sera, e due alla notte, quante pere gli ha dato?>.

3. S’insegnerà a sottrarre con altro esempio consimile dicendo: <Ad un fanciullo furono regalate otto pere: egli ne diede due al suo fratello, tre alla sorella maggiore, due alla sorellina: quante pere son rimaste a lui?>.

4. Della stessa maniera s’insegnerà a moltiplicare, dicendo, per esempio; <io ho tre noci in una saccoccia; quante ne avrei se ne portassi altre tre nell’altra saccoccia? Quante se avessi tre saccocce con altrettante noci in ciascheduna?> ec.

5. S’insegnerà a dividere, dicendo p. e.: <Sei noci furono divise fra due fratelli in porzioni uguali: quante noci ebbe ciascheduno?> <Una madre, che ha quattro figli, divise fra loro dodici noci in parti uguali: quante ne diede a ciascheduno?>.

6. Dopo che si saranno esercitati i fanciulli con variati quesiti o problemetti nel conteggiare a memoria, si spiegherà la denominazione delle quattro operazioni dell’aritmetica, e come nel primo esempio si è fatta l’addizione, e si è avuta la somma delle pere; nel secondo la sottrazione delle medesime: nel terzo e quarto la moltiplicazione, e divisione delle noci.

7. Quindi il maestro farà ai fanciulli nuovi quesiti, con nuovi esempi di addizione, sottrazione ec., e quando vengano sciolti dai fanciulli egli domanderà per mezzo di quale operazione li abbiano sciolti.

8. Simili scioglimenti, e quesiti diletteranno i fanciulli, li avezzeranno a pensare, a giudicare, ad esercitarsi investigando, ed a disporsi a capir prontamente le quattro operazioni dell’aritmetica scritta.

9. Affine di agevolare nello stesso tempo all’intera adunanza degli scolari la pratica del conteggio io propongo quello adottato nella scuola della Mendicità istruita in Torino; eccone l’esposizione.

Chiamisi uno degli scolari a scrivere i numeri dettati dal Maestro sulla pietra lavagna, che sarà a vista dell’intera scuola.

Con un colpo di bacchetta sul banco, il Maestro indicherà silenzio ed attenzione.

Con due altri indicherà il cominciare dell’operazione per la bocca d’uno scolare.

Con un altro colpo il dover esso tacere, e continuare il compagno vicino, od altro accennato, e così via via per intrattenere, e fomentare attenzione generale nell’uditorio.

Questo metodo, con cui si guadagna tempo, e si risparmia noja, e fatica, potrà adottarsi nella lettura delle tavole, di cui sovra.

SEZIONE SECONDA

Dell’aritmetica in cifre

1. Son dieci sole le cifre dell’aritmetica scritta, cioè 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 0.

2. Il Maestro scriverà queste cifre sopra la pietra; spiegherà il loro valore, e farà sentire ai fanciulli, che tutte le cifre fino a 9 non valgono che sole unità, dicendo, che la prima cifra vale un’unità sola, la seconda due unità, la terza tre ec.; ma che il zero, che per se medesimo non vale niente, serve a fare, che quelle cifre, le quali sarebbero unità semplici, divengano decine, o centinaja, o migliaja ec.

3. Cancellando dalla pietra le cifre scritte, e di nuovo scrivendo un 0, dirà per esempio il Maestro: questo, che ora scrivo è un zero, il quale di per se stesso è nulla, ma se metto avanti del 0 un 1, che senza il zero sarebbe semplicemente unità, questa unità divien dieci, ossia unità di decine, a cagion del posto secondo che occupa, guardando dalla destra verso sinistra.

4. Dunque il valore delle cifre cresce del decuplo a proporzione del luogo in cui sono scritte avanzando dalla destra alla sinistra: e quindi la cifra più vicina alla destra contiene semplice unità (se pur non fosse un 0, che vuol dire che mancano le unità) la seconda, decina, la terza centinaja. In seguito ricominciano le unità di milliaja, quindi le duene di milliaja, poi le centinaja di milliaja. Al settimo posto, è l’unità di milione ec.

5. Una lunga fila di cifre deve sempre considerarsi, cominciando prima di tutto dal contarle da destra a sinistra: dopo le prime tre si appone una virgola sotto, dopo tre altre, una virgola sopra, e con questo metodo si vien a trovare facilmente ed a pronunziare il valore di tutta la fila di dette cifre, numerandole dalla sinistra verso la destra.

6. Scriva il Maestro la seguente fila di cifre 1’264,543. Or cominciando dall’ultima cifra a destra dirà, tre unità, quattro decine, cinque centinaja (qua si trova una virgola, e vuol dire, che son finite le unità, le decine, le centinaja semplici). Le seguenti saranno dunque quattro unità di milliaja, 6 decine di milliaja, 2 centinaja di milliaja (qua si trova una virgola sopra, e questo vuol dire, che incominciano le unità di milione): e quindi tutta la fila delle cifre dovrà leggersi tornando indietro dalla sinistra alla destra, e dicendo un milione, duecento sessanta quattro mila, cinquecento quarantatré.

7. Nonostante, che siasi portato il sopra detto esempio, non conviene di scrivere dal principio più di tre cifre; quindi si progredirà a poco a poco per non opprimere le tenere menti dei fanciulli.

§ 1

Dell’addizione, ossia del sommare.

Nel supposto, che i fanciulli sappiano già sommare a memoria alcuni numeri, questi stessi si scriveranno in cifre sopra la tavola; il Maestro spiegherà l’ordine con cui si devono scrivere, cioè gli uni sotto gli altri in linea perpendicolare, p. e.

quindi tirerà sotto le cifre una linea orizzontale, e dirà uno, e due fan tre, e tre che fan sei, dunque la somma di queste cifre è sei, e questo 6 deve mettersi sotto la linea orizzontale nello stesso posto in cui sono i numeri di sopra

Avanzando dal più facile al più difficile si scriveranno dei numeri semplici, la cui somma faccia qualche decina, p. e.

Ed il Maestro mostrerà come detta somma si deve scrivere sotto la linea, cioè in guisa, che le unità della somma stiano sotto alle unità del sommato, e le decine avanzino di un posto, appunto come apparisce dall’esempio di sopra scritto.

In progresso si faranno sommare dei numeri composti di sole decine, p. e.

E così di mano in mano s’avanzerà a sommare dei numeri, che siano composti di centinaja, milliaja ec, ripetendo spessissime volte gli esempi della addizione, finchè questa sia ben compresa, prima di passare alla sottrazione.

§ 2.

Della Sottrazione

Anche per sottrarre userassi lo stesso metodo, cioè di sottrarre prima a memoria con de’ quesiti chiari, e piacevoli (vedi Sez. 1 n.3).

Dopo s’avvertiranno i fanciulli, che non potendo sottrarsi una quantità maggiore dalla minore, bisogna che la somma sottraenda sia minore, o al più uguale a quella da cui deve sottrarsi.

Dunque la quantità maggiore dovrà scriversi sopra e sotto di quella la quantità minore, che si chiamerà sottraenda: p.e.

Da principio si daranno tali numeri, che non abbisogni di prender decine in prestito: quindi si dirà qual cosa bisogni fare quando la cifra inferiore è maggiore di quella di sopra, o quando occorra un zero da cui abbisogni sottrarre, esempio

Saputa la sottrazione, s’insegnerà ai fanciulli come essa serve per provar la buona addizione, e questa a provar la sottrazione ben fatta.

§ 3.

Del moltiplicare

Si esporrà ai fanciulli, che per moltiplicare abbisognano due numeri: di questi uno si chiama moltiplicando, e l’altro moltiplicatore. Il moltiplicando si scrive sopra, e il moltiplicatore sotto; e la quantità, che poi ne risulta, si chiama prodotto.

Date queste nozioni, il Maestro incomincerà cogli esempi addotti di sopra (vedi seg. 1 n. 4).

Sul principio scriverà i numeri semplici, che i fanciulli appresero a moltiplicare a memoria. A questi seguirà l’esempio di un moltiplicando di varie cifre, e di un moltiplicatore di una sola cifra in modo, che il prodotto parziale di una sola cifra non giunga alla decina; e gradatamente progredirassi a quei numeri, il cui prodotto parziale arriva alla decina, e quindi a quei numeri che la oltrepassano. Finalmente si metterà un moltiplicatore di più cifre, regolandosi sempre in proporzione della capacità, e dei progressi dei fanciulli.

