Categoria : letteratura sarda

“ROSA BIANCA REQUIEM” di Fulvio De Giorgi

Berlusconi riposi in pace, noi svegliamoci dal sonno!

C’è un tempo per tacere e un tempo per parlare.
Siamo stati in silenzio nei momenti della morte di un essere umano, del dolore dei suoi familiari per la perdita, della preghiera di suffragio con il pietoso rito delle esequie. È un silenzio dettato dall’umana pietà, da un sentimento di fraternità e di comunione che non dobbiamo mai smarrire verso nessuno, perché rischieremmo così di cancellare il rispetto per l’umanità in quanto tale e perdere la nostra stessa anima.

Viene però pure il tempo di parlare. E qui vorremmo perciò svolgere qualche riflessione. Non tanto su Berlusconi, anche se da quello che – in alcuni ambiti – Berlusconi ha storicamente rappresentato si dovrà pur partire.
Nell’impossibilità di un discorso complessivo e a tutto tondo, lascerò da parte la considerazione del Berlusconi imprenditore (e della conseguente questione della sua correttezza, onestà, legalità, nonché dei suoi vari legami con ambienti “particolari”) e non parlerò neppure del Berlusconismo politico, che indubbiamente ha inciso profondamente nella storia italiana (si potrà non indebitamente parlare di “età berlusconiana” come si è parlato di “età crispina”) e che – per dirla sinteticamente – si è rivelato soprattutto, se non unicamente, una protesi efficace ed efficiente dei suoi affari, funzionale alla difesa e all’espansione del suo impero economico.
Mi vorrei concentrare, invece, su un piano di “antropologia culturale”: per quel che attiene, cioè, la lenta formazione di modelli comportamentali, mentalità sedimentate, paradigmi culturali di massa; la costruzione dell’immaginario collettivo, della sua dimensione morale, delle sue aspirazioni emergenti; la diffusione di simboli condivisi; la colonizzazione delle coscienze e dei sentimenti. Mi riferirò, dunque, alla “Berlusconizzazione antropologica” vista sia come volto nazionale della globalizzazione neoliberale degli ultimi decenni (tra XX e XXI secolo) sia come alveo collettore di vizi “arci-italiani” di lungo periodo e perciò come autobiografia tossica della nazione. Ma, anche per quest’ambito, lascerò da parte, per quanto possibile, gli aspetti sociali e civili e mi limiterò agli aspetti “religiosi”, quelli cioè che indubbiamente caratterizzano la Berlusconizzazione, sul piano storico, come il più potente ed efficace agente di scristianizzazione della società italiana.
All’origine c’è nel 1976 l’acquisto di Telemilano (divenuta nel 1978 Canale 5) da parte dell’imprenditore Berlusconi, la fondazione di Fininvest nel 1978, la quale, a sua volta, controlla Mediaset (avviata nel 1993). Si tratta dunque della transizione dal monopolio televisivo della TV di Stato, intesa come agenzia “pedagogica”, all’introduzione della TV commerciale, che ha una logica affaristico-mercantile: conta l’audience che attrae pubblicità e ne aumenta il prezzo; lo spettatore non va “educato”, ma, in

ILDA BOCCASSINI

quanto cliente, va accontentato, ha sempre ragione. E così la televisione cattiva (nel senso popperiano di “cattiva maestra”) scaccia la buona: quindi anche la TV di Stato, rientrando in una logica di concorrenza economica sul mercato pubblicitario, si trasforma in analogia alle TV commerciali.
Questa è dunque la macchina (l’Hardware) di quei processi di medio-lungo periodo, che precedono il Berlusconismo politico (e che sono la causa del suo successo) e che ho chiamato di Berlusconizzazione antropologico-culturale. Se al centro vi è, indubbiamente, come eroe eponimo, Berlusconi, si tratta tuttavia, com’è ovvio, di una macchina complessa (che include nella sua sfera d’influenza anche la Rai, subalternizzata e egemonizzata sul piano del “modello”): un forte e articolato intellettuale-collettivo, che presto diventerà moderno-Principe, ma che prima ancora è (ed è questo che ora ci interessa) moderno-Sacerdote.
Certamente, Berlusconi si è inserito – con fiuto imprenditoriale e con tempestività – nel passaggio storico dei cambiamenti televisivi, che ha una valenza internazionale e generale e che sarebbe avvenuto comunque. E tuttavia, come vediamo da quando è stata possibile la presenza di altre TV private, il modello che è stato perseguito non era necessariamente l’unico realizzabile. E quando parlo di modello, in termini di scristianizzazione, mi riferisco ai multiformi contenuti dei programmi (come i varietà semi-porno alla Drive in che vellicavano istinti bassi e immagini di donna-oggetto-di-consumo) ma anche all’insieme dei palinsesti che conglutinavano fianco a fianco, per esempio, la Messa con le soap angloamericane centrate su vicende di clan familiari. Contenuti cristiani tradizionali (o perfino tradizionalisti) venivano così emulsionati con messaggi allotri e alternativi: dando vita ad un insieme di dissonanze cognitive, strutturalmente confluenti in un effetto secolarizzatore.
E tale effetto, con la forza sinuosa, suadente e viscida (come un Biscione), di una pervasiva presenza quotidiana, sedimentava nel tempo forme culturali egemoniche. Con quali conseguenze sul lungo periodo?

