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«E Caracciolo ci disse: siete figli miei, una lettera per il riconoscimento» di Carlo Revelli

Caro direttore, a volte capita, nella vita delle persone, di ritrovarsi in situazioni inattese, assurde. È successo anche a me. Tutto è cominciato a metà ottobre 2007. Mia sorella Margherita aspettava il suo quarto bambino, e mia madre Maria Luisa stava spesso da lei. Ero sceso a Roma per andarle a trovare. Mi capita sovente di volare tra Roma e Parigi da quando vivo e lavoro oltralpe. Non mi sarei mai immaginato, quel giorno, di ascoltare quelle parole.

Mia madre confessò che sia io che mia sorella non eravamo figli di nostro padre Carlo Revelli senior, scomparso nel 2002, ma di Carlo Caracciolo! Lì per lì sono stato assalito dallo stupore, non ci credevo, ma non ho avuto la forza di chiedere conferma. Il volto e la voce di mia madre erano tesi, non stava scherzando anche se, nervosamente, le veniva a volte da sorridere mentre parlava. Dopo alcuni istanti mi tornò in mente la prima volta che conobbi Carlo Caracciolo. Fu mia madre ad insistere affinché lo incontrassi, mi disse che era un vecchio amico di famiglia e che, forse, mi avrebbe potuto dare dei consigli sull’esperienza editoriale di giornalismo partecipativo nella quale mi ero lanciato in Francia, diversi anni prima, con AgoraVox. Il nostro primo incontro avvenne nel marzo 2006 nel suo ufficio dell’Espresso a Roma; fu un incontro professionale. Io ero intimorito dalla sua personalità e pertanto chiesi all’amico e socio Sigieri Diaz Pallavicini di accompagnarmi. Fu in quella occasione che gli «spiegai», per la prima volta, cosa fosse AgoraVox e come fosse possibile fare informazione senza avere «veri giornalisti». Tentai anche di spiegargli come il futuro del giornalismo sarebbe potuto venire dal basso, dalla gente comune e non esclusivamente dall’alto attraverso i media tradizionali… Dopo un’ora di quasi monologo, non ero sicuro di averlo veramente convinto sulle potenzialità del giornalismo partecipativo… Nonostante ciò, lui si mostrò divertito e ci invitò a colazione a casa sua. 

Successivamente fu lui a volermi rivedere. Mi convocò, insieme ad alcuni suoi collaboratori, per discutere di AgoraVox. Avevo l’impressione che mi prendesse un po’ per «matto» quando m’infervoravo parlando di citizen journalism, ma la sua volontà di volerne discutere nuovamente mi fece veramente piacere. Questa volta fu lui a venire nei nostri uffici di Parigi. Era accompagnato dall’editore Carlo Perrone ed io da un mio collaboratore. Era il gennaio 2007 e ricordo che Carlo Caracciolo scese a fatica le scale che conducono alla nostra sala riunioni. Accomodatosi dovette subirsi una lunga presentazione Powerpoint, per di più in inglese. Naturalmente ne approfittò per schiacciare uno dei suoi leggendari pisolini. Fui felice, però, che Carlo non si addormentò durante la mia presentazione e in più l’interesse e l’attenzione costante del suo socio Carlo Perrone tenne alto il nostro morale dopo la riunione… Fu in quell’occasione che gli chiesi, intimidito, una firma sul libro di Nello Ajello che ritraccia la sua vita, L’editore fortunato. Mi capita spesso di ripensare a quella dedica ed al fatto che, mentre la faceva, lui sapeva già tutto, e nonostante ciò decise di scrivermi «con molta amicizia» tentando di rispettare quel segreto custodito da quasi 40 anni. Li accompagnai fuori e, sorpreso, vidi ad attenderli lo stesso taxi che li aveva condotti da noi. 

