Costruire le università. Aspetti architettonici e urbanistici, tra ragioni economiche e scelte politiche 

Ringrazio Gian Paolo Brizzi, per avermi fornito questi brevi riassunti degl’interventi del convegno di Milano. Si tratta di notizie utili per chi intende affrontare anche la storia dei caseggiati scolastici dei vari periodi storici. In Sardegna dovremmo ricostruire sia la storia degli edifici scolastici degli anni Settanta dell’ Ottocento, in genere Case Comunali- Scuola, sia degli edifici liberty che furono costruiti in epoca giolittiana e successivamente durante il fascismo con stile Deco e Razionalistico, si pensi al caseggiato di San Donato del 1921, a quello di Nuovi del 1913, e via via a quello di Alghero e di Olbia. Non è il caso, per ora di analizzare gli stili senza stile di quegli edifici costruiti nel periodo del boom economico. (Angelino Tedde


Convegno

Milano, Università L. Bocconi, 28-29 marzo 2019

ABSTRACTS

Bartolomeo Azzaro (Università di Roma La Sapienza)

Le università e la città. La Sapienza di Roma e prime osservazioni sulla situazione italiana nella prima metà del Novecento

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Andrea Silvestri, Stefano Morosini, Fabrizio Trisoglio (Politecnico di Milano)

Milano: la Città degli Studi tra Politecnico e Università Statale

L’inaugurazione del 22 dicembre 1927 della nuova sede del Politecnico di Milano in piazza Leonardo da Vinci rappresenta simbolicamente un primo punto di arrivo cruciale nel progetto pluridecennale di Città Studi, successivamente ridefinito e ampliato nel secondo dopoguerra. Il presente intervento prende le mosse a partire dalle progressive difficoltà in termini di spazio che gli Istituti di istruzione superiore dovettero affrontare da fine Ottocento, non solo il Politecnico nella vecchia sede della Canonica in piazza Cavour, ma anche la neonata Università degli Studi (1923), allora la cosiddetta Regia, oggi la Statale, l’Accademia di Belle Arti, e la Scuola di Agraria e Veterinaria. Non si intende solo tracciare un racconto lineare dell’evoluzione del progetto, ma soprattutto indagare – anche per mezzo di fonti archivistiche in parte inedite dei rispettivi Atenei interessati (Politecnico di Milano e Università degli Studi di Milano) – le discontinuità intercorse tra la prima convenzione del 1913 e l’inaugurazione del Politecnico di Milano nel ventennio fascista. Oltre ai piani edilizi e urbanistici prospettati, in alcuni casi disattesi, sarà data particolare evidenza al rapporto del Consorzio con il Comune di Milano e le istituzioni partecipanti, nonché ai rapporti politici cangianti intercorsi nello sviluppo del progetto.

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Marzio Achille Romani (Università Bocconi)

La Bocconi di Pagano

Negli anni ‘30 del Novecento le scelte di modificare l’assetto didattico e la creazione di un nuovo Istituto di alti studi economici dedicato alla memoria di Ettore Bocconi, volute dal CdA della Bocconi, erano volte al rilancio dell’Ateneo milanese, al completo rinnovamento dello stesso, una sede che, col tempo, era divenuta sempre meno adatta ad accogliere tutte le iniziative messe in cantiere dall’Università commerciale. Da qui l’avvio di una ricerca volta al reperimento del terreno necessario per la costruzione di una nuova sede da sostituire a quella costruita trent’anni prima. Nella Milano degli inizi degli anni Trenta la carenza di spazi utili alla gestione di una popolazione studentesca in rapida crescita interessava non solo la Bocconi ma anche diverse altre istituzioni, accentuandone la concorrenza e rendendo estremamente delicati i rapporti con l’ente locale, che da tempo si era posto il problema di mettere ordine nella irrazionale distribuzione delle diverse Facoltà universitarie cittadine. L’amministrazione comunale, più volte sollecitata dal consiglio direttivo dell’Università, aveva assicurato il suo vivo interesse, accennando al possibile utilizzo di un’area, posta al sud della città, al di là delle mura spagnole, che il Comune intendeva riqualificare. Il confronto tra i vertici della Bocconi e le autorità pubbliche milanesi si sarebbe protratto per più anni e, a lungo andare, le speranze si sarebbero alternate alle delusioni. Sedi prestigiose e aree fabbricabili disponibili in varie zone della città sarebbero state prese in considerazione, senza mai giungere a risultati di sorta. Solo alla metà degli anni ‘30, la pervicace azione di Giovanni Gentile, allora

