Hic manebimus optime di Silvana Fasce

Immagini dell’alterità e dell’identità nelle rappresentazioni dello spazio del mondo clas­sico: modelli culturali e retorica[1].

Il sistema delle rappresentazioni dello spazio elaborato dal mondo classico è un argo­mento che ha ricevuto e continua ad ottenere grande attenzione da parte della geografia storica e della storia del pensiero geografico antico, ma an­che da parte dell’archeologia,  dell’antichistica, della geografia della percezione e della psicologia storica. In que­ste pagine, vorrei pormi delle domande su come gli antichi hanno pen­sato lo spazio, non dal punto di vista delle scienze geografiche o della concezione del territorium quale ambito geografico di un dominio politico-militare, ma dal punto di vi­sta delle immagini mentali. Tali immagini non sono mai arbitrarie, poiché risultano stretta­mente funzionali alle modalità con cui i gruppi umani si legano allo spazio fisico.

Le fonti di riferimento a cui attingiamo appartengono alla letteratura intellettuale, poi­ché della cultura intellettuale è espressione la quasi totalità dei testi letterari greci e latini a noi pervenuti; perciò, ci troviamo di fronte ad un incrocio di sapere e immagina­rio, dal mo­mento che la letteratura tratterà sempre degli spazi e dei luoghi in quanto proiezioni di signifi­cati. Non si parla, quindi, di rappresentazioni mentali sogget­tive in rapporto all’individuo, ma di rappresenta­zioni mentali della sfera collet­tiva e di significato pubblico, nelle quali gli oggetti della rappresentazione geografica, sia essa mentale, sia essa figurata o descrittiva, vale a dire fiume, bosco, palude, colle, deserto, isola, porto, città, sono di elemen­tare evidenza[2].

1. Nella Grecia arcaica la carta geografica, come afferma Erodoto, viene «mo­strata», «det­tata», cioè trasferita in una descrizione letteraria, evocante territori reali e funzionante come una mappa mentale; il verbo impiegato per stendere la carta è gra­phein, «scrivere», dal momento che il discorso sostituisce il disegno ed è in grado di far vedere al lettore quello che non ha sotto gli occhi o non ha mai visto[3]. La rappresenta­zione cartografica, come la descri­zione geografica, è perciò una mimesis o «arte della verosimiglianza»[4]. Essa comporta un la­voro d’interpretazione e, nello stesso tempo, di traduzione delle parole in figure ed immagini, e viceversa.

Nella cultura greca arcaica, rappresentare lo spazio sulla carta, meglio su un  pi­nax, una ta­vola, appariva un’operazione audace, se ancora in età augustea Strabone defini­sce un pro­dotto dell’«audacia» la tavoletta dell’ecumene stilata, nel VI sec. a. C., dal primo, per così dire, cartografo, il filosofo Anassimandro[5]: audacia, in quanto la raffigu­razione cartografica della terra inaugura una nuova visione geografica e cosmolo­gica, dell’ecumene e dell’universo, appropriandosi di una prerogativa ritenuta specifica degli dei: la visione dall’alto, lo sguardo complessivo che abbraccia la terra[6]. La cartografia è una tecnica con­nessa certamente ai progressi della nautica e a determi­nate condizioni politiche ed economi­che[7], ma i suoi inizi sono presentati secondo lo schema dei miti di fondazione: nel sistema di rappresentazioni mitiche della Grecia ar­caica, la cartografia si configura come un’espressione della hybris, l’orgoglio e l’ardire umani nei confronti del divino[8].

In effetti, dividere, suddividere, ripartire, segnare il territorio, è un’operazione di estrema portata, se si pensa che le medesime operazioni sono compiute per fondare la città e vengono indicate, in greco, col verbo ktízo; proprio il verbo ktízo, nella lingua bi­blica dei LXX, è il verbo tecnico della creazione, dell’attività plasmatrice e ordinatrice divina, accanto a poiéo, che, diversamente, traduce l’atto del creare dal nulla[9]. Nella Ge­nesi, Dio ordina la sua crea­zione separando la luce dalle tenebre, il cielo dalla terra, la notte dal giorno; la separa­zione è attività ordinatrice, per la quale gli elementi naturali acquistano forma e ritmo vitale. Del re­sto, il ruolo di Zeus consiste nel ripartire compiti e destini, come il lavoro del fondatore nel suddividere il territorio prescelto. Si ricono­sce lo schema nel racconto di fondazione dell’«Odissea», secondo cui l’eroe Nausitoo, stabilitosi a Schería, l’«amabile» isola dei Feaci, fondò una città «lontano dagli uomini laboriosi, circondò di mura la città, edificò case, e fece templi agli dei e divise le terre»[10]: Odisseo, incamminandosi verso la città, ne ammira «le lun­ghe mura, eccelse, munite di pa­lizzata, meraviglia a vederle»[11], molto simili a quelle di una polis greca, che prevede una divisione razionale e geometrica dello  spazio[12].

Il modello ellenico della hybris avvalora il principio di misura e di ordine che deve reg­gere le opere dell’uomo e il rapporto uomo-natura: esso torna in molte tradi­zioni leggenda­rie a proposito di inaudite modifiche del territorio e dell’ambiente: ta­glio di istmi, trasformazione di penisole in isole, unione di isole al continente, devia­zione di fiumi[13]. Di per sé, intervenire sulla natura e sull’ambiente non si oppone all’ordine delle cose, purché l’intervento sia opportuno e non sproporzionato rispetto al principio dell’utile[14]; andare oltre, an­che se possibile, fa scattare la colpa dell’hybris, una colpa che si palesa in una serie di terri­bili conseguenze per la comunità.

2. L’uomo di ogni tempo ha elaborato una concezione dello spazio a partire dalla re­altà che lo circonda e in cui si trova a vivere. Allo spazio l’uomo antico attribuisce signifi­cati e va­lori, al punto che, «nell’immaginazione linguistica e culturale il tempo si fa spazio» e costrui­sce le sue relazioni su base locativa: ante/post, davanti/dietro per la relazione di anterio­rità/posteriorità, sopra/sotto, alto/basso, per indicare la topogra­fia del tempo suggerita dal linguaggio[15].

Non esiste uno spazio senza uno sguardo da cui coglierlo, una posizione ri­spetto alla quale riferirsi, un contenuto che lo individui, un valore che lo classifichi.

Nell’intuizione mitica, come nella vita religiosa di ogni tempo, alla rappresenta­zione dello spazio omogeneo e geometrico si sostituisce la rappresentazione di uno spa­zio carico di si­gnificato e potenzialmente simbolico, dove l’orientazione, la posi­zione relativa di destra e sinistra, fuori e dentro, la direzione, il centro, le percezioni di utile e di pericolo, attivano distin­zioni che hanno il corrispettivo nell’organizzazione sociale: l’organizzazione sociale mo­della le rappresentazioni dello spazio, vale a dire, la ge­nesi delle rappresentazioni spaziali è di ordine storico-sociale, essendo la nozione di spazio integrata nei sistemi di cultura, entro ampi e diffe­renti quadri: quindi, le rappresenta­zioni spaziali sono proiezioni, rete di riferi­mento dei fenomeni sociali, vale a dire con Lévi-Strauss, sono rappresentazioni che permet­tono di pensare i rapporti so­ciali[16], ed, in sintesi, esprimono «la consapevo­lezza che la società ha di se stessa»[17].

La cura dello spazio del focolare, o dell’agorá nella polis, o dei locali del tempio, o dell’ager su cui far sorgere la città, o dei recinti sacri ed identificati, rispecchia l’esi­genza di far corrispondere l’ambiente ad un’idea, innanzi tutto, all’idea di ordine: così, ad esempio, il verbo latino lustrare, attraverso la pratica dei riti i lustrazione o purifica­zione, sviluppa le acce­zioni di osservare, percorrere con lo sguardo, esplorare, da cui, con il passaggio ai feno­meni celesti, illuminare, fino alla determinazione tempo­rale di un quinquennio. L’esegesi sa­rebbe banale, se non si mettesse in rilievo il va­lore col­let­tivo che la lustratio degli arva riveste nella cultura romana in rapporto alla ciclicità sta­gionale dei lavori agricoli: purificazione signi­fica rinnovamento e rifonda­zione, ricogni­zione del territorio e garanzie di sicurezza. In­fatti, nelle rappresenta­zioni dell’antica società quiritaria, il census e la lustratio sono stretta­mente con­nessi, essendo la lustratio censoria la cerimonia che accompagna il censimento con cui avviene la disposi­zione, si direbbe la registrazione, del popolo armato: la purifica­zione quinquen­nale intende stabilire una barriera contro forze estranee nocive minaccianti dall’esterno e offrire garanzia di protezione all’esercito della respu­blica[18], data la contiguità, nella cul­tura antica, di religioso e pubblico, di pubblico e privato[19].