Dopoché essi sapranno moltiplicare speditamente, allora si dirà loro, che trattandosi poi di moltiplicar per 10, basta aggiungere un zero al moltiplicando, e così a moltiplicare per cento basta aggiungere due zeri ec.

§ 4.

Della Divisione

Si richiamerà l’esempio d’una madre, che divise 12 noci tra 4 figli, delle quali toccarono tre a ciascuno (v. Sez. 1 n. 5): si spiegherà come il 12 è il numero dividendo, il 4 è il numero divisore, ed il 3 chiamasi quoziente dal latino quoties, che significa quante volte, perché il quoziente indica quante volte il numero 4 si possa sottrarre dal 12, o si contenga in questo.

Si comincerà con un dividendo, e divisore di una sola cifra, e mostrerà il Maestro come s’abbian da scrivere p.e. 8/2. Per saper il quoziente basta pensare a quante volte il 2 si può sottrarre dal 8: ora si può sottrar 4 volte; dunque il quoziente è quattro, che si deve scrivere sotto la linea del 2:

Si progredirà di un dividendo di 2 o 3 cifre con una cifra per divisore: ed a proporzione del profitto passerà il Maestro a scrivere un divisore di più cifre, finché con frequenti esempi, ed operazioni fatte con gran pazienza, ed esposte con gran chiarezza, giunga il maestro a far capire il tutto ai fanciulli, addestrandoli in ultimo alle prove della divisione per mezzo della moltiplicazione, e viceversa: e spiegando loro le ragioni perché la multiplica si provi colla divisione, e la divisione col ,moltiplicare il quoziente col divisore, onde avere il numero dividendo.

CAPO SETTIMO

Della ortografia in generale

1.Infin da quando incominciano i fanciulli a sillabare e compitare le lettere, le mire di un buon Maestro devono essere rivolte ad istruirli insensibilmente e avezzarli al retto scrivere, che chiamasi ortografia.

2. A ciò contribuirà il ben sillabare, il ben compitare, e la buona pronunzia nel leggere le parole.

3. All’occasione delle lettere, il Maestro arà fatto ben osservare ai fanciulli l’accento grave e l’acuto, e l’apostrofo, e come in alcune parole si addoppiano le vocali e le consonanti.

4. Sarà quindi sempre severo nello esigere dai medesimi il giusto suono della pronuncia dell’accento, dell’apostrofo, e delle lettere doppie, e non si stancherà di ripetere qualche osservazione ortografica all’occasione di certe parole, che occorreranno nelle letture.

5. Le cose, che si dettano agli scolari devono essere tutte instruttive, ma adattate alla loro capacità. Consisteranno in alcune sentenze morali, in regole di prudenza, di sanità, di creanza, ec., in lettere missive, formole di quitanza, e simili cose che occorrono nella vita comune .

6. le composizioni dettate dal Maestro dovranno scriversi in quinterno dagli scolari, e quindi farli correggere essi le scriveranno di nuovo in cartellini volanti, che saranno raccolti e letti dal Maestro. Egli ne indicherà gli errori in particolare, e finalmente detterà in comune la stessa cosa ben corretta, che sarà scritta da ciascheduno in altro quinterno, che spesso dovrà consultarsi dagli scolari, per quindi avere un modello da seguire nelle loro scritture.

CAPO OTTAVO

Dell’ortografia in particolare

Siccome la difficoltà più comune che occorre nell’ortografia italiana, riguarda principalmente l’addoppiamento di certe lettere, le quali non di rado si scrivono da molti alla ventura, or semplici, ora addoppiate; ho stimato bene di soggiungere le osservazioni seguenti: le quali se tutte non sono adattate alla capacità dei fanciulli della Scuola Normale, possono però servire ai medesimi per altro tempo. Per ora il Maestro spiegherà quelle, che i fanciulli possono capire, raccomandando loro, che conservino scritte le altre per servirsene, quando sapran la lingua latina.

OSSERVAZIONE PRIMA

Dell’addoppiamento delle vocali

La lettera e deve addoppiarsi nel plurale de’ nomi femminili, dei quali il singolare termina in ea, come Contea, Contee ec.

La lettera i raddoppiasi ne’ superlativi, e nelle voci plurali di moltissimi nomi, il cui retto singolare termina in io. Intorno a ciò ecco le regole.

Regola prima

Le voci terminanti in io, il quale non sia dittongo, e quelle, che da esse derivano, vogliono i doppia, sia che finiscano in i o in imo, o in issimo, come proprii, propriissimo: ma nel finimento sarà meglio scrivere j lunga in vece di due ii come proprj.

Regola seconda

Se l’io della voce è dittongo, la i non raddoppiasi nei plurali, e derivati: così non si scrive ampii, ma ampi da ampio; ampissimi e non ampiissimi.

Regola terza

I nomi terminati in io sopra i de’ quali si posa l’accento, come natio, mormorio ec. ec.: quelli ancora, che han due sillabe, come zio pio ec., quantunque il loro io non sia dittongo, si scrivono nel plurale con semplice i.

Regola quarta

I nomi terminati in io, che sono d’origine affatto italiana, o che derivano dal latino con qualche scambiamento di lettera, come palagio, da palatium, quantunque non terminino con dittongo, vogliono una sola i.

OSSERVAZIONE SECONDA

Delle consonanti doppie.

Per regolarsi nell’addoppiare le consonanti, tre cose bisogna attendere. 1° Ai dittonghi, che spesso occorron nelle parole. 2° All’origine latina delle medesime. 3° Alle parti, onde son composte.

1° Nelle parole, ove io, ed ia sono dittonghi, e fanno perciò una sola sillaba, si raddoppiano le consonanti g, c poste in mezzo a due vocali: se io ed ia sono dittonghi, allora non si raddoppiano. Or per conoscere quando io ed ia sieno dittonghi, o no, ecco le regole.

Regola prima

Se la voce ove trovasi io ed ia vien dal latino senza niuna o quasi niuna mutazione l’ io e l’ ia italiano sarà tale, quale è il latino. Così dalle voci latine privilegium, imperium, gloria, victoria ec., vengon le italiane privilegio, imperio, gloria, vittoria, che non fan dittonghi in italiano; poiché non sono in latino. Da questa regola però vengono eccettuate le parole seguenti, cioè faccio, taccio, giaccio, piaccio, ed il nome faccia; parole che in italiano fan dittongo, che ha forza di raddoppiare la consonante c; al contrario in latino nol fanno, onde io in facio, ed ie in facies sono due sillabe distinte.

Regola seconda

Se nella voce latina si cangia in g la lettera d della voce latina, l’ io italiano sarà dittongo; così da modius vien la parola italiana moggio: se però il t, o la s della voce latina si cambian nella parola italiana in g, o in z, allora l’ io italiano non è dittongo: così Ambrogio da Ambrosius, ozio da otium.

Regola terza

Nelle parole originariamente italiane io, ed ia per l’ordinario son dittonghi. Vengon però accentuate, 1° le parole verbali finite in gione, come guarnigione ec., 2° quelle che hanno la i breve, come baldoria, o la premono coll’accento, come natio, restio, ec., 3° alcune voci particolari, al cui io ed ia precede la consonante g, come agio coi suoi derivati agiato, disagio ec., fregio, malvagio, ligio, bigio, indugio, valigia, ciriegia, ingordigia, trangugio, palmigiano, cagione, fagiano, artigiano, cortigiano: benché nel verbo corteggio, corteggia, io ed ia, sian dittonghi.

2° Riguardo alle voci italiane, che non sono dissimili alle latine dello stesso significato, fuorché nell’inflessione, avran le consonanti doppie, o semplici, quali le hanno le voci latine. Sono però eccettuate le parole seguenti: legge da lex, legis: leggere, o figgere dagl’infiniti latini legere, figere: faccio, giaccio, taccio, piaccio, ed il nome faccia dal latino facio, jacio, taceo, placeo, facies. Alcuni eccettuano ancora le voci italiane, abate, comune, comodo, gramatica, sabato, ufizio: che in latino si scrivono con doppia b b, doppia m m, doppia ff: ed al contrario usano di scrivere fabbricare, obbligare, libbra, pubblico ec. parole, che in latino si scrivon con semplice b; ma il Bartoli attesta, che tali parole si sono scritte a piacimento, or con semplice, or con doppia lettera dagli autori del miglior tempo. Del rimanente per le altre parole italiane, che hanno lo stesso significato latino, ecco alcune regole.

Regola prima

Quando le voci latine han due consonanti diverse, come b v, d v, d m, b s, m v, in italiano si addoppia l’ultima consonante: così da advocatus, avvocato; da obviare, ovviare; da admonere, ammonire; da obsequium, ossequio; da somnus, sonno ec.

