Categoria : cultura

“Dante, sommo poeta e sommo pensatore. Quando Dante mi faceva sognare” di Gianni Avorio

Ogni tanto l’Italia si ricorda che la sua storia non è formata solo da veline, velonze e influencer, scritto tassativamente in lingua albionica per dargli una dignità che non ha. Mi pare che si possa definire ‘la professione di chi non ha alcun talento e merito, tranne una faccia… (fate voi) invetriata incredibile. E fra una influencer, un calciatore a riposo, vari politici senza idee per ventiquattro ore si decide di celebrare il più grande poeta del mondo, quel Dante,
Durante alla nascita, Alighieri che ha partorito la lingua italiana e ci ha regalato l’idea di Patria. In pochissimo tempo librerie, fisiche e on line, edicole, trasmissioni televisive e radiofonico ci hanno riversato addosso di tutto, senza darci neppure il tempo di assimilare. È stata una ubriacatura intensa e di breve durata. Forse il Fiorentino avrebbe meritato un’attenzione meno concentrata e più diffusa nell’arco dell’anno. Anche io, come tutti gli innamorati del Divino esule, ho pensato che sarebbe stato opportuno prendere la penna e onorarne la memoria, ma mi sono impantanato nel come. Ho scorso mentalmente i campi di cui mi sarei potuto occupare, senza riuscire a trovare alcunché di originale. «Tutto è stato detto, tutto è stato scritto, non c’è spazio neppure per una virgola.» pensavo squadernando quanto era a mia conoscenza.
Per cercare ispirazione ho riletto, dopo qualche anno, il Trattatello in laude di Dante scritto da Giovanni Boccaccio e ho volto la mia attenzione verso il Dante meno conosciuto, quello ‘umano, troppo umano’ che dedicava la sua attenzione molto terrena alle donne, anche da sposato. Se ne scusa lo stesso Boccaccio nell’informarci di questa debolezza: «Tra cotanta virtù, tra cotanta scienzia, quanta dimostrato è di sopra essere stata in questo mirifico poeta, trovò ampissimo luogo la lussuria, e non solamente ne’ giovani anni, ma ancora ne’ maturi. Il quale vizio, come che naturale e comune e quasi necessario sia, nel vero non che commendare, ma scusare non si può degnamente. Ma chi sarà tra’ mortali giusto giudice a condennarlo? Non io.» Potevo essere io allora quello che poteva fingere intransigenza morale e condannare Dante? Credo proprio di no. Oppure avrei potuto parlare della sua scarsa modestia, citata sempre dall’autore del Trattatello come sola altra colpa? « E venuto al diliberare chi dovesse esser prencipe di cotale legazione, fu per tutti detto che Dante fosse desso. Alla quale richiesta Dante, alquanto sopra sé stato, disse: “Se io vo, chi rimane? se io rimango, chi va?”, quasi esso solo fosse colui che tra tutti valesse, e per cui tutti gli altri valessero.»
Avevo deciso di soprassedere e onorare il Poeta rileggendo alcuni passi delle sue opere (senza commenti, per favore, che tolgono ritmo e armonia alle parole), quando la mia mente, che talvolta apre finestre impensabili, mi rimandò immagini di un passato lontano, quando giovanissimo studente frequentavo l’Istituto Magistrale Margherita di Castelvì. Ascoltavo con la giusta compostezza e attenzione la lezione dell’insegnante d’italiano Franco Dessì Fulgheri, fratello dell’autore di Paese d’ombre e lui stesso buon poeta, e mi stupiva, come sempre, la sua capacità di commentare la Divina Commedia senza ricorrere ad alcun manuale, come facevano una volta poeti e cantori. Le parole scorrevano solenni e dolci, tanto da creare nella classe un silenzio partecipe e solenne. Quel giorno erano di scena avari e prodighi, e l’inizio del canto VII sembrava infondere in tutti un lieve sorriso, indotto dai commenti tra il serio e il faceto del Professore. Quel «Pape Satàn, pape Satàn, aleppe!», letto con la giusta ambiguità nascosta nelle parole calamitò l’attenzione dell’intera classe. Ci fu, da parte di tutti, anche un corale sorriso all’interpretazione estrema di un sacerdote sardo, che sintetizzava l’incapacità dei critici di spiegare l’enigmatico verso: “Babbu Satana, babbu satana, dammi sa leppa.”
