Un manuale per i maestri: le Istruzioni di Maurizio Serra di Mirella d’Ascenzo

1. SCENARI E CONTESTI

Lo studio dei sillabari, abbecedari, antologie, manuali e libri di testo per docenti ed allievi è un settore relativamente recente della storiografia italiana e straniera che, a partire dagli anni Settanta, ha avviato un dibattito interessante a diversi livelli sviluppando l’analisi della manualistica scolastica con una certa molteplicità d’approcci disciplinari, laddove leit motiv è stato per lo più il riconosciuto ruolo ideologico del libro scolastico nella trasmissione dei contenuti e valori dei ceti dirigenti. Più recentemente si tende a riconoscere al libro per la scuola la dimensione di tipologia testuale sui generis, dotata di un congegno interno specifico nel quale si è declinato un disegno politico ed ideologico complessivo, palese o ingenuo, con una mediazione pedagogica la quale a sua volta si realizza tramite scelte metodologiche e suggerimenti didattici generali e/o disciplinari aventi essi stessi -peraltro- una storia. Se progetto politico-pedagogico e strategie metodologico-didattiche s’intrecciano costantemente, il libro per la scuola rappresenta proprio uno dei luoghi ‘chiave’ di sedimentazione storica di tale legame, il cui disvelamento risulta pregnante per la storia della scuola e dell’educazione. E’ noto infatti che per intere generazioni del passato il libro e il maestro erano l’emblema stesso della ‘scuola’ così come per il maestro il libro è stato -anche dopo la comparsa delle prime scuole di metodo, delle riviste magistrali e dell’industria dello scolastico- l’unico testo di studio e di formazione personale, considerata l’estrema aleatorietà di una preparazione sostanzialmente autodidatta o, tutt’al più, inserita nell’alveo degli ordini religiosi. Di qui scaturisce l’importanza dello studio del libro per la scuola, anche nel periodo precedente l’avvio dell’industria dello scolastico, poiché l’adozione di un testo da parte del maestro è spesso stata più il frutto di una prassi consolidata, all’interno di una tradizione pedissequamente assorbita e ripetuta che una scelta reale e ragionata tra un insieme d’opportunità. Continuità e tradizione costituivano il fulcro di una pratica metodologica e didattica di cui il libro è una delle espressioni, ancor più importante considerati gli elevati costi della carta. Se continuità e tradizione presiedevano le logiche di maestri e scolari emerge allora tutta l’importanza, per lo storico della scuola e dell’educazione, dei libri importanti in una certa realtà storica e geografica, ancor più se le testimonianze ne attestano l’effettiva diffusione ed utilizzo per un lungo periodo. E questo il caso del libro oggetto del presente contributo, che si colloca nella manualistica ad hoc per maestri ed è stato a lungo adottato nella Sardegna preunitaria, ivi costituendo l’oggetto designato dai gruppi dirigenti sabaudi per la trasmissione culturale di valori e modelli di socializzazione dei bambini sardi. Si tratta delle Istruzioni al maestro della scuola normale del villaggio di Bunnanaro in Sardegna redatte dal canonico Maurizio Serra del 1824. E’ uno scritto interessante sia per la storia della Sardegna sia per la storia delle pratiche di alfabetizzazione sia per la storia dell’educazione e della scuola in particolare. Infatti esso si colloca nella storia sarda tra 1824 e 1860 ed è un insieme organico di “compendiose istruzioni” per maestri scritte da un parroco già docente nelle scuole normali, nel quadro dell’alfabetizzazione popolare dell’isola della prima metà dell’Ottocento, espressione a sua volta di una certa fase della storia della scuola italiana. Tali Istruzioni risultano ancor più significative per lo storico sia per la loro longevità sia per l’effettiva circolazione nel circuito scolastico locale, anche a motivo del Regolamento del 1824 con il quale re Carlo Felice ne aveva reso obbligatoria l’adozione sull’isola. L’operetta si colloca nel periodo compreso tra 1760-61 e 1824, anni in cui si definiscono i principali provvedimenti per la riforma dell’istruzione in Piemonte e Sardegna , terra che era passata dalla dominazione spagnola a quella sabauda nel 1720, in seguito del Trattato di Londra (1718). I piemontesi avevano trovato gruppi dirigenti ostili al loro arrivo ed un’organizzazione feudale tenacemente attaccata a privilegi e tradizioni antiche, secondo il modello culturale tipicamente spagnolo. La stessa prima organica riforma attuata nel 1760 dal ministro Bogino, accanto al ripristino delle Università di Cagliari e di Sassari, aveva significativamente previsto la sostituzione a livello ufficiale della lingua castigliana -retaggio della dominazione spagnola- con quella italiana. Paradossalmente fu proprio a seguito della Rivoluzione francese che la monarchia piemontese conquistò la classe dirigente sarda, tenacemente attaccata al sistema feudale. Infatti la difesa dello status quo, la presenza della dinastia sabauda sul suolo sardo tra 1799 e 1815, la riorganizzazione amministrativa in senso centralistico del potere, accompagnata da una serie di infrastrutture miranti a migliorare la rete viaria ed accelerare l’attività produttiva, portarono alla sconfitta del pur combattivo fronte filonapoleonico locale. Al tentativo d’ammodernamento del livello socioeconomico seguì tuttavia un’operazione politica gattopardesca in merito alla soluzione del problema feudale, che accontentava la nobiltà ed alto clero locali, gravando in teoria sulle casse piemontesi e, in realtà, sulla maggioranza della popolazione. Progressivamente tuttavia maturò quel clima di sudditanza al nuovo regno e di ancillarità culturale e politica che condusse alla ‘fusione perfetta’ nel 1848, con la quale la Sardegna rinunciava all’autonomia, pur garantita dal Trattato del 1718, a favore di una compenetrazione totale con il regno di Piemonte, nella speranza di ulteriori vantaggi e di un superamento della secolare vocazione localistica ed isolana. Tale scelta tuttavia venne ben presto rimpianta dai gruppi dirigenti che sempre più subirono l’opera di piemontesizzazione dell’isola come una forma di colonizzazione culturale ed economica, cui venne opposta la forma ancor più violenta del banditismo. Cacciata dalla dominazione francese la monarchia sabauda rifugiatasi in Sardegna avviò quella repressione delle idee rivoluzionarie che anticipava sul piano locale la Restaurazione, poi imposta anche nel Piemonte riconquistato all’indomani del Congresso di Vienna. Proprio negli anni della Restaurazione s’inserirono gli interventi dei sovrani piemontesi sulla Sardegna in merito all’istruzione del popolo, con i provvedimenti che si concentrarono in particolare tra 1822 e 1824. Col decreto del 23 luglio 1822 il re Carlo Felice promulgava le Regie Patenti che prevedevano un Regolamento per le scuole comunali pubbliche e regie con l’articolazione di scuole comunali gratuite distinte per maschi e femmine per un massimo di settanta alunni. L’anno successivo un ulteriore Regio Editto del 24 giugno 1823 appellava come ‘normali’ le scuole comunali, indicando nel leggere, scrivere, far di conto e nell’abaco, nonché nella dottrina cristiana e nel catechismo di agricoltura le materie da insegnare, chiarendo così l’obbligatorietà della frequenza per tre anni non interrotti da una lunga assenza. Un anno dopo il Regolamento per le scuole normali emanato dal re Carlo Felice ribadiva l’uniformità delle leggi identificando nei pastori, agricoltori ed artisti i destinatari privilegiati di tali scuole comunali ove l’alfabetizzazione doveva avvenire in lingua italiana. Qui veniva chiaramente indicato nelle Istruzioni del Serra il libro necessario ai maestri per i contenuti ed i metodi di insegnamento del programma nelle scuole normali dell’isola.