Come scriveva efficacemente Walter Belardi, «Tempo e Spazio: due “luoghi”, eteroge­nei e concomitanti, offerti dalla realtà all’agire dell’uomo. Già in essi l’agire incon­tra i primi condizionamenti, naturali e oggettivi … Ma poi altri condizionamenti, an­cora spaziali e tempo­rali, seppure di natura antropologica, si aggiungono a creare per l’individuo itinerari obbliganti: contrassegni della sua etnia, specificazioni della sua so­cialità. Evincerli non è dato se non per lenta e secolare conquista di libertà, per fati­coso superamento di imposizioni di costume»[20]: accessi, spazi assegnati, spazi delimi­tati, barriere, spazi interdetti. Sempre nuove barriere creano divisioni su base religiosa, etnica, e sociale. Secondo uno schema psico-reli­gioso e metacronico, alla base delle proibi­zioni è il divino, che riserva a sé parti di tempo e di spa­zio: spa­zio sottratto alla dimensione profana. Di qui, lo sforzo dell’uomo antico per cono­scere, in modo preciso, luo­ghi non vietati, in cui organizzare e programmare le sue opere, senza venir meno alle norme del costume sociale o religioso.

Ci troviamo nella sfera del lecito e del non-lecito, fas et nefas secondo una for­mula dell’antico calendario religioso dei Romani, che individua tempi e luoghi appo­siti per il culto e per le attività profane e ritualizza atti espiatori relativi all’impiego del suolo e allo sfrutta­mento di determinate risorse naturali[21].

3. La prospettiva da cui l’uomo greco considera lo spazio è quella della città, l’“interno” rispetto all’ “esterno” costituito dal territorio che si estende oltre la chora, la campa­gna circostante. Qui inizia uno spazio “altro” da quello urbano, uno spazio ad esso contrap­posto per diversi schemi di opposizioni.

La cultura della polis greca è una cultura urbana, in cui risiedono cittadini liberi, schiavi, stranieri e gente priva di diritti, mercanti, artigiani e contadini: città, quindi, che è spazio di vita e di sopravvivenza. Ugualmente, nella città ellenistica e nella Roma di età repubblicana e poi imperiale, nell’urbe risiedono i cives con pieno diritto, schiavi, li­berti e stranieri, ma nell’urbe accorrono contadini e abitanti di altre regioni, e per sva­riati motivi, in caso di crisi, calamità, carestia, e, soprattutto, in caso di  guerra[22]: città luogo di sopravvivenza, come denun­ciano testi letterari di vario genere, se­condo un cliché che, condannando il lusso e lo spreco insiti nel mondo urbano, descri­vono, in forte contrasto, il popolo bisognoso e indi­gente concentrato in città.

L’uomo greco si rappresenta lo spazio avendo la città come punto di osserva­zione ide­ale: infatti, anche il contadino dell’Attica, che durante la giornata lavora nella campagna, la chora oltre la cinta muraria, la sera rientra in città. La città è spazio abitato, luogo d’incontro e di comunicazione, quindi spazio ci­vico variamente composito, ma dalla decisa identità poli­tica, garante della difesa e della sicurezza comune. La città espressa dalla polis aristocratica è, così, una realtà mono­centrica, un organi­smo unitario sul piano logico ed ideale. L’ideologia dello spazio urbano territo­riale è quella di uno spazio circoscritto e delimitato, chiuso rispetto all’esterno e ben ripar­tito, all’interno, secondo una tassonomia, che dallo spa­zio fisico si trasferisce allo spazio sociale, e, an­cora all’interno, regolamentato per estreme eve­nienze: prima fra tutte, la guerra, come accadde all’inizio della guerra del Peloponneso, quando, secondo Tu­cidide, la popola­zione della chora dovette rifugiarsi ad Atene[23].

Lo spazio urbano della città greca è visto in termini di spazio strategico, chiuso  e pro­tetto dai pericoli esterni a scopo difensivo, come un’isola rispetto al territorio circo­stante; in Atene, infatti, a ridosso della cinta muraria, ai piedi dell’Acropoli, una fascia di terreno do­veva restare sempre sgombra, interdetta agli insediamenti abitativi e non coltivata; ciò per consentire insediamenti straordinari in casi di necessità, senza alterare troppo l’ordine in­terno costituito[24].

Il contatto con lo straniero è ambiguo e conflittuale, nonostante il principio dell’ospitalità sia radicato nel costume e nel diritto: ancora una volta, l’archetipo di que­sta relazione si trova nell’«Odissea», dove la dea Atena, sotto l’aspetto di una no­bile fanciulla, avverte Odisseo che i Feaci, abili naviganti e intraprendenti in mare, quelli che ricolmeranno l’eroe di favori e di doni, in patria, «non vedono volentieri gli estranei e non fanno cordiale accoglienza a chi venga da fuori»[25].

All’esterno della città, oltre la campagna coltivata, si trova la natura selvaggia, in­colta, non abitata dall’uomo e di segno negativo, il mondo dell’altro e dell’alterità[26].

Se si vuole istituire una catena di relazioni a maglie strette fra modelli di organizza­zione dello spazio nell’antichità, il modello greco di impiego del suolo e di organizzazione del territorio urbano risulta molto stringente, traducendosi in astratto in un modello politico e religioso: innanzitutto, come hanno chiarito da tempo alcuni studi importanti[27], per l’assoluto rilievo dato all’agorá, centro della polis, vale a dire della vita politica, assimilabile religiosamente e simbolicamente alla sacralità e alla stabi­lità del focolare domestico, con i sa­cri valori che questo rappresenta in epoca ar­caica[28].

Al centro e all’idea del centro si lega, quindi, il complesso dei valori su cui si  regge la comu­nità, valori che sono alla base, per i Greci,  del concetto stesso di libertà: il con­cetto greco di libertà significa sempre possibilità di difesa e sicurezza per quanti si trovano dentro la città. Al centro e all’idea di centro, inoltre, si lega una simbologia dei rapporti sociali ispi­rati ai principi dell’eguaglianza e della reciprocità.

Dal centro, lo sguardo abbraccia il territorio urbano e si estende oltre il perimetro, fino ai campi coltivati, ambito politico e domestico, chiuso e protetto, connotato al femmi­nile, stando a quanto afferma Senofonte circa la donna, «fatta per le occupazioni dentro casa», e l’uomo, «fatto per le occupazioni di fuori»[29].

Si delinea, quindi, una demarcazione fra il mondo che riunisce la casa, la città e le aree colti­vate e quello delle zone che, a partire dal margine, non abitate e incolte, diven­tano sem­pre più selvatiche, zone della natura selvaggia, zone silvestri che l’immaginazione può riem­pire di vari oggetti geografici: fonti, fiumi, rupi, antri e preci­pizi. Certamente, non è il luogo del femminile, ma neppure del maschile: solo un gio­vane cacciatore potrebbe percorrerlo, pur con certi limiti di accesso, per esercitare la cac­cia o recuperare il bestiame che, al pascolo, si è inoltrato in una zona impraticabile[30].

Mentre lo spazio interno della città è sotto la tutela di Hestía, dea del focolare, quello esterno, aperto alla caccia e alle avventure, è sotto la guida di Hermes, ladro di bestiame: poi­ché, secondo la preistoria degli antichi, la caccia precede sempre la facies economica dell’agricoltura, allo spazio non addomesticato e non antropico si assimila, attraverso se­quenze di opposizioni, la sfera del primitivo contro quella della cultura[31].

Uscire e rientrare, andare e tornare, osare nuove esperienze e portarne il frutto e i gua­da­gni alla casa come alla città, incontrare pericoli in zone di margine senza adden­trarsi in am­bienti ostili, questo è quanto prevede il paradigma del corretto comporta­mento maschile. La fuga nello spazio venatorio, la caccia solitaria e il rifiuto di Afrodite non si addicono all’uomo e, a maggior ragione,  alla donna greca.

Ecco allora che una serie innumerevole di miti greci, conosciuti attraverso intri­cate va­rianti, scaturite da un sistema simbolico molto strutturato, produce uno schema narrativo com­patto: nello spazio privilegiato della foresta, nella selva sui monti o nelle valli solitarie e presso le rive dei corsi d’acqua, come presso le sorgenti riparate fra gli alberi, avvengono incon­tri inquietanti fra un giovane cacciatore e una vergine  fanciulla che vive lontano dalla città, all’aperto, inseguendo la selvaggina[32]. Giovani dediti al servi­zio di Artemide disde­gnano Afrodite, preferiscono la castità e contrastano il matrimo­nio: Tiresia, Atteone, Leu­cippo, Ippolito, Attis, Tanais, sono soltanto alcuni dei nu­merosi giovani incauti che percor­rono boschi e selve, vittime impreparate ad affron­tare la crisi del passaggio alla vita adulta, le delimitazioni di genere, le restrizioni impo­ste dai codici di comportamento, fino al tragico sacrificio della virilità o della vita stessa. Dafne, Callisto, Atalanta, Polifonte, sono solo alcune delle tante vergini che vanno incontro a violenze o a disavventure amorose, colpevoli di vo­lere sottrarsi alle nozze: anche in questi casi, storie d’identità della sfera sessuale e  rifiuto della sessua­lità che si esprime nella consacrazione alla dea cacciatrice, nella  fuga dalla vita asso­ciata, nello scenario dell’ambiente selvaggio, nello stile di vita ferino, in uno spazio, che non si addice all’uomo adulto né, assolutamente, alla donna.

