Categoria : memoria e storia

I porcari figli di Agostino e le bardane. I rimedi di mio nonno di Antonio Maria Murgia

Nella memoria della mia fanciullezza, quando vivevo in Chiaramonti (Sassari) nella località Cantinu in Chirralza, negli anni Quaranta del Novecento,  mi rammento la famiglia “Agostino”, composta da Agostino e dai figli Giovannino  e Annamaria,  e dai figli di quest’ultima Giuliano, Luigi, Renzo, Ida.

Il loro ruolo era quello di occuparsi dei maiali. Di giorno vigilavano sulle bestie libere di procacciarsi da mangiare per le tanche con fil di ferro al muso per non danneggiare i terreni. Di notte, stando nelle postazioni, costituite da tre pinnettas, all’interno del recinto a muro a secco formato dalla porcilaia i porcari vigilavano affinché i maiali non uscissero dal recinto. Le tre postazioni, equidistanti a triangolo, lungo le pareti interne del grosso recinto. venivano costruite con arte da muri a secco. La notte, i figli di Annamaria, armati di fucile, calibro 16, vegliavano sui i maiali, per impedirne il furto. Una notte di primavera,però, arrivarono dieci uomini armati che portarono via tutti i maiali. I custodi tentarono invano di opporsi alla bardana, ma non ci fu niente da fare. Anzi sul petto di Giovannino lasciarono il segno della bocca del fucile, marchiandolo a vita.I componenti della bardana erano sicuramente dei paesani assai contigui alla malavita, che riforniva così gratuitamente i macellai che lucravano su queste vere e proprie grassazioni.

Mio padre tuttavia non si scompose, come al solito, e denunciò il furto in caserma, come di consueto i militi non rintracciarono i briganti. Del resto l’abigeato all’epoca in Anglona e in tutta l’Isola era fiorente.Dalla volta mio padre diede disposizione ai porcari di imbandire dei banchetti a base di porcetti man mano che questi andavano verso lo svezzamento. I briganti capitarono altre volte, ma se ne andarono con le pive dentro il sacco perché trovarono la porcilaia vuota. I macellai di paese cominciarono così a combinare meno affari sulle spalle di mio padre che insieme ai porcari e alla famiglia si beffava di loro a corti di carne rubata.

Assegnazione di porco ad ingrasso per Agostino

Nel 1944, avevo sette anni, e  mi fu dato il compito di percuotere con un bastone  dei secchi, appesi in un’apposita forca, per richiamare dal pascolo brado e dal fiume i maiali dar loro da bere il siero (sa giota) della ricotta. Mentre i maialetti consumavano il pasto  mio padre mi disse di scegliere uno tra i tanti maialetti che allineati con la testa di fronte all’altro mangiavano, con ingordigie e prepotenza, gli avanzi di scarto della lavorazione del latte. Subito indicai a mio padre il maialetto scelto per Agostino, riservato all’ ingrasso e destinato alla numerosa famiglia dei porcari. Dopo qualche giorno  mio padre decise di separare dal gruppo il maialetto prescelto, e mi disse tutto sorridente:

–      Adesso dove sarà il maialetto scelto?-

–       Risposi: – Eccolo!-

–      Come hai fatto a riconoscerlo?-

–      Ha lo stesso colore del fumo della pipa di Agostino- risposi.

–      Bravo! Aggiunse mio padre.

–      Prese il maialetto e lo consegnò ad Agostino per l’ingrasso, da macellare a tempo debito. a favore della famiglia del porcaro. Il predestinato fu rinchiuso in sa cherina, nel recinto.

–   Come ai fatto a riconoscerlo? Per me era semplice, in quanto  l’assomigliavo al colore del fumo della pipa di Agostino, Cosi lo chiusero in sa cherina per essere ingrassato, tutto per la famiglia  di Agostino li addetti alla custodia.

Agostino fumava in disparte, accortosi che io stavo a debita distanza da lui,  mi invitò ad accostarmi a lui, ma io gli risposi che non amavo il fumo della pipa.

-Perché  non vieni mai vicino a me? risposi

-Perché non mi piace il fumo della pipa.-

Tutti i giorni continuava a fumare con la sua pipa come se niente fosse, esercitandosi a gustare il trinciato male odorante e sbattendo  il lamierino del coperchio  in modo tale che si sentisse a distanza.

In aggiunta sputava a lunga distanza, come i fumatori dei film wuestern.

Il furto dei capretti

In seguito toccò ai caprai fratelli  Giuseppe e Giovanni Murruzulu ai quali i soliti briganti portarono via più di 100 capretti, sistemati in  s’ascone, una enorme baracca a forma di capanna con due caditoie di acqua una specie di costruzione assomigliante alle case dei giganti.

Si usavano dei pali, conficcati  per terra, convergenti tra di loro, legati con del giunco secco, con delle pertiche  messe  trasversalmente,  per poi appoggiarvi le frasche verdi, da tenuta, ricoperte di terra, da cima a fondo, con fianchi inclinati a 45 gradi. Sul davanti   la porta d’accesso. Il pavimento veniva ben tappezzato di materiale tenero verde, “mudeiu,” cisto che mandava affrori, da far starnutire. Sembra di sentirlo tra le narici. I capretti chiusi nella baracca starnutivano in coro. Immancabilmente ogni anno venivano rubati da ladri non tanto sconosciuti, cosi subivamo queste ruberie, che danneggiavano tutti gli addetti e il proprietario. Però mio padre, suo malgrado incoraggiava tutti dicendo :

– Teniamo duro che prima o poi la smetteranno di rubare il nostro bestiame.

Se si pensa   che ci si dibatteva per dare da vivere a dei bravi caprai con le rispettive famiglie, purtroppo tutto andava  tutto andava in fumo, a danno degl’innocenti.

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