Tra queste tappe salienti della nascita della scuola per il popolo in Sardegna, e nel quadro dello sviluppo dell’alfabetizzazione popolare europea ed italiana, si colloca quest’operetta, scritta nel 1824 dall’allora parroco di Bunnanaro, tal Maurizio Serra, al maestro della scuola del paese, Gianantonio Vargiu. Maurizio Serra (1764-?), “uomo di gran mente e di gran cuore” , era un prete di umili origini, laureatosi in Teologia a soli venticinque anni, e che visse ed operò sostanzialmente nella provincia di Sassari. Apparteneva al basso clero ed era pertanto costretto ad impiegarsi in piccole attività per sopravvivere; dapprima fu insegnante privato poi ricoprì incarichi ufficiali di insegnamento assegnati dal Magistrato sopra gli studi, fino a quando divenne prima vice poi parroco del paese di Bunnanaro, ruolo che ricoprì per ben ventitré anni. Durante questo lungo periodo, forte dell’esperienza scolastica precedente, avviò per un anno una scuola per l’insegnamento elementare nella sua parrocchia, affidandola poi ad un giovane sacerdote, tale Gianatonio Vargiu. L’iniziativa di una scuola per il popolo era un’operazione abbastanza frequente nei piccoli centri, dovuta sia all’esigenza di preparare i chierici nelle celebrazioni liturgiche sia all’accresciuta domanda d’istruzione manifestate dalla popolazione. Il parroco si faceva carico di supplire lo Stato nella richiesta d’istruzione ed alfabetizzazione popolare, talvolta facendosi affiancare da un viceparroco, come nel caso di Serra. Qui però erano nuovi gli estremi legislativi dell’iniziativa cioè le disposizioni del Regio Editto del 24/6/1823 col quale “l’Augusto sovrano” disciplinava le scuole popolari senza però offrire indicazioni metodologiche e didattiche. Forse proprio a tale fine Serra aveva radunato i frutti dell’esperienza didattica personale, le letture e le tradizioni sedimentate nell’isola dando vita a “compendiose istruzioni” che, pur non aspirando al trattato di metodica -peraltro da lì a pochi anni scritto in Piemonte da Aporti e da Rayneri- intendeva delineare un vero e proprio curriculum studi che “dà importanza eccessiva all’insegnamento della calligrafia, dell’ortografia e della religione (…) ma in cambio discorre con moltissimo buon senso, del leggere, dello scrivere e del calcolo mentale e scritto, e porge ai maestri dei preziosissimi consigli”. L’intento didascalico è molto chiaro, confermato del resto dalla linearità della stesura e dal linguaggio piano utilizzato. Unico vezzo è forse caratterizzato dal destinatario, quel Gianantonio Vargiu a cui mai Serra si appella direttamente riconoscendogli una qualche soggettività ed identità propria; era forse un espediente retorico, un artificio dialettico per conseguire in modo più gradevole l’obiettivo più complesso, cioè quella sorta di compendio per le scuole normali sarde che in realtà il volume aspira ad essere. Neppure si sa se la stesura del testo sia stata frutto di un’iniziativa puramente personale del Serra rimaneggiata in vista degli eventi legislativi di Carlo Felice, oppure se sia stata commissionata da qualcuno all’indomani dei provvedimenti per l’istruzione sabaudi. Il dubbio appare legittimo se si riflette sull’enorme considerazione attribuita allo scritto dalle autorità piemontesi, le quali col già citato Regolamento per le scuole normali del 25/6/1824 affermavano per i maestri l’obbligo di attenersi alle Istruzioni del Serra, assunte di fatto a vero e proprio manuale, presto pubblicato nella prestigiosa Stamperia Reale di Torino. Perché quest’operetta fu investita di un ruolo così importante? Come ne erano venuti a conoscenza i piemontesi? Era evidentemente molto diffusa in Sardegna, ma attraverso quali canali o persone, e perché? A partire da questo riconoscimento ufficiale Maurizio Serra fu ‘promosso’ parroco a Sassari, in seguito fu nominato capo della Giunta sopra le Scuole normali e membro fisso del Magistrato degli studi di Sassari. In assenza di notizie più approfondite sulla sua personalità nella storiografia sarda è possibile ipotizzare la continuazione di fitte relazioni culturali con il Seminario e l’Università di Sassari frequentati in gioventù. La conferma deriva anche dai dibattiti a cui rinvia nel testo nonché dagli autori ed opere citate quali fonti principali del suo scritto. L’esame di tale testo può risultare quindi interessante non solo per il radicamento storico e geografico e la sua storicizzazione -peraltro necessaria- e neppure solo per le sue eventuali reali applicazioni nel tessuto del tempo, quanto piuttosto per lo studio delle modalità di mediazione tra indicazioni teoriche -idee, contenuti, metodi, libri- e tradizioni pedagogiche e culturali anche secolari, tra consuetudini locali e sensibilità culturale e didattica dell’autore. L’analisi di un piccolo libro per maestri, inoltre, appare realmente paradigmatica della dialettica tra particolare-universale, individuale-sociale, locale-generale che sempre la fonte storica presenta nella sua storicità di testo sorto in uno ‘spazio-tempo’ precisi. Inoltre queste Istruzioni si presentano come un documento significativo sia per il loro valore storico all’interno della storia dell’alfabetizzazione sarda/italiana sia per la personale sintesi sviluppata dall’autore tra tradizione e innovazione, che presenta un certo equilibrio tra indicazioni teoriche -autori e libri citati- e mediazione pratica adeguata ai destinatari cioè i maestri della Sardegna. Pertanto l’operetta di Maurizio Serra si consegna allo storico dell’educazione con tutta una complessità di nomi, parole, idee che rinviano ad una poliedricità di piani interpretativi pressochè inesauribili e non semplici da districare.

2. STRUTTURA E PIANO DELL’OPERA

Costituite di 104 pagine le Istruzioni del Serra si presentano come un vero e proprio curriculum studii per le scuole popolari, in quanto propongono un elenco articolato di materie, ciascuna suddivisa in tappe successive d’insegnamento-apprendimento secondo il principio di gradualità (dal noto all’ignoto, dal semplice al complesso, dal facile al difficile), con l’indicazione delle procedure metodologiche e didattiche a ciascuna adatte, l’outillage scolastico necessario, i testi di riferimento per maestro ed allievi, espliciti suggerimenti didattici e contenuti per le lezioni dei docenti.

L’opera inizia con la trascrizione del Regio Editto del 25 giugno 1824 per complessive 14 pagine. Seguono le vere e proprie Istruzioni che iniziano con una sorta di Introduzione, nella quale l’autore chiarisce i riferimenti legislativi entro cui collocare lo scritto, rinvia ad un dibattito in atto in Sardegna sul ruolo e modalità dell’istruzione popolare, definisce i destinatari, gli scopi della scuola popolare e i principali obiettivi educativi generali. Il testo appare poi suddiviso in due parti relative alle materie vere e proprie d’insegnamento, formalmente suddivise in ‘capi’ e ‘sezioni’ interne, e una parte finale che comprende un’appendice legislativa, ed una raccolta sintetica di testi utili per l’insegnante e già ‘pronti per l’uso’. Ecco l’articolazione interna dell’opera, fedele, nelle maiuscole e nei termini.

INTRODUZIONE (tot. pp. 9)

CAPO PRIMO. Del metodo d’insegnar l’alfabeto (tot. pp. 6)

CAPO SECONDO. Della compitazione e Sillabazione (tot. pp. 4)

CAPO TERZO. Dell’insegnar a leggere (tot. pp. 4)

CAPO QUARTO. Della scelta dei libri da leggere, e del metodo da tenersi nella lettura (tot. pp. 5)

CAPO QUINTO. Della Calligrafia (tot. pp. 5)

CAPO SESTO. Dell’Aritmetica (tot. pp. 12) suddiviso in:

Sezione prima: Dell’Aritmetica mentale

Sezione seconda: Dell’Aritmetica in cifre suddivisa in:

Paragrafo 1. Dell’Addizione, ossia del Sommare

Paragrafo 2. Della Sottrazione

Paragrafo 3. Del Moltiplicare

Paragrafo 4. Della Divisione

CAPO SETTIMO. Della ortografia in generale (tot. pp. 2)

CAPO OTTAVO. Dell’ortografia in particolare (tot. pp. 10) suddivisa in:

Osservazione prima. Dell’addoppiamento delle vocali:

Regola Prima. Regola Seconda. Regola Terza. Regola Quarta.

Osservazione seconda. Delle Consonanti doppie:

Regola Prima. Regola Seconda. Regola Terza.

Regola Prima. Regola Seconda. Regola Terza.

Regola Quarta

Regola prima. Regola seconda. Regola terza.

Regola quarta. Regola quinta. Regola sesta.

CAPO NONO. Dell’Istruzione Religiosa (tot. pp. 14)

CAPO DECIMO. Dell’Istruzione Civile (tot. pp. 8)

CAPO UNDICESIMO. Ultimi avvertimenti al Maestro (tot. pp. 9)

APPENDICE (tot. pp. 5)

MASSIME (tot. pp. 4)

DAI LIBRI SANTI E PII (tot. pp. 6)

AFFETTI PII (tot. pp. 2

MODELLI (tot. pp. 7)

NOTA (tot. p. 1)

