Studi storici sui dialetti della Sardegna Settentrionale, II, di Mauro Maxia

Capitolo 2

Il trattamento del nesso –rt- a Castelsardo fra il 1321 e il 1337

Gli studi condotti finora dai linguisti non si sono fondati su una prospettiva storica che considerasse nella giusta luce i documenti, editi e inediti, che dimostrano la vigenza del còrso in Anglona già nel basso medioevo.

In effetti, già attraverso il lessico logudorese degli Statuti di Castelgenovese è possibile cogliere, seppure mascherate dalla terminologia tecnica di impronta toscaneggiante, diverse interferenze di origine còrsa.

È il caso di fare pochi ma illuminanti esempi (fra parentesi si riportano le corrispondenti forme della parlata di Castelsardo):

cap. LVI: “stragnu” (cast. strágnu)

CLIII e passim: “gictare, gittare” (cast. gittá)

CCVI: “marthesis” (cast. maltési)

CCVI: “nurachi” (cast. nurághi)

CCXIII: “lavare” (cast. lavá)

CCXV: “lauare et sciaquare” (cast. lavá e sciuccá)

Questo aspetto si può cogliere attraverso i prodromi di quello che diverrà uno dei tratti più caratteristici della fonetica sia dei dialetti gallurese e sassarese sia delle parlate intermedie di Castelsardo e Sedini sia, infine, della stessa varietà settentrionale del logudorese: l’esito l- + consonante dei nessi latini L-, R-, S- + consonante. Un’efficace marca della vigenza del trattamento -RT > -lt già nei primi decenni del XIV secolo è rappresentato dal toponimo Murtetu, che il notaio Francesco Da Silva riportava nella forma latinizzante Multedo. 15

A torto il giurista castellanese Zirolia lo attribuiva a una fondazione genovese rievocativa dell’omonimo centro dell’odierna periferia genovese16. La presenza nella medesima area ligure di una borgata denominata Murta (< MYRTA) lascerebbe ritenere che la forma continentale Multedo possa avere tratto origine non dal medesimo fitonimo ma da un altro etimo. D’altra parte l’esito R > l in nesso con occlusiva è conosciuto persino nell’area più conservativa della stessa Sardegna. Si confrontino, ad esempio, i vocaboli orgolesi melʔa “latte inacidito” anziché mèrka 17, ʔélʔu “quercia” anziché kérku18 e trèlʔa anziché trèkka “luogo scosceso” 19.

L’origine dei particolari esiti del sassarese e del logudorese settentrionale, però, va vista preferibilmente nell’influsso genovese, come suggerisce l’occorrenza nel sassarese di -l- > – r- (ára “ala”, méra “mela” 20) allo stesso modo che nel dialetto genovese. Ma non va escluso che tutta la complessiva questione dei nessi consonantici della Sardegna settentrionale sia da ricomprendere nel contesto del fenomeno più generale, di origine galloromanza e comunque continentale, che va sotto il nome di vocalizzazione di [l] 21.

In ogni caso, anche se nei dialetti galloromanzi dell’Italia settentrionale la base MYRT- mort-, sembra da escludere un’origine continentale del toponimo Multéddu, essendosi questo evoluto dal logud. ant. Murtetu.

Che questa sia la realtà si desume dalla lettura del cap. 168 degli Statuti di Castelsardo, dove sono elencati i confini dell’antica habitatione che, con i suoi vigneti e altri coltivi, faceva corona al borgo murato. Fra la relative denominazioni dei siti viene citato il toponimo Valle dessa multa “valle dei mirti”, nel quale il fitonimo multa per murta conferma la vigenza della risoluzione RT > lt durante un periodo di poco successivo alla redazione del suddetto cartulare da parte del notaio De Silva.

Anche da altre interferenze sappiamo che sin dal 1321 lo svolgimento –RT- > -lt- era sicuramente vigente. Ciò si deduce da un volgarismo contenuto nel medesimo cartolare.