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vicepresidente dell’ateneo, accompagnata da precise istanze del capo del governo, trovò accoglienza da parte delle autorità locali che decisero di prendersi carico della costruzione della nuova Bocconi, a porta Ludovica, su terreni in precedenza occupati dalla fabbrica del gas. In cambio, la Bocconi avrebbe ceduto la vecchia sede di piazza Statuto e versato al Comune un contributo di un milione, in base a una convenzione da stipularsi tra le parti, una volta che l’Ufficio tecnico comunale avesse redatto un progetto di massima dell’edificio, sulla base delle indicazioni fornite dall’Università stessa. Il progetto, predisposto dal Comune, a detta di Giuseppe Pagano, chiamato a dare un giudizio sul piano puramente artistico dello stesso, riscontrava incongruenze e gravi difetti. Negli incontri avuti col progettista e con l’ingegnere capo del Comune, egli non mancò di segnalare gli stessi e di proporre tutta una serie di modifiche sostanziali al disegno primigenio. Il suo giudizio, condiviso dall’intero CdA, lo avrebbe spinto ad andare oltre, presentando una sua ipotesi di massima, e trovando nei vertici della Bocconi e nello stesso capo dell’Ufficio tecnico comunale alleati decisi ad appoggiarlo e ad affidargli il compito di elaborare l’intero progetto e di assumere la piena direzione dei lavori. La complessa dialettica tra il direttore dei lavori, i vertici dell’università e gli amministratori locali – complicata ora dalle voci dell’entrata in guerra del Paese che rendevano sempre più problematica la fornitura dei materiali necessari alla costruzione del manufatto – sarebbe continuata sino alla realizzazione dello stesso nel dicembre del 1941.

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Annamaria Monti (Università Bocconi)

Il trasferimento dell’Università Statale alla Ca’ Granda

È il 1958 quando le Facoltà umanistiche, gli uffici direttivi e il rettorato dell’Università degli Studi di Milano si trasferiscono presso il complesso dell’antico ospedale sforzesco di via Festa del Perdono, la cosiddetta Cà Granda, appena ricostruita dopo i danni subiti durante i bombardamenti alleati. Il trasferimento dell’Università Statale nella prestigiosa sede dell’Ospedale Maggiore, in realtà, era stato già immaginato negli anni Trenta, sotto il fascismo, con l’inizio dei lavori per la costruzione del nuovo ospedale cittadino di Niguarda. La storica Cà Granda, destinata a rimanere libera dai servizi del nosocomio, poteva ben accogliere aule e uffici di una università all’epoca di nuova fondazione. Tuttavia, dovevano trascorrere più di due decenni perché, al termine della Seconda guerra mondiale e caduto il regime, si giungesse al restauro dell’edificio e alla sua assegnazione all’Ateneo milanese. Nel frattempo, il Comune di Milano, proprietario del complesso architettonico, lo cedeva al demanio dello Stato, in permuta con il Palazzo Reale.

Il contributo intende soffermarsi su vicende note, con l’intento di cogliere i nessi tra le ragioni della politica, le scelte dell’amministrazione locale e le esigenze dell’università, soprattutto attraverso il coinvolgimento dei suoi rettori. A far da sfondo alle sorti della Cà Granda, infatti, sono gli assetti economici, sociali e giuridici, oltre beninteso alle opzioni architettoniche e urbanistiche di una città come Milano che, nel Ventennio, conosce importanti innovazioni e, nel secondo dopoguerra, è in larga misura da ricostruire.