Nei boschi, nei luoghi desolati, presso le sorgenti all’ora meridiana o presso le rive di fiumi di grande portata, storie di aggressioni e di incesto coinvolgono giovani e fanciulle che si trovano in uno stato di vita in bilico fra natura e cultura, per usare una terminologia tanto convenzionale quanto pregnante: racconti mitici di paura, ambien­tati là dove l’ambiente natu­rale non conosce la correzione dell’uomo e il paesaggio non con­tiene i segni della civiltà. Nel De fluviis et montibus dello Pseudo Plutarco, oscure tradi­zioni mitografiche offrono un reperto­rio variegato su questa tipologia di racconto, i cui protagonisti sono cacciatori e gio­vani vaganti in luoghi aridi e disabitati, vittime di passioni amorose illecite, che in prossimità di fiumi dai gorghi vorticosi perdono misera­mente la vita: certo, ogni episodio narrato pro­spetta un mito all’origine degli idro­nimi[33], ma il modello culturale è ancora percepibile. Le trasgres­sioni dei giovani si scoprono sullo sfondo dello spazio istintivo.

Sembra possibile, di nuovo, riconoscere che la rappresentazione dello spazio fi­sico si trasferi­sce nello spazio sociale e psichico, e che il carattere deontico del mito – vale a dire l’indicazione circa la condotta preferibile da tenere – si coglie nel fallimento dei protagonisti dei singoli episodi: la morte dei protagonisti permette di negare il va­lore delle loro scelte, men­tre diventa un contrassegno immaginario dello spazio esterno al territorio abitato con la fase di passaggio dei giovani e delle fanciulle alla vita da adulti nella comunità civile.

Ovidio, nelle «Metamorfosi», racconta il noto episodio di Piramo e Tisbe, due gio­vani, lui greco, lei orientale di Babilonia, che, ostacolati nel loro progetto di nozze dai rispettivi pa­dri sembra di capire per ragioni etniche, decidono di fuggire insieme,  con la complicità della notte[34]. Non si tratta semplicemente di «fuggire»: i giovani deci­dono di «uscire prima di casa e poi dalla città; vagabondando nell’ampia pianura, di incontrarsi presso il sepolcro del re Nino e di nascondersi sotto un albero ombroso, un albero carico di candidi frutti, un altis­simo gelso che si erge al margine di una fresca fonte»[35]. Qui giungerà la leonessa inferocita e qui i due giovani si daranno la morte, l’uno per non sopravvivere all’altra: elementi convenzio­nali e certamente, in età augu­stea, stilizzati dalla topografia retorica, ma comba­cianti perfettamente con forme dell’immaginario greco arcaico.

I miti con le relative ambientazioni costituiscono, infatti, per la cultura letteraria greca e ro­mana una preconoscenza culturale, determinante nel costruire codici di comunica­zione, ma anche per gestire religiosamente e socialmente il rapporto con l’ambiente. Fuori dallo spa­zio urbano, si apre la pianura estesa, dove l’estensione è inco­gnita e pericolo: spazio esterno, della natura non civilizzata, del mondo senza re­gole e dello straniero. Una retorica dell’alterità[36].

A pensarci, Piramo e Tisbe, i due innamorati che erano stati reclusi dai padri al punto da essere costretti a comunicare attraverso una parete divisoria delle loro case, “dentro”, in casa e in città, erano sicuri e potevano pensare di vivere, dice Ovidio, iure , cioè, secondo la legge[37].

 

 

4. Nel sentire religioso dei Greci c’è permeabilità fra il mondo naturale, l’uomo e il di­vino. E’ come se l’uomo greco antico sentisse pulsare la vita nelle manifestazioni della natura ed esprimesse tale percezione attraverso i nomi corrispondenti a varie en­tità minori dai netti tratti antropomorfici, divinità atmosferiche e naturistiche, che popo­lano tratti del paesaggio terrestre e personificano le forze e le qualità naturali dell’ambiente: i venti, le nubi, l’arcobaleno, le Driadi o ninfe degli alberi, le Oreadi dei monti, le Alseidi dei boschi, le Naiadi delle fonti, le Napee delle valli, le Meliadi dei fras­sini, le Nereidi del mare, e altri innume­revoli cori di figure femminili divine, che attraversano non solo la mitologia, ma la vita quotidiana, integrando immagini ed espe­rienze reali in un organico sistema della vita urbana.

Poiché la rappresentazione antropomorfica del divino è peculiare di un politei­smo ma­turo[38], la religione ellenica, come altre espressioni della cultura, tende a portare sul piano del mito le rappresentazioni del reale e quindi a ritrovarle nei riti. La rappresenta­zione dello spa­zio esterno alla città contempla la particolare tipologia del prato primaverile, il cui valore si illustra con la coppia che oppone l’agricoltura alla cul­tura precerealicola. L’immaginazione dei Greci ha stilizzato nella descrizione e nel rito lo spazio di un tempo del tutto trascorso, anteriore alla pratica dell’agricoltura, quando mitiche giovani eroine, attraverso la violenza o il sacrificio del loro corpo, hanno inaugurato il tempo dell’attualità, fondando il passaggio all’agricoltura[39]. Nella rappresentazione mentale arcaica, il prato fiorito a primavera, collo­cato dalla mitologia clas­sica nello sfondo geografico del Mediterraneo antico, è il luogo dove si pratica una raccolta singolare, la raccolta dei fiori, commestibili o comunque dotati di pre­ziose pro­prietà, operazione critica che prelude all’utilizzo delle piante e a nuove culture[40].

Come si apprende da varie tradizioni letterarie mitico-rituali, e come sembrano sugge­rire  alcune scene dell’antica pittura parietale minoica e dell’arte vascolare attica, nella pia­nura irrigua e coperta di fiori, si consumano vicende di violenza e di morte che coinvolgono vergini fanciulle,  intente a raccogliere fiori.

Kore-Proserpina, nell’inno omerico a Demetra, fissa l’attimo prima di es­sere ra­pita da Ade e trasportata per sempre nel regno dei morti[41]:

 

«Giocavamo e coglievamo fiori profumati con le nostre mani, il molle croco, i fiori dell’iris, il giacinto, rose dai  grandi boccioli, gigli meraviglia a vedersi ed il narciso che l’ampia terra fece sorgere come il croco. Io li colsi con gioia, ma la terra dal basso si aprì. Ne uscì il possente si­gnore di molte genti e mi portò sotto terra con il suo cocchio d’oro».

 

Altre figure del mito sono rapite nel prato primaverile smaltato di fiori e luogo d’insidia: Europa, Creusa, Orizia, persino Elena, rapita da Ermes mentre coglie rose ap­pena sbocciate per offrirle ad Atena[42]. Cogliere  fiori non ancora o appena sbocciati, l’anthologeîn, è un atto pericoloso, non per essere una violazione dell’ambiente naturale, ma per essere un richiamo, un appello alle potenze sacre e misteriose del sottosuolo, rito adolescenziale che segnala il passaggio dalla pubertà alla piena maturità sessuale, consentendo di accedere alla vita adulta e al matrimonio. Infatti, il modello del rapi­mento rientra nel ritualismo iniziatico, fondativo della vita comunitaria[43].

Da questa rassegna, scontata se si vuole, emerge l’importanza culturale e reli­giosa di tale rappresentazione che sacralizza e ritualizza il prato primaverile, in cui la raccolta dei fiori evoca un tempo presunto reale, ormai del tutto concluso, quando avve­niva la raccolta dei bulbi e delle piante a scopo alimentare, un tempo anteriore a quello dell’attualità.

Infatti, l’esigenza di ordinare, classificare e organizzare lo spazio porta a operare nuove di­stinzioni negli ambiti del paesaggio, attraverso un procedimento contrastivo, che polarizza gli aspetti della realtà mediante coppie di opposizioni binarie, den­tro/fuori, chiuso/aperto, vicino/lontano, utile/pericolo, puro/impuro, sacro/profano, ma­schile/femminile, sopra/sotto, alto/basso, caccia/agricoltura, ma anche agricol­tura/precerealicoltura. Ovviamente, si tratta di una rappre­sentazione che ordina e nella quale un estremo scivola verso l’altro, contemplando una serie, pur non illimitata, di situazioni intermedie.

 

 

5. Nella letteratura dei Romani, il contrasto fra la natura selvatica e la natura addome­sti­cata si indebolisce attraverso la rappresentazione del paesaggio bucolico, stiliz­zato nella sua dimensione letteraria, ma composto in quadri che riuniscono ele­menti tradizional­mente distinti, attualizzati nel contesto storico: nell’egloga I di Virgi­lio, attraverso il raccordo dei versi d’apertura con i  due versi conclusivi, un unico sguardo riunisce la campagna (arva), la casa e l’orizzonte montuoso con le silvae [44]. I monti non risultano estranei all’ambiente dei pastori: nell’egloga V, tutta la natura piange Dafni, i pascoli, gli alberi, i fiumi, i monti sel­vaggi, le foreste e i feroci leoni[45]. Ugualmente, la caccia non è assimilata al polo negativo, ma è parte integrante della vita pastorale[46]:

 

«O se soltanto ti piacesse abitare con me i campi per te rozzi e le umili capanne e trafiggere i cervi e sospingere la schiera dei capretti al verde ibisco!».

