Categoria : cultura

Audiatur et altera pars,Giosué! di Marco Bortolotti

Di un grand’uomo si vorrebbe conoscere tutto. Il poeta professore appartiene alla storia letteraria e, come si impara nella mostra mirabile e arguta dell’Archiginnasio curata da Marco Bazzocchi celebrativa del centenario, anche alla storia del costume e della psicologia amorosa. La mostra ingentilisce gli amori carducciani con il mito della bellezza classica e romantica, mostra galante, amabile, però…Carducci fu proprio così amoroso? Forse era più dedito alle voluttà della fantasia che a quelle dell’amore. Perché poi i biografi omettono le goffaggini dell’umanissimo, cruccioso Giosue? Uno solo intanto, per Luigi Russo, fu amore vero e profondo, quello per Carolina Piva, “Lidia “ nelle poesie, gli altri rispecchiano vaghe idealità sentimentali e letterarie. Quello per Annie Vivanti, seppur propiziato da versi radiosi, fu commercio di favori interessati e “ il povero Carducci che in fatto di donne era un professore di provincia, ci si lasciò pigliare come un merlo, e l’astuta avventuriera ci ha vissuto sopra”. Di Annie e del burbero Giosue che non rideva mai, si conoscono buffi aneddoti: il fiero cavallo da sella donato all’amazzone Annie comprato a Milano e pagato con lo sconto duemila settecento lire della tremila! ricevute da Zanichelli per un libro di poesie; Carducci pimpante che esibisce la giovane amante alla regina in Val d’Aosta, agli amici della Spezia, a Napoli, altrove, allevando maliziosi pettegolezzi; ometto quelli, deliziosamente piccanti, non comprovati dalle scritture (ecco, purgato, il più innocente : Giosue viaggiava con i mutandoni di pizzo della Vivanti nella valigia?)

Della moglie Elvira poeta e biografi non si curano, le mogli diventeranno soggetti di poesia con Saba, Montale, Betocchi. Eppure l’Elvira è figura interessante, su di lei, necessaria eroina di Giosue, ho trovato un raccontino che riassumo perché, scrive Gadda: “io credo che un residuo di goffaggine, o di miseria… in una grande vita, debba essere notato…la verità è sempre più ricca e bella in una biografia…delle edificanti frottolazioni”. Al tempo del racconto Carducci cinquantenne abitava in strada Maggiore 37 nel palazzo di proprietà di Francesco Rizzoli, chirurgo famoso.Stava al quinto, ultimo piano, ci si arrivava per un a scala stretta, ripida, male e poco illuminata, buia nelle ore di notte. Il sabato sera Carducci prendeva il suo svago, usciva con gli amici, bevevano e ribevevano, a mezzanotte tornava a casa, dal fondo buio delle scale doveva salire malsicuro fino al quinto piano con tutto quel Bacco in corpo. La bella voce baritonale urlava, Elvira! E lei scendeva con il lume sorreggendolo con le forti braccia fino in cima. Voleva bene al suo Giosue che, sebbene fosse già significativa la presenza femminile nelle aule universitarie soprattutto nella sua, non fece studiare nessuna delle figlie.

Argomento di riso e di trastullo per C.E.Gadda gli “strafalcioni” carducciani; il “fulvo” riferito al calvo Alfieri trasvolante nell’ode Piemonte dove leggiamo di Carlo Alberto esule ad Oporto che sogna ,morente, un Garibaldi marinaio a cavallo assurdo quanto lo sarebbe un cavaliere in barca. Da pettegolo trovarobe ho scovato un libro di Giuseppe Zucca mai adoperato da esegeti carducciani neppure bibliografici, libro dal titolo singolare Difficile conversare coi ragni con tre bombe anticarducci e morte di una bella regina edito nel 1957 da Ceschina, consentaneo alle ironie gaddiane. Vi troviamo perfidamente appuntati i difetti di rigore e le mancanze di vigile economia espressiva, presenti nelle poesie di chi, per Luciano Bianciardi, sembra “ finanziato da un ente provinciale del turismo”. Offro altre inezie alla biografia. Nella mostra impariamo da Maria Antonietta Torriani, amica della Lina Piva e moglie del direttore del Corriere della Sera, che la mano del Carducci era “piccola ed elegante”. Diciotto centimetri lunga e larga solo otto nel palmo, queste le misure registrate dal De Gubernatis nel Dizionario biografico degli scrittori contemporanei , edito nel 1879, testimonianza dello scrupolo curioso che giunge a misurare persino la manina di fanciulla del biografato. Frivole piccinerie mediocremente irriverenti desinenti in cosa più seria, l’indebito silenzio osservato dai critici e negli scritti, soprattutto ma non solo celebrativi e centenari, per il vituperoso sonetto, il più violento di tutta la nostra letteratura, scagliato da Mario Rapisardi, poeta e professore catanese, contro il Carducci. Vano cercarlo nelle antologie, nelle rare stampe il verso più vituperoso è addirittura addolcito per cautela pudibonda.

La furiosa polemica che Carducci e i suoi adepti della cosiddetta “scuola bolognese” ebbero con Rapisardi dopo la pubblicazione nel 1877 del Lucifero, non va accudita, estinta insieme allo sdegno fragoroso che l’aveva mossa. Rapisardi, poeta umanitario e sociale di retrograda letteratura, ci ha lasciato però un’operina magistralmente violenta, quattordici versi di insuperato dileggio, incatenati in viscerale cadenza oltraggiosa con un finale sberleffo figurato.

Nerl testo qui riprodotto l’ottavo verso porta “gonne” , ben altro, assonante e indecente, è il dotto termine pubico originale che lascio indovinare al lettore.

Queste noticine incaute, spero divertenti, non tutte futili, sono minimo contributo non idolatrico, alla biografia carducciana. Tutte insieme mormoranti sono state pungolate, risvegliate dalla attrattiva accesa dalla mostra e dal catalogo Carducci e il mito della bellezza , vivo, grazioso, indagatore.

L’adorante enfasi centenaria nazionale per Carducci si è rovesciata nel suo contrario. Il pezzo maldicente è però documentato: Carlo Emilio Gadda è ben riconoscibile. Il racconto del sabato sera è pubblicato in Sistematica , a.1998, n.109, pp.23-25; la considerazione di Luigi Russo del solo amore carducciano sta in più luoghi del Carducci senza retorica, Laterza 1957; l’ “astuta avventuriera” Annie Vivanti è tale per Arrigo Cajumi che nei Pensieri di un libertino,Einaudi 1970, p.243, aggredisce e condanna. Sempre Cajumi in Colori e veleni, Napoli 1956 p.397 somministra il verso espurgato del sonetto qui riprodotto in una stampa del tempo insieme alla figuretta della Fama.

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