Pulpiti e catechismi della Nuova Religione
I complessi processi di cambiamento culturale-valoriale, che hanno trovato nelle tv berlusconiane i nuovi pulpiti per nuovi catechismi, si sono, ovviamente, variamente ibridati con l’insieme tentacolare – sempre più ampio, articolato e avvolgente – del “fenomeno Berlusconi”, il quale a sua volta ha rappresentato un polo di attrazione anche per altre tendenze e processi, formalmente da esso indipendenti, così che, quando ne consideriamo la complessiva opera scristianizzatrice, dobbiamo intenderla piuttosto come un “campo magnetico” di forze differenti: non, dunque, come un piano centralizzato studiato a tavolino da una Loggia anti-cattolica; non come un “complotto” massonico.
Con uno sforzo, dunque, di etnologia religiosa macro-sistemica, cerchiamo di individuare la morfologia di un fenomeno culturale, che sarebbe semplicistico banalizzare come “volgarità”, ma che invece – proprio per la sua portata culturale “bassa” e largamente diffusa – appare di non facile penetrazione analitica, implicando piani diversi di caratterizzazione. È infatti un processo di processi: sette in particolare.

1) Un pleroma complessivo materialistico-pratico
Il più grande, pluriforme e plastico fondale, che in qualche modo abbraccia tutti i successivi, si può definire un progressivo inaridimento spirituale (cioè della vita spirituale e del desiderio spirituale) dovuto all’imporsi di un materialismo pratico. Non cioè un’ideologia teorica, atea e materialistica: anzi senza chiedere abiure, conversioni, cambiamenti sul piano ideologico, quindi anche conservando il cristianesimo come “ideologia”, ma staccato dai vissuti, dalle prassi e dalle scelte quotidiane di vita. Tali scelte sarebbero invece orientate da ciò che è materialmente misurabile, valutabile dai sensi. E cioè, precisamente, dalle tre S (p): Soldi/patrimonio; Successo/potere; Sesso/possesso. Non, dunque, il semplice uso del denaro: ma i soldi come scopo di vita, in funzione della creazione e dell’accrescimento del proprio patrimonio inteso come valore vitale prioritario. Non la sessualità, come orientamento naturale umano positivo, ma come campo di un possesso dominante (da implicito maschilismo tossico: quanto meno simbolico). Non il successo, come efficacia di relazioni amiche, ma come costruzione dissimetrica e gerarchica, funzionale al proprio potere e sua immagine.
Ciò modifica dall’interno i criteri di “santità”. Chi sono i santi e i beati? A chi si dice “beato lui”? A coloro che possono rappresentare le beatitudini evangeliche (i poveri, gli affamati, gli afflitti, i puri di cuore, i perseguitati a causa della giustizia)? No. “Beati loro” si dice a chi ostenta soldi, successo, sesso.
Di fatto, nella concretezza della vita reale, ciò determina un progressivo svuotamento di senso (con tendenziale sostituzione) di quelli che tradizionalmente vengono indicati come “consigli evangelici”: non povertà, ma ricchezza; non castità, ma concupiscenza; non obbedienza, ma comando e potere.
E questo materialismo pratico sviluppa, si potrebbe dire, un Contro-Magnificat: Ha rovesciato gli umili dai troni (spirituali), ha innalzato i potenti. Ha ricolmato di beni i ricchi; ha rimandato gli affamati a mani vuote.
Vorrei sottolineare che non si tratta soltanto di indirizzi etico-comportamentali. Essi sono conseguenza di un radicamento valoriale-esistenziale profondo – cioè di senso della vita e di desiderio essenziale – che non è più polarizzato sul Vangelo, ma che è invece pienamente scristianizzato. Le nuove generazioni – diciamo dagli anni ’80 in poi – hanno sempre meno termini di confronto. Ma chi è più anziano può valutare – anche con una semplice riflessione e memoria della propria esperienza – il cambiamento intervenuto e il processo che ha prevalso.

2) Un nichilismo narcisistico
Si impone, come forma culturale che segue il declino delle ideologie forti novecentesche e perciò nell’età del post-ideologico/post-moderno, un nichilismo nietzschiano popolarizzato: un superomismo che rompe e supera le vecchie (e cristiane) tavole dei valori, che è al di là del bene e del male (cristianamente intesi). Un indice evidente è la de-regulation etica della sfera privata, con una conseguente cancellazione (privata e pubblica) del pudore: come ha fatto vedere Savignone in un intervento recente.
E perciò si impongono le nuove tavole nichilistico-narcisistiche dei valori, che sono la negazione dell’amore del prossimo: egoismo, voluttà, volontà di potenza. E perciò un’implicita maledizione del cristianesimo. Come scriveva Nietzsche nell’Anticristo:
«Cos’è buono? – Tutto ciò che eleva il sentimento di potenza, la volontà di potenza, la potenza stessa nell’uomo.
Cos’è cattivo? – Tutto ciò che ha origine dalla debolezza.
Cos’è la felicità? – Il sentire che la potenza cresce, che una resistenza viene superata.
Non soddisfazione, bensì maggiore potenza: non pace sopra tutto; bensì guerra; non virtù, bensì capacità (virtù in stile rinascimentale, virtù senza moralina).
I deboli e i mal riusciti devono perire: primo principio del nostro amore per l’umanità. E a questo fine bisogna anche aiutarli.
Cos’è più dannoso di qualunque vizio? – L’agire con compassione verso tutti i malriusciti e i deboli – il cristianesimo …».
Ma l’Anticristo non è un culto satanico, un’avversione anticlericale. Si esprime come fastidio per ciò che viene denominato “bigottismo” o “moralismo” o “eccessiva compassione” per immigrati, poveri, drogati: gli “sfigati”. E irritanti “sfigati” sono pure coloro che li aiutano. Così l’Anticristo è, soprattutto, l’abito-abituale del narcisismo nichilistico, che fa di quel fastidio (per il vissuto cristiano) un senso comune.