Sommando le varie pagine si può notare che la parte più consistente è costituita dagli apprendimenti linguistici, seguita da quelli religiosi, da quelli aritmetici, dall’educazione morale e civile, e dall’ultima parte antologica diretta da un lato a fornire il riferimento legislativo (l’Appendice contenente stralci dell’Editto del 24 giugno 1823), dall’altro a presentare materiale di lavoro per i maestri in classe quali sentenze, brevi testi, modelli di scritture private d’uso più comune attinti da varie fonti, come chiarito nell’ultima pagina definita dall’autore stesso ‘nota’. L’asse formativo centrale è costituito dagli apprendimenti linguistici ma non può sfuggire l’unitarietà del progetto dell’autore il quale intendeva da un lato costruire un piccolo trattato di metodica, dall’altro fornire ai destinatari una sorta vademecum completo di esempi già pronti per l’uso, arricchiti da una serie di consigli per maestri diretti a disciplinare il rapporto educativo con gli allievi e le relazioni sociali in classe, più che a fornire indicazioni metodologiche e didattiche, distribuite invece all’interno delle materie di volta in volta affrontate. In questa sede tuttavia non s’intende descrivere analiticamente le parti del volume e delle materie affrontate. Alla pura descrizione si può cercare di sostituire una lettura ragionata mirante a cogliere le fonti culturali, pedagogiche e metodologico-didattiche costitutive dello scritto con una sorta d’attenta esegesi, limitata comunque al solo asse linguistico ed aritmetico. In quella che qui, per pura comodità espositiva, ho personalmente chiamato Introduzione, l’autore si rivolge al reverendo Vargiu, appellato come ‘collega amatissmo’, vice parroco del paesino di Bunnanaro e suo collaboratore con l’incarico di avviare la scuola normale cioè popolare nel paesino. In realtà Vargiu non ha un’identità sua propria, una soggettività reale nel corpo del testo con la quale instaurare un vero e proprio ‘dialogo’ anche se fittizio. Lo stile quasi epistolare col quale Serra dà inizio alle Istruzioni è un artificio dialettico comune alle epistolae latine nelle quali il destinatario, pur esistente non era ‘fisicamente’ reale ma costituiva l’occasione per avviare l’esposizione di un complesso messaggio del mittente. Serra storicizza immediatamente l’opera citando la legislazione piemontese del 1823 a vantaggio dell’istruzione elementare e chiarendo il suo favore ai provvedimenti, rinviando pertanto al dibattito in merito alle ragioni e modalità dell’educazione/istruzione del popolo. Un popolo da istruire ed educare anche a dispetto di quel “volgo imperito” e di quella “schiera de’ maligni” che non voleva invece “riconoscere a prima giunta, quale feconda sorgente di beni va per tal guisa ad aprirsi in Sardegna.” Su questo sfondo solo accennato e non circostanziato rispetto a luoghi e persone, per ovvie ragioni diplomatiche, Serra chiarisce tuttavia la propria posizione a favore dell’istruzione del popolo, sviluppando con incisiva linearità le molteplici ragioni. Ragioni culturali connesse al suo stato di “parroco che per dovere del suo sacro ministero è tenuto ad illuminarne il popolo, ed a servirgli di guida principalmente in quello che riguarda la morale e la religione” ma anche ragioni pastorali in senso stretto per le quali solo “l’accelerare ne’ vivaci nostri fanciulli lo sviluppo delle facoltà intellettuali, il dirigerle al vero scopo al quale debbono tendere unicamente, contribuirà eziandio a migliorarli nel cuore” cosicché “verrà a togliersi ai parroci l’ostacolo che presentemente incontrano nella difficoltà di farsi capire da troppo rozzi intelletti, allorché spezzano al popolo il pane spirituale della Divina Parola”. L’istruzione cioè -come arricchimento delle conoscenze e delle capacità cognitive, potremmo dire in termini moderni- è considerata dal Serra uno strumento essenziale alla stessa crescita spirituale del credente ed alla consapevolezza personale della Fede: una posizione che richiama l’agostiniano intelligo ut credam e che viene utilizzata da Serra per convincere quanti, tra gli stessi esponenti del clero sardo, erano ancora ostili all’alfabetizzazione elementare dei piccoli fedeli. Ad essi l’autore pone la funzione dell’istruzione popolare e della scuola anche come forma di controllo sociale, in quella saldatura tra ‘trono e altare’ accettabile anche dal clero più retrivo. Per questo indica i “sublimi precetti della divina legge, il santo timor di Dio, la via del buon costume, e del dolce amor fraterno che è la divisa dei Cristiani” come obiettivi educativi generali della scuola e del maestro, al quale è assegnato un importante ruolo sul piano sociale. Un maestro che, essendo anche prete, assume contemporaneamente le funzioni di istruire, educare e orientare al futuro professionale nel quadro di una missione inscindibilmente connessa al suo stato ecclesiastico -come le frequenti citazioni latine del Vangelo e di San Giovanni Crisostomo confermano- ma anche di suddito dello Stato laddove si dice che egli “sarà il riformatore dei costumi di tutto un Pubblico, il benemerito della Chiesa, e dello Stato, anzi l’Angelo tutelare, che addita il dritto sentiero per non sbagliare dal principio la via del Paradiso.” E’ quel binomio ‘fedeli sudditi e buoni cristiani’ in cui s’inquadrano gli interventi delle monarchie europee a favore dell’istruzione e dell’educazione popolare avviate dalla seconda metà del Settecento per garantire il controllo sociale e contemporaneamente una limitata mobilità nel quadro del progresso socio-economico e della modernizzazione dello Stato. Di questo maestro però le Istruzioni di Serra delineano un alto profilo di doti umane poiché “tutto caldo di zelo e d’amor di patria” possiede un mestiere che “abbisogna fatica, diligenza e pazienza” , doti da chiedere incessantemente nell’orazione quotidiana. Del maestro le Istruzioni disegnano anche un profilo di competenze specifiche, un mestiere che “richiede molta prudenza e cognizioni insieme teoriche e pratiche, onde proporzionare l’istruzione a tutti” : cognizioni teoriche per la verità non precisate e l’obiettivo di istruire tutti in modo da distribuire conoscenze e saperi secondo età, capacità e tempi adeguati. Per così alti obiettivi educativi della scuola popolare, per un così elevato compito assegnato al maestro, per un profilo di docente così solenne Maurizio Serra impiegò “i ritagli di tempo che fortunatamente lasciommi il mio pastorale Ministero per darvi un breve compendio delle massime più adattate a voi, al luogo, ed alle persone, che dovete istruire, onde formarvi qual vi desidero, e spero che diverrete, un maestro veramente degno del gradimento del Governo, della riconoscenza del Pubblico, e della benedizione di Dio.” Su questo sfondo culturale e pastorale Serra precisa tuttavia che l’obiettivo dell’istituzione-scuola normale sarà quello di “dar norma al maestro di giudicar sanamente della naturale attitudine che aver possono i suoi discepoli alle professioni diverse che imprenderanno nel tempo, e dovrà dar norma ai discepoli a ben regolarsi e condursi in qualsivoglia mestiere, a cui si possano dedicare col consiglio del loro maestro, e consenso de’ genitori.” La scuola assolve quindi un chiaro ruolo di orientamento sociale al lavoro ed alle professioni e questo compito è affidato al maestro sulla base del successo scolastico e delle attitudini osservate nell’allievo. L’insegnamento del leggere, dello scrivere e del conteggio pertanto -su cui si dilungherà nella parte successiva- vengono resi essenziali, minimi, finalizzati all’obiettivo di una scuola destinata al popolo della quale anche le nozioni di Agricoltura erano contemplate. Esse erano del resto congruenti con le esigenze di rinnovamento economico e sociale sostenute dalla monarchia sabauda e da parte dei gruppi dirigenti locali, sensibili alle idee fisiocratiche diffuse nell’isola durante il periodo rivoluzionario e napoleonico e dalla Regia Società Agraria ed Economica Sarda sorta a Cagliari nel 1804. L’inserimento delle nozioni di agricoltura nelle scuole per il popolo, quindi, era funzionale ai destinatari delle scuole normali cioè i pastori, gli agricoltori e gli artisti indicati nel Regio Editto del 25/6/1824. Non a caso qualche anno più tardi la stessa Stamperia Reale di Torino pubblicherà un vero e proprio manuale in merito il Catechismo agrario pei fanciulli di campagna ad uso delle scuole normali di Sardegna scritto dall’avvocato Stanislao Caboni. Le nozioni di agricoltura dovevano educare ad una nuova mentalità sensibile alle innovazioni tecnico-agricole ed al miglioramento economico patrocinata dalle Accademie o Società Agrarie che dalla fine del Settecento diffondevano le idee fisiocratiche in Toscana, Lombardia, Piemonte, Emilia, Sardegna, avviando al contempo un dibattito sul rinnovamento dell’economia, dell’istruzione e della società intera. Il Catechismo agrario di Caboni fu commissionato non a caso dalla Regia Accademia agraria di Cagliari , sull’esempio del Trattenimento di lettura dei fanciulli di campagna delle scuole della Lombardia , a siglare una circolazione delle idee nelle diverse realtà italiane molto più efficace di quanto a noi noto e una partecipazione dell’intellettualità sarda ai dibattiti culturali italiani molto più attenta ed aggiornata di quanto una certa storiografia ha finora evidenziato. Proprio i “buoni principi della Religione e della Morale, dell’Agricoltura e del conteggio pratico” erano i contenuti essenziali delineati da Serra nelle sue Istruzioni per gli alunni e maestri delle scuole normali sarde.