Registrando un contratto di affitto, che aveva per attore il priore della chiesa cassinese di S. Nicola in Solio, le cui rovine sorgono a poca distanza da Sedini, il notaio De Silva riportava per due volte la dicitura curia sive cultis e curiam sive cultem “curia ovvero corte”. Il termine curtis era riferito a due corti situate a Ímbrike (oggi Ímbriga, presso Sedini) e a Lexigannor, poco lontano da Nulvi. L’uso del volgarismo cultis, cultem dimostra che l’ital. “corte” nella zona di Castelsardo in quel periodo doveva pronunciarsi còlte, che corrisponde all’odierna forma logud. sett. [kòLte], oppure còlti, che a sua volta corrisponde all’odierna forma castellanese [kòLti].

Il notaio Da Silva fu in Anglona come cancelliere di Brancaleone Doria. Non è chiaro se, come ritiene il Livi, egli venisse da Bonifacio, colonia còrsa della repubblica genovese, oppure se fosse oriundo della capitale ligure o dei suoi dintorni. Il suo grado di acculturazione traspare, oltre che dalla professione, dal corposo cartolare prodotto durante i circa sei mesi che egli trascorse in Sardegna al seguito di Brancaleone.

Pertanto, le grafie cultis e Multedo non saranno dovute a fortuiti errori di trascrizione bensì all’esigenza di riprodurre per iscritto dei suoni come egli li sentiva dalla viva pronuncia dei suoi interlocutori. Sicché nel 1321 in Anglona non doveva essere infrequente udire il nesso -rt- pronunciato -lt-. Anzi, essendo questo trattamento documentato per ben tre volte, si può ritenere che il fenomeno fosse abbastanza comune.

Ora, il problema che si pone è il seguente: se la risoluzione rt > lt fosse stata un’abitudine del notaio, tutti i rogiti contenuti nel cartolare dovrebbero riportare il nesso -rt- con la grafia -lt-, ma così non è. Se ne può dedurre che questa pronuncia il notaio doveva sentirla da parte di chi gli esponeva il contenuto degli atti nei quali il trattamento risulta documentato. Nel caso delle due curtes di Embricis e di Lexigano, il committente dell’atto era Severino, che in quell’anno ricopriva la dignità di priore di S. Nicola in Solio, un ricco monastero cassinese distante poco più di due chilometri da Sedini. Il frate Severino, come sembra dimostrare la sua sollecitudine verso personaggi genovesi o filogenovesi, doveva essere anche lui di origine ligure.

Se la pronuncia di cui si discute usciva dalle sue labbra, si potrebbe ipotizzare con una certa approssimazione la sua zona di provenienza. Vi è un’area poco distante da Genova, il Tiglieto, in cui si possono osservare i medesimi fenomeni, la cui origine Bottiglioni 22 e Wagner 23 individuavano in Toscana, segnatamente a Pitigliano, e che mettevano in relazione con la formazione della varietà settentrionale del logudorese, quella stessa, cioè, attestata in Anglona. Nella toponimia del Tiglieto e dell’area che limita a ovest con la stessa conurbazione genovese si rileva, oltre alla località di Multedo, la forma Olba, relativa all’abitato omonimo e alla vicina località denominata Martina Olba.

Ad essa si affianca, in evidente rapporto oppositivo, la denominazione del vicino abitato di Orbicella, forma che designa anche il torrente omonimo. La valle in cui sorgono queste località è solcata dal torrente Orba, dal quale tutte le forme citate sembrano derivare. L’attestazione di questi esiti in toponomastica rappresenta una prova indiretta della loro relativa antichità. In altri termini, la toponimia dell’area che si estende a nord-ovest di Genova testimonia per tempo l’oscillazione r/l in nesso con un’occlusiva, in questo caso la labiale sonora.

Si tratta di un aspetto che, nella prospettiva di indagini diacroniche più approfondite, potrebbe avere qualche relazione con l’insorgenza nell’area di Sassari del trattamento – rt > lt (poi aspiratosi in –Lt). A questo discorso potrebbero arrivare elementi di un certo interesse se venisse appurata un’origine genovese o dell’area di cui si è detto da parte del notaio Da Silva. Peraltro, il centro di Bonifacio ebbe fin dal medioevo strettissimi rapporti di dipendenza con Genova, tanto che ancora oggi, a distanza di parecchi secoli, la sua parlata risulta tributaria del dialetto ligure. Ma vi è di più.