Anche Dessì sorrise con noi. Poi, lentamente, senza che ce ne rendessimo conto, ci precipitò nel quarto cerchio, dove avari e prodighi subivano l’eterna pena: «Qui vid’ i’ gente più ch’altrove troppa, / e d’una parte e d’altra, con grand’ urli, / voltando pesi per forza di poppa. / Percotëansi ‘ncontro; e poscia pur lì / si rivolgea ciascun, voltando a retro, / gridando: “Perché tieni? e Perché burli?”»
Il Poeta ci descrive due schiere contrapposte che spingono con il petto probabilmente un masso. Poiché percorrono un semicerchio, si scontrano inevitabilmente con gli altri che avanzano nell’altro senso. Dopo l’urto si colpevolizzano a vicenda, voltano le spalle e spingono nella direzione opposta del semicerchio, andando inevitabilmente a cozzare sul punto opposto del cerchio; e questo per l’eternità. Non andava leggero il Fiorentino con le pene e nell’organizzarle non gli mancava certo la fantasia. La mia mente fu ingoiata da quel circo infernale e mi ritrovai a immaginare in quel bailamme satanico una zia, nota per la sua divina avarizia e per questo definita dai parenti “Maria ganzu”
Mentre il professore s’infervorava nella descrizione del settimo canto, io riuscivo a pensare dove sarebbe finta la zia e riuscii a trovare per lei un posto fra i grandi della letteratura, in quel lungo elenco che va da Euclione a Arpagone, da Shylock a don Mazzarò, da Ebenezer Scrooge a papà Grandet. E li immaginai tutti nel quarto cerchio dell’Inferno di Dante, con zia Maria, mai pentita, in testa che guidava la carica contro i prodighi, capace di volgere a suo favore lo scontro eterno tra avari e scialacquatori. Con gli occhi socchiusi e un sorriso a fior di labbra seguivo la lezione in modo diversamente partecipato e le risate della classe mi riportarono bruscamente alla realtà: i compagni ridevano e il professore mi guardava severo.
«Avorio, trovi divertente la Divina Commedia? O trovi divertente il tuo professore?» Chiesi scusa e avvampai per la vergogna (allora sapevamo vergognarci). Avrei voluto spiegare che in qualche modo partecipavo alla spiegazione e riuscivo ad attualizzare le parole del Divino poeta, arricchendo le sue bolge di nuovi e interessanti personaggi, ma non ebbi il coraggio, soprattutto perché avevo un sacrosanto timore dell’ironia puntuta dei compagni di classe. Il professore, probabilmente, avrebbe riso con me del mio sentirmi Dante e punire una parente con una pena senza fine. Ridevo di gusto con gli occhi socchiusi per vivere meglio quella proiezione cinematografica arbitraria.
Onda di risate che mi stava sommergendo e il rimprovero dell’insegnante mi riportarono con i piedi per terra e dedicai la mia attenzione a quei disperati che si scontravano rimproverandosi perennemente: “Perché tieni?” e “Perché burli?”