3. LE FONTI

Ma quali sono le tradizioni pedagogiche e didattiche presenti nelle diverse parti delle Istruzioni? Serra al riguardo cita esplicitamente in successione alcuni nomi dai quali non si può ovviamente prescindere: Francesco Carboni, il sacerdote Antonio Manunta, il prof. Anselmi, la Scuola della Mendicità Istruita di Torino ed il prof. Bartoli. I primi due sono personaggi della Sardegna, i secondi rappresentano due elementi delle vicende piemontesi sue contemporanee mentre l’ultimo è un famoso studioso del Seicento italiano citato solo in maniera incidentale. Procederemo pertanto nella contestualizzazione di questi nomi citati dal Serra quali fonti dirette sulle quali ha costruito le sue Istruzioni. Carboni (1746-1817) fu un gesuita docente di eloquenza latina presso l’Università di Cagliari, accusato di eresia e giacobinismo durante il periodo francese, latinista di fama europea, socio dell’Arcadia ed “autore assai noto di vari poemetti latini di squisita bellezza” . Serra lo cita come esempio illustre del paese di Bunnanaro esaltando indirettamente il paesino stesso di cui era parroco ed auspicando la nascita di altri personaggi illustri come Carboni. Di Antonio Manunta invece è lo stesso Serra che fornisce informazioni importanti. Egli era un sacerdote, teologo dell’università di Sassari, “institutore in un tempo de’ seminaristi della Diocesi, e uomo che arde dal desiderio di procurar tutti i lumi e tutti i vantaggi possibili ai suoi connazionali” : Manunta era stato probabilmente suo docente in Seminario, quindi importante per la propria formazione culturale giovanile, uomo di cui condivideva le idee aperte, e con il quale era evidentemente rimasto in stretto contatto poiché dichiara esplicitamente di aver letto alcuni libri ricevuti dal Manunta al fine di costruire quel “breve compendio delle massime più adattate a voi, al luogo ed alle persone che dovete istruire” cioè le Istruzioni stesse. Serra ha quindi letto, meditato e sintetizzato questi libri senza specificarne però titolo ed autore. Possiamo arguire quali fossero solo da un’altra fonte indiretta di tipo archivistico. Infatti qualche anno dopo, in una visita d’ispezione delle scuole della Sardegna, si apprende che il teologo Manunta “procurò di raddrizzare per quanto le strettezze del tempo gli permisero alcuni difetti” anche sollecitando l’adozione di libri ancora inesistenti; in tali scuole, essendo “basate (…) sul metodo stabilito per le Lombarde i Maestri furono dal teologo Manunta esercitati sulli Libri che Egli seco condusse dal continente.” Tale teologo, quindi, deve aver ricoperto un ruolo di primo piano nel rinnovamento pedagogico e didattico della Sardegna, considerato poi che presso di lui giunsero i maestri delle scuole normali di Cagliari e dintorni “per abilitarsi … e trasfondere poi nei vicini il ricevuto insegnamento.” Si riferiscono qui i libri delle scuole normali condotti dall’Italia ma è allora è legittimo compiere alcune supposizioni. Se le scuole per il popolo in Sardegna erano chiamate ‘normali’; se i libri importati da Manunta erano quelli delle scuole lombarde; se i libri riferiti dal Serra come ricevuti dal Manunta erano quelli delle scuole lombarde era chiara la presenza in Sardegna -già dal 1824- della lettura diretta delle opere caratterizzanti il rinnovamento pedagogico e didattico delle scuole del Lombardo Veneto. Una lettura diretta nel Serra ma comunque mediata dal Manunta, figura di spicco del rinnovamento pedagogico e didattico delle scuole sarde del tempo, che aveva certo viaggiato in Italia recuperando le fonti essenziali del rinnovamento scolastico del Lombardo Veneto. In quali parti delle Istruzioni sono presenti le tracce dei libri e delle scuole lombarde? Difficile estrapolarle con precisione poiché le tradizioni pedagogiche e didattiche si sedimentano nel tempo dando origine, attraverso le varianti adottate qua e là dai singoli maestri (anche attingendo in certi casi alla propria inventiva in altri casi a letture di altre fonti pedagogiche e didattiche), a stratificazioni successive che sfumano i contorni del chiaro ‘debito culturale’ nell’onda lunga della Storia e della vita materiale della scuola. La stessa citazione dell’opera Avviamento alla calligrafia nel capitolo sulla calligrafia non è di chiara interpretazione poiché Serra non ne precisa l’autore: si riferiva alla manualistica del genere di tradizione scolopica o all’omonima opera di padre Francesco Soave (1743-1806) conosciuta attraverso Manunta? Confrontando le Istruzioni di Serra con il Compendio del metodo di Soave si coglie la presenza dei due punti salienti del metodo ‘normale’ lombardo: la sostituzione del metodo individuale con la simultaneità dell’insegnamento per tutte le discipline ed il principio della gradualità -dal facile al difficile, dal semplice al complesso- di ascendenza illuministica, proprio di quel sensismo ed empirismo che Soave mutuava dallo studio approfondito del pensiero di Locke. L’insegnamento simultaneo presupponeva la divisione della scuola in classi con contenuti e libri ad hoc per ogni classe ed aveva il merito di far lavorare sempre i bambini sviluppando contemporaneamente l’emulazione e risvegliando anche l’interesse dei più tardivi. Il metodo normale era stato ideato da Giovanni Haehn in Prussia tra 1753 e 1759, adottato da Giovanni Felbiger nelle scuole austriache di Maria Teresa e conosciuto da Soave e da padre Moritz nei loro viaggi in Slesia e Tirolo. Prima nel periodo teresio-giuseppino poi nel periodo napoleonico Soave ebbe il compito di organizzarle in Lombardia sia attraverso scuole apposite per la formazione dei maestri sia tramite la stesura e diffusione di una serie di manuali scolastici per tutte le discipline che costituirono la fonte primaria della manualistica italiana successiva, anche attraverso la mediazione piemontese. Il neonato sistema di scuole primarie gratuite per il popolo via via stabilite dal Regolamento generale delle scuole normali, principali e comuni già approntato dal Felbiger nel 1774 si sostanziava pertanto del modello scolastico ‘normale’ prussiano veicolato da Soave e dall’attrezzatura didattica costruita ad hoc. Sistema scolastico ed organizzazione didattica si intrecciavano strettamente con un modello forte destinato a durare nel tempo. La novità del metodo normale non consisteva nello svolgimento delle discipline in sé: infatti era mantenuta la distinzione dei processi d’apprendimento dell’alfabeto, della lettura e della scrittura propri della tradizione, che collegava strettamente la cognizione delle lettere alla loro morfologia e fonetica strettamente subordinate alla calligrafia utile per i mestieri. Il vero elemento innovativo consisteva nella saldatura tra progetto politico e progetto scolastico con l’impianto organizzativo nuovo della scuola che doveva fungere da ‘norma’ per tutte le scuole del Regno. Questo è ancor più vero se si pensa che la vera proposta didattica del Soave, ripresa dall’Haehn, cioè il metodo delle lettere iniziali sia stata progressivamente respinta in età giuseppina e lentamente abbandonata, a differenza del sistema delle tabelle o dei ‘quadri murali’ derivato pure dall’Haenn. L’originalità e l’aspetto realmente rivoluzionario del metodo normale consisteva nell’organizzazione del sistema eletto a norma per tutte le scuole col metodo simultaneo e la razionalizzazione della scuola nelle diverse classi con la presenza di programmi e libri comuni per le scuole del popolo, nel quadro di quel processo di istruzione ed educazione popolare che contraddistinse le riforme teresiane-giuseppine nel Lombardo Veneto della seconda metà del Settecento. Questi elementi sono ben presenti nelle Istruzioni del Serra. Egli mantiene la distinzione e successione tra “metodo d’insegnar l’alfabeto”, “compitazione e sillabazione”, “insegnar a leggere” e calligrafia con la suddivisione in ‘capi’ e ‘sezioni’. Del resto l’insegnamento contemporaneo della lettura e della scrittura si diffonderà molto lentamente a partire dagli eventi della Francia rivoluzionaria in tutta Europa e comunque incontrando resistenze della pratica tradizionale per la quale la calligrafia era considerata la via di accesso alla scrittura. Tuttavia per l’apprendimento delle lettere Serra attinge forse più dalla tradizione calasanziana presente nell’isola che dal Soave stesso; se infatti lo studioso lombardo proponeva rigidamente il metodo analitico e la cognizione delle lettere come composizione morfologica di punti, linee, rette e curve secondo il normale ordine alfabetico, Serra si ricollega a quest’approccio solo in una seconda fase dell’apprendimento. Egli preferisce chiaramente la lettura fonica, facendo iniziare il processo di apprendimento dalle cinque vocali maiuscole seguite dalle consonanti nel loro ordine, superando pertanto sia la prospettiva rigidamente analitica del Soave sia il classico metodo alfabetico poiché -chiarisce- il maestro deve far pronunciare il puro ‘valore’ della lettera cioè il suo suono e “schiverà soprattutto di dire effe, elle, emme, essa per f, m, n, s.”. Da dove maturava la preferenza per la lettura fonica? Dalla tradizione calasanziana o dal vivo dell’esperienza maturata ‘dal basso’ come maestro? Oppure dalla lettura mediata da Manunta o da altri del metodo fonico nelle sue diverse matrici culturali della Francia con Blaise e Jacqueline Pascal nella scuola di Port Royal o della Germania di Ickelsamer, Jacotot e Stephani ? Difficile stabilirlo. Certo la lettura fonica era diffusa ufficiosamente presso la popolazione fin dall’età umanistica. Molto probabilmente era presente anche nella tradizione scolopica almeno a partire dal Settecento e sappiamo che gli Scolopi hanno costituito una presenza significativa per diffusione e rilevanza in Sardegna fin dall’età moderna, con l’apertura di scuole per il popolo che “erano di gran lunga le migliori in tutta la Sardegna per organizzazione, frequenza degli alunni e prospettiva di continuazione”. Proprio l’esigenza di confrontarsi con un’utenza sociale medio-bassa aveva già da tempo indotto le Scuole pie a ricercare metodi diversi dalla tradizione greco-latina nell’alfabetizzazione linguistica con la progressiva adozione della lettura fonica, avviata attraverso il volgare e poi completata dallo studio della calligrafia e dell’abaco. E’ probabile quindi che Serra accolga le indicazioni della lettura fonica dalla tradizione calasanziana presente sull’isola. Essa del resto s’intravvede anche nell’opportunità da lui proposta di affiggere “alla parete della scuola un cartellone scritto in grossi caratteri col mezzo dei rami traforati” -certo una variante del sistema già indicato da Calasanzio – e su questo cartellone il maestro appoggiava la punta della bacchetta facendo ripetere individualmente e simultaneamente le lettere e le sillabe. Serra proponeva di ridurre le difficoltà attraverso la sostituzione del cartellone precisando che “la fatica del maestro sarà minore, e maggiore il profitto degli scolari, quando si sarà fatta venire una pietra lavagna ben nera e liscia, da collocarsi nella scuola: ed ecco l’uso da farne per l’alfabeto” per cui il maestro doveva scrivere le lettere facendole riconoscere ed apprendere non più di quattro-cinque alla