3) Una dottrina asociale acristiana
Non sorprende allora che venga ignorata, rifiutata, capovolta in più forme l’intera Dottrina sociale della Chiesa: dalla Rerum novarum alla Fratelli tutti. Praticamente tutti gli aspetti fondamentali che la caratterizzano vengono rovesciati: non personalismo ma individualismo (egoismo individuale), non comunitarismo ma nazionalitarismo (egoismo nazionale).
Il tema centrale dell’insegnamento sociale della Chiesa e cioè la solidarietà (si pensi solo alla Sollicitudo Rei Socialis di Giovanni Paolo II), viene rimosso, se non sbeffeggiato.
E più in generale un senso di irrisione sarcastica viene sottilmente evocato davanti ad ogni tema forte della dottrina sociale della Chiesa. E tali temi forti vengono così bollati, in modo caricaturale, come “cattocomunismo”. Si può stare certi: tutte le volte che si grida al cattocomunismo – a meno che non si tratti di polemica politica spicciola verso cattolici che militano nella sinistra – si tratta di aspetti fondamentali della Dottrina sociale della Chiesa.
Che dunque viene accantonata in radice: sostituita da un radicalismo asociale e acristiano.


4) Il cattolicesimo come Religione civile

Seguendo una tradizione che risale all’Action Française, si persegue un cattolicesimo-senza-cristianesimo, emblematizzato nel trinomio Dio-Patria-Famiglia, ovviamente rifluidificato nel pleroma che abbiamo fin qui descritto.
Si persegue così, in qualche modo, un modello pre-cristiano: si potrebbe dire vetero-testamentario o, meglio, sadduceo. I sadducei erano la ricca aristocrazia sacerdotale, legata al Tempio, dunque detentrice di un forte potere e disposta a mediare con i Romani per mantenerlo, così da pregare per l’Imperatore nel Tempio. Non credevano nella resurrezione e il loro orizzonte esistenziale era disincantato. Se prendiamo il libro biblico del Qoèlet come espressione proto-sadducea, vi leggiamo affermata la vanità di tutto (che sarebbe stata completamente rovesciata nel Kerygma di salvezza paolino). Ne conseguiva una sorta di carpe diem: «Ecco quello che ho concluso: è meglio mangiare e bere e godere dei beni in ogni fatica durata sotto il sole, nei pochi giorni di vita che Dio gli dà: è questa la sua sorte. Ogni uomo, a cui Dio concede ricchezze e beni, ha anche facoltà di goderli» (5, 17-18). Un altro autore aggiunge alla fine del libro: «Dio citerà in giudizio ogni azione, tutto ciò che è occulto, bene o male» (12, 14).
Per la prospettiva della Religione civile attuale vanno bene la visione pubblica del Tempio, il potere alla casta sacerdotale, in grado di mediare, in una complessiva visione disincantata dell’esistenza. Bene il crocifisso nelle scuole o nelle aule di tribunale: non come simbolo religioso cristiano, ma come simbolo identitario cattolico dello Stato: cattolicesimo-senza-cristianesimo.
Si vuole, così, una liturgia non come “divini misteri” ma, in qualche modo, deliturgizzata, ridotta a ritualità identitaria (in forme rubricistiche confessionali) per lo Stato. Per i caduti in guerra ci vuole una Messa di funerale con rito cattolico (rimuovendo, ovviamente, la problematica cristiana di condanna della guerra). Così per ogni funerale di Stato (anche se non è più in vigore l’art. 1 dello Statuto albertino, che faceva del cattolicesimo la religione ufficiale).
Questa Religione civile è sostenuta dal ben noto fenomeno degli “atei devoti”. E questo ateismo devoto, comunque lo si voglia declinare, questo cattolicesimo-senza-cristianesimo è un neo-sadduceismo: ulteriore processo di erosione del cristianesimo, di fuoriuscita dal cristianesimo: di scristianizzazione.

5) La ri-semantizzazione neopagana
Si tratta della versione italiana di un più grande processo che percorre tutto l’Occidente e che può essere inteso come la declinazione, nell’ambito religioso, della cancel culture.
Come, nelle sue origini, il Cristianesimo aveva assimilato, assorbito e incorporato luoghi, feste, costumi pagani, ri-semantizzandoli in un cosmo linguistico-concettuale-valoriale orientato in senso cristiano, così oggi luoghi, feste, costumi cristiani vengono ri-semantizzati in senso pagano.
Si può prendere l’esempio lampante del Natale. Se il Cristianesimo lo aveva fissato nella festa pagana del Sole Invictus, risemantizzandolo con riferimento a Cristo-Sole, il neopaganesimo, a sua volta, ne conserva la data e la festività, ma senza riferimenti cristiani: facendone un’esplosione consumistica di luci, addobbi, regali, pranzi, festosità, a tutti i livelli (domestico, urbano, nazionale). Rimane il simulacro, “sbianchettando” il Cristianesimo, ma i contenuti sono altri, intrinsecamente pagani.
L’anno liturgico è risemantizzato in un calendario pagano di feste. Il pellegrinaggio è turistizzato anche quando rimane come visita a luoghi cristiani, sempre accostati il più possibile ad altri.
Ritornano – in forme occulte – le divinità pagane: il culto per il proprio corpo e per la propria bellezza e apparenza; il culto della giovinezza perenne; il culto dell’Imperatore (o culto della personalità); il culto della Natura, radicalmente de-antropizzata (e, a maggior ragione, de-cristianizzata). E si censurano e tabuizzano quegli aspetti cristiani che non si possono ripaganizzare: come la meditazione esistenziale sulla morte.