Regola seconda

La lettera x delle voci greche, o latine, che si fanno italiane si cangia ss doppia, ovvero in c doppia ad eccezione delle due parole, maxilla, axilla, che fan mascella, ascella. Quindi se la x si trova in mezzo a due vocali si cangia in ss doppia, onde massimo da maximus, se però la x precede la consonante c, come nella parola excidium, si cangia in c doppia, come eccidio.

Regola terza

Se la parola latina incomincia con ex, e segue alla x una vocale, allora la s si scrive semplice, come da exemplum, esempio ec. Dello stesso modo si scrive in italiano la s semplice quando la x è al principio delle parole, come Serse, da Xerses; ma se la x si trova alla fine, come nelle parole lex, Rex, pax, nox, felix, ec., si fanno tante mutazioni, che non può darsi regola fissa.

Regola quarta

La lettera z nelle parole d’origine, greca e latina, si scrive come si trova nella sua origine, v.g., zizania, nazianzeno: ed è lo stesso se il t latino si cangia in z, vitium, vizio ec.; ma nelle voci puramente italiane la z che sta in mezzo a due vocali sempre sai raddoppia ad eccezione della voce strazio, e del caso in cui la z segue ad una sillaba breve come poliza.

3° Finalmente, per ciò che spetta a raddoppiar le consonanti delle parole composte le regole della 3a Sezione della Grammatica italiana del Professore Anselmi, si posson dare più ampie nel modo seguente.

Regola prima

Tutte le voci monosillabe de’ verbi (non però quelle, che sono tronche, come fe’ in vece di fece), e tutte le non monosillabe, che hanno l’accento sul fine, han forza di raddoppiar la consonante seguente, toltone il pronome gli. Così in vece di dire vi è, vi fu, ti ho, ec. si dice evvi, fuvvi, hotti: invece di dir lo amò, lo farò ec., si dice amollo, farollo ec., ed al contrario si scrive fello pigliare in vece di dire lo fe’ pigliare.

Regola seconda

Le voci accentate v. g. ciò, acciò, perciò. Però, colà, là, già, sì, ec. posson raddoppiare la consonante della seconda voce componente; ma il Bartoli è di parere, che possa lasciarsi con ugual lode l’addoppiamento, a grado di chi scrive, v. g. scrivendo acciocché, ed accioché, perocché, e peroché. Lo stesso con maggior ragione può dirsi delle altre particelle non accentate, come pro, sopra, contra, mentre, altro, e scriversi proccurare, e procurare, contraddire, e contradire, mentrechè e mentrecchè.

Regola quarta

La monosillaba in avanti a parola, che comincia con l, m, r, lascia la sua n, e raddoppia la consonante della parola accoppiata, onde si scrive illegittimo, immergere, irrigare ec. Ma se la componente incomincia da vocale, la in si lascia intera, e non segue raddoppiamento, fuorché nelle parole seguenti, cioè innanzi, innanellare, innacquare, innannimire, innestare, innaffiare, innabissare, innostare, innasprire, innebriare, innalberare, innalzare, innagrestire, e forse qualche altra: non di meno le sei ultime voci si trovano scritte ancor con semplice n.

Regola quinta

Il ri non porta raddoppiamento, onde si scrive rifare, ridire ec.: ma il di raddoppia la f nelle parole, che cominciano da tal lettera ad eccezione di queste due difetto, e difendere coi loro derivati. Raddoppia ancora la s in tutti i composti derivanti dalla lingua latina, come dissimile, dissoluto ec.; varia però nei composti puramente italiani, onde si scrive disegnare, disertare, disotterrare, ed al contrario scrivesi disserrare, dissettare, dissapore, dissipare, dissodare nel che molto vale il giudizio dell’orecchio.

Regola sesta

La particella co raddoppia sempre la prima consonante della parola componente, eccettuate le voci seguenti: cotale, cotanto, colà, comandare, comare, comune, colazione, benché riguardo alle due ultime si scriva ancora commare, collazione.

CAPO NONO

Dell’istruzione religiosa

1. Il Maestro spiegherà ai fanciulli il piccolo Catechismo della Diocesi, nei giorni a ciò destinati, limitandosi a poche domande e risposte: procurerà da principio, che essi ne capiscano bene le parole ed il senso; e quindi farà ai medesimi delle interrogazioni in modo facile e piano, onde assicurarsi se ben capirono la sua spiegazione.

2. Ripeterà il già detto, quando s’accorga, che non fu abbastanza capito, finché pur basti: e quindi gli obbligherà a studiare a mente le poche domande studiate, e darne conto nel dì successivo prima di accingersi ad altre lezioni.

3. L’istruzione religiosa non sarà solo limitata ai giorni in cui spiegasi il Catechismo, ma, salve le altre lezioni scolastiche, si estenderà ad ogni occasione, che venga in acconcio il discorrere delle cose spettanti alla salute dell’anima, alla fede che dee prestarsi alla parola di Dio, alla speranza che in lui dee riporsi, alla gratitudine dovuta ai suoi benefizj, ed all’amore sovrano con cui debbe essere amato.

4. Dacché sapranno i fanciulli i primi rudimenti della dottrina, cioè il Padre nostro, l’Ave Maria, il Credo e i Comandamenti, i Sacramenti, e le formole degli atti delle Virtù Teologali, e daranno indizio di incominciare a capire, non vi è metodo (come io credo) migliore per istruire nella nostra Santa Religione, che col farla vedere tutta istorica.

5. Bisogna perciò dir loro, che Dio ab eterno esisteva, creò nel tempo il mondo, e poi l’uomo, il quale peccò. Per soddisfare all’ingiuria, che fece a Dio il peccato, era necessario un Riparatore: fu promesso ad Adamo, ed in esso sperarono i Patriarchi: di lui profetizzarono i Profeti: finché egli venne finalmente secondo le profezie, regnando Erode in Giudea, Ottaviano Augusto imperando in Roma.

6. L’applicazione del Cristiano deve essere di conoscere questo nostro Riparatore, che è Gesù Cristo, Dio che si fece uomo, che morì per salvarci, risuscitò, salì al Cielo ec.

7. Senza la grazia di Gesù Cristo, non possiamo fare alcun bene, che serva a darci salute: quindi a lui devon rivolgersi tutte le nostre speranze: ed il pregarlo, amarlo, servirlo è ciò, che soprattutto importa.

8. Perciò fa d’uopo aver contentezza della sua vita, de’ suoi esempj, de’ suoi misterj, delle sue massime, de’ suoi precetti, e dei suoi Sacramenti, che sono rimedj lasciatici per farne salvi. Tutto ciò si contiene nel Catechismo, che bisogna bene imparare.

9. Questo Catechismo insegna la scienza della nostra Santa Religione, e dividesi in quattro parti. Trattasi nella prima in ciò che dobbiamo credere, e questa abbraccia tutti gli articoli del Simbolo, che chiamasi Credo. Nella seconda si parla di ciò che abbiamo a fare, e questo l’insegnano i Comandamenti di Dio, e della Chiesa. Nella terza si espongono i Sacramenti, che abbiamo da ricevere: e nella quarta ci viene insegnato a far orazione, e spiegasi quella che si chiama Domenicale, perché insegnata dal Signor nostro, che è il Pater Noster, e poi si spiega l’Ave Maria ec.

10. Il Maestro ripeta spesso questa partizione del Catechismo; e quando lo spiega in particolare, esponendo per esempio le domande degli articoli del Credo, dica sempre che quello, che va spiegandoli appartiene alla prima parte del Catechismo, cioè a quello, che abbiamo da credere: e così delle altre parti.

11. Nello spiegare specialmente il Credo si attenga alla norma storica, che di sopra gli ho insinuato.

12. Racconti similmente la storia del quando, e come diede Dio i dieci Comandamenti: e venendo a parlare di quei della Chiesa, si riferisca all’articolo del Credo, che riguarda la stessa Chiesa, lo spieghi di nuovo, e faccia ben capire ai fanciulli ciò che deve intendersi, e credersi intorno alla Santa Chiesa Cattolica, l’ubbidienza, che le è dovuta, l’obbligazione di impiegar santamente i giorni festivi, e la maniera di soddisfarvi.

13. Inspiri loro il più profondo rispetto pe’ santi Sacramenti, che sono i canali della grazia e salute nostra: li disponga di buon ora a ben riceverli a tempo debito, e perciò è d’uopo d’instruirli anticipatamente intorno le cose necessarie a ben confessarsi e comunicarsi.

