Verso il Getsemani con undici apostoli. L’agonia spirituale e la cattura. Secondo Maria Valtorta
La via è tutta silenziosa. Solo una fontanella che ricade in un bacino di pietra mette un suono in tanto silenzio. Lungo i muri delle case, dal lato d’oriente, vi è ancora oscurità, mentre dall’altro lato la luna comincia a fare bianco il sommo delle case e, dove la via allarga in una piazzetta, ecco che il latteo argenteo della luna scende a far belli anche i ciottoli e la terra della via. Ma sotto i frequenti archivolti che vanno da casa a casa, simili a ponti levatoi od a puntelli a queste vecchie case dalle scarsissime aperture sulle vie, e che in quest’ora sono tutte chiuse e buie come fossero case abbandonate, vi è l’oscurità perfetta, e il rossastro della torcia portata da Simone acquista una singolare vivezza e un’ancora più grande utilità. I visi, in quella luce rossa e mobile, si mostrano con un rilievo netto e, tanti quanti sono, rivelano altrettanti e diversi stati d’animo. Il più solenne e calmo è quello di Gesù. Per quanto una stanchezza lo invecchi marcandolo di linee che solitamente non ha e che fanno già apparire la futura effigie del suo volto ricomposto nella morte. Giovanni, che gli è al fianco, gira uno sguardo stupefatto, dolente, su tutto quanto vede. Sembra un fanciullo terrorizzato da qualche racconto udito o da qualche promessa paurosa e che invochi aiuto da chi sa di più di lui. Ma chi gli può dare aiuto? Simone, che è all’altro fianco di Gesù, ha il viso chiuso, cupo, di chi rimugina in sé pensieri atroci. Ed è ancora l’unico che, dopo Gesù, mostri un aspetto dignitoso. Gli altri, in due gruppi che continuamente si alternano nella loro formazione, sono tutto un fermento. E ogni tanto la voce rauca di Pietro o quella baritonale di Tommaso si elevano con risonanza strana. Poi si riabbassano, come paurosi di quello che dicono. Discutono sul da farsi, e chi propone l’una e chi l’altra cosa. Ma cadono tutte le proposte, perché realmente sta per iniziarsi “l’ora delle tenebre” e i giudizi umani restano oscurati e confusi. «Bisognava dirmelo prima», arrangola Pietro. «Ma non uno ha parlato. Non il Maestro…», dice Andrea. «Sì! Proprio Lui te lo diceva. Ma fratello! Sembra che tu non lo conosca!…», gli risponde Pietro. «Io sentivo qualche cosa di turbato. E l’ho detto: “Andiamo a morire con Lui”. Ve lo ricordate? Ma, per il nostro santissimo Iddio, se avessi saputo che era Giuda di Simone!…», tuona Tommaso minaccioso. «E che volevi fare?», chiede Bartolomeo. «Io? Io farei anche ora se mi aiutaste!». «Cosa? Partiresti per ucciderlo? E dove?». «No. Porterei via il Maestro. É più semplice». «Non verrebbe! » «Non gli chiederei se verrebbe. Lo rapirei come si rapisce una donna». «Non sarebbe una malvagia idea!», dice Pietro. E impulsivo torna indietro, si mette nel gruppo dei due figli di Alfeo che con Matteo e Giacomo bisbigliano piano come congiurati. «Sentite, dice Tommaso di portare via Gesù. Tutti insieme. Si potrebbe… dal Get-Samnì per Betfage a Betania e di là… vela per qualche posto. Lo facciamo? Messo in salvo Lui, si torna e si stermina Giuda». «É inutile. Israele è tutta una trappola», dice Giacomo d’Alfeo. «Ed ora è prossima a chiudersi. Lo si capiva. Troppo odio!». «Ma, Matteo! Mi fai rabbia! Avevi più coraggio quando eri peccatore! Di’ tu, Filippo». Filippo, che viene solo solo e pare monologare fra sé, alza il viso e si ferma. Pietro lo raggiunge e bisbigliano fra loro. Poi raggiungono il gruppo di prima: «Io direi che il posto migliore è nel Tempio», dice Filippo. «Sei matto?», urlano i cugini, Matteo e Giacomo. «Ma se là lo vogliono morto!». «Sss! Quanto baccano! So quello che mi dico. Lo cercheranno da per tutto. Ma non lì. Tu e Giovanni avete buone amicizie fra i servi di Anna. Si dà un bel boccone d’oro… e tutto è fatto. Credete! Il posto migliore per nascondere uno ricercato è in casa dei carcerieri». «Io non lo faccio», dice Giacomo di Zebedeo. «Però, senti anche gli altri. Giovanni per primo. E se poi lo arrestano? Non voglio che si dica che sono io il traditore…». «Non ci avevo pensato. E allora?». Pietro è annichilito. «E allora io direi che è pietoso fare una cosa. L’unica che possiamo. Portare via la Madre…», dice Giuda d’Alfeo. «Già!… Ma… Chi ci va? Che le si dice? Va’ tu, parente». «Io resto con Gesù. É mio diritto. Va’ tu». «Io?! Mi sono armato di spada per morire come Eleazaro di Saura. Traverserò legioni per difendere il mio Gesù e colpirò senza ritegno. Se la forza dei più mi ucciderà, non importa. Lo avrò difeso», proclama Pietro. «Ma sei proprio sicuro che è l’Iscariota?», chiede Filippo al Taddeo. «Ne sono sicuro. Nessuno di noi ha cuore di serpe. Solo lui… Va’ tu, Matteo, da Maria e dille…» «Io? Ingannarla? Vederla al mio fianco ignara, e poi?