volta. Su questi due elementi materiali della vita scolastica, cioè il cartellone e la lavagna, si coglie la saldatura tra pratica didattica tradizionale e la novità delle scuole lombarde per l’istruzione del popolo: Serra invita esplicitamente all’uso del metodo ‘contemporaneo’ o simultaneo di insegnamento ed all’utilizzo della pietra lavagna ben liscia, ben sapendo tuttavia che, in assenza di questo sussidio, si poteva continuare ad insegnare l’alfabeto con il vecchio sistema. La lavagna nera in ardesia tuttavia era destinata a mutare radicalmente la pratica didattica di maestri e scolari intenti ad adottare il metodo normale. Accuratamente descritta nelle sue parti e nel possibile uso da parte del maestro da parte del Soave essa divenne lo strumento principale dell’alfabetizzazione popolare modellata sul metodo normale, in quanto “concepita come punto focale del lavoro di classe”. Prestata alla didattica dalle arti pittoriche e dal disegno geometrico, la lavagna ben si piegava alle esigenze dell’insegnamento simultaneo e a quelle economiche di risparmio della spesa di carta e inchiostro nelle scuole, ora divenute popolari ed affollate. La sua presenza tuttavia comincia ad attestarsi più chiaramente in Europa solo dopo la Rivoluzione francese, attraverso la dominazione napoleonica. Il metodo normale significava scelta decisa della lingua italiana per il popolo, insegnamento simultaneo anche se per gruppi di livello omogeneo; sostituzione del Salterio e del Donato con libri facili e chiari e queste sono indicazioni palesemente presenti nelle Istruzioni in esame. La simultaneità dell’insegnamento si coglie esplicitamente nelle Istruzioni di Serra laddove dice testualmente che “per risparmio di fatica e di tempo si assegneranno sulla tavola a molti fanciulli le stesse parole da compitare, ed altre da sillabare. Compiterà quindi uno di essi ad alta voce, e gli altri faranno lo stesso sotto voce, seguendo con l’occhio la parola che verrà indicata dalla bacchetta e compitata; così anche per sillabare.” Soave ‘riappare’ poi nella serie di consigli che Serra fornisce in merito alla conoscenza e diversificazione delle lettere secondo l’affinità della configurazione cioè della forma, esercizio da compiere sulla lavagna sia dal maestro sia dagli scolari di volta in volta chiamati, con l’attenzione a cogliere le differenze delle lettere secondo il tipo di linee impiegate (rette, oblique, curve); tale esercizio era propedeutico sia all’apprendimento delle lettere sia alla calligrafia. Proprio ad essa Serra dedica un ‘capo’ apposito (il quinto) precisando che solo “quando i fanciulli saranno arrivati a leggere mediocremente, sarà cura del Maestro d’istradarli nella scrittura” . Dalla conoscenza delle lettere -prima le vocali poi le consonanti, prima lo stampato maiuscolo poi il minuscolo- Serra prosegue per l’apprendimento delle sillabe secondo l’ordine del sillabario teso sempre alla conoscenza e memorizzazione delle sillabe dirette ed inverse, dei dittonghi e trittonghi favorendone l’apprendimento sia con la scrittura sulla tavola nera sia, in assenza di essa, di un cartellone a mo’ di tabella murale sinottica. Compitazione e sillabazione sono le due operazioni successive richieste cioè la divisione e ricomposizione delle parole nelle lettere costitutive e, al contrario, la dizione delle sillabe senza pronunciarne il singolo suono ma appoggiando direttamente la consonante sulla vocale. Il passo successivo è la vera e propria lettura delle parole sia sottovoce che ad alta voce, procurando di leggerle dapprima il maestro stesso. Qui è presente l’avvertenza di evitare le cantilene ed errori di pronuncia. Serra al riguardo non precisa quale tipo di pronuncia italiana si dovesse tenere (quella toscana?) forse dando per scontato il discorso da un lato -che ben si inseriva nel quadro dell’operazione sabauda di sostituire alla lingua castigliana-spagnola quella italiana- ma dall’altro presentendo come opportuna se non necessaria l’attenzione alla traduzione pressoché costante in italiano delle parole dal dialetto sardo, ragionevolmente utilizzato dall’utenza popolare della scuola. Egli precisava che “il dialetto sardo potrà convenire ove d’uopo a dichiarare il senso di una voce, e la tessitura di una frase. Sarà utile cosa che il fanciullo si eserciti nel tradurre nel suo dialetto le sentenze italiane, che si proporranno (infatti) il confronto tra i due idiomi servirà pur molto a renderne più stabile l’intelligenza”. La questione era a quel tempo della massima importanza nel momento in cui la presenza di dialetti e regionalismi sul suolo italiano costituiva un ostacolo alla costruzione di un’identità nazionale italiana e di un’unità linguistica preludio e desiderio dell’unità politica d’Italia. La “questione della lingua” tocca solo tangenzialmente le Istruzioni di Serra: non vi è un intento patriottico risorgimentale implicito ma solo l’esigenza didattica di partire dalle condizioni reali e concrete dell’utenza per ascendere alla lingua italiana della scrittura e della cultura ‘alta’. L’insegnamento della lettura corretta procedeva poi da parte del maestro con particolare attenzione alla punteggiatura cui succedeva poi la lettura simultanea degli allievi ed individuale ad alta voce, sempre seguita da quella collettiva a bassa voce in un’alternanza di modalità e tempi ferrea e salda, propria del metodo simultaneo. Circa i contenuti di questa prima fase della lettura l’autore rinvia alle sentenze poste in appendice al volume “avendo cura di spiegarle ai medesimi in dialetto sardo, e di farne sentire l’importanza e il valore”. Tali massime esprimevano i valori cristiani del perdono, della verità, del rispetto per i genitori e l’autorità, della corresponsabilità del genere umano, della lotta alla vanità ed alla tentazione della pigrizia improduttiva preludio all’indigenza del povero. La tappa successiva, caratterizzata da una lettura più corretta e spedita, prevedeva il secco rifiuto della vecchia manualistica delle scuole latine per il popolo infatti “non parmi, che dal Maestro seguir si possa l’antico metodo delle scuole primarie, imbarazzando i fanciulli colla lettura or dell’Ufficio latino della Beatissima Vergine, or del Donato, degli Elementi della stessa lingua latina, ed altri libri simili.”. E’ una decisa scelta di campo che pone Serra in continuità col Soave e con la riflessione educativa e scolastica del Piemonte sabaudo dell’epoca. Infatti il passo successivo conferma il cambiamento di prospettiva per le scuole del popolo sarde alle quali consiglia invece “il secondo e terzo fascicolo delle bellissime letture che all’infanzia propone il Professor Anselmi, unitamente ai due primi fascicoli di Storia sacra: fascicoli, che a discretissimo prezzo si vendono sciolti in Torino.” Il nome di Anselmi è in seguito citato dall’autore per ben quattro volte, segno che Serra lo riteneva una fonte diretta ed autorevole o che intendeva addirittura schierarsi dalla parte più aperta del dibattito pedagogico e scolastico italiano di cui Anselmi era uno degli esponenti di punta sia nel periodo napoleonico che in quello liberale della Restaurazione. Giuseppe Anselmi (1760-1842) era infatti un personaggio interessante del Regno sabaudo tra fine Settecento e metà Ottocento, sostenitore di un riassetto del sistema scolastico e del rinnovamento dei contenuti, della metodologia e didattica. Professore di retorica nei licei piemontesi e docente di Lettere nell’Accademia Militare di Torino, Anselmi fu amico di Foscolo e promotore delle riforme scolastiche in Piemonte nell’età napoleonica. Proprio in quel periodo Anselmi compose un primo scritto che proponeva la riforma delle scuole di latinità considerate inefficienti per metodi e contenuti, avviando l’insegnamento in lingua italiana sostitutiva sia del latino propedeutico alle scuole secondarie sia al francese importo dal governo napoleonico. Con la Restaurazione ed il ripristino delle Costituzioni del 1771, Anselmi proseguì nella strada riformista già intrapresa esponendo dapprima le sue idee nel 1814 e poi nel 1818. Il nuovo piano di studi delineato era però più ampio. Esso era il frutto da un lato dell’esigenza di riformare le scuole di latinità dei Collegi, nel quadro di una riassetto dei contenuti e metodi di studio avvertita in tutta Europa ed alla quale Anselmi -professore non a caso di retorica- era sensibile; dall’altro si collegava strettamente alla discussione relativa alla costruzione di una scuola primaria o popolare o elementare che già nella Lombardia asburgica e poi in età repubblicana e napoleonica aveva condotto a configurare una scuola per il popolo. In Piemonte nel periodo repubblicano e napoleonico era stata avviata una scuola primaria informata al metodo ‘normale’ lombardo ma tali riforme erano poi state sconfessate all’indomani del Congresso di Vienna. Anselmi proseguiva pertanto nel suo disegno di correzione del sistema d’istruzione proponendo una riarticolazione del sistema scolastico e la definizione della scuola degli ‘elementi’ che accogliesse un’utenza vasta anche se poi, nel quadro di un progetto liberalmoderato, chiariva che “al termine di questo primo studio dell’Istruzione il Giovane entrerà in quello delle Scuole latine, e quindi scientifiche, o per difetto d’acconcia disposizione, o proposito de’ parenti, o suo proprio, vorrà restare in una sfera inferiore o suo proprio, vorrà restare in una sfera inferiore d’uomo addetto al commercio, o ad altri uffizi estranei alle lettere latine. Nel primo caso ei seguirà la carriera: ma vorrei pure, che il corso precedente avesse servito di certo sperimento agl’ingegni, e che i soli e perspicaci, e forti fossero promossi.” Egli proponeva un sistema scolastico suddiviso in tre fasi rispettivamente di scuola ‘Elementare’, di ‘Lettere latine’ e di ‘Filosofia e scienze’. Nella prima, denunciando l’inefficacia dei vecchi sistemi delle scuole abbecedarie e di latinità, proponeva la distinzione in ‘scuola dell’infanzia’ (ex abbecedaria) e ‘scuola della puerizia’ (ex latinità). Anselmi procedeva pertanto ad una riforma dei contenuti e metodi interni, ricollegandosi alla tradizione francese portorealista, alla gnoseologia empirista e sensista di Condillac ed alla trattatistica pedagogica di padre Soave proveniente in Piemonte sia dalla Lombardia asburgica sia dalle indicazioni legislative repubblicane e napoleoniche, quindi dall’esperienza francese. Nella scuola degli ‘Elementi’ era previsto il libretto dell’alfabeto, il sillabario, il Catechismo istorico del Fleury , il Catechismo cristiano nonché grammatica, ortografia, lettura, storia sacra e profana, teologia, etica, storia antica e moderna, storia patria, geografia, aritmetica e storia naturale. Il nuovo modello scolastico configurato poggiava su un impianto di idee pedagogiche e didattiche attinte dal dibattito d’oltralpe nel periodo repubblicano e napoleonico. Per questo Anselmi prevedeva l’esplicita adozione del metodo normale, l’utilizzo della lingua italiana, l’eliminazione del Donato e delle opere in latino con l’utilizzo provvisorio dei testi del Soave, in attesa di scriverne egli stesso appositamente. In questa prospettiva Anselmi negli anni successivi iniziò la compilazione di testi scolastici