6) La concezione della Chiesa come lobby
In questo contesto, la Chiesa cattolica non è più vista, soprattutto, come una comunità-di-senso (evangelico e cristiano) e neppure come un’agenzia educativa universale di moralità (cristiana): né Madre né Maestra.
È vista, essenzialmente, come una delle tante lobby (certo tra le più importanti) con le quali occorre trattare, per scambi e transazioni: accogliere le richieste, cioè accordare favori, per avere in cambio sostegno (in forme diverse, non solo meramente elettorali).
Il concetto-chiave è quello di interesse. Come tutte le lobby, le mafie, le consorterie e massonerie, la Chiesa cattolica fa i suoi interessi, essenzialmente materiali. La si può accontentare con il sostegno alle scuole cattoliche, i finanziamenti alle sue opere, la detassazione dei suoi immobili. E, ovviamente, si può velatamente minacciare la sospensione di questi “favori” nel caso occorra ammorbidire posizioni pubbliche sgradite (a livelli vari: data l’organizzazione complessa dell’Istituzione ecclesiale).
Subalterno (ma consapevolmente contiguo e omogeneo) a questa prospettiva è stato il cosiddetto “cattolicesimo popolare” (quello promosso dall’ora scomparso Movimento Popolare). Contrapponendosi al cosiddetto “cattolicesimo democratico” (che intendeva le questioni materiali ecclesiastiche all’interno di un paradigma prioritario di Bene comune), il “cattolicesimo popolare” riteneva prioritaria la rivendicazione e la difesa dei cosiddetti “interessi cattolici”. Qualche residuale relitto di questa posizione è ancora sulla scena: lo si distingue dal consueto stile aggressivo, rancoroso, polemico, urlato, integralistico (uno stile da “omo salvatico”, erede del peggior papinismo).

7) L’idolatria del Vitello d’oro
L’organamento complessivo di tutti i processi precedentemente indicati in un simbolo luminoso e vittorioso è l’idolatria del Vitello d’oro. È, cioè, una cifra ricapitolativa che sottolinea come tutti i processi di antropologia culturale, che abbiamo cercato di individuare e descrivere, configurino, essenzialmente, una forma religiosa, una religione, con la sua dottrina, i suoi sacerdoti, i suoi fedeli, i suoi riti, i suoi catechismi.
Si tratta cioè di un vero culto: l’adorazione di Mammona, dell’Oro. Biblicamente il Vitello d’oro fu dato da Aronne al popolo che chiedeva un dio, con una forma sensibile, nelle difficoltà e nell’angosce del deserto, anche a causa dell’assenza di Mosè.
Anche oggi, al fondo, e soprattutto per le generazioni più giovani, davanti alle varie forme crescenti di deserto esistenziale, c’è bisogno di una qualche fede. Ecco allora che i moderni Aronne costruiscono il vitello d’oro. Attenzione: questa nuova religione è molto affascinante e seducente, sul piano individuale e comunitario: è un inganno luccicante, perché dà l’euforia di una libertà che però è solo apparente e illusoria, mentre è una vera schiavitù
In ogni caso, sul piano religioso, non c’è dubbio. La scristianizzazione non porta ad un Illuminismo razionalistico e demitizzatore. Porta alla neo-idolatria.
Quando, dunque, cerchiamo di analizzare, non superficialmente, la Berlusconizzazione antropologico-culturale nei suoi aspetti religiosi, considerando gli ultimi decenni (quasi mezzo secolo), dobbiamo, naturalmente, osservare che, se non ci fosse stato Berlusconi, questa Nuova Religione, che caratterizza tutto l’Occidente, ci sarebbe stata comunque, come vediamo in altri Paesi. Avrebbe forse preso forme di scientismo, di mito della tecnica, di socializzazione asociale. Avrebbe volti come quello di Bill Gates o di Steve Jobs o di Mark Zuckerberg. Non lo so. Ma certo l’idolatria del Vitello d’oro, che ha ormai egemonizzato l’Occidente settentrionale, in Italia si è caratterizzata storicamente come Berlusconizzazione: un processo storico imponente (processo di processi) che sarà ricordato nella storia per la sua portata epocale, ben più del Berlusconismo politico, fenomeno minore e subalterno.
La Berlusconizzazione religiosa ha rappresentato un radicale cambiamento d’epoca, che si è caratterizzato, prioritariamente, nei sette aspetti, prima considerati, ma anche nel loro relativo “indotto”: cioè in quel “campo magnetico” che ha attratto e orientato aspetti umani e realtà sociali pure formalmente da esso indipendenti. Ha attratto e orientato anche la Chiesa cattolica italiana?