14. Spessissimo raccomandi la divozione alla Beatissima Vergine Maria, Madre di Dio, e Signora nostra, esortando i fanciulli ad invocarla come Madre loro affettuosa, e dolce Avvocata, a solennizzar le sue feste con atti speciali di pietà, ed a pregarla di ottenere ad essi il dono della purità e santa umiltà, virtù, che furono il carattere più specifico di questa Vergine Madre.

15. Parli inoltre della venerazione dovuta agli Angeli, ed ai Santi del Paradiso, specialmente all’Angelo loro Custode, ai santi Apostoli Pietro e Paolo, ed al Santo del loro nome.

16. Insegni loro a far orazione; ed inculcando il precetto di Gesù Cristo, che bisogna sempre pregare, dimostri la facilità di eseguirlo coll’uso delle orazioni giaculatorie. Oltre a ciò gli ammonisca a questo proposito, che si ricordino o nella Messa, o in altro tempo, di pregare Iddio pel Papa, pel Re, per l’Arcivescovo, pel Parroco, pe’ loro Genitori e Maestri. In questo modo s’avvezzano i fanciulli a soddisfare all’obbligo di onorare i Superiori, e resta più profondamente impresso nell’animo il rispetto, che in coscienza devono ad essi.

17. A facilitare la frequenza delle giaculatorie, incominci dall’insegnare la maniera di meditar partitamente le domande contenute nell’Orazione Domenicale, e quindi dica, che nel pregare posson distaccare una petizione dall’altra, o ripetere la stessa petizione dicendo per esempio o colla lingua, o col cuore: <Padre nostro, che sei nei Cieli, sia fatta la tua volontà>. < Padre nostro, liberaci da ogni male>. < Padre nostro, perdonaci i nostri peccati> ec.

18. Procuri con ogni studio di inspirar loro un sommo orrore pel vizio, e spesso cerchi l’occasione di biasimare specialmente la bugia, e i trasporti insani dell’ira.

19. Della bugia, e d’ogni doppiezza, il Maestro parlerà con quell’alto disprezzo e orrore, con cui ne parlano i santi libri, ed abbia in pronto i detti seguenti: <Os quod mentitur, occidit animam.> <Qui ambulat simpliciter, ambulat confidenter: qui autem depravat vias suas, manifestus erit.> <Vir duplex animo inconstans est in omnibus viis suis.> <Opprobrium nequam in homine, mendacium.> <Mores hominum mendacium sine honore, et confusio ipsorum cum ipsis sine intermissione.> <Qui nititur mendaciis peribit: labium veritatis firmum erit in perpetuum.> <Abominatio Domini labia dolorosa.> <Disperdat Dominus universa labia dolorosa.> <Filio doloso nihil boni erit.> traducendoli n italiano, e in lingua volgare.

20. Mediterà questi testi, od altri consimili, non per proporli volgarizzati aridamente (con il che poco gioverebbe ai fanciulli), ma per trovar delle ragioni, e delle espressioni, che facilitino l’intelligenza della morale, che Dio ci predica, e l’imprimano nella mente, e nel cuore. A tal fine si servirà principalmente dei paragoni, e dirà per un esempio a questo proposito <Chi è più vile, e più ignominioso di un ladro? Eppure Dio ci dice che val più un ladro, che colui, che assiduamente mentisce; quantunque e l’uno, e l’altro s’acquistino la loro perdizione> < Potior fur, quam assiduitas viri mendacis; perditionem autem ambo haereditabunt.> Racconterà fatti analoghi, ed esemplari, come quelli di Anania, e Safira, che mentirono davanti a San Pietro ec. Dirà che la bugia fu anche in orrore agli stessi idolatri. Di Pomponio Attico dice Cornelio Nipote <mendacium neque dicebat, neque pati poterat>; e di Epaminonda <adeo veritatis diligens erat, ut ne joco quidem mentiretur>. Lo stesso dice Plutarco di Aristide Ateniese ec.

22. Della medesima maniera potrà procedere sempre che giudicherà a proposito di parlare di qualunque altro vizio in particolare; ma prenderà di mira principalmente quei vizj, de’ quali occorre frequentemente il cattivo esempio. Se occorrerà p. e. esempio parlare dell’ira, e della vendetta, il Maestro prenderà un certo contegno ed un’aria d’aborrimento al solo nominar questi vizj, e dirà, che gl’iracondi e vendicativi devon chiamarsi piuttosto feroci bestie, che uomini.

23. Infatti due sole cose distinguono l’uomo dalla bestia, cioè l’interior ragione della mente, e la configurazione esterna del corpo: or di ambedue queste cose ci spoglia l’ira, e molto più l’esecuzione della vendetta.

24. Essa ci toglie primieramente il buon uso della ragione, perché come il fumo, dando agli occhi, li riempie di umor lagrimoso, e gli oscura in maniera, che non posson vedere gli oggetti; così l’ira agitando il sangue, e mettendo in disordinato moto gli spiriti, annuvola la ragione di modo, che non vede più a rettamente operare: e così lo dice anche San Tommaso: ira inter caeteras passiones manifestius impedit judicium rationis 1. 2. Quaest. 44 art. 3.

25. Ci toglie in secondo luogo la configurazione esterna del corpo: perciocchè si cangiano orrendamente le fattezze dell’uomo irato, ed egli divien simile ai leoni, alle tigri, agli orsi, ai cani, alle vipere. Iddio notò quest’alterazione nel volto del fratricida Caino, prima che commettesse l’orribile misfatto: <e perché, gli disse, sei tu adirato? Perché veggio affatto cambiata la serenità del tuo volto? Quare iratus es? Et quare concidit faciet tua?>

26. <Osservate un uomo in collera, dice San Gregorio Magno: egli trema da capo a piè, getta fuoco dal volto, scintille dagli occhi… la lingua gli si avviluppa, s’imbroglia, e manda clamori da bestia, sicché neppure egli sa ciò si dice: in che cosa dunque è diverso costui da un energumeno privo di ragione e di senno? (San Gr°. Moral. Lib.5 cap. 30).>

27. <Osservate un uomo in collera, (dice S. Giovanni Crisostomo), egli corre a precipizio come uno stolto; getta fuoco per ogni parte, ha gonfio il volto; agita scompostamente le mani, e si scaglia da forsennato contro chi tenta metterlo in pace (Cris. Hom. 3 in Joan).>

28. Come dunque avrà al di dentro l’uso sereno della ragione, chi ha perduto al di fuori la sembianza di uom ragionevole? Qual sarà l’anima di quest’infelice, di cui l’aspetto è così deforme? Tale si è la conseguenza, che ne deduce ancor Seneca: Qualem putas esse animum, cujus externa imago tam foeda est? (lib. De ira cap. 35).

29. Quantunque però il Maestro possa e debba in varie maniere impegnarsi ad imprimere nel cuor de’ fanciulli l’orror del vizio e l’amore della virtù, io son fermo nel sentimento, che a quella tenera età, e favorita dalla grazia del Redentore in modo particolare, non si possano persuadere meglio gli atti virtuosi, che col proporle spessissimo l’esempio del Redentore medesimo.

30. Siccome son più nojose le tenebre a chi è avvezzo a vedere la luce, così il vizio sarà tanto più in odio ai fanciulli, quanto più spesso vedranno l’inesprimibile bellezza delle virtù di Gesù Cristo.

31. All’opposto degl’iracondi e vendicativi, Gesù ingiuriato non rispondeva, percosso non minacciava: egli a guisa di mansueto agnellino piegò le spalle ai flagelli, chinò la testa alle spine, e porse le mani e i piedi alle trafitture de’ chiodi. E chi mai potrà resistere al suo amabile invito, quando ci dice nel suo Vangelo, discite a me, quia mitis sum, et humilis corde?

32. Se dunque ti oltraggerà qualcheduno, o in parole, o in fatti, noi dobbiam ricordarci dell’umiltà e pazienza, della modestia e mansuetudine del nostro amato Gesù, e per amor del suo amore sopportar tutto placidamente senza dare in escandescenze, né ammetter per un momento il minimo desiderio di vendicarci.