per i diversi livelli di scuola previsti dall’Ideato sistema di correzione, con particolare impulso dopo i moti del 1821. Fu così che in questo caso il rinnovamento metodologico-didattico da fatto interno alle scuole di latinità si estese alla scuola per il popolo non più intesa come primaria ma elementare. Il senso e la portata di questo cambiamento e l’opera di mediazione tra cultura ‘alta’ e scuola del popolo che accomunava Anselmi a maestri ‘aperti’ come Michele Sassetti e Michele Ponza fu ben compreso dalla generazione successiva dei Troya, Boncompagni, Rayneri, Aporti, Parato che a partire dal 1828 accompagnarono le esigenze di riforma scolastica piemontese ad un’intensa produzione editoriale di periodici e manualistica per le scuole popolari e per le scuole di metodo per maestri. Lo stesso Vincenzo Troya dichiarò più volte di aver ascoltato la lezione e le iniziative di Anselmi mostrando di volerne accogliere l’eredità e proseguire sulla via delle riforme. Serra dunque conosceva e consigliava esplicitamente i testi di Anselmi. Inoltre il limitato scarto temporale tra la pubblicazione dei testi di Anselmi e delle sue Istruzioni rivela la conoscenza diretta del dibattito scolastico in atto in Piemonte al quale la Sardegna, non dimentichiamo, apparteneva. Le Istruzioni anzi si collocavano a pochi anni di distanza dal Regolamento del 1822 con il quale la monarchia sabauda optò per un cambiamento nella politica scolastica. All’indomani dei moti del 1821, infatti, stabilì la sostituzione del riformista liberale Prospero Balbo con il gesuita Luigi Taparelli D’Azeglio ma accolse nei fatti alcune richieste dell’opposizione concretizzate nel Regolamento degli Studi pubblicato nelle Regie Patenti del 23/7/1822: furono avviate scuole elementari maschili e femminili affidate ai comuni, fu incoraggiato il metodo normale con insegnamento simultaneo anche se la sorveglianza delle scuole fu affidata alle autorità ecclesiastiche con un aperto confessionalismo dell’istruzione complessiva, centrata sulla dimensione religiosa. A questi provvedimenti seguirono quelli analoghi già citati per la Sardegna. L’adozione da parte di Serra di alcuni libri di Anselmi avrà avuto quindi anche un significato in senso lato politico poiché implicavano la condivisione di un progetto culturale nuovo proprio negli anni in cui -siamo al 1824- la Restaurazione con Carlo Felice mirava a controllare e minutamente regolamentare l’istruzione in generale e delle masse in particolare, frenando gli slanci innovatori del Piemonte sabaudo che conobbero solo poi con Carlo Alberto e Vittorio Emanuele II la costruzione di un vero e proprio sistema scolastico e di un intellighenzia culturale e pedagogica di alto livello (Troya, Rayneri, Parato ecc…) che, attraverso la conquista militare dell’Italia nel quadro del processo risorgimentale, riuscirà ad imporre forme, concetti e modi dell’istruzione sbaragliando tradizioni pedagogiche parallele come quella lombarda e toscana altrettanto innovative e ‘forti’ ma ‘perdenti’ sul piano politico. A partire dal 1815 fino alla morte Anselmi si dedicò alla pubblicazione e ristampa di testi scolastici tra cui i fascicoli di letture per la scuola dell’infanzia, i due fascicoli di Storia sacra, la Grammatica italiana, i libri per la Scuola della puerizia ed il giornale didattico L’Educatore, tutte opere esplicitamente consigliate da Serra ai maestri sardi. In questi testi Anselmi forniva in forma antologica una serie di brani e passi tratti dai grandi classici del Trecento e del Settecento italiano scelti secondo l’affinità all’ideale classicista di una lingua poetica omogenea. In essi chiariva che non intendeva trattare della poetica “ex professo, né dei singolari suoi pregi nel vastissimo suo campo dei generi e delle opere del poetare; ma solo di brevi e scelti luoghi poetici, quali fiori stralciati di mezzo ad opere di buoni scrittori, imitati o tradotti, od altamente per me innestati nell’ordine del disegnato mio libro”. Egli sperimentava così un metodo vincente nella costruzione dei libri di testo il quale prevedeva l’estrapolazione di brani scelti da testi famosi e d’autore ad uso delle scuole; così nei fascicoli sulla Storia sacra proponeva la modifica adeguata della narrazione di episodi biblici scelti per sottolineare i vizi e le virtù esemplari, utilizzando una forma semplice e piana. Giuseppe Anselmi si trova nuovamente citato nel Capo ottavo “Dell’ortografia in particolare” quale esempio da seguire per il raddoppiamento delle consonanti nelle parole composte come riferito nella sua Grammatica italiana. L’ortografia occupa una parte cospicua delle Istruzioni del Serra, è quasi una ‘materia’ a sé distinta dal leggere e scrivere, come si comprende dal fatto che è collocata dopo l’aritmetica. Essa riveste una parte importante del curriculum per le scuole normali poiché “infin da quando cominciano i fanciulli a sillabare e compitare le lettere, le mire di un buon Maestro devono essere rivolte ad istruirli insensibilmente e avezzarli al retto scrivere, che chiamasi ortografia.” Gli accenti, l’apostrofo, i raddoppiamenti di vocali e consonanti devono essere evidenziati sia attraverso le letture collettive compiute in classe sia nella scrittura di testi in modo che siano “cose (…) istruttive, ma adattate alla loro capacità” . Tali testi di esercizio all’ortografia sono presentati al destinatario nella parte finale del volume quali “affetti santi e pii”. Serra offre poi precise indicazioni didattiche con una scansione interna ben strutturata: scrittura individuale sotto dettatura su quinterni , trascrizione ulteriore su cartellini volanti, correzione individuale poi collettiva ad alta voce e nuova dettatura collettiva con trascrizione su altro quinterno delle regole scoperte, da consultarsi poi all’occasione. La precisione di tali indicazioni didattiche del Capo settimo -che rinvia alla necessità di insegnare ‘come si insegna’ l’ortografia’- è seguita da una serie di regole sui raddoppiamenti di vocali e consonanti con attenzione al confronto tra italiano e latino, una sorta di ‘summa’ delle regole ortografiche comunemente diffuse e qui circoscritte ad uso dei maestri sardi. E’ in questa occasione che Serra, oltre a citare Anselmi, fa riferimento a Bartoli, il quale, in relazione al raddoppiamento delle consonanti ‘b’, ‘m’, ‘s’, “attesta, che tali parole sono scritte a piacimento, or con semplice, or con doppia lettera dagli autori del miglior tempo.” Tale Bartoli era un’autorità evidentemente a tutti nota se Serra non avverte neppure la necessità di precisarne il nome o almeno l’iniziale di esso. Presumibilmente, data la contestualizzazione dell’autore citato all’interno della parte sull’ortografia, si tratta del professor Daniello Bartoli, gesuita del Seicento molto noto in Italia anche nel corso del primo dell’Ottocento, apprezzato da Vincenzo Monti, Pietro Giordani, Vincenzo Gioberti e da Giacomo Leopardi il quale lo considerava l’equivalente di Dante per la prosa, il fondatore della prosa italiana. Storico dell’ordine dei Gesuiti, autore di opere scientifiche e retorico-grammaticali, scrisse nel 1670 un trattato sull’ortografia italiana al quale fa evidente riferimento Serra per la parte sull’ortografia, non sappiamo se nota direttamente nelle varie ristampe e riedizioni successive, oppure mediata ancora una volta dall’Anselmi. Certo del Bartoli Serra doveva apprezzare quella parziale libertà rispetto alle regole ortografiche che lo stesso gesuita rivendicava laddove, in merito alle tre fonti dell’ortografia cioè l’autorità, la ragione e l’uso, lo stesso gesuita sosteneva che “tutti e tre vogliono aver le mani; e hor tutti insieme: Benché a dir vero, non poche volte avvenga, che si discordino, e ripugnino fra sé; per lo richiedere che faranno v.g. l’Autorità, e la ragione, una tal regolata forma di dire, e di scrivere, che l’Uso la cassa, e invece d’essa un altra sua ne ripone.” Così in merito alla questione del raddoppiamento per la quale viene citato come autorità dal Serra, Bartoli scriveva che “il Raddoppiar delle consonanti è materia malagevole a volerla condurre per via di regole universali. Pur ve ne ha parte che le ammette, ò in tutto, ò quasi. Io, in questo, e nel seguente capo, che farà del contrario, verrò avvisando quel che mi si farà innanzi più utile a sapersi.” Ai testi di Anselmi e di Bartoli faceva esplicito riferimento Maurizio Serra nelle Istruzioni per i maestri della Sardegna a conferma dell’adozione del metodo normale cioè simultaneo d’insegnamento che richiedeva necessariamente libri di testo uniformi per tutti, precisando poi che quelli di Anselmi erano necessari “infino a tanto, che il Magistrato sopra gli studi, non assegni e prefigga egli quei libri, che devono leggersi nelle incominciate Scuole Normali”. L’autore sardo rivelava quindi una conoscenza diretta della pubblicistica pedagogica sabauda più aggiornata, mostrando al contempo di condividerne gli obiettivi politico-culturali, le impostazioni pedagogiche e le innovazioni didattiche. Di tali opere compiva nelle Istruzioni una sintesi personale, scegliendo alcuni passi particolari relativi alle sentenze “dai libri santi e pii” costituite da proposizioni poste ad esempio e tese a valorizzare le virtù morali dell’operosità, della carità, dell’obbedienza a Dio ed ai superiori con vere e proprie parafrasi dei Comandamenti biblici e delle beatitudini evangeliche. Ad esse seguivano altre proposizioni denominate “affetti pii” relative a vere e proprie invocazioni e preghiere per disciplinare anche la coscienza religiosa alla pietas cristiana. Una serie di “modelli di scritture private e di ricorsi relativi alle Scuole Normali, che possono farsi copiare dai giovani che incominciano a scrivere” terminava il libretto del Serra. Tali testi avevano uno specifico utilizzo pratico e didattico ben chiarito dall’autore: le prime sono da proporre come materiale di lettura previa spiegazione in dialetto sardo, le seconde sono da utilizzare come esercizio di copiatura per coloro che iniziavano a scrivere. Le prime erano importanti per i valori e modelli di comportamento impliciti, in piena continuità con l’istruzione civile e religiosa su cui si era soffermato in precedenza, e cioè i valori del perdono, l’amore per la verità, la lealtà, l’operosità, la responsabilità di se stessi e degli altri, il rispetto per gli anziani, la pazienza, il timor di Dio, le beatitudini evangeliche ecc… unite ad alcune preghiere rivolte a Dio (usando il Tu confidenziale come se fossero proprio rivolte da un bambino della scuola). Le seconde -cioè i Modelli di scritture private- risultavano significative sul piano pratico della scrittura per il popolo, poiché funzionali alla vita quotidiana di agricoltori, commercianti, artisti. I ‘modelli’ erano infatti esempi da utilizzare rigidamente come traccia per la contrazione di un debito, di un credito, di un prestito ecc… secondo uno schema didattico di scrittura su traccia che -opportunamente arricchito- avrà lunga vita anche nella pratica della scuola elementare dopo l’Unità e contro il quale a partire dai primi del Novecento si leveranno gli strali di alcuni esponenti del mondo della scuola di ispirazione idealista vicina a Giuseppe Lombardo Radice.