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Alessandro Balducci (Politecnico di Milano)

Milano: nuove strategie urbane e territoriali per gli insediamenti universitari

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Giorgia Predari (Università di Bologna)

La nascita dell’Università moderna. Bologna 1888-1940

L’Università di Bologna ha origini molto antiche, che la indicano come la prima Università del mondo occidentale. Lo Studium bolognese nasce nel 1088, data convenzionalmente assunta per indicare il periodo in cui inizia nella città un insegnamento libero e indipendente. Nel 1888, in occasione dell’ottavo centenario, si riuniscono a Bologna tutte le università del mondo per onorare la Madre delle Università. Contemporaneamente, si apre un nuovo capitolo nella storia urbanistico- edilizia bolognese. Il sistema di relazioni che nasce con lo Stato italiano determina nuove esigenze in termini di infrastrutture e di trasporto pubblico. All’interno delle mura vengono realizzati nuovi connettori viari, fortemente influenzati sia dalla nascita della nuova linea ferroviaria che dalla necessità di regolamentare lo sviluppo urbanistico incontrollato fuori dalle mura. Infatti, sebbene Bologna non sia ancora un grosso centro industriale, all’interno della cinta muraria rinascimentale si raggiungono livelli di saturazione molto alti e le condizioni di abitabilità si riducono a causa dalla scarsa salubrità e della precarietà strutturale di molte abitazioni. Le trasformazioni urbane sono sancite mediante l’approvazione, nel 1889, del Piano Regolatore Generale, il primo vero strumento urbanistico adottato dal Comune di Bologna. Questa si configura come un’utile occasione per unire le forze dell’Università e della città nel reciproco tentativo di uscire dalla crisi. All’interno del Piano Regolatore del 1889 si collocano infatti le proposte avanzate dal rettore Cappellini sulla sistemazione edilizia dell’Università per dotare l’ateneo di nuove aule, laboratori e biblioteche. Il Piano Regolatore prevedeva infatti un rettifilo (poi divenuto via Irnerio, via dei Mille, via Don Minzoni) che, attraversando via Indipendenza, fungesse da cardine per l’urbanizzazione di zone ancora libere entro le mura, alcune delle quali di proprietà dell’Università, costituendo la premessa per una sua ristrutturazione organica, che ponesse Palazzo Poggi al centro di un complesso di nuovi istituti destinati all’insegnamento e alla ricerca. Il piano Capellini ebbe attuazione grazie ad una prima convenzione tra Università ed enti locali bolognesi per l’edificazione di nuovi edifici universitari, attuata nel 1899; entro il 1905 vennero costruiti gli edifici degli Istituti di Anatomia umana e patologica, quello di Fisica e quello di Mineralogia. Interventi di ristrutturazione interessarono Palazzo Poggi e venne aperta una piazza di collegamento tra via Zamboni e via Belle Arti.

Nel 1911, una seconda convenzione firmata tra il sindaco Giuseppe Tanari ed il rettore Vittorio Puntoni diede un nuovo volto moderno ed elegante al quartiere universitario, su modello francese, grazie alla costruzione degli istituti di Chimica generale, Zoologia, Anatomia comparata, Patologia generale, Igiene, Veterinaria. Nell’area del Sant’Orsola, tra il 1911 e il 1914, vennero ampliati gli edifici esistenti, con la costruzione della Clinica medica, ostetrica, ginecologica e della camera mortuaria, attorno alla quale più avanti sorgerà il nuovo Istituto di Anatomia patologica. Infine, nel 1929, una terza convenzione consentì la costruzione dei nuovi istituti di Igiene, Geodesia e Chimica farmaceutica. Appartengono a questa fase anche alcuni dei gioielli del patrimonio universitario, quale la nuova sede di Ingegneria, collocata al di fuori di porta Saragozza, progettata dall’architetto Giuseppe Vaccaro, e gli Istituti di Zoologia, Anatomia, Istologia e Antropologia, con museo centrale comune da collocare in un grande edificio iniziato nel 1932 e terminato nel 1934. Il 12 dicembre 1936, sotto la supervisione del rettore Alessandro Ghigi, verrà firmata una ulteriore convenzione per il completamento della sistemazione edilizia dell’Università e del Policlinico universitario di S. Orsola.