Era il perenne titanico scontro fra chi stringe i cordoni della borsa e prova un piacere sadico nel vedere altri in disgrazia per non avere saputo economizzare e chi dilapidava senza raziocinio e senno. Era uno scontro senza vinti o vincitori. Mi resi conto che Il Poeta aveva commesso un piccolo errore nel sistemare avari e prodighi nello stesso girone a espiare la medesima pena senza fine; e non aveva avuto la preveggenza di che cosa stava maturando. Allora non era neppure ipotizzabile che si potesse arrivare a una società nella quale potessero convivere felicemente in una sola persona entrambi i peccati. Il grande capitalismo era di là da venire e certo Il Fiorentino, nonostante la sua geniale fantasia, non poteva ipotizzare quando sarebbe successo, sfuggendo la cosa di mano anche al Creatore. Mi è capitato vedere accumulatori di ricchezze che manifestavano straordinaria avarizia nei confronti dei poveri e dei disperati, dilapidando nel contempo cifre da capogiro per soddisfare futili vanità, senza intaccare minimamente il proprio patrimonio. Anzi! La cosa peggiore di questa depravazione si manifesta nell’ipocrisia di questi peccatori seriali quando salgono sul pulpito e severi ammanniscono la morale ai poveri cristi che faticano a mettere d’accordo il pranzo con la cena. Quando ho avuto consapevolezza di questa svolta ’epocale’ ho ritenuto utile allora volgere il mio sguardo severo verso gli esecutori terreni del messaggio divino, e ho rivalutato zia Maria che risparmiava, ma mai si sarebbe sognata di rubare uno spillo a chicchessia. Se Dante aveva ragione, e ne aveva da vendere, nel momento del giudizio, il Creatore avrebbe dovuto garantire a quella donna un posto fra gli angeli. E, laggiù, fra le fiamme eterne sistemare senza pietà alcuna i nuovi profittatori, quelli che imperturbabili ridevano mentre la falce della Grande Mietitrice sterminava folle smisurate di disperati che avevano avuto la sola colpa di nascere e sperare, sopportando ogni angheria. Erano i miei anni giovanili e spesso mi capitava di pensare che qualcuno avrebbe dovuto aggiornare il libro del Divino Poeta e adeguare le pene alla gravità delle colpe. Io, se avessi potuto, avrei organizzato diversamente la pena degli avari e dei prodighi, aggiungendo i prodighi/avari. Questi ultimi li avrei sistemati su una gigantesca graticola arroventata da un fuoco perenne e, come unico sollievo concesso, il passaggio del grande masso spinto in sintonia da avari e prodighi sui prodigo-avari. Mi sembrava una pena adeguata alle sofferenze che da vivi hanno causato e continuano a causare alla povera gente. In fondo zia fra quei lestofanti capitalisti faceva la figura della colomba fra gli avvoltoi.
Quel giorno mi tenni le mie personalissime riflessioni e non ne parlai con Dessì Fulgheri, straordinaria figura di insegnante e di intellettuale, che aveva collaborato con il fratello nell’immediato dopoguerra nella rivista “Riscossa” insieme al fior fiore degli intellettuali sardi come Francesco Spanu Satta, Emilio Lussu, Antonio Borio, Salvatore Cottoni, Giovanni Floris, Francesco Masala, Fiorenzo Serra, Nino Giagu, Vico Mossa, Giovanni Maria Cherchi, Antonio Santoni Rugiu, Angelo Mannoni, Giovanni Lilliu, Luca Pinna, Gavino Musio, Augusto Maddaleni, Salvatore Mannuzzu, Teresa Crobu e terramannesi come Lorenzo Giusso, Aurelio Roncaglia, Lanfranco Caretti, Giorgio Bassani, Franco Matacotta, Antonio Delfini e Joyce Lussu.
Ripresi con il professore quell’episodio in sede di maturità, quando pensai che la cosa non potesse in alcun modo nuocermi. Ascoltò in silenzio, con il viso improntato a una serietà che mi sembrò eccessiva. Quando terminai riempì l’aria con un’inaspettata risata che mi liberò del peso che mi ero portato appresso negli anni precedenti. E prima di salutarmi, divertito e di buon umore, concluse a mo’ di commento: «Spero che tu ti iscriva alla facoltà di lettere.»
Gianni Avorio

 

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