33. Proseguirà il Maestro a dire ai suoi scolaretti: < non credo, miei cari figli, che si trovi alcuno tra voi di un cuor sì aspro, o dirò ancor, sì ferino, che non divenga mansueto all’esempio del nostro Dio, taciturno fra mille ingiurie, quieto fra mille scherni. Guai a quel figlio, che dimentichi tali esempi! Guai a colui, che non procuri di acquistare la virtù della mansuetudine, e il buon abito della dolcezza! Io ve la raccomando, miei cari figli, perché tanto bene vi voglio, perché so, che con tal virtù vivrete su questa terra felici> Beati mites, quoniam ipsi possidebunt terram.

34. In queste o altre maniere s’insinuerà il Maestro nell’animo dei fanciulli, e data l’opportuna occasione, anzi studiosamente cercandola, parlerà delle virtù, e de’ vizi nei giorni di Catechismo, ed ancor sempre che lo potrà, senza portar pregiudizio alle altre necessarie lezioni.

35. Avrà quindi cura speciale, che gli scolari intervengano alle sacre funzioni della Parrocchia, stiano nella Chiesa con la debita divozione, e che i capaci si accostino a ricevere i Sacramenti almeno una volta al mese, e nelle solennità principali.

36. Il Maestro li conduca egli stesso ad ascoltare ogni giorno la Santa Messa, gli ordini due a due, e vegli sul lor contegno.

37. Ascoltino sotto i suoi occhi la spiegazione del Vangelo, e le instruzioni del Parroco. Quando poi tornano a scuola, il Maestro domandi loro, se han capito ciò che udirono, e se qualche cosa ne ritengano ancora in mente: egli allora ne ripeta qualche passo, e così gli ajuti a ricordarselo, ed a capirlo.

38. Gli avvezzi a riflettere sopra se stessi, sopra i loro pensieri, parole, ed azioni: esortandoli a fare ogni giorno l’esame di loro coscienza, e ad emendare i loro mancamenti.

39. Osservi con diligenza a quali vizi sono inclinati, e si sforzi di allontanarneli, mostrando le conseguenze cattive, che da tali vizi derivano, e le molte disavventure, che sogliono provenirne.

40. Sia finalmente egli stesso un modello pe’ suoi scolari; dia loro un ottimo esempio; né mai sia discorde la sua condotta dagli insegnamenti che porge.

CAPO DECIMO

Dell’istruzione civile

Quello che molti genitori non sanno, o non voglion fare, cioè di prendersi una cura particolare a formare un buon carattere ai loro figliuoli, lo faccia con impegno il Maestro, che deve assumere un cuor di padre verso i fanciulli che egli instruisce.

1. Oltre l’instruzione religiosa, che deve renderli cari a Dio, procuri loro, in quanto è possibile, una buona educazione civile, che li renda cari agli uomini.

2. In quanto riguarda il corpo, inculchi loro due cose: la prima, che bisogna guardarsi dal sudiciume de’ capelli, del volto, delle mani, e degli abiti, procurando di non averli macchiati, e di pregare le loro madri a rappezzarli, quando son laceri: la seconda, che non conviene agli uomini l’attillatura affettata e soverchia, o l’impiegar troppo tempo ad abbellirsi a guisa di donne. Si conformerà però sempre il Maestro alla condizione de’ fanciulli che frequentano la di lui scuola.

3. Al contrario conduce molto ad acquistare l’altrui stima il prodursi con un buon garbo, il quale facilmente si acquista coll’imitazione delle gentili maniere, che usano i figliuoli bene educati, savi e costumati.

4. Alla vera pulitezza però, che deve insegnarsi ai fanciulli, non basta l’esterior contegno, se sotto le apparenze pulite si nasconda un’anima ruvida, che tutto riferisca a se stessa, e non curi l’altrui piacere.

5. Uno smoderato amor proprio, che solo attenda al suo comodo; un orgoglio, che ci persuada esserci dovuta ogni cosa, e non esser noi debitori di alcun riguardo agli altri; uno spirito di contraddizione e di critica, che condanna tutto quello, che non è nostro, un’inclinazione al disprezzo, alle beffe, alle derisioni, al motteggio, che mortifica or questo, or quello, son tutti vizi, oppostissimi all’urbanità e pulitezza, ed alla cortesia sociale, e vizi, che inoltre producono, non di rado, gravissimi mali.

6. All’opposto chi è avvezzo a condiscendere ai suoi compagni nelle cose buone ed oneste, chi cerca di far loro piacere, chi sa frenar se medesimo, e si astiene dalle parole offensive, dissimula con prudenza, e non s’offende d’ogni discorso, questi senza contraddizione è già sostanzialmente pulito, e deve dirsi urbano e civile.

7. Quindi per avvezzare i fanciulli alla civiltà e bella creanza, deve invigilare il Maestro a far che depongano a poco a poco ogni abitudine ruvida, e tutta quella alterigia, che posson avere per natura, o pel disgraziato contagio degli esempi della casa paterna.

8. Esiga, che venendo ad entrare nella scuola qualche persona di riguardo, si alzino tutti in piedi, finché loro non venga accennato di sedersi di nuovo.

9. Insegni loro ad esprimersi con termini convenienti, a far uso di quelle maniere garbate che adopran le persone gentili, a dar del signore alle persone distinte, e specialmente se son maggiori di età, e ad inchinarsi debitamente a coloro, cui si debba rispetto.

10. Per avvezzare i fanciulli ad essere officiosi e compiacenti, debbe il Maestro eccitarli a rendersi vicendevolmente qualche piccolo manuale servigio, per esempio a temprar la penna al compagno, che ancor non sappia farlo da sé, a non negar l’inchiostro al vicino, che casualmente se l’abbia dimenticato, a favorire il suo temperino, se quel d’altrui non tagli bene ec.

11. Della medesima maniera gli avvezzi alla tolleranza, esortandoli a soffrir volentieri gl’incomodi della scuola e della stagione.

12. Gli avvezzi ad esser sinceri; e perciò lodi sempre i fanciulli, che dicono ingenuamente le cose, ed usi indulgenza con chi confessi il suo fallo. Al contrario svergogni sempre i bugiardi, ed a ciò, che sopra si è detto (cap. 9 dell’instr. relig. num. 19), aggiunga ancora, ed inculchi, che le bugie e finzioni vengono a scoprirsi alla fine, e riempiono di disonore il bugiardo, che poi non è più creduto, quando dice la verità: siccome non vi è nessuno, che fidar si voglia a coloro, che hanno la viltà di esser finti.

13. Se vi è chi adopri contro altri qualche beffa, o qualche motteggio, o gli dica parole offensive, il Maestro agramente dapprima riprenda l’offensore; ma dopo esorti l’offeso a perdonargli di cuore, ad amarlo come prima, a parlargli, e trattarlo in tutto con la stessa benevolenza.

14. A questo proposito ripeta, e spieghi bene ai fanciulli le seguenti belle parole del grande Imperatore Teodosio: <Quoniam si ex levitate processit, contemnendum est; si ex insania, miseratione dignissimum, si ab injuria remittendum.> (Theod. 1 9, tit. 4, 1. Si quis imperat).

15. Se l’oltraggio fu vicendevole, li riprenda allora ambedue; si dimostri troppo mal soddisfatto della lor cattiva condotta, e gli esorti a riparare il lor fallo con prontamente riconciliarsi, amarsi scambievolmente, evitare a tutto potere e fuggire di ricader altra volta in somiglianti trasporti.

16. Saran queste le opportune occasioni di ripeter quanto si è detto a questo proposito nel capo dell’istruzion religiosa.

17. Allorché saprà il Maestro, che un fanciullo fuori di scuola ha renduto all’altro qualche servigio, loderà la sua cortesia alla presenza di tutti; s’informerà se il favorito abbia ringraziato il favoreggiatore, e quando non l’abbia fatto, gl’insegnerà il modo di farlo, ed esigerà che lo faccia; raccomandandogli inoltre di essere sempre disposto a riconoscere con ugual contraccambio la cortesia del compagno.

18. Loderà sempre più altamente chiunque, avendo ricevuto qualche offesa, o udito qualche motto spiacevole contro lui diretto, l’avrà tollerato pazientemente, senza farne lagnanza: ma il Maestro per parte sua non tralasci di reprimer l’audacia di chi osò di trattar male il suo compagno, o con parole, o con i fatti.

19. Se tra i figliuoli di poveri genitori, vi sono figli de’ ricchi, o di nobili o distinte persone, il Maestro veglierà con gran cura, che gli ultimi non disprezzino i primi, che i posti d’onore della scuola gli ottenga il merito solo, e che ciascheduno sia persuaso, che il Precettore non ha riguardi, se non per la buona condotta, per la diligenza, e l’applicazione.

