Categoria : letteratura sarda

“Meditazione sull’esortazione : dei morti non si deve parlare se non bene” di Ange de Clermont

L’intero mondo ai nostri giorni pare sia popolato da circa sette miliardi e settecento milioni di abitanti, ogni anno ne nascono circa cinquantuno milioni e ne muoiono circa ventun milioni e mezzo.
Questi dati sono naturalmente momentanei perché come le onde del mare l’umanità va e viene dall’altro mondo. Esiste un algoritmo guardando il quale possiamo seguire minuto per minute le nascite mondiali e le morti ugualmente mondiali.

Sui neonati, specie famosi, per via familiare, non si fa che augurarsi ogni bene; sui morti, specie se famosi, non si fa che parlarne bene. Del resto i Greci e chissà quanti popoli prima di loro sostenevano che dei morti non si deve parlare se non bene.
Non tutti gli uomini, tuttavia, rispettano questa esortazione del parlar bene dei morti, perché mi è capitato più di una volta che mentre si celebravano i riti religiosi o laici i presenti dentro o fuori della chiesa o della sala di commiato mettevano alla berlina il morto. Questa dovrebbe essere definita maleducazione, perché se i parenti o gli amici di partito del defunto vengono a sapere che si parla male del loro caro o del loro compagno o camerata solleverebbero un gran polverone. Anzi mi è capitato che il parentado si sia offeso dopo settant’anni dalla morte, presumendo che la “gente” ricordasse le malefatte o le buone azioni del loro congiunto. In parole povere molte persone esaltano il morto a loro legato per amicizia o per parentela anche se sotto banco mormorano mettendone in evidenza i difetti, in particolare lo strapotere, l’attaccamento alle cose, l’avarizia, diciamo pure i sette vizi capitali. Gli uomini, infatti, disgraziatamente, succede che se non sono superbi sono avari, se non sono lussuriosi sono beoni, se non sono vendicativi sono accidiosi, se sono generosi sono invidiosi e chi più ne ha più ne metta.
L’anno scorso in Sardegna sono scomparsi dalla scena politica e culturale parecchi uomini illustri e tutti abbiamo fatto a gara a dirne un gran bene, al punto che qualcuno è arrivato ad attribuire dei meriti fuori luogo, spropositati, internazionali (quando a mala pena erano conosciuti a livello isolano), non per loro incuria, ma semplicemente perché non curavano le relazioni epistolari con eminenti uomini stranieri e tanto meno partecipavano come fanno oggi i giovani studiosi a convegni, seminari, master, visite a Parigi, Londra, Boston, Harvard, Cambridge, Amsterdam, Madrid e metteteci pure Buenos Aires, Mosca (come il nostro martese romanista  Chichino). Certamente intellettuali informati che consultavano i libri stranieri tradotti in italiano oppure li sapevano leggere in francese in inglese e qualcuno anche in giapponese e nelle varie lingue orientali. Insomma si è trattato di brava gente, se non ci fosse la brutta abitudine, specie tra l’intellettuali, di credere d’aver scalato i più  alti monti del sapere umano.
Forse sarebbe meglio lasciar passare il tempo e fare in modo che sia la storia, fra cento anni e più, a ridarci i ritratti più veri di questi nostri illustri defunti ai quali oggi, per il nostro affetto o per la nostra stima attribuiamo portenti inesistenti, tratti che nascondono i difetti, iniziative che sono state portate avanti da altri e che per amore del morto nessuno va a rettificare.
Passando dalle cose mondane al mistero della morte forse sarebbe meglio far dir loro delle Messe di suffragio a sollievo delle loro anime e tacere allo stesso modo con cui racchiusi dentro i loro cofani mortuari tacciono anche loro. Per coloro che hanno esibito il materialismo attuale o storico, l’inesistenza di un aldilà, paradisiaca o infernale, forse è meglio pregare più intensamente.

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