Il contributo vuole quindi mostrare le fasi di sviluppo e ampliamento della città universitaria bolognese in questi 50 anni di storia, evidenziandone la dinamicità, le scelte costruttive e di definizione urbanistica. Il piano Cappellini si distingue infatti tuttora per l’originalità e l’attualità delle due concezioni su cui si fonda, che possono identificarsi nella necessità di un piano organico d’insieme per la ristrutturazione dell’Università, in grado di pianificare sistematicamente tutti gli interventi necessari superando il tradizionale modo di procedere frammentario e privo di una visione unitaria del problema, unitamente ad un metodo di definizione degli interventi e della loro realizzazione che preveda un continuo confronto ed un’attenta partecipazione da parte degli Enti locali.

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Daniela Novarese (Università di Messina)
Alla ricerca dell’identità perdutaLa ricostruzione dell’Università di Messina fra traumi post-terremoto e politiche di regime

In parte distrutto, in parte fortemente danneggiato, come la città peloritana, dal disastroso sisma del 28 dicembre del 1908, l’Ateneo messinese diventa uno dei simboli della ricostruzione e della rinascita cittadina. Lo scoppio della Prima guerra mondiale ne ritarda ulteriormente la ricostruzione fra le molte polemiche che riguardano la rifondazione dell’Università (che si vorrebbe abolita a favore della costituzione di un Politecnico a Bari) e della stessa città. Fondamentale nell’opera di ricostruzione di entrambe, e dunque alla base della ricerca di un nuovo fondamento identitario della Messina post-terremoto, l’impegno dell’arcivescovo Angelo Paino e del governo fascista che consentono la rifondazione dell’Ateneo sottolineandone la vocazione storica di Università dell’area dello Stretto. Oltre la sede centrale, in stile eclettico, inaugurata nel 1927, su quella che era stata la sede dell’antico Studium Societatis Jesu, prima Università gesuitica (1548) nell’evidente tentativo di recuperare il legame con il passato, i nuovi edifici, costruiti tra la fine degli anni ‘20 e l’inizio del decennio successivo, seguono una logica “per poli”, essendo diffusi sul territorio urbano, quasi a presidio della nuova città.

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Vilma Fasoli (Politecnico di Torino)

Il “Palazzo degli Studi” di Trieste (1938-1950). La ricerca di un modello “antico”

Tra gli eventi volti a celebrare la visita di Benito Mussolini a Trieste (18 e 19 settembre 1938) si colloca la posa della prima pietra per la costruzione del “Palazzo degli Studi”. Da tempo gli amministratori locali discutevano sulla necessità di trovare una sede adeguata alle Facoltà provvisoriamente ospitate in diversi edifici della città, ma ora le esigenze della politica e l’“intendimento” di Benito Mussolini di concentrare in un unico edificio le Facoltà universitarie avevano impresso un’accelerazione alla definizione progettuale dell’Ateneo. Non un bando di concorso, ma un affidamento di incarico diretto all’architetto fiorentino Raffaele Fagnoni e al triestino Umberto Nordio che avrebbero elaborato il progetto nel giro di un solo mese (giugno 1938). Non una collocazione all’interno della città, ma una posizione isolata su un pianoro di sette ettari sul colle di Guardiella in corrispondenza della diramazione delle strade verso l’Istria (verso Fiume e Postumia) e verso il mondo slavo. Sebbene di recente alcuni contributi scientifici abbiano offerto raffinate proposte interpretative del carattere monumentale e scenografico conferito al progetto per il “Palazzo degli Studi” di Trieste, non sembrano ancora chiariti e approfonditi i significati e i valori simbolici che si celano dietro la sua architettura. A destare non pochi interrogativi è soprattutto il riferimento, che ricorre nei giornali dell’epoca e nella critica architettonica coeva, all’“Acropoli” e all’“Altare di Pergamo”, ovvero a modelli fino ad allora non contemplati da una retorica fascista che, anche per Trieste, si era mossa nel “segno di Roma”. Una virata verso i riferimenti alla Grecia classica ed ellenistica che, se da un lato conferiva al mondo latino radici più profonde e antiche, fissandone i legami di continuità, dall’altro ne rafforzava il ruolo e il dominio storicamente esercitati nel bacino del Mediterraneo. Un modello così “antico” e così esteso da legittimare il suo colonialismo “civilizzatore” (dalla Libia, all’Albania, al Dodecaneso, oltre alla sua presenza in Istria), così come la riconquista del titolo imperiale, ma che soprattutto all’indomani dell’intesa dell’Asse (ottobre 1936) potesse arginare quel clima di sudditanza che si era diffuso nei confronti del mondo germanico. Il “Palazzo degli Studi” di Trieste sarebbe stato completato nel 1950, ma da questo momento lungo il “confine” avrebbe rappresentato la roccaforte dell’italianità contro la cultura slavo-comunista.