Difficoltà dei vescovi italiani tra adattamento e incertezza
Rispondere a questa formidabile – e pure essenziale – domanda non è semplice, anche perché, richiederebbe una ricostruzione storica ampia, che non è qui possibile. Sul piano empirico della semplice osservazione esterna di ciò che è accaduto, non pare ci siano molti dubbi: il grande cambiamento d’epoca (che in Italia era largamente espresso dalla Berlusconizzazione), da una parte, e la totale inadeguatezza delle risposte pastorali della Chiesa italiana, dall’altra, hanno determinato un gigantesco fallimento pastorale dalle conseguenze vaste, profonde e di lungo periodo. Si è innescata una crisi, che appare irrecuperabile, dagli esiti infausti. Il cristianesimo di Chiesa, nell’Occidente settentrionale e anche in Italia, sembra avviato ad un sostanziale e rapido tramonto. Ovviamente, possedendo ancora la Chiesa strutture materiali notevoli, sono possibili processi di fossilizzazione tali da garantire una presenza marmorizzata e senza vita, incastrata nelle società, ma umanamente ridotta a piccola setta, ancora per molti anni. Tuttavia, chiaramente, si tratta di un fenomeno storico diverso da quello che il Cristianesimo ha rappresentato fino a tempi recenti.
Questo è il dato reale, osservabile senza particolari difficoltà. Ed evidente è stata pure l’incapacità di leggere la realtà, interpretare i processi in atto, articolare risposte pastorali adeguate: incapacità che ha, innegabilmente, caratterizzato i vertici dell’episcopato italiano (nella continuità Ruini-Bagnasco-Bassetti, pur in modi diversi e con livelli differenti di macro-errori e di responsabilità), polarizzati anch’essi sul campo magnetico descritto. Non lo dico come accusa o polemica, ma a livello di onesta constatazione storica, che non vuole edulcorare la realtà e produrre falsi in bilancio.
Con ciò, però, si è solo enunciato il problema e non si è ancora detto nulla. Non è infatti facile darsi una spiegazione di questa vicenda di cecità autolesionistica. Quando si osserva, per esempio, che ci sono ormai alcune generazioni incredule, si coglie, con meritoria acutezza (c’è ancora chi non vuole vederlo!), una spia chiara di questa vicenda: ma naturalmente si sbaglierebbe nuovamente se si volessero colpevolizzare tali nuove generazioni, come se la loro incredulità fosse colpa loro e dipendesse essenzialmente da loro. E si ritorna perciò al punto di partenza.
Lasciando, necessariamente, da parte le più ampie analisi storiche, mi chiedo dunque: ma ora a che punto siamo? quali sono le realtà ecclesiali presenti e che cosa lasciano intravedere?
Un punto di osservazione significativo è stato rappresentato dalle reazioni alla morte di Berlusconi.
Un primo contesto di reazioni è stato rappresentato dal papa e dal presidente della Cei card. Zuppi ed è stato – per i casi della storia – enfatizzato dal quasi contemporaneo comportamento nei confronti di Prodi e della scomparsa di sua moglie Flavia. È presto detto. Il papa ha affidato a Parolin parole di cordoglio da trasmettere alla figlia primogenita (e non alla vedova: quale? C’erano due vedove e una quasi vedova …) di Berlusconi (definito: «un protagonista della vita politica italiana, che ha ricoperto pubbliche responsabilità con tempra energica»), mentre a Prodi ha scritto lui, direttamente e «fraternamente», dandogli del “tu”, un messaggio autografo di compartecipazione al dolore. Anche Zuppi, rispetto alla morte di Berlusconi, ha espresso in forma ufficiale il suo cordoglio e ha affidato all’arcivescovo di Milano parole di vicinanza per i familiari, mentre ha celebrato (certo anche in quanto arcivescovo della diocesi di Bologna) lui stesso il funerale della signora Prodi, pronunciando un’omelia molto calda e affettuosa, oltre che con forti toni evangelici.
Un secondo contesto di reazioni – stimolato dai giornalisti con loro interviste – ha toccato membri storicamente importanti del Sacro Collegio cardinalizio: il card. Camillo Ruini e il decano, card. Giovanni Battista Re. Entrambi sono stati, in forma sintetica, molto elogiativi della figura di Berlusconi. A «Il Foglio», Ruini ha dichiarato: «Sono molto addolorato per la morte di Silvio Berlusconi. Era persona di grande intelligenza e generosità. Ha avuto meriti storici per l’Italia, soprattutto avendo impedito al Partito ex comunista di andare al potere nel 1994 e anche per l’instaurazione del bipolarismo in Italia. Inoltre, ha operato molto bene in politica estera. Sono stato uno dei suoi amici. Domani celebrerò la santa messa per lui perché il Signore nella sua misericordia lo accolga nella sua eterna pienezza di vita». E il card. Re: «Poverino. Lo ricorderò nelle preghiere. È un uomo che ha aiutato molto anche l’Italia».
Si tratta di due contesti di reazioni dalla postura diametralmente opposta, pur nella stringatezza delle espressioni. Il papa e Zuppi appaiono avvertiti del contesto di Berlusconizzazione che abbiamo cercato di ricostruire, si collocano necessariamente in una posizione “complanare”, ma con uno stile che non intralci l’obiettivo di linee pastorali alternative ad essa. Ruini e Re paiono invece autocollocarsi in una dimensione che ignora totalmente la Berlusconizzazione della società italiana, quasi fossero fermi al pre-Berlusconi, e sono polarizzati positivamente sul Berlusconismo politico,
con l’effetto pastorale implicito di essere interni anche agli aspetti antropologico culturali-religiosi, determinati dai processi di Berlusconizzazione.
Un terzo ambito di reazioni, apparentemente intermedio ai primi due, in realtà che ambisce a collocarsi su un piano diverso, è quello del sermone funebre di mons. Mario Delpini in occasione dei funerali di Berlusconi, nel Duomo di Milano.
Innanzi tutto, è da rimarcare la collocazione né scontata né ovvia di tale funerale, non nella parrocchia di Berlusconi, cioè nella sua comunità ecclesiale (come è stato per la signora Prodi), ma in Duomo. Molto difficilmente, peraltro, la diocesi di Milano poteva negare tale collocazione. Fedele Confalonieri è l’attuale Presidente della Veneranda Fabbrica del Duomo (un organismo del quale l’arcivescovo di Milano nomina due membri e il Governo italiano gli altri cinque): presidenza, peraltro, che data da un momento precedente all’episcopato di Delpini e quindi prescinde dalla sua responsabilità personale. Ma che, evidentemente, è quanto meno un aspetto che egli non può ignorare.
Il dato “civile” del fatto che si sia trattato di un funerale di Stato, non determinava automaticamente lo svolgimento in Duomo. I funerali di Stato di Maroni, sempre nella diocesi di Milano, si sono tenuti a Varese. Si è trattato di una decisione “ecclesiastica” (o, se si vuole, “pastorale”).
Certamente non era un compito facile per mons. Delpini, essendo ancor oggi il defunto al centro di passioni politico-civili contrapposte ed essendo il rito sotto l’osservazione – attraverso la diretta di varie televisioni – di milioni di Italiani.
Delpini ha letto un testo non chiarissimo nell’enunciato (così che è stato interpretato in modi diversi e perfino opposti), dall’andamento criptico e, forse volutamente, ambiguo. Non certo un parlare “sì, sì, no, no”.
Due note di forma, prima di considerare i contenuti: da una parte si è trattato di un sermone aliturgico e non di un’omelia che, riconoscendo la centralità della Parola di Dio proclamata, fornisce qualche pensiero di commento (le letture bibliche, appena lette, sono state totalmente ignorate, pur essendo molto belle e significative); d’altra parte, tale sermone aveva una preminente caratteristica civile e laica e si rivolgeva al più vasto pubblico (non di fedeli, ma di spettatori) dentro e fuori il Duomo, facendo passare in secondo piano i familiari con il loro umano dolore (non una parola rivolta a loro nell’omelia, per consolarli e per esortarli a sperare nella Resurrezione; anche il saluto dell’arcivescovo, alla fine della Messa, si è indirizzato prima alle Autorità e solo dopo ai familiari).
Nel merito dei contenuti, voleva essere un Ecce homo equanime. Ma l’andamento di sviluppo è stato singolare:

  1. Vivere.
    Vivere. Vivere e amare la vita. Vivere e desiderare una vita piena. Vivere e desiderare che la vita sia buona, bella per sé e per le persone care. Vivere e intendere la vita come una occasione per mettere a frutto i talenti ricevuti. Vivere e accettare le sfide della vita. Vivere e attraversare i momenti difficili della vita. Vivere e resistere e non lasciarsi abbattere dalle sconfitte e credere che c’è sempre una speranza di vittoria, di riscatto, di vita. Vivere e desiderare una vita che non finisce e avere coraggio e avere fiducia e credere che ci sia sempre una via d’uscita anche dalla valle più oscura. Vivere e non sottrarsi alle sfide, ai contrasti, agli insulti, alle critiche, e continuare a sorridere, a sfidare, a contrastare, a ridere degli insulti. Vivere e sentire le forze esaurirsi, vivere e soffrire il declino e continuare a sorridere, a provare, a tentare una via per vivere ancora.
    Ecco che cosa si può dire di un uomo: un desiderio di vita, che trova in Dio il suo giudizio e il suo compimento.
  2. Amare ed essere amato.
    Amare e desiderare di essere amato. Amare e cercare l’amore, come una promessa di vita, come una storia complicata, come una fedeltà compromessa. Desiderare di essere amato e temere che l’amore possa essere solo una concessione, una accondiscendenza, una passione tempestosa e precaria. Amare e desiderare di essere amato per sempre e provare le delusioni dell’amore e sperare che ci possa essere una via per un amore più alto, più forte, più grande.
    Amare e percorrere le vie della dedizione. Amare e sperare. Amare e affidarsi. Amare ed arrendersi.
    Ecco che cosa si può dire dell’uomo: un desiderio di amore, che trova in Dio il suo giudizio e il suo compimento.
  3. Essere contento.
    Essere contento e amare le feste. Godere il bello della vita. Essere contento senza troppi pensieri e senza troppe inquietudini. Essere contento degli amici di una vita. Essere contento delle imprese che danno soddisfazione. Essere contento e desiderare che siano contenti anche gli altri. Essere contento di sé e stupirsi che gli altri non siano contenti. Essere contento delle cose buone, dei momenti belli, degli applausi della gente, degli elogi dei sostenitori. Godere della compagnia. Essere contento delle cose minime che fanno sorridere, del gesto simpatico, del risultato gratificante. Essere contento e sperimentare che la gioia è precaria. Essere contento e sentire l’insinuarsi di una minaccia oscura che ricopre di grigiore le cose che rendono contenti. Essere contento e sentirsi smarriti di fronte all’irrimediabile esaurirsi della gioia.
    Ecco che cosa si può dire dell’uomo: un desiderio di gioia, che trova in Dio il suo giudizio e il suo compimento
  4. Cerco l’uomo.
    Quando un uomo è un uomo d’affari, allora cerca di fare affari. Ha quindi clienti e concorrenti. Ha momenti di successo e momenti di insuccesso. Si arrischia in imprese spericolate. Guarda ai numeri a non ai criteri. Deve fare affari. Non può fidarsi troppo degli altri e sa che gli altri non si fidano troppo di lui. È un uomo d’affari e deve fare affari.
    Quando un uomo è un uomo politico, allora cerca di vincere. Ha sostenitori e oppositori. C’è chi lo esalta e chi non può sopportarlo. Un uomo politico è sempre un uomo di parte. Quando un uomo è un personaggio, allora è sempre in scena. Ha ammiratori e detrattori. Ha chi lo applaude e chi lo detesta.
    Silvio Berlusconi è stato certo un uomo politico, è stato certo un uomo d’affari, è stato certo un personaggio alla ribalta della notorietà.
    Ma in questo momento di congedo e di preghiera, che cosa possiamo dire di Silvio Berlusconi? È stato un uomo: un desiderio di vita, un desiderio di amore, un desiderio di gioia. E ora celebriamo il mistero del compimento.
    Ecco che cosa posso dire di Silvio Berlusconi. È un uomo e ora incontra Dio.