… Ah! no. Sono pronto alla morte, ma non a tradire quella colomba…» Le voci si mischiano in un sussurro. «Odi? Maestro, noi ti amiamo», dice Simone. «Lo so. Non ho bisogno di quelle parole per saperlo. E se danno pace al cuore del Cristo esse feriscono la sua anima». «Perché, Signor mio? Sono parole d’amore». «Di tutto umano amore. In verità, in questi tre anni non ho fatto nulla, perché voi siete ancora più umani della prima ora. Lievitano in voi tutti i fermenti più fangosi, questa sera. Ma non è colpa vostra…». «Salvati, Gesù!», geme Giovanni. «Mi salvo». «Sì? Oh! Mio Dio, grazie!». Giovanni pare un fiore piegato da arsione e che torni fresco sullo stelo. «Lo dico agli altri. Dove andiamo?». «Io alla morte. Voi alla Fede». «Ma non avevi detto ora che ti salvavi?». Il prediletto si accascia di nuovo. «Mi salvo, infatti, mi salvo. Se non ubbidissi al Padre mi perderei. Ubbidisco. Perciò mi salvo. Ma non piangere così! Sei meno bravo dei discepoli di quel filosofo greco di cui ti parlai un giorno. Essi rimasero presso il maestro morente per cicuta, confortandolo col loro virile dolore. Tu… tu sembri un pargolo che abbia perduto suo padre». «E non è forse così? Più che se perdessi il padre, io perdo! Perdo Te…». «Non mi perdi poiché continui a volermi bene. É perduto uno che è da noi separato dalla dimenticanza sulla Terra e dal giudizio di Dio nell’al di là. Ma noi non saremo separati. Mai. Né da questo, né da quello». Ma Giovanni non intende ragioni. Simone si fa ancora più vicino a Gesù e gli confida sottovoce: «Maestro… io… io e Simon Pietro speravamo di fare qualche cosa di buono… Ma… Tu che sai tutto, dimmi: fra quante ore pensi essere catturato?». «Non appena la luna è al colmo del suo arco». Simone ha un atto di dolore e di impazienza, per non dire di stizza. «Allora tutto fu inutile… Maestro, ora ti spiego. Tu hai quasi rimproverato me e Simon Pietro per averti lasciato tanto solo in questi ultimi giorni… Ma eravamo lontani per Te… per amore di Te. Pietro, nella notte del lunedì, impressionato dalle tue parole, è venuto da me mentre dormivo e mi ha detto: “Io e te, di te mi fido, dobbiamo fare qualche cosa per Gesù. Anche Giuda ha detto di volersene occupare”. Oh! perché non abbiamo capito allora? Perché non ci hai detto nulla Tu? Ma, dimmi, a nessuno lo hai detto? Proprio a nessuno? Forse lo hai compreso solo poche ore fa?». «L’ho sempre saputo. Prima ancora che egli fosse nei discepoli. E perché il suo delitto non fosse perfetto, e nel divino e nell’umano, ho cercato in tutti i modi di allontanarlo da Me. Coloro che vogliono che Io muoia sono i carnefici di Dio. Questo, mio discepolo e amico, è anche il traditore, il carnefice dell’Uomo. Il mio primo carnefice, perché mi ha già fatto morto con lo sforzo di averlo al fianco, alla mensa, e di doverlo proteggere con Me stesso contro voi». «E nessuno lo sa?». «Giovanni. Gliel’ho detto alla fine della Cena. Ma che avete fatto?». «E Lazzaro? Non sa proprio nulla Lazzaro? Oggi fummo da lui, perché egli è venuto di prima mattina, ha sacrificato ed è ripartito senza neppure fermarsi al suo palazzo né andare al Pretorio. Perché lui ci va sempre, per consuetudine presa dal padre. E Pilato, lo sai, c’è in città, in questi giorni…». «Sì. Tutti ci sono. C’è Roma, la nuova Sionne, con Pilato. C’è Israele con Caifa ed Erode. C’è tutto Israele, perché la Pasqua ha raccolto i figli di questo popolo ai piedi dell’altare di Dio… Hai visto Gamaliele?». «Si. Perché questa domanda? Lo devo rivedere anche domani…». «Gamaliele questa sera è a Betfage. Lo so. Quando saremo giunti al Getsemani tu andrai da Gamaliele e gli dirai: “Fra poco avrai il segno che attendi da ventun’anni”. Null’altro. Poi tornerai coi compagni». «Ma come lo sai? Oh! Maestro mio, povero Maestro che non hai neppure il conforto di ignorare le opere altrui!». «Dici bene! Il conforto di ignorare! Povero Maestro! Perché sono più le opere malvagie delle buone. Ma vedo anche quelle buone e ne giubilo». «Allora Tu sai che…». «Simone, è la mia ora di passione. Per renderla più completa il Padre mi ritira la luce man mano che si approssima. Fra poco non avrò che tenebre e la contemplazione di ciò che è tenebre: ossia tutti i peccati degli uomini. Non puoi, non potete capire. Nessuno, meno chi sarà a ciò chiamato da Dio per speciale missione, comprenderà questa passione nella grande Passione e, poi che l’uomo è materiale anche nell’amare e nel meditare, ci sarà chi piangerà e soffrirà per le mie battiture, per le torture del Redentore, ma non si misurerà questa spirituale tortura che, credetelo voi che mi udite, sarà la più atroce… Parla, perciò, Simone. Guidami sui sentieri dove la tua amicizia andò per Me, perché Io sono un povero che accieca e che vede fantasmi, non cose reali…». Giovanni lo strige e chiede: «Che? Non vedi più il tuo Giovanni?». «Ti vedo. Ma i fantasmi sorgono dalle nebbie di Satana. Visioni d’incubo e dolore. Tutti siamo avvolti in questo miasma d’inferno, questa sera. In Me cerca di creare viltà, disubbidienza e dolore. In, voi creerà delusione e paura. In altri, che pure non sono né paurosi né delinquenti, darà delinquenza e pavidità. In altri, che già sono di Satana, darà il pervertimento soprannaturale. Dico così perché la loro perfezione