Il notaio Da Silva, nel recto del primo foglio del cartolare in questione, dopo la rituale invocazione, apriva la serie dei rogiti con la formula Branchaleo de Auria dominus Saxelli. Premetteva cioè il titolo di signore del Sassello, una contrada situata a nord-ovest di Genova, la quale abbraccia appunto la zona del Tiglieto in cui si rilevano le forme accennate. Anche da questa prospettiva, le forme culte e Multedo registrate dal Da Silva sembrano tutt’altro che casuali. Che durante il Trecento la risoluzione -lt per –rt non rappresentasse un suono estraneo alle orecchie dei locutori anglonesi è dimostrato ancora da un documento del 1341.

Nella scheda 218 delle Rationes Decimarum, relativa all’antico villaggio di Bolonjanos, un tempo situato a metà strada fra Martis e Nulvi, è registrato il nome del rettore Recolduccio, forma che senza dubbio rappresenta un diminutivo del n.p. Riccardo. A conferma di ciò, lo stesso religioso è ricordato poi nella scheda 830 con la forma Ricalduccio. Lo stesso religioso è ricordato ancora nelle schede 1241 e 1693 come Recolducio.

Queste forme dimostrano che l’r si trasformava in l non solo davanti alla dentale sorda ma anche di fronte a quella sonora. Altre note delle Rationes Decimarum relative ai villaggi della diocesi di Ampurias confermano pienamente questo dato. La scheda 841, relativa al villaggio anglonese di Ostiano de Ennena, registra il relativo rettore, che rispondeva al nome di Nicholao Geraldi. Anche in questo caso si osserva la risoluzione -rd > -ld: infatti la corretta grafia per questo cognome avrebbe dovuto corrispondere a Gerardi, genitivo del n.p. Gerardo o plurale di famiglia.

La forma cognominale Geraldi non era rara fra i religiosi del tempo, tanto che è documentata per quattro diversi personaggi (n. 1573: Pietro Geraldi, rettore di Nuraminis; n. 1726: Pietro Geraldi, rettore di Nughedu S. Nicolò; nn. 2005, 2093, 2548: Raymundo Geraldi, rettore di Curtayna nella diocesi di Torres); lo stesso dicasi del n.p. Geraldus che occorre sei volte (nn. 998, 1444, 1532: Geraldo Bruni, rettore di Serrenti; nn. 2575, 2632: Geraldo Philippi di Lione; 2578: Geraldo de Ulmi di Marsiglia).

Si tratta, in tutti i casi citati, quasi sicuramente di individui non sardi, ma ciò non è del tutto privo di importanza perché, come si è visto per l’Anglona, sembra da escludere che questo tipo di risoluzione possa essersi originato in Sardegna.

Già il Wagner aveva posto una decisa ipoteca sull’origine continentale, segnatamente toscana, del fenomeno. L’alternanza di r + occlusiva con l + occlusiva, infine, risulta ben documentata nel Quattrocento con le forme Baltramu/Bartramu, Bardo per Baldo; calchi/quarqui; carquina per calquina attestate nel codice di San Pietro di Sorres 24.

Anche ammettendo che forme come Geraldo e Baltramo possano essere dovute a una dissimilazione r…r r…l, le occorrenze documentano una diversificazione di contesti che conferma la piena vigenza del trattamento. Indubbiamente le forme registrate dal Longo per la provincia di Grosseto e in alcune località della provincia di Viterbo sembrerebbero notevoli specialmente considerando la corrispondenza di latitudine della Sardegna settentrionale con la Tuscia. Ma, da un lato, le parziali corrispondenze fonetiche si registrano col sassarese e col logudorese settentrionale mentre sono minime con la Gallura e con la Corsica che sono invece le regioni più vicine al continente toscano. E, d’altra parte, non vi è alcuna prova che i fenomeni registrati nella Toscana meridionale e nel Lazio settentrionale siano insorti in un periodo precedente a quello in cui si manifestarono nel settentrione sardo.

Ancora, fra le tante relazioni che la Sardegna ebbe con la penisola italiana, specie con Pisa e Genova, non ne risultano viceversa col Grossetano e col Viterbese. Questo discorso vale anche per la “lisca” attestata a Livorno nell’età moderna, periodo durante il quale i contatti della Sardegna con la Toscana avvengono attraverso modesti traffici col porto di Piombino. Si tratta, è vero, di un periodo durante il quale il bacino del Tirreno era saldamente in mano agli Spagnoli, per cui poteva aversi una maggiore circolazione di merci e di idee fra Liguria, Toscana, Stato dei Presidi, Corsica e Sardegna. Ma la documentazione disponibile dimostra, al contrario, che la politica fiscale spagnola aveva ridotto al minimo i contatti fra la Sardegna e la costa toscana, che erano assicurati quasi soltanto dal contrabbando.