Nella poesia augustea, il riferimento al mondo venatorio rimanda, persino in tono semise­rio, ad un contesto del costume contemporaneo, che riconosce nella battuta di caccia un’occasione per istituire e conservare stabili relazioni sociali[47]. La presenta­zione del cacciatore adotta i moduli tradizionali del mito: con una vivida e dinamica immagine Orazio para­gona Ottaviano che incalza Cleopatra, ormai vinta, ad un agile cacciatore, che nelle balze inne­vate dell’Emonia insegue la lepre[48], essendo entrambi topoi letterari sia il motivo dell’incompatibilità fra amore per la donna e passione per la caccia[49] sia l’equiparazione reto­rica dell’attività militare a quella venatoria[50].

Plinio il Giovane nel «Panegirico a Traiano» presenterà il princeps in uno scenario ve­nato­rio, che  vede in primo piano le diverse componenti del paesaggio[51]:

 

«qual è la tua ricreazione se non percorrere (lustrare) i boschi, far sbucare le fiere dalle tane, vali­care le alte cime dei monti e avanzare per orridi greppi senza l’aiuto di una mano o di chi ti pre­ceda, e nello stesso tempo visitare con pia disposizione i sacri boschi e accostarsi alle divinità che vi dimorano?».

Traiano, nuovo Ippolito, è adattato alle ragioni della propaganda imperiale, tanto che alla pas­sione della caccia Plinio aggiunge, subito dopo, lo svago della barca[52].

Secondo il sistema delle rappresentazioni dei Romani, sono orridi e suscitano paura so­prattutto i luoghi montani, che non sono, però, luoghi generici, essendo ora­mai inseriti in una precisa topografia: nella X egloga virgiliana, Licoride ha lasciato Gallo per seguire un sol­dato al di là delle Alpi, preferendo nevi, horrida castra, freddo e solitudine, lontano dai sof­fici prati e dalle fresche sorgenti[53]. Ecco, scatta immediata un’ulteriore antitesi: anche Gallo, abbandonato, lascerà il suo ambiente sereno, la splen­dida e perfetta natura dell’Arcadia, e nella solitudine condurrà una vita simile a quella degli eroi del mito, che hanno scelto la monta­gna e la caccia, perché ora, per riscri­vere  le sofferenze d’amore del poeta non corrispo­sto, alla poesia elegiaca suben­tra il registro bucolico[54]:

«Ho deciso: preferisco soffrire nelle foreste tra i covi di fiere … percorrerò il Menalo in compa­gnia delle Linfe o caccerò i focosi cinghiali … già mi pare di procedere per rupi e boschi sonanti».

Properzio direbbe Ipse ego venabor, pur di seguire Cinzia che si è allontanata da Roma, rifu­giandosi in campagna e preferendo la solitudine: sola eris et solos spectabis, Cynthia, mon­tes[55].

Il volo di fantasia di Virgilio, tuttavia, non può spingersi molto lontano dalla vi­sione di un territorio abitato: scese le ombre della sera, alle sue caprette il pastore potrà of­frire un luogo ospitale: ite domum saturae, venit Hesperus, ite capellae, «andate a casa, ca­prette, viene la sera»[56]. Le ombre che scendono mentre il giorno declina e il fumo che si alza dai tetti, lon­tano, costruiscono un’immagine stilizzata, radicata nell’immagina­rio collet­tivo: et iam summa procul villarum culmina fumant / maioresque ca­dunt altis de monti­bus umbrae[57]. Il fumo è immagine della cultura, dello spazio reso ospi­tale dalla pre­senza dell’uomo[58].

Così, in Properzio, la vita ritirata lontano dall’urbe si svolge nei campi e nello sfondo del lavoro agricolo. Infatti, nelle rappresentazioni dei Romani, lo spazio di se­gno positivo è la campagna pianeg­giante o lievemente collinare, abitata e coltivata, sol­cata dall’aratro, abbon­dante di frutti, facil­mente raggiungibile, vicina alla città, dove il contadino ha mezzi sufficienti per vivere: laetor quod sine me devia rura colis[59]. Luo­ghi selvaggi, elevati, impervi, coperti di foreste, insidiati da paludi e acquitrini, non se­gnati da strade, sono spazi senza vita, soli­tudines, come quelle attraversate dai nemici di Roma, genti straniere che vivono ai mar­gini dell’impero[60].

6. Il modello classico, che illustra gli attributi della civiltà contrapponendo lo spa­zio chiuso della casa e dell’urbe a quello aperto della selva, misterioso, ferino e carico di  insidie, si ritrova con tratti netti in un passo di Agostino derivato da Varrone, dove si spiega il signifi­cato di un arcaico rituale romano volto a proteggere dall’influenza nega­tiva del dio Sil­vano la dimora in cui fosse stato da poco partorito un bambino. Per impedire che il dio Sil­vano entrasse per noctem nella casa col suo effetto malefico, veni­vano chiamate in soccorso come custodi tre divinità, la cui presenza era rappresentata da tre uomini che si aggiravano vigili intorno alla casa; essi colpivano la soglia prima con una scure, quindi con un pestello, infine la spazzavano con una scopa: strumenti che nell’interpretazione di Agostino sono si­gna culturae, cioè simboli dell’agricoltura e totalmente estranei alla sfera del dio silvestre. In­fatti, la scure indiche­rebbe la potatura degli alberi, il pestello la preparazione del farro, la scopa l’ammassare il grano nell’aia, operazioni dalle quali derivano i nomi delle tre entità ad esse funzionali, rispetti­va­mente Intercidona, Pilumno e Deverra[61].

Evidentemente, il rito aderisce ad un sistema di rappresentazione dello spazio ti­pico di una comunità di agricoltori, che auspica per il neonato e per la puerpera la sicu­rezza della casa e la prospe­rità garantita dal lavoro agricolo, contro le aggressioni «not­turne» di una forza sola ma terribile, selvaggia e incivile: tre divinità contro una, per scongiurare i mala infan­tiae[62].

7. Non sono i miti, le leggende e i racconti che conferiscono un valore negativo all’immagine dello spazio montano e forestale, ma l’assenza di cultura, il vuoto di signifi­cati, l’assenza di un modello in cui riconoscersi[63]. Per il Romano, infatti, il punto da cui osservare il mondo resta sempre la città: anche la campagna esiste nella rela­zione con l’urbs. La foresta e l’ambiente selvaggio ne sono l’opposto. Solo il giardino delle sontuose abitazioni, quando prevede un angolo in cui riprodurre la selva, diventa lo spazio della mediazione, che, mentre esalta esteticamente il contrasto fra due tipolo­gie di paesaggio, celebra il trionfo della cultura e dell’artificio: «tra le lavorate colonne si fa crescere il bosco ed è apprezzata la casa se da­vanti guarda la vasta campagna» scrive Orazio all’amico Fusco, che ama vivere in città[64].

La retorica del paesaggio trasforma la natura in un discorso e rievoca infinite narra­zioni. In ogni paesaggio, sia di campagna sia di città, il Romano colto e letterato può dire di vedere delle narrazioni e di riconoscervi delle storie ben note: vengono su­bito in mente le «Meta­morfosi» di Ovidio, ma anche l’ekphrasis letteraria, sculture e  monu­menti architettonici, le immagini paesaggistiche dei parerga, con riferimenti ad una mitologia immediatamente ricono­scibile alla prima osservazione. D’altra parte, all’uomo antico interessa la tipicità e non l’individualità.

Quando descrive la sua villa di Laurento, Plinio il Giovane mostra quale familia­rità con il paesaggio vanti l’intellettuale romano: quanto più vive nell’urbs e per l’urbs, sommerso da incarichi e impegni, tanto più si dichiara amante delle bellezze naturali e del ristoro che an­che un breve soggiorno, lontano dalla vita cittadina, può offrire[65]. Va­rie sono le configura­zioni del paesaggio in cui si trova la sua villa (varia hinc atque inde facies): boschi che sem­brano venire incontro a chi percorre la via di andata, ampi tratti di pianura, e una stupenda varietà del panorama, in modo che i molteplici aspetti del paesaggio (ancora facies locorum) sembrano «distinti e riuniti da altrettante finestre»; da tre lati, la vista è sul mare, il retro della villa, «guarda i boschi e più in lontananza i monti», silvas et longiquos respicit montes, dove il verbo respicere è il verbo tipico del guar­dare attentamente, dello sguardo intenso, del contatto cercato[66]. La dimensione estetica riunisce quegli aspetti che la scala dei valori e dei significati distin­gue.