nel male sarà tale da superare le umane possibilità e raggiungere il perfetto che è sempre nel sopraumano. Parla, Simone». «Sì. Da martedì non facciamo che andare per sapere, per prevenire, per cercare aiuti». «E che avete potuto fare?». «Nulla. O ben poco». «E il poco sarà “nulla” quando la paura paralizzerà i cuori». «Mi sono anche urtato con Lazzaro… La prima volta che mi avviene… Urtato, perché mi parve inerte… Lui potrebbe fare. É amico del Governatore. E sempre il figlio di Teofilo! Ma Lazzaro ha respinto ogni mia proposta. L’ho lasciato urlando: “Io penso che l’amico di cui parla il Maestro sia tu. Mi fai orrore!”, e non volevo più tornare da lui… Ma questa mattina egli mi ha chiamato e detto: “Puoi ancora pensare che sia io il suo traditore?”. Io avevo già visto Gamaliele e Giuseppe e Cusa, e Nicodemo e Mannaen, ed infine tuo fratello Giuseppe… e non potevo più credere questo. Gli ho detto: “Perdona, Lazzaro. Ma mi sento la mente sconvolta più di quando ero io stesso un condannato”. Ed è così, Maestro… Io non sono più io… Ma perché sorridi?». «Perché ciò conferma quanto Io ti ho detto prima. La nebbia di Satana ti avvolge e turba. Che ha risposto Lazzaro?». «Ha detto: “Ti capisco. Vieni oggi, con Nicodemo. Ho bisogno di vederti”. E sono andato, mentre Simon Pietro è andato dai galilei. Perché tuo fratello, lui, da tanto lontano, ne sa più di noi. Dice che lo ha saputo per caso parlando con un vecchio galileo, amico di Alfeo e Giuseppe, che abita vicino ai mercati». «Ah!… sì… Un grande amico della casa…». «Egli è là con Simone e le donne. Vi è anche la famiglia di Cana». «Ho visto Simone». «Ebbene, Giuseppe da questo suo amico e amico di uno del Tempio, che è divenuto suo parente per donne, ha saputo che è decisa la tua cattura e ha detto a Pietro: “Io l’ho sempre combattuto. Ma per amore. E finché Egli era ancora forte. Ma, ora che diventa come un bambino in preda dei suoi nemici, io, parente che sempre l’ho amato, sono con Lui. É dovere di sangue e di cuore”». Gesù sorride, riavendo per un attimo il viso sereno delle ore di gioia. «E Giuseppe ha detto a Pietro: “I farisei di Galilea sono aspidi come tutti i farisei. Ma la Galilea non è tutta farisei. E qui sono molti galilei che lo amano. Andiamo a dire loro di radunarsi per difenderlo. Non abbiamo che i coltelli. Ma anche i bastoni sono armi, se ben maneggiati. E, se non vengono le milizie romane, avremo presto ragione di quella canaglia vile che sono gli sgherri del Tempio”. E Pietro è andato con lui. Io intanto andavo da Lazzaro. Con Nicodemo. Avevamo deciso di persuadere Lazzaro a venire con noi e ad aprire la sua casa per stare con Te. Ci ha detto: “Devo ubbidire a Gesù e stare qui. A soffrire il doppio…”. É vero?». « È vero. Io gli ho dato questo ordine». «Però mi ha dato le spade. Sono sue. Una per me, una per Pietro. Anche Cusa voleva darmi le spade. Ma… Che sono due pezzi di ferro contro tutto un mondo? Cusa non può credere che sia vero quanto Tu dici. Giura che egli non sa nulla e che nella corte non c’è che il pensiero di godere della festa… Un bagordo come al solito. Tanto che egli ha detto a Giovanna di ritirarsi in una loro casa in Giudea. Ma Giovanna vuole rimanere qui. Chiusa nel suo palazzo, come se non ci fosse. Ma non si allontana. É con lei Plautina, Anna, Niche e due dame romane della casa di Claudia. Piangono, pregano e fanno pregare gli innocenti. Ma non è tempo di preghiere. Di sangue è tempo. Io sento tornare vivo lo “zelote” e ardo di uccidere per fare vendetta!…». «Simone! Se volevo farti morire maledetto, non ti levavo alla desolazione…». Gesù è severissimo. «Oh! perdono, Maestro… Perdono! Sono come un ebbro, un delirante». «E Mannaen che dice?». «Mannaen dice che non può essere vero e che, se lo fosse, egli ti seguirà anche nel supplizio». «Come tutti fidate di voi!… Quanta superbia è nell’uomo! E Nicodemo e Giuseppe? Che sanno?». «Nulla più di me. Tempo fa in una assemblea Giuseppe si prese col Sinedrio, perché li chiamò assassini volendo uccidere un innocente, e disse: “Tutto è illegale qui dentro. Lui dice bene. L’abbominio è nella casa del Signore. Questo altare va distrutto perché profanato”. Non lo lapidarono perché è lui. Ma da allora lo hanno tenuto all’oscuro di tutto. Solo Gamaliele e Nicodemo gli si sono conservati amici. Ma il primo non parla. E il secondo… Né lui né Giuseppe furono più chiamati al Sinedrio per le decisioni più vere. Esso si aduna illegalmente qua e là, ad ore diverse, per paura di loro e di Roma. Ah! dimenticavo!… I pastori. Anche loro sono coi galilei. Ma pochi siamo! Se Lazzaro avesse voluto ascoltarci e venire dal Pretore! Ma non ci ascoltò… Questo abbiamo fatto… Molto… e nulla… e io sono tanto accasciato che vorrei andare per la campagna urlando come uno sciacallo, abbrutendomi in un’orgia, uccidendo come un brigante, pur di levarmi questo pensiero che è “tutto inutile”, come ha detto Lazzaro, come ha detto Giuseppe e Cusa e Mannaen e Gamaliele…». Lo Zelote non sembra più lui… «Che ha detto il rabbi?». «Ha detto: “Io non so esattamente i propositi di Caifa. Ma vi dico che solo per il Cristo è profetizzato quanto dite. E siccome io non ammetto in questo profeta il Cristo, non trovo ci sia da agitarsi. Verrà ucciso un uomo, buono, amico di Dio. Ma di quanti suoi simili ha bevuto il sangue Sionne?!”