Non capivo, ma di fronte al mio stupore mi spiegarono che non potevano perdere tempo, che dovevano ritornare da Rothschild per formalizzare l’acquisto del 33% di Libération… A metà ottobre del 2007 Carlo Caracciolo tornò a Parigi ed è qui, nella città in cui vivo da 16 anni, che mi feci coraggio e gli chiesi se fosse davvero mio padre, come mia madre mi aveva rivelato pochi giorni prima. Mi rispose di sì e mi spiegò le ragioni di un segreto così a lungo custodito. Da quel momento i rapporti sono sempre rimasti sereni ed amichevoli. Sin dai primi giorni, la sua intenzione era di adottare sia me che mia sorella Margherita, come già fatto con Jacaranda nel 1996. Mi ricordo ancora quando, l’estate scorsa, Carlo mi chiamò da Torrecchia e con serenità mi disse che l’udienza era stata fissata per il 16 settembre 2008. Purtroppo, diverse «complicazioni» — chiamiamole così — tra cui un articolo pubblicato su una rivista di gossip, compromisero definitivamente questa possibilità. A questo punto, fu proprio Carlo Caracciolo ad incoraggiarci ad iniziare il prima possibile le pratiche per il disconoscimento ed il riconoscimento. Fu sempre lui che concordò insieme a noi ogni parola degli atti che presentammo al tribunale nell’ottobre 2008, facendoci allegare una lettera in cui ci riconosceva come suoi figli. Sono costretto a scrivere, a parlare di ciò che è stato, perché sono profondamente rammaricato e addolorato. 

Sono rammaricato di dover leggere che le pratiche sarebbero state avviate post mortem per mano mia e di mia sorella. Sono rammaricato perché in realtà le iniziative portate avanti in questi giorni sono state intraprese da coloro i quali già cercarono di bloccare, in tutti i modi, prima la nostra adozione e poi il nostro riconoscimento ante mortem. Sono rammaricato, infine, che qualcuno cerchi di far credere che le iniziative giudiziarie siano state promosse senza il consenso di Carlo; fu lui a consigliarle ed incoraggiarle direttamente. Fu Carlo a voler partecipare, proprio in quei giorni, al battesimo dei figli miei e di Margherita, venendo con diverse persone della sua famiglia a casa di mia sorella, sposata con Fabiano Rebecchini. Solo chi conosce bene la politica capitolina degli ultimi decenni, può capire cosa significasse per Carlo Caracciolo entrare in un «feudo» Rebecchini per di più «occupato» da un centinaio di parenti. Eppure venne, scherzò e si divertì. Non era la prima volta. Durante tutta la difficile gravidanza di mia sorella, immobilizzata a letto per circa 8 mesi, lui andò più volte a trovarla. E fu ancora lui a presentarci come suoi figli, nel mese di giugno 2008, durante un incontro al quale erano presenti, tra gli altri, la sorella Marella, la nipote Marellina ed il fratello Ettore. 

Gesti che non gli abbiamo mai chiesto, ma che lui ha spontaneamente ripetuto più volte, con amici e parenti, sia nella sua casa della Lungarina a Roma che a Torrecchia. Scrivo queste parole anche e soprattutto per mia madre, per le mie sorelle, nessuna esclusa, e i miei fratelli, per le mie due famiglie e per tutti coloro che stanno scoprendo ora questa storia. Una storia che non ho mai avuto il coraggio di rivelare né agli amici, né ai collaboratori con cui condivido quotidianamente la passione per ciò che facciamo. Non l’ho mai rivelato, naturalmente, neanche ai numerosi lettori e redattori di AgoraVox, fossero essi francesi o italiani. Detesto questo clamore, perché Carlo Caracciolo, oltre ad essere intrinsecamente riservato e schivo, è stato un grande editore, un editore coraggioso — più che fortunato —, un uomo che ha fatto la storia dell’Italia e dell’informazione, e non merita tutto ciò. Come non lo merita Carlo Revelli senior, che è stato sicuramente un vero principe in tutti questi anni ed al quale, ogni giorno, va la mia stima, il mio affetto, il mio ricordo. Questa è la mia verità, la verità di chi si è battuto negli anni per la libera e corretta informazione. Scrivo queste parole, per dire, per informare. Perché sono un uomo che a 39 anni, dopo aver costruito la sua vita da solo e senza aiuti, l’ha vista stravolta da un giorno all’altro senza aver chiesto nulla a nessuno. Scrivo e informo perché nella mia vita non so fare altro e perché ho sempre amato la corretta informazione. Mi auguro che questa storia possa risolversi in modo rapido e dignitoso come Carlo ha sempre cercato di fare. Ma questo non sta a me deciderlo. Io volevo solo raccontare una storia che è piombata nella mia vita in un autunno romano e che è diventata una questione molto più grande di me. 

Carlo Revelli 

La lettera è pubblicata 
sul sito www.agoravox.it

 

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