Pertanto, allo stato attuale delle conoscenze tutto lascerebbe pensare che, nonostante le corrispondenze relative alle palatalizzazioni (v. cap. 5) e a una parte del lessico, la lisca toscana e quella sassarese e logudorese (v. vol. II) si siano affermate autonomamente come evoluzioni locali di un fenomeno che originariamente fu comune non solo alla Sardegna settentrionale ma anche alla Corsica, alla Toscana, a parte dell’Italia mediana, alla Lunigiana e alla Liguria, cioè a tutte le regioni che si affacciano sul bacino settentrionale del mar Tirreno e sul mar Ligure.

Ora, il fatto che le occorrenze relative alle palatalizzazioni risultino frequenti soltanto ad iniziare dal Quattrocento e compaiano diffusamente poco dopo la metà del Cinquecento nelle poesie dell’Araolla non troverebbe spiegazione in relazione all’influsso toscano. È noto, infatti, che già dai primi decenni del Trecento la presenza pisana in Sardegna cessa definitivamente, ma nel Logudoro essa era stata eliminata già con l’erezione dell’istituzione comunale a Sassari e, comunque, almeno dal 1294.

L’innegabile influsso prodotto dal toscano sul logudorese non fu, come nel caso del campidanese, esercitato direttamente. Una prova di questo aspetto si desume dai documenti medievali. Mentre nelle Carte dell’Archivio Arcivescovile di Cagliari si possono osservare le interferenze prodotte dall’influsso del pisano fin dal XII secolo, nella fonetica logudorese l’influsso toscano comincia ad emergere chiaramente soltanto quando la conquista catalano-aragonese era ormai consolidata.

E questo aspetto rappresenta una contraddizione apparentemente inspiegabile. La spiegazione consiste nell’ipotizzare che l’influsso toscano sia stato mediato dal còrso. È il còrso – la cui presenza in Sardegna è attestata fin dal primo Trecento attraverso la cospicua colonia sassarese – che può essere stato il vettore della lisca toscana e ligure, espandendone in Sardegna l’onda innovatrice. L’area interessata da questo fenomeno, in base alle varietà locali che risultano coinvolte attualmente, corrisponde all’intera Sardegna centro-settentrionale ad esclusione del Marghine, del Gocèano e del Nuorese. La prova in senso contrario proviene ancora dal campi danese che, non avendo conosciuto l’influsso del còrso, non conosce neppure il fenomeno della lisca.

Che la funzione di vettore dell’innovazione sia da attribuire al còrso si può dedurre dal fatto che nel suo lessico di fine Ottocento, documentato dal Falcucci, si possono ancora osservare diverse forme che presentano la lisca. Valgano i seguenti esempi in cui r e l + cons. si scambiano indifferentemente: alcova vs. arcova “alcova”; alpale vs. arpale “balza, rupe alta e inaccessibile” (lat. alpes); erbitru vs. albitru “corbezzolo” (lat. arbutus); altóre vs. astóre; palmintellu vs. parmintellu “piccola palma” (dim. di palma); solcu vs. sorcu “solco”25; saltère vs. sarté’ “salterio”; sepultura vs. sepurtura “sepoltura”; Silvestro vs. Sirbestru “Silvestro”.26

Va da sé che, se in un dato periodo un fenomeno interessa un determinato numero di lessemi, possono formularsi due ipotesi complementari e cioè:

1) il fenomeno è in espansione e nel periodo successivo i lessemi coinvolti saranno in numero superiore a quello attuale 27;

2) il fenomeno è in regressione e nel periodo precedente i lessemi coinvolti erano in numero superiore a quello attuale.

Poiché nel còrso odierno non si osserva alcuna espansione della lisca, è da prendere in considerazione la seconda ipotesi. In tal caso dobbiamo pensare che nei secoli precedenti il còrso presentasse un numero più elevato di lessemi interessati dalla lisca.