. E poiché noi insistevamo sulla tua divina Natura, ha ripetuto cocciuto: “Quando vedrò il segno, crederò”. Ed ha promesso di astenersi dal votare la tua morte, e anzi, se sarà possibile, di persuadere gli altri a non condannarti. Questo, non più. Non crede! Non crede! Se si potesse giungere a domani… Ma Tu dici di no. Oh! che faremo noi?!». «Tu andrai da Lazzaro e cercherai di portare con te quanti più puoi. Non solo degli apostoli. Ma anche dei discepoli che troverai vaganti per le vie della campagna. Cerca di vedere i pastori e da’ loro questo ordine. La casa di Betania è più che mai la casa di Betania, la casa della buona ospitalità. Quelli che non hanno coraggio di affrontare l’odio di tutto un popolo si rifugino là. Ad attendere…». «Ma noi non ti lasceremo». «Non vi separate… Divisi, sareste un nulla. Uniti, sarete ancora una forza. Simone, promettimi questo. Tu sei pacato, fedele, hai parola e impero anche su Pietro. E hai un grande obbligo con Me. Te lo ricordo per la prima volta, per importi l’ubbidienza. Guarda, siamo al Cedron. Di lì sei salito a Me lebbroso e di lì sei partito mondato. Per quello che ti ho dato, dammi. Dàllo all’Uomo ciò che Io ho dato all’uomo. Ora il lebbroso sono Io…». «Nooo! Non lo dire!», gemono insieme i due discepoli. «Così è! Pietro, i fratelli miei saranno i più accasciati. Come un delinquente si sentirà l’onesto mio Pietro e non avrà pace. E i fratelli… Non avranno cuore di guardare la loro e la mia Madre… Te li raccomando…». «Ed io, Signore, di chi sarò? A me non pensi?» «O mio fanciullo! Tu sei affidato al tuo amore. E tanto forte che ti guiderà come una madre. Non ti do ordine né guida. Ti lascio sulle acque dell’amore. Sono in te un fiume tanto calmo e profondo che non mi mettono dubbio sul tuo domani. Simone, hai inteso? Promettimi, promettimi!». É penoso vedere Gesù tanto angosciato… Riprende: «Prima che vengano gli altri! Oh! grazie! Sii benedetto!». Tutto il gruppo si riunisce. «Ora dividiamoci. Io salgo in alto, a pregare. Con Me voglio Pietro, Giovanni e Giacomo. Voi rimanete qui. E, se foste sopraffatti, chiamate. E non temete. Non vi sarà torto un capello. Pregate per Me. Deponete odio e paura. Non sarà che un attimo… e poi la gioia sarà piena. Sorridete. Che Io abbia nel cuore i vostri sorrisi. E ancora grazie di tutto, amici. Addio. Il Signore non vi abbandoni…». Gesù si separa dagli apostoli e va avanti, mentre Pietro si fa dare da Simone la torcia dopo che questo ha acceso con essa degli sterpi resinosi, che bruciano scoppiettando sul limite dell’uliveto e spandendo un odore di ginepro. Mi fa pena vedere il Taddeo che guarda con uno sguardo talmente intenso e doloroso Gesù che questo si volge e cerca chi lo ha guardato. Ma il Taddeo si nasconde dietro a Bartolomeo e si morde le labbra per frenarsi. Gesù fa un gesto con la mano, fra la benedizione e l’addio, e poi prosegue il suo cammino. La luna, ormai ben alta, circonda della sua luce la sua alta figura e pare renderla anche più alta, spiritualizzandola, facendone più chiara la veste rossa e più pallido l’oro dei capelli. Dietro a Lui affrettano il passo Pietro con la torcia e i due figli di Zebedeo. Proseguono sino a raggiungere il limite della prima balza del rustico anfiteatro dell’uliveto, a cui fa da entrata la piazzuola irregolare e da gradinate le diverse balze che ascendono a scaglioni di ulivi sul monte, poi Gesù dice: «Fermatevi, attendetemi qui, mentre Io prego. Ma non dormite. Potrei avere bisogno di voi. E, ve lo chiedo per carità, pregate! Il vostro Maestro è molto accasciato». É infatti di un accasciamento già profondo. Pare già aggravato da un peso. Dove è più il virile Gesù che parlava alle folle, bello, forte, dall’occhio dominatore, il pacato sorriso, la voce sonora e bellissima? Pare già preso da un affanno. É come uno che ha corso o che ha pianto. Ha una voce stanca e affannata. Triste, triste, triste… Pietro risponde per tutti: «Sta’ tranquillo, Maestro. Vigileremo e pregheremo. Non hai che chiamarci, che verremo». E Gesù li lascia, mentre i tre si curvano a radunare foglie e sterpi per fare un fuocherello che serva a tenerli desti e anche a combattere la guazza che comincia a scendere abbondante. Cammina, volgendo loro le spalle, da occidente a oriente, avendo perciò in faccia la luce lunare. Vedo che un grande dolore fa ancor più dilatato l’occhio, forse è un bistro di stanchezza che lo allarga, forse è l’ombra dell’arco sopraccigliare. Non so. So che ha l’occhio più aperto e incavato. Sale a testa china, solo ogni tanto la alza con un sospiro, come facesse fatica e anelasse, e allora gira il suo occhio tanto triste sul placido uliveto. Fa qualche metro in salita, poi gira intorno ad uno scaglione, che