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Laura Baratin, Alessandra Cattaneo, Alice Devecchi (Università di Urbino) Francesca Gasparetto (Università Politecnica delle Marche)L’Università di Urbino, gli interventi di Giancarlo De Carlo,
un rapporto tra edilizia storica e i nuovi Collegi con un’ottica alle problematiche future

Dopo l’emanazione del nuovo Ordinamento dell’Istruzione superiore, nel 1923, l’Università ha conservato il riconoscimento di Università libera ed il relativo Statuto è stato approvato con Regio Decreto dell’8 febbraio 1925 (n. 230), successivamente aggiornato, a partire dal 1929. Lo statuto di Università libera poggia ancora sull’art. 4 del Testo unico delle leggi sull’Istruzione superiore, 1933: “Le Università e gli Istituti superiori liberi non hanno contributo a carico del bilancio dello Stato” e sull’art. 14 della legge 18 del dicembre 1951 (n. 1551): alle Università libere “può” essere concesso un contributo “a compenso delle minori entrate determinate dall’entrata in vigore della presente legge” (che esonerava dal pagamento delle tasse varie categorie di studenti di condizioni disagiate). Alla ripresa, dopo la Prima guerra mondiale, l’Università era così composta: l’antica Facoltà di Giurisprudenza, arricchita nei suoi insegnamenti; la Facoltà di Farmacia, costituita sull’antica scuola, a partire dal 1933, e la Facoltà di Magistero, istituita con Regio Decreto del 27 ottobre 1937 (n. 2038) che potenziò vigorosamente l’Ateneo con il notevole afflusso di studenti da tutt’Italia. Nel 1947, nonostante la crisi determinata dalla Seconda guerra mondiale, gli iscritti erano 3.150 e l’anno precedente si erano aperti anche i Corsi estivi. Carlo Bo nel Discorso inaugurale di quell’anno accademico commentava che “la vita moderna porta a correzioni e a mutamenti anche nel campo degli studi, bisogna saper cogliere il momento opportuno per queste innovazioni”. Sembra il programma dei cinquantaquattro anni di rettorato di Carlo Bo (al quale nel 2003 è stata intitolata l’Università) in cui si inserisce l’attività di Giancarlo De Carlo.

Il nostro contributo intende ripercorrere diversi aspetti relativi alla crescita dell’Ateneo, all’attività di Giancarlo De Carlo nelle sedi storiche (Palazzo Battiferri sede della Facoltà di Economia, Palazzo Volponi sede di Magistero e la sede della Facoltà di Giurisprudenza) e nella costruzione dei nuovi Collegi universitari. I Collegi sono progettati tra il 1959 e 1982 e rappresentano ancora un esempio di architettura innovativa e sperimentale, sviluppatasi in un contesto particolare come quello di una piccola città universitaria italiana, in pieno sviluppo negli anni Sessanta. Il progetto si articola su vari piani e gli ambienti interni con gli arredi sono parte integrante e caratterizzante dello stesso. Ad oggi questi edifici sono ancora attivi e sono abitati da circa 1.300 studenti. Il presente contributo si occuperà inoltre di alcuni aspetti legati anche alla conservazione partecipata nel particolare caso di un’architettura ancora attiva nella sua funzione originaria, sempre nell’ottica di come l’Università può trasformare la città e viceversa.