Se l’ipotesi coglie nel segno avremo una corrispondenza con la situazione storicamente conosciuta per la maggiore area di irradiazione, cioè la Toscana e, segnatamente, il porto di Livorno. È noto, infatti, che in passato il dialetto livornese si caratterizzava per la pronuncia con l di s + consonante proprio come avviene in còrso per astóre/altóre 28. Ancora oggi il toponimo Livorno è pronunciato localmente Livòlno.

Orbene, dopo l’eclissi della potenza marinara pisana, Livorno è stato il porto attraverso il quale la Corsica ha avuto la maggior parte dei suoi traffici commerciali e degli scambi culturali col Continente italiano, traffici e scambi che storicamente si configurano quasi esclusivamente come “importazioni”. È dalla parlata livornese, appunto, che il còrso può avere acquisito l’innovazione rappresentata dalla lisca, portandola subito dopo in Sardegna, dove alcune colonie còrse erano stanziate a Sassari e Castelsardo e probabilmente anche a Sorso, Sedini, Tempio e Calangianus.

In un determinato periodo, successivo alla scoperta della stampa, l’efficacia dell’onda innovatrice venne meno. Il fenomeno conobbe una progressiva regressione in Toscana e in Corsica, regioni nelle quali la lisca restò in un numero relativamente limitato di forme che nel frattempo si erano cristallizzate. La Sardegna settentrionale, per la norma delle aree periferiche, conservò l’innovazione. Non a caso anche Pitigliano, Seggiano e Montefiascone, centri della Tuscia dove è ancora attestata la lisca, rappresentano altrettanti punti dell’estrema periferia meridionale dell’area toccata dall’innovazione 29.

In tal modo le residue aree marginali conobbero delle evoluzioni indipendenti da una zona all’altra. Ecco perché a Sassari e a Pitigliano si hanno esiti a volte simili (“colpo”: sass. kóyppu, pitigl. kòybbu; “polvere”: sass. búyvvara, pitigl. pòyvere; “falso”: sass. fáttsu, pitigl. fayttsu; “salvare”: sass. sayvvá, pitigl. sayvvá) insieme ad altri piuttosto distanti (“salto”: sass. sáLtiu, pitigl. sáyddu; “falce”: sass. i, pitigl. fayğğe; “solco”: sass. u, pitigl. sòyggu). È evidente che a Pitigliano l’innovazione si fermò allo stadio del mutamento della laterale in semiconsonante. Si tratta di uno stadio simile a quello in cui si trova il nesso lg, rg, sg nella parlata di Sedini e Tergu; per esempio: [áy Lga] “alga”, [mòyLgu] “muoio”, [TséyLgu] “Tergu”.

Al di là delle sporadiche occorrenze bassomedievali, l’onda innovatrice proveniente dalla Toscana attraverso la Corsica determinò in Sardegna il mutamento di r, s + occlusiva in l + occlusiva. Il fenomeno coinvolse tutta l’attuale provincia di Sassari e le aree settentrionali delle province di Oristano e Nuoro. L’innovazione si radicò in Planargia, nel Meilogu, nel Monteacuto e nella parte settentrionale della Baronia. Più a Sud, nelle zone immediatamente confinanti, l’onda innovatrice dovette provocare un fenomeno di carattere opposto. Per una reazione conservativa, il nesso l + occlusiva si trasformò in r + occlusiva. Sicché, mentre a nord lessemi come mórtu, curtu, murta passavano a móltu, cultu, multa, a sud altu, planu, platha diventavano artu, pranu, pratha/prattsa.

A Sassari l’innovazione dovette acclimatarsi presso la numerosa colonia còrsa al punto che questa città diventò a sua volta, secondo una delle norme areali del Bartoli, un nuovo punto di irradiazione delle ulteriori evoluzioni del fenomeno. I nessi l, r, s + t, d vennero conguagliati in [Lt]; [Ld] mentre i nessi l, r, s + k, g produssero le aspirate [], []. Questa seconda innovazione, insorta verosimilmente a Sassari, si irradiò nel territorio circostante raggiungendo quasi tutte le località dell’antico Capo di Logudoro, il quale amministrativamente dipendeva da questa città. Il logudorese risultò intaccato a tal punto da questi fenomeni che, insieme ad altre innovazioni come le palatalizzazioni, provenienti sempre dal còrso parlato a Sassari 30, si venne determinando già nella prima metà del Quattrocento quella nuova varietà che gli studiosi denominano come logudorese settentrionale.