rimane così fra Lui e i tre lasciati più in basso. Lo scaglione, alto pochi decimetri all’inizio, sale sempre più e dopo poco è alto più di due metri, di modo che ripara completamente Gesù da ogni sguardo più o meno discreto e amico. Gesù prosegue sino ad un grosso masso che ad un certo punto sbarra il sentieruolo, forse messo a sostegno alla costa che in giù scoscende più ripida e nuda sino ad una desolata macia, che precede le mura oltre le quali è Gerusalemme, e in su continua a salire con altri balzi e altri ulivi. Proprio sopra al grosso sasso si spenzola un ulivo tutto nodoso e contorto. Pare un bizzarro punto interrogativo messo dalla natura a chiedere qualche perché. I rami folti sulla cima danno risposta alla domanda del tronco, dicendo ora di si col piegarsi verso terra, ora di no dimenandosi da destra a manca, sotto un vento lieve che passa a ondate fra le fronde e che a volte sa soltanto di terra, a volte di quell’odore amarognolo dell’ulivo, alle volte di un misto profumo di rose e mughetti che non si sa da dove possa venire. Oltre il sentieruolo, in basso, sono altri ulivi, ed uno, proprio sotto al masso, fenduto da qualche fulmine eppure sopravvissuto, o scosciato per non so che causa, ha del tronco iniziale fatto due tronchi che salgono come le due aste di un grande V in stampatello, e le due chiome si affacciano al di qua e al di là del masso, come volessero vedere e velare nello stesso tempo, o far eI ad esso masso una base di un grigio argento tutto pace. Gesù si ferma lì. Non guarda la città che appare là in basso, tutta bianca nella luce lunare. Anzi le volge le spalle e prega a braccia aperte a croce, col volto alzato verso il cielo. E non vedo il volto suo perché è nell’ombra, avendo la luna quasi a perpendicolo sul capo, è vero, ma anche la folta ramaglia dell’ulivo fra Lui e la luna, che appena filtra fra foglia e foglia con occhiellini ed aghi di luce in perpetuo movimento. Una lunga, ardente preghiera. Ogni tanto ha un sospiro e qualche parola più netta. Non è un salmo, non è il Pater. E una preghiera fatta dallo sgorgare del suo amore e del suo bisogno. Un vero discorso fatto al Padre suo. Lo comprendo per le poche parole che afferro: «Tu lo sai… Sono il tuo Figlio… Tutto, ma aiutami… L’ora è venuta… Io non sono più della Terra. Cessa ogni bisogno di aiuto al tuo Verbo… Fa’ che l’Uomo ti soddisfi come Redentore come ti fu ubbidiente la Parola… Ciò che Tu vuoi… Per loro ti chiedo pietà… Li farò salvi? Questo ti chiedo. Voglio così: dal mondo salvi, dalla carne, dal demonio… Posso chiedere ancora? É giusta domanda, Padre mio. Non per Me. Per l’uomo, che è tua creazione e che volle rendere fango anche la sua anima. Io getto nel mio dolore e nel mio Sangue questo fango, perché torni l’incorruttibile essenza dello spirito a Te gradito… Ed è dovunque. Egli è il re questa sera. Nella reggia e nelle case. Fra le milizie e nel Tempio… La città ne è colma, e domani sarà un inferno…». Gesù si volge, si appoggia con la schiena al masso e incrocia le braccia. Guarda Gerusalemme. Il viso di Gesù si fa sempre più mesto. Mormora: «Pare di neve… ed è tutta un peccato. Anche in essa quanti ho guarito! Quanto ho parlato!… Dove sono quelli che mi parevano fedeli?»… Gesù curva il capo e guarda fisso il terreno coperto di una erbetta corta e lucida di guazza. Ma, per quanto abbia il capo chino, comprendo che piange, perché delle gocce lucono nel cadere dal volto al suolo. Poi alza il capo, disserra le braccia, le congiunge tenendole al disopra del capo e agitandole così unite. Poi si incammina. Torna verso i tre apostoli seduti intorno al loro fuocherello di sterpi. E li trova mezzo addormentati. Pietro si è addossato ad un tronco con le spalle e, con le braccia conserte sul petto, ciondola con la testa nelle prime caligini di un robusto sonno. Giacomo è seduto, con il fratello, su un radicone che affiora e sul quale hanno messo i mantelli per sentirne meno le gobbe, ma, nonostante siano scomodi più di Pietro, sono anche loro sonnecchianti. Giacomo ha abbandonato la testa sulla spalla di Giovanni e questo ha piegato la sua su quella del fratello, come se il dormiveglia li avesse immobilizzati in quella posa. «Dormite? Non avete saputo vegliare un’ora sola? Ed Io ho tanto bisogno del vostro conforto e delle vostre preghiere!». I tre sobbalzano confusi. Si sfregano gli occhi. Mormorano una scusa, accusando lo sforzo del digerire come causa prima di questo loro sonnecchiare: «É il vino… il cibo… Ma ora passa. Un momento è stato. Non avevamo voglia di parlare e questo ci ha portati al sonno. Ma ora pregheremo a voce alta e non succederà più». «Sì. Pregate e vigilate. Anche per voi ne avete bisogno». «Sì, Maestro. Ti ubbidiremo». Gesù torna via. La luna che gli batte in volto, così forte nel suo chiarore d’argento che rende sempre più pallida la veste rossa come la velasse di una polvere bianco lucente, mi fa vedere il suo volto sconfortato, addolorato, invecchiato. Lo sguardo è sempre dilatato, ma pare appannato. La bocca ha