L’epilogo è molto chiaro: Berlusconi è un essere umano come tutti, la morte pone tutti sullo stesso piano, e tutti, anche lui, si trovano, con la morte, davanti a Dio. Sic transit gloria mundi. Certo, c’erano numerosi precedenti letterari per questo genere di discorso. Esempi alti: dall’Imitatio Christi al milanese e cattolico Manzoni («Fu vera gloria? Ai posteri l’ardua sentenza»); ed esempi meno alti: La livella di Totò. Non mi interessa dire in che posizione della classifica si collochi il sermone di Delpini.
Ma se l’epilogo è molto chiaro, più nebbiosa e ambivalente è la prima parte che arieggia all’enigmaticità del Qoèlet: anche se lì, come si è visto, nella conclusione c’era il «giudizio» di Dio, non solo l’«incontro» con Dio.
La scelta para-Qoèlet voleva forse riferirsi ad una dimensione antropologica universale. Ma si trattava pur sempre del funerale cristiano di un battezzato. La scelta è stata di non nominare mai, nel sermone, la parola «Gesù», la parola «Vangelo», la parola «Croce», la parola «Resurrezione».
L’ambiguità della prima parte (punti 1, 2, 3 e primo periodo del punto 4) deriva dal fatto che non si capisce se il predicatore stia parlando dell’essere umano in generale, della condizione umana, o se si stia riferendo all’uomo Silvio Berlusconi. Forse l’articolo indeterminativo del primo punto (un uomo: «Ecco che cosa si può dire di un uomo») indica che ci si riferisce all’essere umano in generale, mente gli articoli determinativi dei successivi due punti (l’uomo: «Ecco che cosa si può dire dell’uomo») indicano che ci si riferisce all’uomo Berlusconi. Sottigliezza eccessiva? … Il dubbio rimane.
Il predicatore parla di vita, di amore, di gioia: ma non afferma, né esplicitamente né anche solo implicitamente, che per il cristiano è Gesù la vita, l’amore, la gioia.
Senza questo riferimento essenziale, deprivato di Vangelo, il testo slitta (Vivere: e vengono in mente le canzoni di Vasco Rossi e, prima ancora e più ancora, di Carlo Buti). Di che vita si sta parlando? Di che amore? Di quale felicità? È il punto di vista del Pastore che parla o il Pastore vuole entrare nella coscienza riflessa che è stata del defunto? Sembrerebbe che si tratti della seconda opzione. Ma ci si può limitare ad un’asettica e fredda descrizione (una sorta di fenomenologia, come quella che scrisse Umberto Eco per Mike Buongiorno)? Trascrivere burocraticamente il punto di vista berlusconiano per concludere che ora se la vedrà con Dio? O assumere – e perciò implicitamente canonizzare verso l’uditorio – il punto di vista personale e pubblico di Berlusconi, per aggiungere una chiusa dovuta, un minimo sindacale di religione? L’ambiguità lascia aperte entrambe le opzioni. Delpini parla a Berlusconi: lo notomizza e lo descrive, laicamente, per poi dirgli: io ho finito, lascio la parola a Dio. Nel contempo, Delpini parla all’uditorio e gli descrive cosa Berlusconi è stato, senza un minimo cenno di distinguo, e dunque con indiretto sigillo antropologico, per concludere: tutti moriamo e ci incontriamo con Dio.
Nella sua stringatezza anaffettiva questo testo è un brano da antologia: il documento perfetto per testimoniare emblematicamente una postura ecclesiastica. Si tratta di quella posizione che, prescindendo da quelle già viste (l’alternativa alla Berlusconizzazione, di Bergoglio e Zuppi, o in simbiosi al Berlusconismo politico e ignara degli effetti della Berlusconizzazione, con Ruini e Re), si colloca – di fatto – all’interno della Berlusconizzazione come ambito di Religione civile.
La non-omelia di Delpini, il suo sermone aliturgico funebre nel Tempio, è un vero pezzo virtuosistico di Religione civile, di “mondanizzazione” (non in senso Bonhoefferiano ma neo-sadduceo): se lo leggiamo in quest’ottica, tutto torna. Questo spiega pure gli entusiasmi che ha suscitato in atei devoti, come Giuliano Ferrara, e negli epigoni del “cattolicesimo popolare” (che vi hanno visto evidenti echi di Giussani sui quali non so valutare).
Io credo che questa postura ecclesiastica – interna alla Berlusconizzazione – ha perso la guida della Cei, ma è ancora molto pervasivamente diffusa nel corpo molle della Chiesa italiana. Tale postura assume varie sfumature (favorevole al papa ma incapace di immaginare una pastorale conseguente; favorevole al papa ma non comprendendone il magistero; sfavorevole al papa per vari motivi) ma con esiti convergenti: è forte dell’illusione di avere più libertà, mentre si consegna ad una sottile schiavitù mondana. La prova più evidente è data dalla conduzione al ribasso con cui è stato gestito il “doppio” Sinodo (della Chiesa universale e della Chiesa italiana), archiviato velocemente e senza che la maggior parte dei fedeli l’abbia saputo (anche se, formalmente, ancora in corso): parlando, ad ogni piè sospinto, a proposito e a sproposito, di “sinodalità”, ma continuando a fare quello che si faceva prima, anche con sostanziosi ritorni indietro e clericalismo più o meno dissimulato: lasciateci la libertà di fare quello che vogliamo (e di comandare noi).
C’è un aronnismo che, negli anni aridi e desertici che stiamo vivendo, costruisce – in buona fede e pensando di fare bene – il Vitello d’Oro. Nessuno lo ammetterebbe e anzi molti si sdegnerebbero: ma questo segnala come non ci si renda neppure conto dei processi in corso da tempo, forse per totale autoreferenzialità, per stanchezza, per vecchiaia, per boria di potere.
E, lasciatemelo dire, per maschilismo tossico pastorale. Almeno questa valenza anti-evangelica della donna-oggetto e del sesso-possesso, così tipica della Berlusconizzazione, non dovrebbe suscitare una forte reazione? Non dovrebbe apparire in modo nitido come un’evidente schiavitù dello spirito cristiano? Anche qui, aronnismo patriarcale …

