Categoria : politologia

Inconcludente in politica estera, ambiziosa in quella economica di Paolo Pombeni

La prima quindicina di marzo è stata senza dubbio dominata dalla questione libica. Dopo gli avvenimenti drammatici in Tunisia ed in Egitto ci si è trovati a fare i conti con la rivolta in Libia contro il colonnello Gheddafi. Dire che non è stata l’occasione per mostrare la capacità di intervento della UE è un eufemismo. Dopo qualche tentativo di tenere la scena a fine del mese scorso, la “buona signora Ashton” è tornata a chiudersi nel suo bunker: non certo per lasciare il posto a Van Rompuy o a Barroso, che si sono fatti vedere ancora meno. Ci sarebbe da chiedersi a cosa diavolo serva il mastodontico servizio diplomatico della UE, che viene oltre tutto accusato di stare sotto il dominio di Francia e Gran Bretagna, ma davvero non sapremmo rispondere. Nella questione libica ha dominato l’attivismo di alcuni Stati, soprattutto Francia e Gran Bretagna, e la prudenza di altri, soprattutto la Germania. Di una politica europea si fa fatica a trovare traccia, anche dopo la riunione dei ministri del G8 tenutasi il 15 marzo. Quel che si è visto è stato un grande ondeggiamento, alla ricerca di facili successi di opinione (peraltro più immaginati che reali, in quanto non risulta un particolare accalorarsi della massa degli europei su questa questione). Che si tratti di una faccenda difficile non c’è dubbio. Gheddafi tutto è meno che un personaggio “simpatico” e dunque la speranza di toglierselo di mezzo era piuttosto diffusa. Però da qui a darlo precocemente per spacciato ce ne corre: temiamo che, come in passato, il wishful thinking abbia giocato non poco in questa vicenda, complice l’accelerazione impressa da Obama all’intera considerazione dei rivolgimenti interni sulla sponda Sud del Mediterraneo. Il gioco è stato comunque strettamente nelle mani delle principali diplomazie europee ed ha lasciato un margine praticamente nullo alle istituzioni comunitarie. Sarkozy si è spinto molto in avanti in questo frangente, sostenuto in parte da Cameron, mentre Angela Merkel è stata molto prudente, ma nessuno ha avuto il coraggio di promuovere una vera riflessione sulle prospettive di politica estera dell’Unione nel momento in cui veniva meno la filosofia del sostegno alla “stabilità” dell’area a qualunque costo. In effetti di questo si tratta: nessuno sa dire con ragionevole certezza quali siano le prospettive di sviluppo delle sollevazioni che si sono avute sulla sponda Sud del Mediterraneo. In Egitto la situazione sembra normalizzata, anche se non è chiaro in che direzione; in Tunisia l’equilibrio è più incerto, ma anche qui siamo lontani dal poter dire quale piega prenderanno le cose. In Libia invece per il momento si sta andando in una direzione imprevista: Gheddafi sta riconquistando il suo potere e la capacità di intervento della comunità internazionale è praticamente inesistente, almeno sul campo. Una ragione non secondaria di questo stallo è che tutti temono che un sostegno alla guerra civile libica trasformerebbe quel paese in una specie di nuova Somalia o di nuovo Afghanistan: naturalmente non in senso meccanico, ma come direzione di marcia. La UE non sa che dire e non è neppure in grado di pianificare un minimo intervento a fronte dell’esodo di migranti che la nuova situazione sta comportando. L’Italia che è in prima linea per ragioni geografiche è sostenuta in maniera molto blanda, sebbene sia evidente che il suo territorio finirà per essere solo un territorio di passaggio per buona parte dei disperati che arrivano dalle coste dell’Africa. Temiamo che il problema principale sia purtroppo economico. Sino a ieri la politica estera europea è stata prevalentemente una politica di aiuti economici, più o meno ben mirati. Oggi tutti quei soldi non sono più disponibili e le popolazioni europee non hanno più quello spirito “missionario” tipico dei tempi di abbondanza che le portava a donare volentieri senza tenere troppo conto dell’efficacia del dono. Oggi l’Unione è alle prese con difficoltà finanziarie notevoli e con opinioni pubbliche che in molti paesi sono poco disponibili alla generosità. Anche in questo campo una politica forte delle istituzioni europee è difficile da trovare e domina invece un’asse interna in questo caso tra Berlino e Parigi (con la seconda in posizione subordinata). Il recente lancio di politiche connotate come “patto di competitività” o “patto per l’euro” sembra più una liturgia retorica che una strategia di intervento, perché in questo caso occorrerebbe una direzione politico-economica unitaria, che non solo non si vede, ma che non si vuole, a cominciare proprio dal cancelliere Merkel. Il massimo è un sistema di ricatti sui sostegni ai paesi in difficoltà attuale o futura. In questa situazione è piuttosto interessante notare come la stampa della nazione che avrà la presidenza di turno il prossimo semestre (la Polonia) metta le mani avanti nel sottolineare gli scarsi margini di azione che sono offerti dal contesto attuale. E sappiamo bene che non dipende dal fatto che Varsavia sia una capitale priva di ambizioni per il proprio ruolo nella Unione.

 

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