una piega di stanchezza. Torna al suo masso ancor più lento e curvo. Si inginocchia appoggiando le braccia al masso, che non è liscio ma a mezza altezza ha come un seno, quasi fosse stato lavorato apposta così, e su questo breve seno è nata una pianticina, che mi pare di quei fioretti simili a piccoli gigli che ho visto anche in Italia, dalle fogliette piccole, tonde ma dentellate agli orli e polpute e i fiorellini minuti sugli esilissimi steli. Sembrano piccoli fiocchi nevosi spruzzanti il grigio del masso e le fogliette verde scuro. Gesù appoggia le mani lì presso e i fiorellini gli vellicano la guancia, perché Egli appoggia il capo sulle mani giunte e prega. Dopo un poco sente il fresco delle piccole corolle, alza il capo. Le guarda. Le carezza. Parla loro: «Voi siete pure!… Voi mi date ristoro! C’erano anche nella grotticella della Mamma questi fiorellini… e Lei li amava perché diceva: “Quando ero piccina, diceva mio padre: ‘Tu sei un giglio così piccino e tutto pieno di rugiada celeste”‘… La Mamma! Oh! Mamma mia!». Ha uno scoppio di pianto. Col capo sulle mani congiunte, ricaduto un poco sui calcagni, lo vedo e l’odo piangere, mentre le mani stringono le dita e le tormentano l’una all’altra. Sento che dice: «Anche a Betlemme… e te li ho portati, Mamma. Ma questi, chi te li porterà più?…». Poi riprende a pregare e a meditare. Deve essere ben triste la sua meditazione, angosciosa più che triste, perché per sfuggirla Egli si alza, va avanti e indietro mormorando parole che non afferro, alzando il volto, abbassandolo, gestendo, passandosi sugli occhi, sulle gote, sui capelli, le mani con mosse macchinali e agitate, proprie di chi è in grande angoscia. Dirlo non è niente. Descriverlo è impossibile. Vederlo è andare nella sua angoscia. Gestisce verso Gerusalemme. Poi torna ad alzare le braccia verso il cielo come per invocare aiuto. Si leva il mantello come avesse caldo. Lo guarda… Ma che vede? I suoi occhi non guardano altro che la sua tortura, e tutto serve a questa tortura, ad aumentarla. Anche il mantello tessuto dalla Madre. Lo bacia e dice: «Perdono, Mamma! Perdono!». Pare lo chieda alla stoffa filata e tessuta dall’amore di mamma… Se lo rimette. É in uno strazio. Vuole pregare per superarlo. Ma con la preghiera tornano i ricordi, le apprensioni, i dubbi, i rimpianti… E una valanga di nomi… città… persone… fatti… Non posso seguirlo perché è veloce e saltuario. È la sua vita evangelica che gli sfila davanti… e gli riporta Giuda traditore. É tanto l’affanno che urla, per vincerlo, il nome di Pietro e Giovanni. E dice: «Ora verranno. Sono ben fedeli loro!». Ma “loro” non vengono. Chiama di nuovo. Pare terrorizzato come vedesse chissà che. Fugge veloce verso il luogo dove è Pietro e i due fratelli. E li trova più comodamente e pesantemente addormentati intorno a poche bragie che, ormai morenti, hanno solo dei zig e zag di rosso fra il grigio della cenere. «Pietro! Vi ho chiamati tre volte! Ma che fate? Dormite ancora? Ma non sentite quanto soffro? Pregate. Che la carne non vinca, non vi vinca. In nessuno. Se lo spirito è pronto, la carne è debole. Aiutatemi…». I tre sono più lenti a svegliarsi. Ma infine lo fanno e, con occhi imbambolati, si scusano. Si alzano, prima mettendosi seduti, poi mettendosi proprio ritti. «Ma guarda!», mormora Pietro. «Non ci è mai accaduto! Deve essere proprio stato quel vino. Era forte. E anche questo fresco. Ci si è coperti per non sentirlo (infatti si erano coperti coi mantelli anche sul capo) e non si è più visto il fuoco, non si è avuto più freddo, ed ecco che il sonno è venuto. Dici che hai chiamato? Eppure non mi pareva di dormire tanto forte… Su, Giovanni, cerchiamo dei rametti, muoviamoci. Ci passerà. Sta’ sicuro, Maestro, che ora poi!… Resteremo in piedi…», e getta una manata di fogliette secche sulle bragie, e soffia finché la fiamma risuscita, e la alimenta con i rami di rovo portati da Giovanni, mentre Giacomo porta un grosso ramo di ginepro, o simile pianta, che ha tagliato da un macchione poco discosto, e lo unisce al resto. La fiamma si alza alta e gioconda illuminando il povero viso di Gesù. Un viso veramente di una tristezza che non si può guardare senza piangere. Ogni fulgore di quel volto è annullato in una stanchezza mortale. Dice: «Sono in un’angoscia che mi uccide! Oh! sì! L’anima mia è triste sino a morirne. Amici!… Amici! Amici!». Ma, se anche così non dicesse, il suo aspetto direbbe che Egli è proprio come uno che muore, e nel più angoscioso e desolato abbandono. Pare che ogni parola sia un singhiozzo… Ma i tre sono troppo carichi di sonno. Sembrano quasi ebbri tanto vanno traballando ad occhi semichiusi… Gesù li guarda… Non li mortifica con rimproveri. Scuote il capo, sospira e torna via. Al posto di prima. Prega di nuovo in piedi, con le braccia in croce. Poi in ginocchio come prima, col volto curvo sui piccoli fiori. Pensa. Tace… Poi si dà a gemere e singhiozzare forte, quasi prostrato tanto è rilassato sui calcagni. Chiama il Padre. Sempre più affannosamente… «Oh!», dice. «É troppo amaro questo calice! Non posso! Non posso! É al di sopra di quanto Io posso. Tutto ho potuto! Ma non questo… Allontanalo, Padre, dal tuo Figlio! Pietà di Me!