Lettura diretta delle opere lombarde attraverso Manunta, conoscenza del dibattito piemontese sull’istruzione popolare e sul rinnovamento metodologico-didattico veicolate da Anselmi, persistenza della tradizione scolopica sono le principali fonti pedagogiche e didattiche delle Istruzioni di Maurizio Serra. Le critiche all’uso del Donato e dell’insegnamento in lingua latina, la presenza del metodo simultaneo, l’adozione della lettura fonica, l’indicazione di libri di testo eguali per tutti gli allievi, l’insistenza sulla pratica calligrafica sono gli elementi principali desunti dall’ambito lombardo, piemontese e francese rielaborati dall’autore, il quale non si limita a trasporre pedissequamente i libri letti ma riesce a filtrarli facendo appello alla sensibilità didattica maturata nelle precedenti esperienze d’insegnamento. Ciò si evince anche dallo stile della scrittura scelto nelle Istruzioni che mantengono un tono colloquiale, poco aulico e quindi adatto alla cultura medio-bassa del destinatario, al quale si propone con tono esortativo ed insieme didascalico.

Un‘ultima fonte esplicitamente citata dal Serra, utile per ricostruire le matrici culturali e pedagogico-didattiche delle sue Istruzioni, è la scuola della Mendicità istruita in Torino, citata quale esempio e modello per l’insegnamento-apprendimento del conteggio. Tale scuola era interna all’Opera della Mendicità Istruita, costituiva cioè una delle iniziative che tale Opera pia aveva avviato in Torino nella prima metà dell’Ottocento per l’istruzione del popolo. Sorta nel 1743, nel quadro delle iniziative dirette a combattere il pauperismo, l’Opera della Mendicità Istruita svolse inizialmente attività d’elemosina e d’insegnamento del catechismo per poi impegnarsi direttamente nell’apertura di scuole maschili e femminili per il popolo. Le accresciute dimensioni e l’aperto sostegno dei gruppi dirigenti nei primi decenni dell’Ottocento rivelavano l’esigenza di modificare la risposta complessiva alla povertà popolare con iniziative che superassero la pura carità per offrire invece occasioni di istruzione ed educazione dei figli del popolo cercando per essi anche il successivo avviamento al lavoro. Quanto al sistema organizzativo ed al metodo d’insegnamento in tali scuole era adottato il mutuo insegnamento infatti “(in queste scuole) la norma dell’istruzione ha somiglianza colle sì lodate di Lancaster e di Pestalozzi; chi sa che meno esaltata, non sia anche, come tant’altre cose nostre, migliore?” ed è a tale esperienza che si modellarono analoghe iniziative piemontesi per l’istruzione popolare, come a Carmagnola. Ideato dall’anglicano Samuel Bell per i figli dei militari della Compagnia delle Indie a Madras contemporaneamente alle esperienze avviate nei sobborghi di Londra da Joseph Lancaster a partire dalla fine del Settecento il mutuo insegnamento rappresentò uno dei sistemi d’istruzione innovativi sperimentati tra Sette ed Ottocento e dall’Europa, diffuso in America, Russia e nei territori dell’impero inglese. Gli ideatori, ed in special modo Lancaster, ne avevano razionalizzato il sistema per poter insegnare simultaneamente ed in uno stesso luogo anche a più di trecento scolari ma risparmiando sui libri e materiali didattici. Era prevista la divisione degli alunni in otto classi di livello omogeneo per ogni tipo d’insegnamento disciplinare indirizzati dal maestro all’ingresso della scuola in base alle loro conoscenze ‘pregresse’. In sostituzione di altri maestri aiutanti o ‘sottomaestri’ era prevista la figura dei ‘monitori’ o ‘coadiutori’ o ‘decurioni’ del maestro di sala scelti tra i migliori alunni di ogni livello, con il compito di ripetere la lezione al loro gruppo di massimo venti allievi raccolti in una fila di banchi. Invece delle costose penne ed inchiostro nonché dei libretti d’alfabeto per ogni allievo, venne introdotta per ciascuno una lavagnetta in ardesia ed in seguito la sabbia, fissata in una scavatura del banco, sulla quale imprimere con le dita sia le lettere dell’alfabeto -presentate secondo le affinità di configurazione proprio dell’insegnamento calligrafico- sia i numeri per l’insegnamento aritmetico. Sul piano pedagogico vigeva il rigido criterio dell’emulazione e della competizione individuale con l’esclusione dei castighi corporali. Sul piano didattico l’apprendimento delle lettere era compiuto contemporaneamente alla loro scrittura e la successiva compitazione avveniva utilizzando il sistema fonico-sillabico , con gli alunni disposti a semicerchio davanti ai cartelloni o ‘quadri murali’ sui quali erano le tavole sinottiche delle sillabe e delle parole, sistema che consentiva anche un deciso risparmio di spesa. Tale metodo aveva riscosso immenso successo in Francia grazie alla diffusione operata dalla Societé pour l’instruction elementare, poi in Svizzera con Pestalozzi, e conobbe una certa diffusione anche in Italia, specie in Lombardia -con l’apostolato di Federico Confalonieri sul “Conciliatore”- in Toscana, nel Regno di Napoli ed in Piemonte. Qui si diffuse grazie insieme alle idee liberali favorevoli all’istruzione del popolo poiché, attraverso questo sistema d’istruzione particolare, si garantiva l’insegnamento ad una notevole massa d’allievi. In particolare il marchese Ludovico Arborio Gattinara di Breme provvide alla traduzione delle opere francesi relative ed alla diffusione teorica e pratica del metodo variamente detto ‘mutuo insegnamento’, ‘insegnamento reciproco’, ‘metodo lancasteriano’ o ‘metodo monitoriale’. In Piemonte ebbe la massima diffusione nella prima fase della Restaurazione fino a quando, con la sostituzione del liberale Prospero Balbo -favorevole al mutuo insegnamento- con il gesuita Taparelli D’Azeglio ed i vari Regolamenti disciplinanti l’istruzione elementare si realizzò quell’alleanza trono-altare che diede sistemazione alla scuola popolare ma mal tollerava un sistema d’istruzione inglese (quindi protestante) e difeso dalla cultura liberale (quindi potenzialmente rivoluzionario). Il sistema del Bell e Lancaster, pur adeguato alla situazione e contesto piemontese, declinò lentamente cedendo il passo al metodo ‘normale’, anche se sopravvisse in alcune indicazioni metodologiche e minuti suggerimenti organizzativi e didattici. La conoscenza del metodo Bell e Lancaster da parte di Serra era forse anche su fonti ‘di prima mano’ ma certo appare ispirata alla mediazione operata nelle scuole della Mendicità Istruita di Torino. Essa viene evocata in merito alle modalità metodologiche e didattiche dell’insegnamento aritmetico ove Serra mostra di compiere un’ulteriore operazione di sintesi tra letture compiute ed esperienza didattica personale. Infatti nelle pagine sull’aritmetica del ‘Capo sesto’, scandito in due sezioni suddivise in ‘Aritmetica mentale’ e ‘Aritmetica in cifre’ -ripartita anch’essa in paragrafi distinti relativi alle quattro operazioni- mostra d’ispirarsi ancora al metodo normale lombardo ma pone in generale un’attenzione alla gradualità dell’apprendimento ed alla sequenzialità dal concreto all’astratto, certo più consona alla condivisione del sistema Bell e Lancaster. Tale metodo aveva avviato un insegnamento certo più pratico di quello tradizionale ed alieno dai formalismi astratti. Nella sezione prima, denominata ‘aritmetica mentale’, la numerazione inizia dapprima utilizzando le dita e suggerisce poi di “numerare i condiscepoli, i libri, le penne, e simili cose palpabili”. Anche l’approccio ai problemi risolvibili per via aritmetica segue la medesima modalità didattica prima a livello mentale cioè orale, attingendo da semplici esempi ripetuti, desunti dal mondo contadino e sui quali condurre, dapprima oralmente, l’analisi delle operazioni necessarie per la soluzione. Veramente centrale appare nelle Istruzioni il ruolo assegnato al conteggio a memoria cioè al calcolo orale e in questa parte Serra propone esplicitamente di attenersi al procedimento didattico usato nella citata Scuola di Mendicità Istruita di Torino, espressione del metodo lancasteriano il quale “il inventa, pour apprendre le calcul aux enfants, une méthode particuliere” . Una condivisione del metodo che includeva la concezione complessiva dell’insegnamento aritmetico ma anche i suggerimenti metodologici offerti ai maestri, infatti “chiamasi uno degli scolari a scrivere i numeri dettati dal Maestro sulla pietra lavagna, che sarà a vista dell’intera scuola. Con un colpo di bacchetta sul banco, il Maestro indicherà silenzio ed attenzione. Con due altri indicherà il cominciare dell’operazione per la bocca di uno scolare. Con un altro colpo il dover esso tacere, e continuare il compagno vicino, od altro accennato, e così via via per intrattenere, e fomentare attenzione generale nell’uditorio. Questo metodo, con cui si guadagna tempo, e si risparmia noja, e fatica, potrà adottarsi nella lettura delle tavole, di cui sovra.” Le tavole cui rinviava Serra nel testo non sono precisate ma erano probabilmente analoghe a quelle delle sillabe per l’apprendimento della lettura. Di tavole o ‘tabelle’ riassuntive per l’aritmetica si trovava traccia nelle applicazioni italiane del metodo del mutuo insegnamento per l’aritmetica, caratterizzate da aggiustamenti all’originale lancasteriano ritenuti opportuni già dal Pestalozzi in Svizzera ma anche in Lombardia e Toscana. Proseguendo le indicazioni metodologiche delle Istruzioni, al successivo insegnamento del valore posizionale delle cifre seguivano le quattro operazioni con il calcolo scritto in colonna (addizione senza riporto, sottrazione col prestito, moltiplicazione con più cifre al moltiplicatore, divisione con più cifre al divisore) sempre nel rispetto del principio di gradualità. Serra condivideva il metodo lancasteriano forse conosciuto direttamente o attraverso la ‘vulgata’ piemontese; qui come là sono però assenti i sussidi e gli strumenti didattici presenti invece in altre tradizioni didattiche, in particolare l’abaco delle Scuole pie scolopiche o delle scuole lombarde ispirate ai libri del Soave, sul quale sussidio l’aritmetica era invece imperniata. E’ evidentemente una precisa scelta di campo del Serra che lo pone nel solco del rinnovamento delle pratiche d’insegnamento aritmetico portate avanti dal mutuo insegnamento, ove è molto netta l’insistenza sul calcolo orale e l’acquisizione degli automatismi mentre appare assente l’invito anche ad una benché minima riflessione teorica e formale presente invece nei libretti d’abaco tradizionali. L’identità dell’insegnamento aritmetico è puramente operativa e strumentale, del tutto funzionale all’utenza medio-bassa degli artisti, contadini, pastori destinatari delle scuole comunali cui abbisognava l’acquisizione dei meccanismi strumentali delle quattro operazioni, il ‘far di conto’. La condivisione del mutuo insegnamento non appare tuttavia piena e totale. Infatti nell’organizzazione della classe, nella gestione del lavoro e della disciplina Serra non fa mai riferimento al possibile utilizzo dei ‘monitori’ o ‘coadiutori’ o ‘sottomaestri’ tipici del mutuo insegnamento. Ciò indica probabilmente una precisa scelta di campo, che assegnava al solo maestro la funzione squisitamente didattica dell’insegnamento popolare.