Nella tragedia di Seneca «Tieste», si ritrova un modello capovolto di domus, la reg­gia de­gli Atridi, dove si consuma il pasto cannibalico dei figli imbanditi da Atreo al fra­tello. Il palazzo sorge  a ridosso di un monte, su un luogo elevato, e dall’alto sembra schiac­ciare (pre­mit) la città; innumerevoli stanze si succedono per finire sul retro in una zona ritirata, interna, uno spa­zio che racchiude, anzi sembra abbracciare, il bosco di una fonda valle: il bosco non si vede in lontananza, ma penetra, vegeto e ondeggiante,  nel cuore della casa[67]. L’orrore per l’altezza dell’arx su cui si erge la reggia cresce alla vista di una quercia che sovrasta e do­mina il bosco, una quercia che guarda dall’alto (despectat) questa inquietante scenografia del po­tere: immagine di potere e di domi­nio[68].

Ancora Seneca, nell’epistola 51, dove, secondo le sue stesse parole, «fa il pro­cesso» ai luo­ghi poco adatti alla meditazione a causa della loro eccessiva bellezza (amoeni­tas nimia) e frequentati da gente dissoluta (si riferisce a Baia), in tono polemico dichiara di disapprovare importanti personaggi politici, quali Mario, Pompeo e Cesare, che hanno fatto edificare le loro ville a Baia sulle cime dei monti, summis iugis[69]:

«sembrava loro più da militari dominare dall’alto, in lungo e in largo, la zona sottostante. Guarda che posizione hanno scelto, in quali luoghi hanno innalzato le loro case: ti renderai conto che non sono ville, ma accampamenti».

Poiché la rappresentazione dei luoghi si svolge non per quello che sono, ma per quello che valgono e significano, inevitabilmente le rappresentazioni spaziali si tradu­cono in una retorica che avvalora o contrasta la visuale ideologica.

Il tradizionale confronto fra campagna e città s’illustra con una varietà di descri­zioni dell’ambiente e del paesaggio naturale che risultano, non di rado, poco o scarsa­mente realisti­che: ogni veduta prospetta, innanzi tutto, un’interpretazione dello spazio quale conteni­tore di fatti umani[70]. Lo schema della rappresentazione mentale è sem­plice: gli ele­menti positivi di un polo sono il negativo dell’altro.

Nella poesia elegiaca, la retorica della campagna e della città opera in senso attualiz­zante, al punto da far emergere negli schemi formali della cultura arcaica conte­nuti insoliti. In Tibullo e Properzio, il tema della “passeggiata archeologica” riscopre la semplice Roma delle origini, in ossequio all’indirizzo arcaizzante del regime augusteo,  e fa sognare al poeta l’amore sereno e disinteressato di una puella non attratta dal lusso e dai doni costosi[71]; in Ovi­dio, il rifiuto della rusticitas, contraria allo stile del mondo urbano visto come luogo privile­giato per coltivare gli amori e, secondo una disinvolta prospettiva, un ritocco al mo­dello reto­rico delle laudes Italiae[72] ripropongono il motivo dell’autosufficienza di Roma, non per i doni di cui è stata dotata dalla natura, ma per l’abbondanza di belle fanciulle che vi s’incontrano[73].

L’opposizione stilizzata fra mondo rustico e mondo urbano, a livello metalettera­rio, defini­sce l’antitesi fra due generi poetici, fra il dominio della poesia bucolica e quello della poe­sia elegiaca.

8. Ho evitato di parlare, fino a questo punto, di locus amoenus e di locus horridus, due eti­chette attribuite dai grammatici antichi e dai critici al paesaggio letterario della letteratura la­tina, in base ad una distinzione esteriore ed artificiale, che distingue uno scenario statico e idilliaco, in cui gli elementi paesaggistici, tratteggiati in modo convenzio­nale, esprimono i valori della pace e della cultura, e uno scenario connotato all’opposto, cupo e orrido, dina­mico nella sua funzione simbolico-evocativa del disor­dine, della barbarie e del male[74].

Si tratta di un paesaggio che ha debole attinenza con la realtà, poiché è una riprodu­zione reto­rica e codificata, che trae forza dal processo di ricezione di determi­nati modelli poe­tici, non solo di genere bucolico. A partire dalla grotta della Calipso omerica, attraverso i quadri naturali della lirica greca, fino agli Idilli di Teocrito e alla poesia alessandrina, con rela­tive imitazioni, la stilizzazione del paesaggio si trasforma in una procedura poetologica, che suggeri­sce al pubblico colto un commento metalettera­rio.

L’impiego retorico della descrizione dei luoghi a scopo persuasivo è lucidamente teo­riz­zato dagli antichi[75]: basta un toponimo, un riferimento geografico, uno sfondo conven­zio­nale, per costruire un’eco di richiami e di allusioni ai significati dello spazio cultu­rale. Tuttavia, nessuna rappresentazione mentale e nessuna descrizione esprime valori e signifi­cati dello spazio per le sue caratteristiche reali, per quello che esso è: lo spazio, invece, è significativo per quello che rappresenta, per le narrazioni che evoca, per la storia di cui porta le impronte, per la tradizione che lo accende.

Creazione della lettura intellettuale, la distinzione fra locus amoenus e locus horri­dus mo­stra la sua inconsistenza, quando l’intellettuale romano, ancora Seneca ad esem­pio, dichiara tranquillamente che non ha importanza l’aspetto del luogo, sia esso ri­dente, arido e deso­lato[76]. Oppure, anni prima, in un clima di fervore per le grandi realizza­zioni urbanistiche pro­mosse dalla politica edilizia augustea, Orazio, che sul sim­bolo del “luogo” costruisce nelle «Epi­stole» la sua autobiografia spirituale, dirà che un villaggio semiabbando­nato come Lebedo o come il piccolo Úlubra nelle paludi Pon­tine vale, in certe condizioni psicologi­che, come le più grandi e belle città della Grecia[77].

Il poeta, quando si trova nel suo fundus in Sabina, ci offre uno  scorcio archeolo­gico, il re­tro del tempio cadente dell’antica dea Va­cuna; da questo posto appartato, scrive la sua let­tera all’amico Fusco: a Fusco che ama la città scrive il poeta, che ama la campagna [78].

Se un luogo di rovine non può certo definirsi città, come precisa Pausania con tono irri­dente a proposito di antichi centri diroccati e lasciati all’incuria[79], resta il fatto che, a partire dall’età ellenistica, il fascino dei luoghi un tempo frequentati e caduti in rovina è regolar­mente documentato con diversi risvolti: riflessione sulla precarietà dei grandi imperi, sul ci­clo vitale della città, sull’alterna vicenda della sorte, sull’incuria colpe­vole dell’uomo, medita­tio mortis.

Il colto giureconsulto Servio Sulpicio, scrivendo una lettera di condoglianze a Cice­rone per la morte della figlioletta Tullia, rievoca una sua esperienza personale, per esprimere la sua vici­nanza all’amico[80]:

«Di ritorno dall’Asia, navigavo da Egina in direzione di Megara e mi misi a osservare il pano­rama che mi circondava. Dietro a me era Egina, davanti Megara, a destra il Pireo, a sini­stra Co­rinto, tutte città un tempo fiorenti di vita che ora giacciono sotto i nostri occhi abbat­tute e diroc­cate. Presi allora a medi­tare fra me e me in questi termini: “Ahi! Noi esseri infimi ci indigniamo se qualcuno di noi, alla cui vita ha dato natura di essere più breve, è morto o è stato ucciso … vuoi tu, Servio, dominarti e  rammentare che sei nato uomo?».

In ogni epoca, è avvenuto che le culture urbane abbiano elaborato circa le proprie ori­gini e l’originario ambiente naturale una visione del tutto immaginaria, quasi a garan­tire l’impiego del suolo e l’organizzazione del territorio attraverso la rappresenta­zione di un paesag­gio perduto. A questo paesaggio leggendario alludono gli scrittori antichi, inclini ad interpretare l’età dei primordi in termini di primitivismo: «Ospite, quello che vedi intorno alla magnifica Roma, prima del frigio Enea, erano colli e prati»[81] indica Properzio con la nostal­gia convenzionale della celebrazione. Con forti con tratti di verosimiglianza quanto ai processi di aggregazione degli antichi centri, ma an­cora con una descrizione convenzionale, nel libro VIII dell’«Eneide» viene ricostruito, se­condo i principi del programma di restaura­zione morale e religiosa promossa da Augu­sto, il microambiente del Latium vetus, in cui sorse la città protostorica di Evandro, sul Palatino[82]:

Questi boschi, narrava (Evandro), abitavano i Fauni indigeni e le Ninfe

e un popolo forte, nato dai tronchi di rovere duro,

non avevano né civiltà né tradizioni, né sapevano aggiogare i

tori, raccogliere provviste o serbare il raccolto,

ma i boschi e la rozza caccia fornivano il cibo.

questo bosco, il re disse, e la vetta del colle coperto di selve

è abitato da un dio – è incerto chi sia  …

inoltre, questi due borghi dalle mura crollate,

tu vedi, reliquie e ricordi degli uomini antichi.

L’età dei primordi di Roma, pienamente inserita nella storia romana, s’illustra attra­verso la memoria dei caratteristici rituali della fondazione, poiché la fondazione fissa lo spa­zio della comunità e il tempo della sua storia, ab urbe condita: Properzio di­chiara che canterà i cognomina prisca locorum, essendo la toponomastica il primo monumen­tum di una  fondazione[83].