… Che ho fatto per meritarlo?». Poi si riprende e dice: «Però, Padre mio, non ascoltare la mia voce se essa chiede ciò che è contrario alla tua volontà. Non ricordarti che ti sono Figlio, ma solo servo tuo. Non la mia, ma la tua volontà sia fatta». Rimane così qualche tempo. Poi ha un grido soffocato e alza un viso sconvolto. Un attimo solo, poi piomba al suolo, proprio volto a terra, e resta così. Uno straccio d’uomo su cui preme tutto il peccato del mondo, su cui si abbatte tutta la Giustizia del Padre, su cui scende la tenebra, la cenere, il fiele, quella tremenda, tremenda, tremendissima cosa che è l’abbandono di Dio mentre Satana ci tortura… E l’asfissia dell’anima, è l’essere sepolti vivi in questa carcere che è il mondo, quando non si può più sentire che fra noi e Dio vi è un legame, è l’essere incatenati, imbavagliati, lapidati dalle nostre preghiere stesse che ci ricadono addosso irte di punte e sparse di fuoco, è il dare di cozzo contro un Cielo chiuso in cui non penetrano né voce né sguardi della nostra angoscia, è l’essere “orfani di Dio”, è la pazzia, l’agonia, il dubbio d’essersi sino allora ingannati, è la persuasione di essere scacciati da Dio, di esser dannati. E’ l’inferno!… Oh! lo so! e non posso, non posso vedere lo spasimo del mio Cristo, e sapere che esso è un milione di volte più atroce di quello che mi ha consumata lo scorso anno e che, quando mi torna alla mente, mi sconvolge ancora… Gesù geme, fra rantoli e sospiri proprio d’agonia: «Niente!… Niente!… Via!… La volontà del Padre! Quella! Quella sola!… La tua volontà, Padre. La tua, non la mia… Inutile. Non ho che un Signore: Iddio santissimo. Una legge: l’ubbidienza. Un amore: la redenzione… No. Non ho più Madre. Non ho più vita. Non ho più divinità. Non ho più missione. Inutilmente mi tenti, demonio, con la Madre, la vita, la mia divinità, la mia missione. Ho per madre l’Umanità e l’amo sino a morire per lei. La vita la rendo a Chi me l’ha data e me la chiede, supremo Padrone di ogni vivente. La divinità l’affermo essendo capace di questa espiazione. La missione la compio con la mia morte. Nulla ho più. Fuorché fare la volontà del Signore, mio Dio. Va’ indietro, Satana! L’ho detto la prima e la seconda volta. Lo ri-dico per la terza: “Padre, se è possibile passi da Me questo calice. Ma però non la mia, la tua volontà sia fatta”. Va’ indietro, Satana. Io sono di Dio». Poi non parla più altro che per dire fra gli ansiti: «Dio! Dio! Dio!». Lo chiama ad ogni battito di cuore, e pare che ad ogni battito il sangue trabocchi. La stoffa tesa sulle spalle se ne imbibisce e torna scura, nonostante il grande chiarore lunare che lo fascia tutto. Pure un chiarore più vivo si forma sul suo capo, sospeso a circa un metro da Lui, un chiarore così vivo che anche il Prostrato lo vede filtrare fra le onde dei capelli, già pesanti di sangue, e il velo che il sangue fa agli occhi. Alza il capo… Splende la luna sul povero volto, e ancora più splende la luce angelica simile a quella del diamante bianco azzurro della stella Venere. E appare tutta la tremenda agonia nel sangue che trasuda dai pori. Le ciglia, i capelli, i baffi, la barba sono aspersi e cospersi di sangue. Sangue cola dalle tempie, sangue sgorga dalle vene del collo, sangue gocciano le mani, e quando Egli tende le mani verso la luce angelica e le ampie maniche scorrono in su, verso i gomiti, appaiono tutti sudanti sangue gli avambracci di Cristo. Nel viso, solo le lacrime fanno due righe nette fra la maschera rossa. Si torna a levare il mantello e si asciuga le mani, il volto, il collo, gli avambracci. Ma il sudore continua. Egli si preme più e più volte la stoffa sul volto tenendola premuta con le mani, ed ogni volta che cambia posto, sulla stoffa rosso scura appaiono nette le impronte che, umide come sono, sembrano essere nere. L’erba del suolo è rossa di sangue. Gesù pare prossimo a mancare. Si slaccia la veste al collo come si sentisse soffocare. Si porta la mano al cuore e poi al capo e se l’agita davanti al volto come per farsi vento, tenendo la bocca dischiusa. Si trascina contro il masso, ma più verso lo scrimolo del balzo, e si appoggia con la schiena ad esso, stando con le braccia pendenti lungo il corpo come fosse già morto, la testa penzoloni sul petto. Non si muove più. La luce angelica decresce piano piano. Poi viene come assorbita nel chiarore lunare. Gesù riapre gli occhi. Alza a fatica il capo. Guarda. E’ solo. Ma è meno angosciato. Allunga una mano. Tira a Sé il mantello, lasciato abbandonato sull’erba, e torna ad asciugarsi il volto, le mani, il collo, la barba, i capelli. Prende una larga foglia, nata proprio in riva al ciglio, tutta bagnata di guazza, e con quella finisce di pulirsi, bagnandosi volto e mani e poi asciugandosi da capo. E ripete, ripete con altre foglie, finché ha cancellato le tracce del suo tremendo