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Elisa Signori (Università di Pavia)

L’Università di Pavia, i progetti postbellici e il piano De Carlo

Nel secondo dopoguerra l’Ateneo di Pavia affrontò per tempo il problema della sua espansione strutturale e funzionale e, in particolare dopo il varo della legge 641/1967 che consentiva interventi finanziari a favore dello sviluppo dell’edilizia universitaria, diede vita a un intenso dibattito, dentro e fuori della comunità accademica, circa il futuro dell’Università nel contesto urbano. Tale dibattito, di ampio respiro, ben avvertito della necessità di travalicare i problemi strutturali strictu senso per coniugare la riflessione sui modelli universitari con le peculiari caratteristiche di una città da secoli a spiccata vocazione universitaria, diede frutti interessanti, grazie ai lavori di apposite commissioni dell’Ateneo e grazie al confronto con l’opinione pubblica cittadina testimoniato nella stampa, locale e non. L’evoluzione di questo sforzo progettuale conobbe una svolta con l’incarico affidato a Giancarlo De Carlo e all’innesto, in gran parte contradditorio rispetto alle impostazioni precedenti, di un modello universitario multipolare, “a costellazione”, elaborato appunto nel “Piano De Carlo”. Su tale base si giunse poi a una parziale realizzazione edilizia nel corso degli anni Ottanta. La vicenda è connotata da un intreccio di relazioni, talvolta conflittuali e dissonanti, tra istituzioni

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universitarie, istituzioni amministrative e politica locale, che si snodano tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta in una fase di radicale metamorfosi del sistema universitario nazionale e internazionale. La ricerca ricostruisce criticamente la tela di questa rivelatrice vicenda di rinnovamento, che coinvolge le strutture visibili e invisibili dell’Università ticinese, ridisegna la “sociabilité” accademica e studentesca – ad esempio tramite la rete dei collegi – rimodellando nel contempo la città e il suo impianto urbanistico. L’Archivio universitario, con la documentazione prodotta dalle diverse commissioni impegnate nella fase di progettazione e discussione, le carte del Rettorato, gli studi dell’Ufficio tecnico, l’Archivio comunale con i verbali dei consigli e i carteggi, i dossier relativi al rapporto con il ministero (ACS), la stampa locale e regionale, infine le testimonianze autobiografiche dei protagonisti costituiscono un corposo ambito di ricognizione a fondamento dell’indagine.

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Maria Luisa Ferrari (Università di Verona)

Un patrimonio edilizio composito: ex conventi, edifici militari austriaci, palazzi nobiliari e nuove costruzioni. Il caso dell’Università di Verona

La nascita dell’Università di Verona con l’istituzione della Facoltà di Economia e Commercio nel 1959 può considerarsi frutto tangibile del “miracolo economico” e della volontà politica di favorire la crescita del capitale umano locale. Il mio contributo intende ripercorrere diversi aspetti relativi alla genesi, alla crescita dell’Ateneo, alla collocazione urbanistica del primo nucleo universitario, su cui si incentra l’indagine, alle ricadute sul quartiere di Veronetta e all’interazione con la città. Un’attenzione specifica sarà riservata ai seguenti temi:

– La storia dell’Università scaligera.
– La collocazione della sede dell’Ateneo, presumibilmente casuale, legata al lascito del palazzo nobiliare della famiglia Giuliari.
– Le tappe della crescita del patrimonio edilizio dell’Ateneo nelle aree limitrofe al primo insediamento, fino al progetto del “campus universitario” e alle recenti realizzazioni.
– Gli edifici storici riconvertiti quali gli ex conventi di Santa Maria delle Vittorie, di San Francesco e delle Maddalene, impiegati con funzioni militari durante la dominazione austriaca, i palazzi Giuliari e Zorzi e soprattutto l’ex-panificio militare di Santa Marta, esempio di archeologia industriale asburgica recentemente oggetto di un rilevante intervento di recupero, insignito del prestigioso riconoscimento della medaglia d’oro per l’architettura della triennale di Milano.
– Il quartiere di Veronetta nella sua evoluzione demografica e sociale dal dopoguerra ad oggi.
– L’Università e il quartiere.
– Confronti con altre città a recente o recentissima vocazione universitaria.

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Michela Favero, Bruno Zanon, Giancarlo Buiatti (Università di Trento)

Trento città universitaria. Architettura e spazi urbani

Molte università prestigiose, a livello internazionale e italiano, sono collocate in città di dimensioni medio-piccole, delle quali caratterizzano l’economia e la stessa identità. I fattori che qualificano una città universitaria e le assicurano funzionalità e competitività sono abbastanza semplici, ma è la loro combinazione a definire condizioni di successo o di crisi. Da un lato si pongono le istituzioni accademiche e il sistema della ricerca, cui si connettono le imprese più dinamiche, se è presente un ambiente socio-economico in grado di apprendere ed innovare e le amministrazioni pubbliche forniscono un solido quadro di riferimento. Dall’altro emerge il ruolo dello spazio urbano, la cui gestione deve sapere accogliere e valorizzare le sedi accademiche – con le attrezzature e i servizi relativi – raccordandole agli spazi di vita della comunità locale. Non è facile trovare un equilibrio tra funzioni rivolte ai cittadini e azioni orientate all’università e ai suoi fruitori – in buona misura esterni. In questa prospettiva, l’organizzazione urbanistica e le scelte architettoniche giocano un ruolo rilevante.