20. Egli ripeta anzi spesso, che tutte le professioni, che non riprova la legge, sono necessarie, o utili; e che l’agricoltura principalmente è la professione più bella; che fu la prima occupazione del più nobil uomo del mondo, Adamo padre di tutti; e che formò e che forma anche attualmente la prediletta occupazione di personaggi insigni per nascita e per meriti personali; ch’eziando la pastorizia fu scelta dal buon Abele, dal dolce Giacobbe e figli, e per qualche tempo professata dal gran legislatore degli Israeliti, Mosè, e dal giovinetto Davide, che poi divenne un Re potentissimo; che finalmente deve ciascuno occuparsi a proporzione dei talenti, e de’ mezzi che Dio gli dà; e che solo la peggior professione è quella di non averne alcuna, e di passare il tempo prezioso nell’ozio, e nella scioperatezza, abominevole a Dio, vituperosa agli uomini, nociva alla società in comune, ed a ciascuno in particolare.

CAPO UNDICESIMO

Ultimi avvertimenti al Maestro

1. Il Maestro deve trovarsi nella scuola prima, che vi entrino i suoi scolari, acciocché aggregati in sua assenza non vi trascorrano in giuochi, o sconcerti pericolosi.

2. Egli avrà l’occhio agli scolari che arrivano; esigerà che siano osservati gli ordini dati, di fare entrando l’atto di riverenza dovuta al Maestro, e del saluto ai condiscepoli, dall’andar con silenzio e modestia al posto loro assegnato.

3. La scuola deve incominciarsi, e finirsi colla preghiera, che reciterà il Maestro, o che farà recitare da qualcheduno de’ più distinti in meriti de’ suoi scolari, onde sia per essi un titolo d’onore. Durante il tempo della preghiera stiansi tutti in piedi, con divoto raccoglimento. La formola della preghiera, e di altre preparatorie a ricevere i Santissimi Sacramenti sarà data dal Rettore in un cartello da tenersi appeso nella scuola. In essa formola non si ometterà di eccitare il tenero cuor dei fanciulli a sensi di gratitudine verso l’Augusto Fondatore delle Scuole Normali, e quanti contribuiscono al bene delle medesime.

4. Il Maestro non si dimostri mai né turbato né accigliato, e non affetti soverchia severità. Sia serio modestamente, ma spiri soavità e dolcezza, sì nel contegno, che nel parlare.

5. A concigliargli la stima, e la filiale benevolenza dei suoi scolari, non può contribuir certamente lo sguardo bieco, e l’aspetto burbero. Conviene bensì che egli abbia un umore uguale, e si dimostri fermo, e mantenga la sua parola, se avrà promesso ricompense o minacciati castighi; ma si faccia sempre conoscere alieno dal troppo rigore, come dalla troppa indulgenza.

6. Perciò non vada scrupoleggiando su tutte le piccole mancanze de’ suoi discepoli, se non derivano da malizia: si ricordi, che fu fanciulli ancor egli, ed usi pazienza, e benignità, specialmente coi piccolini, e coi timidi.

7. Insista però con vigore sull’osservanza dell’ordine del silenzio, della modestia, della cortesia e pulizia; e questa pulizia si estenda anche ai libri, ed alle scritture, che i fanciulli avran per le mani.

8. Se alcuno de’ suoi scolari avesse efflorescenze schifose, o sulle mani, o sul capo, o portasse tuttora le bolle del vajuolo, che abbia sofferto, deve essere rimandato a casa, finché sia appieno risanato.

9. Il Maestro avverta inoltre i fanciulli di quelle cose, che possono essere nocive alla loro sanità corporale, come di non esporsi all’aria, e bere acqua fredda in tempo che sono sudati, di non mangiare frutti acerbi, sebben li mangi la madre, o alcune delle sorelle, ec.

10. Durante il tempo che deve impiegarsi in iscuola, si guardi il Maestro di allontanarsene, lasciando soli i fanciulli; salvo ciò fosse per qualche urgente necessità. Attenda piuttosto a ben distribuire tutti i momenti, per ben adempiere il suo dovere, ed estenda a tutti indistintamente la sua instruzione, senza che possa osservarsi in lui alcuna parzialità, né la minima inclinazione più agli uni, che agli altri.

11. Non tolleri la menzogna, le beffe, i motteggi, né le vicendevoli accuse: non soffra, che i fanciulli s’impongano tra di loro de’ soprannomi, né usino scherzi villani ed offensivi.

12. Non permetta, che alcuno sprezzi i suoi condiscepoli, né che rida con avvertenza delle risposte inesatte, che dar possono i men capaci, o quei che hanno minor talento.

13. In somiglianti occasioni inculchi sempre il Maestro, che nessuno deve avere soverchia stima di sé medesimo, e che la superbia è gran vizio, molto detestato da Dio, ad in abominio presso gli uomini.

14. Avverta similmente i fanciulli, che in iscuola nessuno parli, se il Maestro non lo dimanda. Qualora uno scolaro desiderasse dir qualche cosa, manifesti il suo desiderio con alzar modestamente la mano, aspetti che il Maestro gli faccia cenno, se debba parlare, o no, e si uniformi perfettamente al volere del Precettore.

15. Ricordi di quando in quando, che gli scolari non devono molestarsi l’un l’altro, né dentro, né fuori di scuola: che non facciano delle grida, e degli schiamazzi quando ne sortono: non si fermino per la strada, né divertano ad altri luoghi, quando uscendo dalle loro case debbon venire alla scuola, o tornando di là alla casa: non vadano a torme, non saltino qua e là; ma camminino modestamente, e con silenzio; salutino cortesemente coloro, che incontrano per la via, e specialmente i Sacerdoti, e altre persone ragguardevoli.

16. Faccia sentire, che nessuno fuori di scuola ardisca rimproverare al compagno le riprensioni e i castighi, che avrà avuto dal Maestro, né raccontarli, e farne lo scherno.

17. Non di meno deve procurare il Maestro di promuovere l’emulazione tra i suoi scolari: e perciò vi saranno nella scuola alcuni posti di onore, che si daranno a chi più li meriti colla massima imparzialità.

18. Lo stesso si deve intendere delle lodi, che il Maestro distribuirà a proporzione del merito di coloro, che si distinguono nello studio, o tengono una condotta lodevole, ed osservano esattamente le regole loro prescritte.

19. Nel lodare, o nel biasimare, o nel conferire i posti di onore, grande scandalo cagionerebbe il Maestro, che non adoperasse in queste cose una scrupolosa circospezione: ma lodasse, o biasimasse chi non lo merita, si mostrasse in quel modo, o inavveduto, o parziale.

20. Gli scolari scostumati, coloro che perturbano l’ordine della scuola, che stano irriverenti nella Chiesa, o non voglion per lor colpa apprendere quel che s’insegna, dovranno essere castigati.

21. Il Maestro però si guardi dal percuotere indecentemente i fanciulli, dar degli schiaffi, de’ calci, de’ pizzicotti nelle guance, dal trarre loro le orecchi, i capelli ec., e da ogni modo villano, o che abbia qualche sentore d’ira e furore.

22. Sebbene nelle scuole inferiori della città si adopri continuamente la sferza a punizione dei falli che i fanciulli commettono, io non di meno desidero, che il Maestro della mia Parrocchia sia ben persuaso, che è molto pericolosa questa maniera di castigare.

23. Egli non se ne serva giammai, se non con que’ fanciulli, di cui conosce il carattere molto duro, indocile ed ostinato, e dopo d’aver provato l’inefficacia delle correzioni più miti.

24. Devon precedere anche a queste ultime (e saranno state adoperate) le rimostranze amorevoli, e spessissime ammonizioni; perché, dice Quintiliano: Quo saepius Magister monuerit, hoc rarius castigabit.

25. Per quanto sarà possibile adopri sempre i mezzi di persuasione; ma qualora sia necessario il riprendere o minacciare, lo faccia con gravità, senza clamore, senza collera.

26. Le riprensioni o minacce non siano esagerate, non sentan di troppa asprezza, e non contengano contumelie, giacché dice ancor Cicerone: Omnis animadversio contumelia vacere debet.

27. Si guardi con diligenza da ogni eccesso di sdegno, e da qualunque prevenzione: e nei momenti di noja si astenga dallo sgridare i fanciulli, e più dall’ordinar dei castighi.

28. Sia finalmente persuaso, che è molto delicato il suo uffizio: e siccome può avvenire, che lo scultore guasti una statua con un colpo mal misurato del suo scalpello; così può ancora accadere, che un mal ordinato castigo guasti un fanciullo per sempre, facendogli concepir per la scuola l’avversione, che ha al Maestro.