Si colgono tuttavia altri passaggi delle Istruzioni che confermano l’ipotesi di una conoscenza -non sappiamo se diretta o mediata da letture piemontesi al riguardo- del mutuo insegnamento. Si tratta di due piccole parole che presenta all’inizio del ‘Capo quinto. Della calligrafia’. Ad essa Serra ritiene sia opportuno introdurre i bambini solo quando sapranno già leggere almeno mediocremente, con un insegnamento comune per tutti seguito da un altro, più raffinato, condotto attraverso l’utile Avviamento alla calligrafia per i soli alunni destinati a proseguire gli studi; comune per tutti era comunque “l’impegno allo studio di tale arte facendone vedere l’utilità che si ricava dal manifestare le proprie idee a persone assenti, e molto lontane per via delle lettere missive, ed al preservarsi dai danni della dimenticanza colo scriver ciò, che si vuol tenere a memoria.” Nella fase iniziale della calligrafia, intesa di fatto come propedeutica alla scrittura, Serra scriveva testualmente che “a questo fine importando di evitare sul bel principio l’inutile imbrattamento della carta, il Maestro comincerà ad avezzarli alla formazione delle lettere sulla pietra nera, se si avrà, oppure sulla sabbia fina…”. Almeno tre sono gli elementi salienti rinvenibili in questa proposizione: la necessità di risparmio della carta, il possibile utilizzo della pietra nera e l’alternativo uso della sabbia fina. Il primo aspetto rinvia alla difficoltà di allestimento delle scuole per il popolo, dettata dalle costanti esigenze di risparmio connesse ai magri finanziamenti comunali, secondo un leit motiv della storia della scuola e dell’alfabetizzazione popolare destinato a durare nel tempo. Il secondo aspetto rinvia alla pietra nera presumibilmente intesa come tableau noir in ardesia, cioè la lavagna a cui Serra aveva già fatto riferimento trattando dell’insegnamento dell’alfabeto; questo sussidio ritorna nei suggerimenti didattici del Serra ora per l’insegnamento calligrafico e della scrittura, a siglare un ulteriore innesto e fusione tra tradizioni metodologiche e didattiche del passato. L’ultimo elemento rinvia all’utilizzo alternativo e sostitutivo della lavagna grande e delle lavagnette individuali cioè la sabbia fina. Essa era stata propriamente introdotta su vasta scala da Bell e poi da Lancaster nelle scuole del mutuo insegnamento al fine di coniugare esigenze di praticità e di risparmio di spesa. Tale strumento didattico era probabilmente già presente presso gli antichi Ebrei e nel Seicento , certo ereditato dalle pratiche d’insegnamento calligrafico in età classica perpetuatesi in modo informale in età moderna, come confermato da studi recenti. Anche in questo caso è difficile comprendere se tale elemento sia più l’eredità di una prassi di secolare tradizione, magari popolare o interna addirittura alla tradizione scolopica, oppure sia stato più modernamente traslato dal mutuo insegnamento di matrice inglese veicolato dal Piemonte. Certo in questo caso è assente la parentela con le scuole lombarde poiché non si parla di utilizzo di sabbia fina nel Compendio del metodo delle scuole normali o nei testi ad hoc scritti per l’insegnamento calligrafico da padre Soave. Vi è da ricordare tuttavia che tale sabbia fina è proposta da Serra solo nella fase iniziale dell’avviamento alla calligrafia, cioè nella formazione delle lettere, poiché nella fase successiva egli introduce l’uso della penna, della carte e di esemplari da imitare, fermo restando il compito del maestro di condurre alla calligrafia attraverso la postura del corpo, la tenuta della penna, la spiegazione della forma delle linee, secondo il più tradizionale insegnamento calligrafico.

Anche in quest’ultimo caso tradizione e innovazione si intrecciavano rinnovando solo in parte le pratiche didattiche e certo più nel segno della continuità e del meticciamento che del reale cambiamento. Ancora una volta trova conferma la stratificazione delle pratiche metodologico-didattiche, la loro sedimentazione profonda nel quadro dell’alfabetizzazione popolare e della vita materiale della scuola all’interno del ritmo lento della Storia.

Commenti sono sospesi.

RSS Sottoscrivi.