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Lo studio del caso di Trento, nel suo processo breve ma intenso di crescita ed affermazione quale città universitaria, appare di particolare interesse. L’Università di Trento è recente, essendo stata fondata nei primi anni ‘60 del Novecento. È l’esito di un preciso programma di formazione della classe dirigente di un territorio appartato, che rischiava di non essere in grado di gestire il cambiamento e di non sapere cogliere le opportunità di sviluppo socio-economico che si stavano profilando dopo la ricostruzione post-bellica. Tale intento è bene riconoscibile nella scelta di istituire una Facoltà di Sociologia, affrontando le domande di una società in rapido mutamento con un approccio disciplinare innovativo. In seguito, la missione è cambiata e si è ampliata, potendo riconoscere orientamenti differenti: quello della formazione di un ceto tecnico-professionale (istituzione delle Facoltà scientifico-tecnologiche e delle discipline economiche, giuridiche e umanistiche) e quello, più recente, della sfida dell’innovazione e della ricerca, sia per sostenere lo sviluppo economico che per rafforzare l’attrattività dell’Ateneo. La storia dell’Università di Trento è stata indagata in numerose occasioni e da diversi punti di vista, testimoniando l’esigenza di riflettere sulle vicende che ne hanno caratterizzato lo sviluppo e sulle sfide che continuamente si pongono. Il contributo intende ripercorrere, sullo sfondo delle discussioni politico-amministrative e degli esiti socio-economici, le scelte compiute in merito alla collocazione e alla organizzazione delle sedi, indagando il ruolo delle strutture universitarie nello spazio urbano. L’attenzione è posta sia sulle scelte funzionali e architettoniche che hanno caratterizzato i diversi progetti – alcuni dei quali di grande interesse – sia sugli effetti urbani e sul vissuto della comunità. L’Università di Trento è nata ed è cresciuta in stretta relazione con le istituzioni locali, in particolare la Provincia autonoma di Trento, che per il tramite dell’Istituto Trentino di Cultura ha fondato la Facoltà di Sociologia ed in seguito altri corsi di laurea. La Provincia ha quindi affiancato l’Ateneo, divenuto statale, sostenendo iniziative didattiche e di ricerca. In particolare, ha finanziato la costruzione delle sedi entro un programma che, nel corso degli anni Duemila, è divenuto davvero impegnativo, configurando un assetto ben riconoscibile dell’istituzione accademica e segnando gli spazi e le funzioni delle città di Trento e di Rovereto. Infine, ha assunto l’onere del finanziamento dell’Università. In breve, l’Università di Trento conta 16.000 studenti, 600 docenti e ricercatori, 700 unità di personale tecnico-amministrativo, numerosissimi collaboratori. Si tratta di valori importanti, che vedono orientare pezzi di economia locale (accoglienza, alloggi, ristorazione, commercio) verso il mercato universitario. Inoltre, i fattori di prossimità tra ateneo, istituzioni e imprese agevolano le relazioni informali e le collaborazioni, che consentono di qualificare molte delle attività amministrative ed economiche. La ricostruzione delle scelte operate deve tenere conto della complessità dei processi decisionali ed attuativi, improntati ad atteggiamenti diversi – non sempre collaborativi – tra i diversi attori istituzionali, entro una progressiva maturazione della consapevolezza del ruolo dell’università nel sistema sociale ed economico. Si riconosce, da un lato, la volontà di rimarcare la funzione dell’istituzione accademica dandole spazio in edifici di prestigio e in posizioni centrali, mentre, dall’altro, emergono scelte caratterizzate dalla provvisorietà (la disponibilità di edifici dismessi), cui è seguito un progressivo consolidamento delle sedi. L’esito attuale è bene riconoscibile in un assetto per poli: discipline umanistiche, sociali, economiche e giuridiche nei pressi del centro storico di Trento (“polo di valle”); discipline tecnologiche e scientifiche sulla collina a est (“polo di collina”); discipline psicologiche e cognitive a Rovereto. Tale quadro ha richiesto la realizzazione di interventi di grande impegno, sia nel restauro di edifici di interesse storico culturale (settecenteschi a Rovereto, otto-novecenteschi a Trento) che costituiscono elementi importanti della cultura urbana, sia nella realizzazione di edifici nuovi, caratterizzati da grande qualità architettonica e dall’uso esteso di attrezzature tecnologiche. Nel complesso, il patrimonio edilizio delle strutture universitarie nelle città di Trento e Rovereto ha raggiunto in soli cinquant’anni anni una superficie di circa 230.000 mq di spazi destinati ad aule didattiche, biblioteche, strutture polifunzionali, laboratori, ecc. Gli esiti riguardano non solo le risposte date alle esigenze accademiche ma anche la formazione di aree urbane caratterizzate dalla presenza universitaria e il rilancio dell’economia urbana. Sia a Trento che, in particolare, a Rovereto, l’economia industriale è giunta da tempo ad una fase di declino, con la chiusura di stabilimenti che impiegavano diverse centinaia di addetti. L’avvio di una economia basata sulla formazione, la conoscenza e l’innovazione è in parte assodato e il quadro socio-economico e la vita culturale del sistema trentino sono ormai strettamente connessi alla presenza dei centri universitari e della ricerca.

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Infine va sottolineato come la capacità attrattiva di Trento e di Rovereto sia fondata in buona parte sulle istituzioni accademiche, culturali (MUSE a Trento, MART a Rovereto), sui centri di ricerca (FBK). Questo quadro sostiene la capacità di attivare o rinnovare iniziative di richiamo (Festival del Cinema di montagna, Festival dell’Economia) e di avviare processi di recupero di grandi complessi produttivi dismessi per dare spazio ai luoghi della nuova economia (la Manifattura Tabacchi a Rovereto). L’attrattività, in ogni caso, per uno studente o un ricercatore, è connessa anche alla qualità del sistema urbano e del contesto alpino più in generale, che assicurano livelli di vivibilità elevati, accomunando Trento alle piccole città sedi di grandi università di livello internazionale.

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