Il Vangelo lo avete sempre con voi
La colpa di Aronne fu occasionata dall’assenza di Mosè. L’aronnismo nella Chiesa italiana non può accampare questa attenuante. Mosè c’è e si è sempre espresso molto limpidamente. Papa Francesco ha parlato chiaro, fin dal momento stesso della sua elezione, fin dal 2013 (Assisi, 4 ottobre), dieci anni fa:

tutti siamo Chiesa, e tutti dobbiamo andare per la strada di Gesù, che ha percorso una strada di spogliazione, Lui stesso. E’ diventato servo, servitore; ha voluto essere umiliato fino alla Croce. E se noi vogliamo essere cristiani, non c’è un’altra strada. Ma non possiamo fare un cristianesimo un po’ più umano – dicono – senza croce, senza Gesù, senza spogliazione? In questo modo diventeremo cristiani di pasticceria, come belle torte, come belle cose dolci! Bellissimo, ma non cristiani davvero! Qualcuno dirà: “Ma di che cosa deve spogliarsi la Chiesa?”. Deve spogliarsi oggi di un pericolo gravissimo, che minaccia ogni persona nella Chiesa, tutti: il pericolo della mondanità. Il cristiano non può convivere con lo spirito del mondo. La mondanità che ci porta alla vanità, alla prepotenza, all’orgoglio. E questo è un idolo, non è Dio. E’ un idolo! E l’idolatria
è il peccato più forte! […] E tutti noi dobbiamo spogliarci di questa mondanità: lo spirito contrario allo spirito delle beatitudini, lo spirito contrario allo spirito di Gesù. La mondanità ci fa male. È tanto triste trovare un cristiano mondano, sicuro – secondo lui – di quella sicurezza che gli dà la fede e sicuro della sicurezza che gli dà il mondo. […]
Gesù stesso ci diceva: “Non si può servire a due padroni: o servi Dio o servi il denaro” (cfr Mt 6,24). Nel denaro c’era tutto questo spirito mondano; denaro, vanità, orgoglio, quella strada… noi non possiamo… è triste cancellare con una mano quello che scriviamo con l’altra. Il Vangelo è il Vangelo! Dio è unico! […] La mondanità spirituale uccide! Uccide l’anima! Uccide le persone! Uccide la Chiesa!

E, per citare uno tra i tanti altri testi, nell’udienza generale dell’8 agosto 2018 (cinque anni fa), ha aggiunto:

La natura umana, per sfuggire alla precarietà – la precarietà è il deserto – cerca una religione “fai-da-te”: se Dio non si fa vedere, ci facciamo un dio su misura. […]
Aronne non sa opporsi alla richiesta della gente e crea un vitello d’oro. […] Ma anzitutto è d’oro, perciò è simbolo di ricchezza, successo, potere e denaro. Questi sono i grandi idoli: successo, potere e denaro. Sono le tentazioni di sempre! Ecco che cos’è il vitello d’oro: il simbolo di tutti i desideri che danno l’illusione della libertà e invece schiavizzano, perché l’idolo sempre schiavizza. […]
Ma il grande lavoro di Dio è stato togliere l’Egitto dal cuore del popolo, cioè togliere l’idolatria dal cuore del popolo. E ancora Dio continua a lavorare per toglierla dai nostri cuori. Questo è il grande lavoro di Dio: togliere “quell’Egitto” che noi portiamo dentro, che è il fascino dell’idolatria. […]
Noi cristiani volgiamo lo sguardo a Cristo crocifisso (cfr Gv 19,37), che è debole, disprezzato e spogliato di ogni possesso. Ma in Lui si rivela il volto del Dio vero, la gloria dell’amore e non quella dell’inganno luccicante.

Ma infine la figura retorica di Mosè sta stretta a papa Bergoglio. Non si tratta infatti di un suo protagonismo di comando, da Capo assoluto. Si tratta, da parte sua, dell’indicazione della centralità del Vangelo.
Può darsi che nell’Occidente settentrionale sia ormai troppo tardi. Può darsi che in Italia non si abbiano sufficienti risorse spirituali (avendo lungamente soffocato ed estinto lo Spirito) per rialzarsi come il Figliol prodigo e ritornare all’abbraccio del Padre, riconoscendo di aver imboccato strade sbagliate di dissolutezza pastorale (e di dissoluzione ecclesiale).
Che Berlusconi riposi in pace. Preghiamo per lui, perché sia accolto nell’abbraccio purificatore della misericordia divina.
Lasciando, sul piano politico del Berlusconismo, che i morti seppelliscano i morti, assumiamoci serenamente – ma con fermezza – le nostre responsabilità, per liberarci evangelicamente nel nostro cuore. Non per essere i salvatori della Chiesa, non per insegnare al magistero cosa deve dire, non per un ennesimo sforzo di parole. Ma per liberarci dall’Egitto che è in noi. Ma per aprirci sempre più al soffio dello Spirito.
E per amare la Chiesa reale, portando il nostro contributo affinché non sia estinto lo Spirito.

 

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