29. I mali che ne derivano non si possono calcolare; laonde guai al Maestro, che per imprudenza, o per altro, tradisca il sangue innocente, dando occasion di rovina a qualunque di quei fanciulli, che affidati gli furono <Expedit ei ut suspendatur mola asinaria in collo suo, et demargatur in profundum maris>.

30. A preservarsi dall’imprudenza, e ad agire, in ogni cosa, con senno, altro non può suggerirsi di più efficace, e sicuro, che l’umiltà cristiana: lumen intelligentiae humilitas aperit, superbia abscondit, dice il Papa S. Gregorio M.

31. Un Maestro di Scuola Normale deve profittar del modello di umiltà, che ha sempre davanti agli occhi. I fanciulli che egli instruisce sono appunto questo modello, e per tale lo diede Gesù Cristo agli stessi Apostoli: <Advocans Jesus parvulum statuit illum in medio eorum, et dixit: nisi… efficiamini sicut parvuli, non intrabitis in regnum caelorum. Math. Cap. 18.

32. Farsi piccolo, qual fanciullo, non vuol dire altro che umiliarsi: e questa è la disposizione, che Gesù richiede da noi per comunicarci i suoi lumi: revelasti parvulis, idest humilibus.

33. Felice colui, che ben capisce questa dottrina, e molto ancor più felice, chi disposto in questa maniera prende dei fanciulli la cura in nome del Salvatore, e per amor del medesimo: <qui susceperit unum parvulum talem in nomine meo, me suscipit>.

APPENDICE

Si premette l’intero capitolo IV del Regio Editto del 24 di giugno 1823, il quale capitolo ragguarda unicamente alle Scuole Normali. Il Maestro avrà cura di spiegare di quando in quando non meno ai fanciulli, che ai genitori dei medesimi, ogni volta che se ne presenti l’occasione, gli articoli 40, 41, 42, 43, 44, 45, 46, che contengono i favori che la Regia Munificenza compartisce a coloro che proteggono, favoriscono, e frequentano le Scuole Normali. […]

MASSIME

Che i Maestro debbono proporre per primo esercizio di lettura a’ loro scuolari, avendo cura di spiegarle ai medesimi in dialetto sardo, e di farne sentire l’importanza e il valore.

Il precetto più sublime che G. Cristo ci ha lasciato nel suo Vangelo è quello di perdonare ai nostri nemici, ed anzi di far loro del bene.

Chi più si avvicina a Dio? Colui che perdona un’offesa. –Qual peccato ci rende più simili alle bestie? La vendetta.

Udite, o vendicativi, quello che dice il Signore. <Io non perdono a chi non perdona. –Rimetti al prossimo tuo le offese, io dimenticherò le tue. – Tu non hai compassione di un tuo simile, e vuoi ch’io l’abbia di te?- Ricordati, o vendicativo, ricordati che hai da morire!>.

Guai a quello la di cui lingua è diversa dal cuore, la di cui anima macchina frodi e raggiri contro al prossimo suo! Egli sarà il primo a cadere nella fossa, che avrà scavato al compagno.

Nell’accusare o nel difendere, non segui l’odio o l’amicizia, ma la verità: chi contra verità difende un colpevole, è vile al par di quello che calunnia un innocente.

Sii così amante della verità, che nulla per te differisca l’affermare o il giurare. Sappi che trattasi della Fede, e della Religione, sempreché trattasi della verità. Dio si invoca in testimonio nel giuramento, ma egli è anche testimonio a chi non l’invoca.

Non è giusto, né buono chi potendo impedire una malvagità, un’ingiustizia, nol fa. Egli è reo di quel misfatto che non ha impedito.

Non è lode piacere a tutti, ma piacere ai buoni.

Abbi pace con gli uomini, guerra coi vizi.

Perdona sempre agli altri, a te stesso non mai.

La maggiore delle felicità è il saper essere povero.

La sapienza val più che la forza, il prudente val più che il valoroso.- La forza noi l’abbiam comune con le fiere; la sapienza, con Dio.

Onora i vecchi, ed ascolta i loro precetti. Usa dei loro consigli per le imprese che mediti.- Molto vale il conoscere come abbiano essi superato i pericoli, che tu vai ad incontrare.

Rallegra o figlio con le tue virtù la vecchiezza de’ tuoi genitori.- A colui che gli affligge Dio intimò l’ignominia e l’infortunio.

Il cuore dei Re è in mano di Dio. Egli ne dirige i pensieri, come dirige il corso dell’acque sopra la terra.

Il paziente val più dell’uomo valoroso; e chi sa vincer se stesso, val più del conquistatore del mondo.

Che fai o ozioso? Perché non coltivi il tuo campo? Perché non hai cura della tua vigna?- Dormi pure, o neghittoso, dormi; che fra poco verrà a svegliarti la spaventevole indigenza.

DAI LIBRI SANTI E PII

Principio del sapere è il timore del Signore.- Figlio, in ogni tua strada pensa al Signore: egli dirigerà i tuoi passi.

L’uomo riceve tutto da Dio. – Colui che semina od irriga la pianta non è nulla. Dio è quegli che la fa crescere, e che è tutto: -A lui ne è dovuta tutta la gloria.

Brevi sono i giorni dell’uomo: – La vita è fragile come un fiore; fugge come un’ombra, e non è mai in un medesimo stato.

Vedi la formica, o pigro, e considera le vie di lei: essa ti sarà Maestra di sapienza. – La formica non ha Maestro, né guida; e nell’estate procacciasi l’alimento per la fredda stagione.

La bellezza del volto non fa l’uomo lodevole; bensì il vero senno, che è temer Dio.

Non ti gloriare del vestimento, né di altra cosa tua: ammirabili per sé stesse sono soltanto le opere di Dio Creatore.

Ciascuno di voi sia pronto ad udire, e tardo a parlare, e sia mansueto. – La sapienza che viene da Dio, è amica della pace, è modesta, docile, misericordiosa.

Beati i misericordiosi, perché otterranno misericordia da Dio.

Beati i pacifici, perché saranno chiamati figliuoli di Dio.

Usate con gli altri, come desiderate che essi usino con voi. – Amatevi l’un l’altro, come fratelli.

Ogni scienza e altre cose son nulla senza la carità. – La carità è paziente e benefica: non invidiosa, né ambiziosa; non cerca il suo interesse; non va in collera, non ha sospetti, ed ama di perdonare le offese ricevute.

Non dire, io mi nasconderò: il cielo, la terra, e gli abissi sono aperti al cospetto di Dio.

Dio vede il nostro intimo pensare. Non vi è segreto, che poi non abbia ad essere svelato. – Dio vede ogni cosa.

Chi teme il Signore, onora i genitori, ed ama di servire a loro, come a’ suoi veri padroni.

Chi onora il padre sarà poi prosperato a vicenda ne’ figli suoi, e verrà esaudito nel giorno della sua orazione.

Grave peccato egli è mancare di riverenza a’ parenti nostri. Questi ci debbon essere cari più ch’ogni altra cosa del mondo. – Senza essi noi non godremmo di veruna cosa.

Ogni cura nostra deve sempre mirare a far qualche cosa di bene.

Noi dobbiam vivere pensando che abbiamo a render conto a Dio del nostro operare: perciò ci dobbiamo astenere dai mancamenti anche leggeri.

Uom dabbene è colui che giova a chi può, e non fa danno a persona.

L’uomo, che dir si possa dabbene, non conosce menzogna, né invidia: né si lascia indurre a far male per verun guadagno del mondo.

Soli i buoni sono felici. Uomo sano, bello anche d’aspetto, e ricco, a cui manchi il senno e la rettitudine, sarà ancora assai misero.

I malvagi sono di continuo travagliati dalla coscienza dell’animo loro.

Il corpo dell’uomo non è chinato in giù, come quello degli animali terreni: ma rizzato in su, a guardare e contemplare le celestiali cose.

Sconvenevole cosa è portare diritto il corpo, e avere l’animo inclinato a cose vili o cattive.

Virtù è non solo sapere, ma operare ciò che è bene.- Chi sa il bene, e nol fa, pecca.

Fa di conoscere bene te stesso. – Molti molte cose sanno, e non conoscono sé medesimi.

Che cosa è conoscere sé? Egli è sapere di aver anima fatta ad immagine di Dio; e perciò studiarsi sempre a non fare mai cosa, che la possa macchiare e disonorare.