sudore. Solo la veste, e specie sulle spalle e alle pieghe dei gomiti, al collo e alla cintura, ai ginocchi, è macchiata. Se la guarda e scuote il capo. Guarda anche il mantello. Ma lo vede troppo macchiato. Lo piega e lo pone sul masso, là dove esso fa cuna, presso i fioretti. Con fatica, come per debolezza, si rigira mettendosi in ginocchio. Prega appoggiando il capo sul mantello, su cui sono già le mani. Poi si puntella al masso, si alza e, ancora lievemente barcollando, va dai discepoli. Il suo viso è pallidissimo. Ma non è più turbato. E un viso pieno di divina bellezza, pure essendo esangue e mesto oltre il solito. I tre dormono saporitamente. Tutti avvolti nei mantelli, sdraiati affatto, presso il fuoco spento, si sentono respirare profondamente in un principio di sonoro russare. Gesù li chiama. Inutile. Deve chinarsi e scuotere generosamente Pietro. «Cosa è? Chi mi arresta?», dice questo emergendo, sbalordito e spaventato, dal suo mantello verde scuro. «Nessuno. Sono Io che ti chiamo». «É mattina?». «No. É quasi terminata la seconda vigilia». Pietro è tutto ingranchito. Gesù scuote Giovanni, che ha un grido di terrore vedendo su di lui curvo un volto di fantasma tanto è marmoreo. «Oh!… Mi parevi morto!». Scuote Giacomo, e questo, che crede che sia il fratello che lo chiama, dice: «Hanno preso il Maestro?». «Non ancora, Giacomo», risponde Gesù. «Ma alzatevi ormai e andiamo. Chi mi tradisce è vicino». I tre, ancora imbambolati, si alzano. Si guardano intorno… Ulivi, luna, usignoli, venticello, pace… Null’altro. Seguono però Gesù senza parlare. Anche gli altri otto sono più o meno addormentati intorno al fuoco spento. «Sorgete! », tuona Gesù. «Mentre Satana viene, mostrate all’insonne e ai suoi figli che i figli di Dio non dormono!». «Sì, Maestro». «Dove è, Maestro?». «Gesù, io…». «Ma che è stato?». E fra arruffate domande e risposte si rimettono i mantelli… Appena in tempo per apparire in ordine alla sbirraglia capitanata da Giuda, che irrompe nella quieta piazzuola illuminandola violentemente con molte torce accese. Sono un’orda di banditi camuffati da soldati, facce da galera torte in ghigni da demoni. Vi è anche qualche campione del Tempio. Gli apostoli balzano tutti in un angolo. Pietro davanti, e dietro in gruppo gli altri. Gesù resta dove è. Giuda si accosta sostenendo lo sguardo di Gesù, che è tornato il lampeggiante sguardo dei suoi giorni migliori. E non abbassa il volto. Anzi si fa vicino con un sorriso da iena e lo bacia sulla guancia destra,. «Amico, e che sei venuto a fare? Con un bacio mi tradisci?». Giuda curva per un attimo la testa, poi la rialza… Morto al rimprovero come ad ogni invito al pentimento. Gesù, dopo le prime parole ancora dette con imponenza di Maestro, prende il tono accorato di chi si rassegna ad una sventura. La sbirraglia, con un clamore di urla, viene avanti con funi e bastoni e cerca di impadronirsi degli apostoli, oltre che di Cristo. Meno Giuda Iscariota, si intende. «Chi cercate?», chiede Gesù calmo e solenne. «Gesù Nazareno». «Sono Io». La voce è un tuono. Davanti al mondo assassino e a quello innocente, davanti alla natura e alle stelle, Gesù si rende questa testimonianza, aperta, leale, sicura, direi che è lieto di potersela dare. Ma, se avesse sprigionato un fulmine, non avrebbe potuto fare di più. Come un fascio di spighe falciate, tutti cadono al suolo. Restano in piedi solo Giuda, Gesù e gli apostoli, che davanti allo spettacolo dei soldati abbattuti riprendono fiato, tanto che si avvicinano a Gesù con delle minacce così esplicite per Giuda che questo fa un balzo, appena in tempo per sfuggire al colpo maestro della spada di Simone, e invano inseguito da pietre e bastoni, lanciatigli dietro dagli apostoli non armati di spada, fugge oltre il Cedron e si infosca nel nero di un viottolo. «Alzatevi. Chi cercate? Torno a chiedervi». «Gesù Nazareno». «Ve l’ho detto che sono Io», dice con dolcezza Gesù. Si, con dolcezza. «Lasciate dunque liberi questi altri. Io vengo. Riponete le spade e i bastoni. Non sono un ladrone. Stavo sempre fra voi. Perché non mi avete preso allora? Ma questa è la vostra ora e quella di Satana…». Ma, mentre parla, Pietro si accosta all’uomo che già tende le funi per legare Gesù e mena un maldestro colpo di spada. Se l’avesse usata di punta, lo sgozzava come un montone. Così non fa che staccargli quasi l’orecchio, che resta penzoloni fra un gran gemere di sangue. L’uomo grida dicendosi morto. Vi è tumulto fra chi vuol venire avanti e chi ha paura vedendo luccicare spade e pugnali. «Riponete quelle armi. Ve lo comando. Se volessi, avrei gli angeli del Padre a difendermi. E tu, guarisci. Nell’anima per prima cosa, se puoi». E, prima di tendere le mani alle corde, tocca l’orecchio e lo rende sano. Gli apostoli hanno urli scomposti… Sì. Mi spiace dirlo ma è così. Chi dice una cosa, chi l’altra. Chi urla: «Ci hai traditi!», e chi: «Ma è folle!», e chi dice: «E chi ti può credere?». Chi non urla, fugge… E Gesù resta solo… Lui e gli sgherri… E incomincia il cammino…