La grandezza dell’urbs arcaica, quella «città che chiamano Roma», urbem quem di­cunt Ro­mam, come si legge in Virgilio[84], è racchiusa nella leggenda della sua  fonda­zione: «Ro­molo, Li­ber pater, Castore e Polluce, che furono accolti nei templi in seguito alle loro opere gran­diose, quando vivevano sulla terra e tra gli uomini, ricomponevano dure guerre, distribui­vano campi, fondavano città», scrive Orazio in un’epistola ad Augu­sto, in cui  si esaltano i valori etici dell’età arcaica attraverso la rappresentazione di una comunità agropastorale primi­tiva, che si struttura in schemi di cultura[85].

In età augustea, Livio, narrando i  primordia civitatis, mentre tenta il riscatto di Ro­molo dall’accusa di fratricidio, lo presenta funzional­mente nella veste di un accorto eci­sta: «L’urbe si ampliava, incorporando entro la cerchia delle mura sempre nuovi terri­tori, poiché le mura venivano costruite in vista della popola­zione futura, più che in rap­porto a quella di  allora … ve­tere consilio condentium urbes, se­condo l’antico accorgi­mento dei fondatori di città»[86].

E’ come se il civis romano osservasse il tracciato del solco dall’interno della città, men­tre lo straniero vi assistesse dall’esterno o da lontano. Enea, da un colle che sovra­sta la na­scente Cartagine, osserva i lavori che fervono in stato di avanzamento[87]: «O fortu­nati quelli di cui già sorgono le mura»[88] esclama mentre, guardando  i pinnacoli dal basso verso l’alto (fastigia suspicit urbis)  entra nella città, avvolto in una nube [89].

9. Così avranno fatto anche i soldati delle coorti romane che rientravano in città dai turni di guardia. Livio rac­conta che, dopo la vittoria di Roma su Veio, alla plebe sem­brava preferibile trasferirsi nella città appena conquistata, in vista di grandi van­taggi e in netto contra­sto con i patrizi. Camillo aveva tentato di convincere i suoi concitta­dini a restare sulla propria terra, sostenendo con enfasi drammatica che nessun luogo era migliore di quello scelto dagli dei per fondarvi l’Urbs, al centro dell’Italia, una laus Romae in chiave politica[90]:

«Non senza una ragione gli dèi e gli uomini scelsero questo luogo urbi condendae: colli più che salubri, un fiume adatto per trasportare il frumento dalle regioni dell’entroterra e per ricevere i prodotti da quelle costiere, un mare vicino quanto basta per goderne i van­taggi e nel contempo non esposto, per eccesso di contiguità, al pericolo di flotte nemiche, una posi­zione nel centro dell’Ita­lia, insomma un luogo destinato esclusivamente allo sviluppo della città».

In quella difficile situazione di incertezza (res dubia), terminato il discorso di Ca­millo, mentre il senato era riunito nella Curia Ostilia discutendo se si do­vesse abbando­nare Roma o re­stare in patria, dove sor­geva il fuoco stabile e centrale di Vesta, al­cune coorti, di ritorno dai posti di guardia, attraversavano a passo di marcia il foro. Ad un tratto, il centurione diede l’ordine: Signifer, statue signum, hic manebimus op­time, «o al­fiere, pianta l’insegna, qui staremo benissimo», frase che fu udita dai senatori e dalla plebe e ac­colta come un presagio, affinché la popolazione restasse in città[91].

Livio, però, aggiunge che si cominciò subito a riedificare sul suolo urbano, ma con disor­dine e a caso nei terreni liberi, senza  rispetto per la proprietà e per le regole di una urbanistica razionale: «la pianta di Roma somiglia a quella di una città occu­pata più che divisa»[92].

L’alfiere aveva giudicato il foro, centro ideale dell’urbs, luogo sicuro ed acco­gliente, adatto al riposo, luogo in cui fermarsi stabilmente: non a caso, domi militiaeque significa in pace e in guerra e trova il parallelo in domi fori­sque, in casa e fuori, in patria e all’estero, secondo un si­stema di rappresentazioni spaziali che si trasferi­sce nella lin­gua[93].

Cicerone, rispondendo a Servio Sulpicio,  che gli aveva scritto  la sopra ricordata let­tera di condoglianze per la morte della figlia Tullia, esprime così il senso profondo di estraneità che lo avvolge in questo particolare momento di dolore: et domo absum et foro, « mi sento estraneo tanto alla mia casa quanto al foro»[94]:

«Non come allora, quando le accoglienti pareti della mia casa erano rimedio sicuro alle delu­sioni politi­che, posso ora lasciare tra esse il mio dolore e cercare rifugio e disten­sione nella vista della felicità pubblica. Così mi sento estraneo tanto alla mia casa quanto al foro, giac­ché né la mia casa è in grado ormai di acquietare il dolore che mi provocano le condizioni della patria, né queste pos­sono consolare il dolore privato».

Contributo pubblicato in  “Silvae” di Latina Didaxis, X, 28, 2009, pp. 5-35.

 


[1] Riprendo in forma variata alcune linee della comunicazione tenuta durante il Seminario «Lo spazio ospi­tale» nel corso della manifestazione Spazio cinema, organizzata dal Laboratorio Proba­bile Bellamy presso l’Università degli Studi di Genova nell’ottobre 2009.

[2] G. Dematteis, Metafore della Terra. La geografia umana tra mito e scienza, Milano 1986 (II ed.- I ed. 1985), p. 97; G. Aujac, Les représentations de l’espace géographique ou cosmologique dans l’Antiquité, in «Pal­las» 28, 1981, pp. 3-14: «Aucune activité humaine n’est parfaitement innocente, et surtout pas celle qui consiste à choisir dans le monde les éléments signifiants pour en donner un schéma lisible».

[3] Erodoto, quando parla della forma dei continenti, dice: «mostrerò in poche parole la gran­dezza, la forma di ciascuna di queste parti del mondo» (IV 36, 2); inoltre, a proposito di Arista­gora che mo­stra una carta al re di Sparta: «parlava indicando i luoghi sulla mappa della terra che aveva con sé, incisa sulla tavola» (V 49, 5): J.L. Myres, Herodotus, Father of History, Oxford 1953, pp. 32-46 (= trad. it.  Erodoto geo­grafo, in Geografia e geografi nel mondo antico, a cura di F. Pron­tera, Bari 1983, pp. 115-134). Resta fonda­mentale per comprendere i modelli mentali ope­ranti nella geogra­fia descrittiva greca di età classica Ch. Van Paassen, The Classical Tradition of Geography, Groningen 1957.

[4] Ch. Jacob, Carte greche, in Geografia e geografi nel mondo antico, cit., pp. 47-67 (già in Hic sunt leo­nes. Geogra­fia fantastica e viaggi straordinari, a cura di O. Calabrese – R. Giovannoli – I. Pezzini, Mi­lano 1983, pp. 24-29).

[5] Strabone, I 1, 1.

[6] Varie implicazioni nel tema della visione dall’alto: Ch. Jacob, Dionisio di Alessandria, il noos delle Muse e lo sguardo aereo sull’ecumene, in Mondo Classico: Percorsi possibili, a cura del C.I.D.I.-Roma e del C.R.S., Ravenna 1985, pp. 83-107.

[7] P. Janni, La mappa e il periplo. Cartografia antica e spazio odologico, Roma 1984, pp. 59-63.

[8] Ch. Jacob, Carte greche, cit., p. 61.

[9] W. Förster, s.v. ktízo, in GLNT, V, Brescia 1969, cl. 1304 , cll. 1235-1330 (ThWNT, III, Stuttgart 1933 e 1935).

[10] Od. VI 7-10: G. Marginesu, L’agora di Rhaukos (IC IV 182, 1-20), in «Dike» 6, 2006, p. 151. Cfr. F. Cor­dano, L’ideale città dei Feaci, in «Dialoghi di Archeologia» 9-10, 1976-1977, pp. 195-200.

[11] Od.VII 44-45.

[12] G. Pugliese Carratelli, Dalle odysseiai alle apoikiai, in «La parola del passato» 140, 1971,pp. 393-417; D. Musti, Lo scudo di Achille. Idee e forme di città nel mondo antico, Roma-Bari 2008, p. 54.

[13] G. Traina, Antico e moderno nella storia delle bonifiche italiane, in «Studi storici» 26, 1985, pp. 136-141 e passim del medesimo autore Ambiente e paesaggi di Roma antica, Roma 1990.

[14] G. Traina, La tecnica in Grecia e a Roma, Roma-Bari 1994, pp. 127-132.

[15] M. Bettini, Antropologia e cultura romana. Parentela, tempo, immagini dell’anima, Roma 1986, p. 127 la citazione e pp. 128-7-130.

[16] C. Lévi-Strauss, Antropologia strutturale, trad. it., Milano 1966, pp. 364-365 (ed. origin. Anthropolo­gie structurale, Paris 1958); p. 365: «Anche quando la società si mostra indifferente allo spa­zio, o a un certo tipo di spazio (come lo spazio urbano quando non è pianificato), le cose sono come se le strutture incon­sce si giovassero, per così dire, di queste indifferenze per inva­dere il campo vacante ed affermar­visi in forma simbolica o reale».