La Gallura e altre aree marginali come l’alto Oristanese, l’alta Baronia e gran parte del Nuorese, le quali facevano parte del Capo di Cagliari ed avevano minori contatti con Sassari, conservarono le innovazioni della prima ondata ma restarono esenti dai nuovi fenomeni di “tipo” sassarese 31. Si comprende in tal modo il perché delle differenze esistenti, da un lato, fra le risoluzioni del sassarese e del logudorese settentrionale e, dall’altro, i dialetti del Grossetano, dell’Amiata e dell’alto Viterbese.

Nei nessi l, r, s + p, b l’occlusiva anche a Sassari si conservò rafforzata mentre il primo fono venne conguagliato con la semiconsonante quasi allo stesso modo in cui risulta ancora oggi a Pitigliano. Ciò significherà che i nessi con la bilabiale p, b erano stati coinvolti già dalla prima onda innovatrice mentre non vennero interessati da ulteriori innovazioni. Si spiega così l’analogia fra le forme sassaresi e quelle della Tuscia.

Mentre il còrso della colonia sassarese subiva il forte influsso logudorese, specialmente nella sintassi e nel lessico, il còrso di Gallura, pur acquisendo anch’esso numerosi costrutti e termini sardi, grazie alla contiguità e ai continui scambi con la Corsica meridionale, si conservava più puro di quella che ormai stava diventando la nuova varietà sassarese. Le innovazioni provenienti da Sassari, allora la maggiore città della Sardegna, conquistarono gradatamente le varietà còrse radicate in Anglona, che qui chiamiamo castellanese e sedinese, e questo processo continua tuttora con dinamiche che si colgono agevolmente sia in diacronia che in sincronia ma delle quali non è possibile prevedere i futuri sviluppi.

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Note:

15 ASG, Cartolare n. 265, f. 10v.

16 Questo villaggio, che un tempo sorgeva nella località detta oggi Multéddu, risulta infatti documentato con la forma Murtetu nel condaghe di S. Pietro di Silki fin dalla seconda metà del XII secolo.

17 LLS, p. 124; LS 176; DES II 107.

18 DES, I, 329.

19 DES, III, 512.

20 LLS, p. 345.

21 BERTONI G., Profilo linguistico d’Italia, Modena, 1940, p. 65.

22 BOTTIGLIONI G., Saggio, pp. 51 segg.

23 FSS, pp. 309 segg.

24 Cfr. CSPS; Baltramu e Bartramu sono attestati rispettivamente nelle schede n. 32 del 1425 e nn. 40, 41 del 1429; Bardo è citato nella sch. 190; calchi/quarqui sono citati nelle schede 270, 324; carquina è documentato nella s. 158.

25 Cfr. sass. u gall. sulču.

26 Cfr. FALCUCCI, ss.vv.

27 Per una prova diretta di questo principio cfr. la situazione del nesso l, r, s + k nel dialetto di Castelsardo quale veniva riferita dal Bottiglioni in Saggio, cit., pp. 53-54, e la situazione odierna, per la quale v. infra.

28 FALCUCCI, p. 58; il lessema viene dato come cism(ontano) e attestato a Bastia e in Balagna.

29 Ma la lisca rappresenta un fenomeno che può insorgere spontaneamente qua e là per un’errata abitudine nel pronunciare i nessi in questione. Ad esempio, chi scrive ha avuto modo di sentire un individuo romano, il prof. Enzo Orti, docente dell’Accademia di Belle Arti di Sassari, pronunciare queLto, aLtro, coLto, ecc. Alla richiesta se si trattasse di un’abitudine contratta a Sassari oppure di un difetto di pronuncia, costui ha risposto che fin da bambino pronunciava questi nessi in tal modo.

30 Cfr. CSPS, pp. XXXI-XXXII; si noti come occorrenze di largo uso, quali le forme palatalizzate pius e chiamare, siano attestate già prima del 1430.

31 Soltanto la Gallura occidentale (varietà aggese) aderì al trattamento di č– > ts, caratteristico della varietà aggese che da allora si differenziò rispetto al gallurese comune.

STUDIUM ADF

Sassari – 1999

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© Mauro Maxia

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