AFFETTI PII

Signore Iddio mio, tu mi sei ogni bene. – Io sono niente, niente ho, niente vaglio da me. Tu solo sei buono; tu giusto, tu santo: tu puoi tutto, dai tutto: tu ricolmi tutti de’ beni tuoi.

Rammentati, o Signore, delle tue misericordie; e riempi della tua grazia il mio cuore.

Insegnami a fare la tua volontà; insegnami a vivere degnamente alla presenza tua.

Volentieri, o Signore, io patirò per tuo amore tutto ciò che ti piaccia. Guardami tu da ogni peccato.

Dammi, o dolcissimo Gesù, ch’io sopra ogni creatura mi acquieti in te, poiché tu solo sopra tutte le cose sei ottimo; tu solo altissimo; tu potentissimo: in te sono, e saranno sempre tutti i beni: consolaci tu, Gesù buono, nel nostro esilio: deh tu ci soccorri pietoso.

Concedimi, o Signore, io non posso far nulla; ma in te posso ogni cosa.

Dove tu sei, o Signore, quivi è la vita vera, e dove non sei, ivi è morte. Tu sei mia speranza; tu mio consolatore.

Secondo la tua immensa bontà e misericordia, riguarda me, ed ascolta l’orazione del tuo servo.

Difendi tu, Signore, l’anima mia ne’ pericoli della vita, e guidami tu con la tua grazia alla eterna salute.

MODELLI

Di scritture private, e di ricorsi relativi alle Scuole Normali, che possono farsi copiare dai giovani che cominciano a scrivere.

Confesso io sottoscritto di essere vero e legittimo debitore verso il signor… della somma di lire Sarde … soldi … statami dal medesimo graziosamente imprestata, quale prometto di restituirgli fra il termine di mesi due dalla data del presente, sotto l’obbligo e constituito possessorio de’ miei beni presenti e futuri. In fede: Bunnanaro, il … di nov. 18…

Per lire S. …

Dichiaro io sottoscritto di aver ricevuto dal signor … la somma di scudi … a titolo d’imprestito, quale prometto di restituire al medesimo fra il termine di due anni prossimi a venire in tre rate, cioè per un terzo fra tutto il prossimo mese d’agosto, per un altro terzo fra tutto il gennajo dell’anno venturo 1825, e per il terzo rimanente fra tutto marzo del successivo 1826, coi rispettivi interessi secondo la ragion comune, duranti le due ultime more, a proporzione delle restanti somme: il che prometto di eseguire sott’obbligo e constituito possessorio de’ miei beni presenti e futuri. In fede: Bunnanaro, il … di marzo 1824.

Per scudi …

Confesso io sottoscritto di essere vero e legittimo debitore verso Antonio … della somma di lire S. … porzione che rimane a soddisfare del prezzo di cinque agnelle statemi dal medesimo vendute, la qual somma prometto di pagare al medesimo fra tutto il venturo settembre. In fede: Fonni, il … luglio 1824.

Per lire S. …

Dichiaro io sottoscritto di aver ricevuto da Francesco … la somma di lire S. … a conto della maggiore di lire S. … dovutami per prezzo di un cavallo statogli da me venduto; per la qual somma quito il medesimo e chi spetta. In fede: Tempio il …

Per lire S. …

Dichiaro io sottoscritto di aver ricevuto da Efisio … la somma di lire S. … a compimento del prezzo dovutomi per il fitto annuo di tre camere, che il medesimo tiene a pigione nella casa di mia spettanza sita nella contrada … n …, ed altre lire … pel fitto di un tenimento pure di mia spettanza, sito nella regione denominata …: dei quali due oggetti, io faccio al medesimo quitanza finale. In fede: … Oristano.

Per lire S. …

MEMORIA

AI PREFETTI INTENDENTI DELLE PROVINCE.

Illmo. Signor Intendente

Priamo … del Villaggio di … ha l’onore di rappresentare, che avendo i quattro suoi figliuoli Giovanni, Efisio, Lorenzo e Giuseppe compiuto il corso della Scuola Normale nella loro patria, come consta dalla fede che si unisce, del Maestro, legalizzata dal Signor Ufficiale di Giustizia, desidererebbe di godere dell’esenzione dai comandamenti personali, e dalle prestazioni surrogate fatta sperare dall’articolo 41 del Regio Editto 24 di giugno 1823.

Per la qual cosa supplica V. S. Illma a voler trasmettere a S. E. il Signor Viceré l’annesso ricorso munito dalla valida sua raccomandazione, acciò ottenga l’effetto desiderato.

Priamo …

SUPPLICA

AL VICERE’

Eccellenza

Priamo … del Villaggio di … ha l’onore di rappresentare umilmente alla E. V., che avendo i quattro suoi figliuoli Giovanni, Efisio, Lorenzo e Giuseppe compiuto il corso della Scuola Normale di detto luogo, siccome consta dalla fede del Maestro debitamente legalizzata che si unisce, si sarebbe per parte sua adempito alle condizioni prescritte dall’articolo 41 del Regio Editto del 24 di giugno 1823, affine di ottenere l’esenzione dai comandamenti personali e dalle prestazioni surrogate.

Quindi è che all’E. V. umilmente se ne ricorre, supplicandola a volersi degnare, di accordargli l’implorata esecuzione. Che della grazia ec.

DICHIARAZIONE DEL MAESTRO

Il sacerdote … Maestro della Scuola Normale di … attesta, che Efisio … figlio del vivente Priamo … ha frequentato questa scuola per tre anni continui, cioè dal giorno … del mese di …, dell’anno di … fino al mese di … anno di … e che la sua condotta, sia riguardo all’applicazione allo studio, sia rispetto ai costumi, è sempre stata lodevole. In fede, il … Sacerdote

N. N. Maestro della Scuola Normale di …

Il sottoscritto Rettore Parrocchiale di … conferma quanto sopra.

N. N. Rettore Parrocchiale.

Per la legalizzazione delle sottoscrizioni dei signori … Rettori e Maestri rispettivi del Villaggio di …

N. N. Ufficiale di Giustizia

Eccellenza.

Luigi … del luogo di … ha l’onore di rappresentare all’E. V., che mosso dal desiderio di contribuire al progressivo vantaggio della Scuola Normale di … ha per atto del … rogato … ceduto alla medesima perpetuamente un’estensione di terreno di sua spettanza nella regione denominata … territorio di …

Constando dalla copia autentica dell’atto di dotazione che si unisce, della cessione predetta, constando dalla dichiarazione annessa del signor Intendente della Provincia della sufficienza di tal dotazione, il ricorrente crede di aver adempito al prescritto dell’articolo 40 del Regio Editto del 24 di giugno 1823.

Supplica quindi umilmente l’E. V. a volersi degnare di concedergli il privilegio dell’esenzione dalla giurisdizione feudale fatto sperare dal Regio Editto summentovato.

NOTA

1. <Dall’una all’altra di quelle massime od affetti, si desidera la voce e lo zelo de’ Maestri a farne assaporare la verità dolcezza> avviso pur questo dell’Anselmi, a f. 534 dell’Infanzia, e altrove, ne’ libri per la Puerizia, e nel giornale suo l’Educatore f. 1°.

2. Talvolta, ove sia chiara già abbastanza la forza e l’estensione del vocabolo e della frase letterale, si potrà pure spaziare alquanto, e far utile digressione.

Così, della sentenza, esempigrazia: < Ogni albero, che non ha frutto, sarà tagliato, ec.> osservare in prima, che qui albero è preso per immagine d’uomo neghittoso, o malvagio; e nel senso puro di albero, dire quanto bene ci facci Dio nel germinare delle piante: fare distinguere le parti di un albero, dal ceppo o pedale sino alle frondi; toccare dei tanti vantaggi, che ne provengono per costruire case, navi arredi, strumenti di arti, … e per l’ombra loro; poi per le frutte, fosser’anche le sole degli alberi ghiandiferi.

3. Da ciò rilevare, quanto brutta e quasi empia cosa sia il dar guasto alle piante, spesso per nulla; il che è far ingiuria a sì bella e dolce opera di Dio.

4. Perché pure la scuola torni a più di profitto, procurino i Maestri di leggere essi medesimi, i primi, con forte espressione d’accento sulle parole dominanti nella sentenza. Queste variazioni naturali della voce preserveranno dalle cantilene, per sé stesse scipite e nojose, e pregiudizievoli cotanto all’intelligenza delle cose lette. (V. Ragionamento per l’INFANZIA E GRAM. ITALIANA).

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