[17] M. Douglas, Purezza e pericolo. Un’analisi dei concetti di contaminazione e tabù, trad. it.  di A. Vatta, Bolo­gna 1976, p. 159 (ed. origin. Purity and Danger. An Analysis of Concepts of Pollution and Taboo, Harmonds­worth 1966).

[18] S. Fasce – A. Palma, s.v. lustro, in Enciclopedia Virgiliana, III, Roma 1987, rispettivamente pp. 287-288 e 288-289. Sui riti di lustrazione: J. Gagé, Les rites anciens de lustration du populus et les attri­buts triomphaux des censeurs, in «MEFR» 82, 1970, pp. 43-45.

[19] D. Musti, Pubblico e privato nella democrazia periclea, in «Quaderni Urbinati di Cultura Classica» N.S. 20, 49, 1985, pp. 7-17.

[20] Walter Belardi così apre la sua Presentazione del fine studio di Palmira Cipriano, Fas e Nefas, Roma 1978, p. 9.

[21] Per l’evoluzione dei concetti di fas, nefas, ius nella latinità arcaica e classica cfr. Palmira Ci­priano, Fas e Nefas, cit., soprattutto pp. 33-56. Interessanti osservazioni in F. Borca, Isole e porti, tra natura e artifi­cio, in «Bollettino di Studi Latini» 29, 1999, pp. 550-563.

[22] Cfr. in particolare Y. Garlan, Guerra e società nel mondo antico, trad. it. Bologna 1985 (ed. origin. La guerre dans l’antiquité, Paris 1972); D. Musti, La qualità della vita nella città greca classica, in Temi e discus­sioni di geografia antica, a cura di S. Fasce, Genova 1994, p. 198 (già in Ambiente urbano e qualità della vita, «Se­condo Seminario Internazionale di Geografia Medica, Cassino, 4-7 dicembre 1985», a cura di G. Arena, Perugia 1986, pp. 109-119).

[23] Thuc. II 17,1-3; G. Nenci, Spazio civico, spazio religioso e spazio catastale nella polis, in «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa» 9, 1979, pp. 459-477.

[24] G. Nenci, Spazio civico, cit., pp. 467-470.

[25] Hom. Od. VII 32-33.

[26] Le zone boscose o Hylaia, le zone di frontiera sono gli ambienti che il Greco assegna agli “al­tri”: F. Hartog, Essai sur la représentation de l’autre, Paris 19912 (I ed.1980), pp. 81-127.

[27] Mi riferisco a P. Lévêque – P. Vidal-Naquet, Clisthène l’Athénien. Essai sur la représentation de l’espace e du temps dans la pensée politique grecque de la fin du VIe siècle à la mort de Platon, Paris 1964; M. Detienne, En Grèce archaïque: géométrie, politique et société, in «Annales E.S.C.» 1965, pp. 425-441; J.P. Vernant, Mito e pensiero presso i Greci. Studi di psicologia storica, trad. it., Torino 1978 (ed. origin. Mythe et pensée chez les Grecs. Études de psychologie historique, Paris 1971).

[28] J.P. Vernant, Mito e pensiero presso i Greci, cit., pp. 145-200.

[29] Commento al passo dell’Economico (7, 30) di Senofonte in J.P. Vernant, Mito e pensiero presso i Greci, cit., pp 155-156.

[30] Riprendo la tesi del bel libro di di E. Pellizer, Favole d’identità – Favole di paura. Storie di caccia e altri racconti della Grecia antica, Roma 1982 con prefazione di C. Calame.

[31] O. Longo, Ecologia antica. Il rapporto uomo / ambiente in Grecia, in Temi e discussioni di geografia antica, a cura di S. Fasce, Genova 1994, pp. 165-187 (già in «Aufidus», 6, 1988, pp. 3-30).

[32] Emblematico studio: P. Vidal-Naquet, Le chasseur noir et l’origine de l’éphébie athénienne, in «Anna­les E.S.C.» 23, 1968, pp. 947-964.

[33] Ps. Plut. De fluviis, 3, 1: Ebro amato dalla matrigna; 14, 1: Tanais, pur misogino, si innamora per opera di Ares della propria madre; 4,1: Gange diventa inconsapevolmente amante della ma­dre. Cfr. E. Pel­lizer, Favole d’identità, cit., pp. 54-58.

[34] Ov. Met. IV 55-166.

[35] Ov. Met. IV 86-90.

[36] F. Hartog, Essai sur la représentation de l’autre, cit., cap. Une rhétorique de l’alterité, p. 376: «tout au long des Histoires, il s’agit toujours d’eux, les autres, et de nous, les Grecs ».

[37] Ov. Met. IV 60 : taedae quoque iure coissent.

[38] I. Chirassi, La religione in Grecia, Bari 1983,  p. 21.

[39] P. Fedeli, Uomo e ambiente nel mondo romano, in Temi e discussioni di geografia antica, cit., p. 214  e pas­sim (già in «Aufidus», 8, 1989, pp. 7-50). Sul tema della passione vegetale è ormai classico E. De Mar­tino, Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria, Torino 1975.

[40] I. Chirassi, Elementi di culture precereali nei miti e riti greci, Roma 1968, cap. Il prato in primavera, pp. 91-124.

[41] Hymn. Dem. 425-431.

[42] Eur. Hel. 243 -244; così Creusa rapita da Apollo nello Ione di Euripide (888-890).

[43] Un verso di Claudiano conserva vivido il modello religioso e antropologico che la raccolta dei fiori riveste nel mito: talia virgineo passim dum more geruntur (De raptu Proserpinae, II 151). Il riferi­mento al carattere virginale dell’atto riproduce un sintagma ovidiano (Ov. Met. V 393; Fasti, IV 443): cfr. M. Ono­rato, Commento, in Claudio Claudiano, De raptu Proserpinae, a cura di M. Ono­rato, Napoli 2008, p. 265.

[44] Verg. Ecl. 1, 1-5 e 82-83. Cfr. F. Serpa, s.v. paesaggio, in Enciclopedia Virgiliana, III, Roma 1987, p. 921-926.

[45] Verg. Ecl. 5, 27-28: Daphni, tuum Poenos etiam ingemuisse leones / interitum montesque feri silvae­que locun­tur. Sulla tecnica della descrizione paesaggistica di Virgilio cfr. F. Witek, Vergils Landschaf­ten. Ver­such einer Typologie literarischer Landschaft, Hidelsheim 2006 (e la recensione di G. Sca­foglio in «Classi­cal Review» 29, 2008).

[46] Verg. Ecl. 2, 28-30: A. Perutelli, Natura selvatica e genere bucolico, in «Annali della Scuola Nor­male Supe­riore di Pisa» 6, 1976, p. 779 (passim, pp. 763-798).

[47] Sull’argomento I. Lana, Orazio: dalla poesia al silenzio, Venosa (Pz) 1993, p. 55.

[48] Hor. Carm. I 37, 17-20.

[49] Famoso il ritratto del cacciatore di Hor. Carm. I 1, 25-28: manet sub Iove frigido / venator tenerae coniugis im­memor, / seu visa est catulis cerva fidelibus / seu rupit teretes Marsus aper plagas. Nei vv. 27 – 28 il paralleli­smo e  il chiasmo riferiti alle reti e alle prede mostra la forza del modello antropolo­gico soggia­cente: cfr. F. Capponi, s.v. caccia, in Enciclopedia Oraziana, II, Roma 1997, pp. 132-134; A. Ghiselli, Ora­zio, Ode 1,1. Saggio di analisi formale, Bologna 20013 (I ed. 1974), p. 101.

[50] Cic. De natura deorum, II 161: ut exerceamur in venando ad similitudinem bellicae disciplinae. Per passi significa­tivi e discussione cfr. J. Aymard, Essai sur les chasses romaines des origines à la fin du siècle des Anto­nins, Paris 1951, pp. 31-40; A. Ghiselli, Orazio, Ode 1,1, cit., p. 60. Emblematico Prop. III 5, 1: Pacis Amor  deus est, pacem veneramur amantes.

[51] Plin. Pan. 81, 1.

[52] Plin. Pan. 81, 4.

[53] Verg. Ecl. 10, 22-30. Cfr. G. Maggiulli, Incipiant silvae cum primum surgere, Roma 1995; M. Geymo­nat, Imma­gini letterarie e reali del paesaggio di montagna in Virgilio, in «Philoogus» 144, 2000, pp. 81-89. Sulla rappresentazione dei luoghi montuosi nella letteratura latina: F. Borca, Horridi montes. Paesaggi e uo­mini di montagna visti dai Romani, Aosta 2002.

[54] Verg. Ecl. 10, 52-59. Memoria dell’Ippolito euripideo: E.W. Leach, Vergil’s Eclogues. Landscape of Expe­rience, Ithaca-London 1974, p. 167; G.B. Conte, Virgilio. Il genere e i suoi confini. Modelli del senso, modelli della forma in una poesia colta e “sentimentale”, Milano2 1984 (I ed. Torino 1980), p. 33: «non è più scrit­tura di motivi elegiaci, ma è la riscrittura di quei  motivi nello esorcismo del regi­stro bucolico».

[55] Prop. II 19, 17. G.B. Conte, Virgilio. Il genere e i suoi confini, cit., pp. 28-30.

[56] Verg. Ecl. 10, 77.

[57] Verg. Ecl. 1, 82-83.

[58] Cfr. Hom. Od. X 99; X 196-197.

[59] Prop. II 19, 2.

[60] Cfr. G. Petrone, Locus amoenus / locus horridus: due modi di pensare il bosco, in «Aufidus» 5, 1988, pp. 5-18; E. Malaspina, Prospettive di studio per l’immaginario del bosco nella letteratura latina, in «Incon­tri trie­stini di filologia classica», 3, 2003-2004,pp. 97-118.

[61] Aug. De civ. dei, VI 9, 2 (= Varro, Antiquitates rerum divinarum, fr. 111, p. 71 Cardauns). Sul passo cfr. il fine commento di M. Lentano, Signa culturae. Saggi di antropologia e letteratura latina, Bolo­gna 2009, pp. 7-9.

[62] Aug. De civ. dei, VI 9, 2: Ita contra dei nocentis saevitiam non valeret custodia bonorum, nisi plures essent adversus unum eique aspero horrendo inculto, utpote silvestri, signis culturae tamquam contrariis repu­gnarent; mala infantiae (Piso, fr. 44 HRR Peter2).

[63] F. Borca, Il modello del «bel paesaggio» nella cultura latina, in Enciclopedia dell’antichità classica, Mi­lano 2000, pp. 1022 – 1023. D’altra parte, un boschetto può essere il luogo di marginalità e di al­larme non per le sue dimensioni, ma per la sua connotazione: un esempio tipico è costituito dal lucus Stimulae, un pic­colo bosco a fianco del Tevere, in una zona extra pomerium, “esterna” alla città, dove venivano prati­cati culti stranieri e d’importazione oppure eccentrici, come le danze orgiastiche praticate da sole donne sposate (Liv. XXXIX 13, 12; cfr. C. Gallini, Protesta e integra­zione nella Roma antica, Bari 1970, pp. 16-17).

[64] Hor. Epist. I 10, 22-23.

[65] S. Fasce, Principî e criteri dell’urbanistica romana. La sistemazione della città nell’Epistolario di Plinio il Gio­vane, in Seminari Sassaresi II, a cura di E. Cadoni – S. Fasce, Sassari 1990, pp. 109-124.

[66] Plin. Epist. II 17. Per respicere cfr. M. Bettini, Antropologia e cultura romana, cit., p. 135.

[67] Sen. Thy. 641-656. Cfr. G. Maggiulli, Per alta nemora. La poesia del mondo vege­tale in Seneca tragico, Roma 2007, pp. 67-69.

[68] G. Rosati, La scena del potere. Retorica del paesaggio nel teatro di Seneca, in Hispania terris omnibus felicior. Premesse ed esiti di un processo di integrazione, «Atti del congresso internazionale, Cividale del Friuli, 27-29 settembre 2001», Pisa 2002, pp. 225-239. Cfr. G. Picone, La fabula, il regno. Studi sul Thyestes di Seneca, Pa­lermo 1996.

[69] Sen. Epist. 51, 11; cfr. G. Rosati, La scena del potere, cit., p. 239.

[70] G.A. Mansuelli, s.v. città, in Enciclopedia Virgiliana, I, Roma 1984, p. 802.

[71] Tema di Tib. II 5 e Prop. IV 1.

[72] Alcune laudes Italiae: Varro, De re rustica, I 2, 3-8; Verg. Geor. II 136-176; Prop. III 22, 17-38; Strabo, VI 4,2; Plin. Nat. Hist. III 39-42.

[73] M. Labate, Poetica ovidiana dell’elegia: la retorica della città, in «Materiali e Discussioni» 3, 1979, pp. 36-67 e lo studio di Roberta Piastri, L’elegia della città. Roma nella poesia elegiaca di Ovidio, Ver­celli 2004.

[74] La sensibilità per la contrapposizione dei due tipi di paesaggio è analizzata da R. Mugellesi, Il senso della natura in Seneca tragico, in Argentea Aetas. In memoriam Entii V. Marmorale, Genova 1973, pp. 29-66. Per l’Arcadia come paesaggio spirituale classico B. Snell, L’Arcadia: scoperta di un pae­saggio spurituale, in La cultura greca e le origini del pensiero europeo, trad. it. Torino 1963, pp. 387-402 (ed. origin. Die Entde­ckung des Geistes. Studien zur Entstehung des europäischen Denkens bei den Griechen, Hamburg 1946).

[75] Cfr. Quint. IV 13, 12.

[76] Sen. De tr. an. II 13: Inde peregrinationes suscipiuntur vagae et litora pererrantur et modo mari se, modo terra experitur semper praesentibus infesta levitas: «Nunc Campaniam petamus». Iam delicata fasti­dio sunt: «In­culta videantur, Bruttios et Lucaniae saltus persequamur». Aliquid tamen inter deserta amoeni requiritur, in quo luxuriosi oculi longo locorun horrentium squalore releventur: «Tarentum peta­tur laudatusque portus et hi­berna caeli mitioris et regio vel antiquae satis opulenta turbae…. Iam flecta­mus cursum ad Urbem: nimis diu a plausu et fragore aures vacaverunt, iuvat iam et humano sanguine frui».

[77] Hor. Epist. I 11 e in particolare vv. 29-30: Quid petis, hic est, / est Ulubris, animus si te non defi­cit ae­quus.

[78] Hor. Epist. I 10, 1-2: Urbis amatorem Fuscum salvere iubemus / ruris amatores; 49-50: Hac tibi dicta­bam post fanum putre Vacunae, / excepto quod non simul esses cetera laetus.

[79] Paus. X 4, 1, ad es., ironicamente afferma che non si può certo definire città Panopeus,  piccolo cen­tro della Focide, «gruppo di capanne di montagna sul ciglio di un burrone», privo di edifici pubblici e di comodità.

[80] Cic. Ad fam. IV 5, traduzione italiana di Riccardo Scarcia.

[81] Prop. IV 1, 1-2: Hoc, quodcumque vides, hospes, qua maxima Roma est, / ante Phrygem Aeneam collis et herba fuit.

[82] Verg. Aen. VIII 314-356. L’«Eneide» offre l’immagine di un passato di fondazioni anteriori ad Alba e poi a Roma, fondazioni avviate e non sempre condotte a buon fine, come quelle proget­tate da Enea in Tracia e a Creta: la definizione sul terreno, la costruzione della cinta muraria, la suddivisione del  suolo, l’imposizione della legge, sono passaggi obbligati e interdipendenti dallo spazio fisico a quello sociale.

[83] Prop. IV 1, 69: sacra diesque canam et cognomina prisca locorum.

[84] Verg. Ecl. 1, 19.

[85] Hor. Epist. II 1, 5-8.

[86] Liv. I 8, 4-5.

[87] Verg. Aen. I 419-422: Iamque ascendebant collem, qui plurimus urbi / imminet adversasque adspectat desuper ar­ces. / Miratur molem Aeneas, magalia quondam, / miratur portas strepitumque et strata via­rum.

[88] Verg. Aen. I 436: O fortunati, quorum iam moenia surgunt!

[89] Verg. Aen. I 438.

[90] Liv. V 54, 4.

[91] Liv. V 55, 1-2.

[92] Liv. V 55, 3. Cfr. D. Musti, Lo scudo di Achille, cit., p. 15, dove il racconto di Livio illustra bene il va­lore che il centro e la circolarità rivestono nelle morfologie urbane del mondo classico.

[93] Come è noto, la frase pronunciata dall’alfiere fu assunta da Gabriele D’Annunzio come motto du­rante l’occupazione di Fiume, la cui autonomia era rivendicata dai reduci italiani dopo la prima guerra mondiale.

[94] Cic. Ad fam. IV 6 (traduzione italiana di R. Scarcia).

 

Commenti

  1. E’ dilettevole leggere questo saggio! Lo spazio e le sue coordinate reali e immaginarie, concepito dal mondo classico greco e romano, con riferimento ad opere che è fortemente suggestivo evocare. Il saggio, oltre che uno studio attento, è esso stesso una composizione artistica armoniosa.
    Lo spazio misterioso attraverso cui si muovono cuore e mente, ragione ed emozione. In sostanza lo spazio immaginario che nasce dall’impatto tra l’ambiente naturale e quello urbano. Ho capito perché nei miei modesti dipinti paesaggistici, preferisco i paesaggi visti dall’alto, ma senza alcuna impronta umana. Nei viaggi solitari, in macchina, tra strade tracciate nel solitario paesaggio sardo, mi è di conforto invece la vista improvvisa di qualche casolare che mi toglie dal panico del paesaggio. Spazi quasi panici e spazi segnati dall’impronta umana. Complimenti e grazie per questo saggio meraviglioso e suggestivo.

    Angelino
    Aprile 25th, 2011
RSS Sottoscrivi.