Categoria : cultura

Malinconia dell’esilio nel cielo di Mercurio di Inos Biffi

L’orgoglio ferito di Dante affiora dalle terzine del sesto canto del “Paradiso”

All’aprirsi del sesto canto del Paradiso, finalmente si rivela la “figura santa” che, annidata “nel proprio lume”, Dante ancora non conosceva . Quell'”anima degna” è l’imperatore Giustiniano, che, sotto l’impulso dello Spirito, approntò il nuovo Corpus iuris, eliminando dall’antico diritto quanto ormai conteneva di superfluo e di inutile: “Cesare fui e son Iustinïano, / che, per voler del primo amor ch’i’ sento, / d’entro le leggi trassi il troppo e ‘l vano” (vv. 10-11).

La figura dell’imperatore emerge sull’ampio sfondo degli avvenimenti rievocati dai primi solenni versi del canto: sono gli eventi che hanno portato il potere imperiale dall’occidente all’oriente, quando Costantino trasferì l’impero da Roma a Bisanzio, presso gli stessi monti, dai quali, con percorso inverso, era partito Enea.

Esattamente quel potere, passando “di mano in mano”, giunse fino a Giustiniano.

D’altronde, in tutto questo non operava semplicemente una volontà o iniziativa umana. Secondo la teologia dantesca della storia, le vicissitudini di quel potere, simboleggiato nell’aquila – “l’uccel divino” – si svolgevano “sotto l’ombra de le sacre penne”: a esse, infatti, presiedeva un disegno guidato dalla Provvidenza.

Quanto all’impresa che lo rese celebre, Giustiniano precisa che essa fu compiuta – e qui Dante si affida alle fonti a lui note – dopo che, grazie alle parole del “sommo pastore”, il “benedetto Agapito”, fu condotto dall’eresia monofisita, che negava in Cristo le due nature, alla “fede sincera” (v. 17), la cui verità ormai gli appare con la stessa incontrovertibile chiarezza con cui, di fronte a due affermazioni contraddittorie, si vede subito necessariamente che l’una è vera e l’altra falsa.

Così, in comunione “con la Chiesa” (v. 22), affidati gli impegni militari al generale Belisario, svolti col sostegno della “destra del ciel” (v. 26), egli poté dedicarsi tutto all'”alto lavoro” (v. 24) che alla grazia di Dio piacque ispirargli. Viene, così, soddisfatto il primo interrogativo di Dante sulla figura avvolta nella sua stessa luce.

Dopo quella risposta, all’imperatore preme continuare sul tema del potere imperiale raffigurato nel “sacrosanto segno” dell'”uccel divino”, e lo fa per affermare e ammonire che a torto “si move contr’al sacrosanto segno / e chi ‘l s’appropria e chi a lui s’oppone” (vv. 32-33), come fanno, da un lato, i comuni e le signorie ghibelline, e, dall’altro, le città guelfe, con la casa di Francia.

Segue, in uno schizzo limpido e incisivo, la memoria e la celebrazione della storia di quel segno divino. Dante parte da Pallante, il giovane virgiliano generosamente morto per Enea (“quasi capostipite delle nobili virtù dei futuri romani”); quindi, con rapidi e felici tocchi, fissa i momenti fondamentali e decisivi di quella storia: si rimane sorpresi dalla capacità del poeta di ritrarre e di valutare, con l’icasticità di un verbo, o con la perspicuità di una definizione o la lucidità di un giudizio, le imprese dei grandi eroi, che hanno sostenuto l’impero, col suo difficile cammino, illustrandolo di gloria.

Sono, così, via via rievocate le gesta degli “egregi Romani”; il “dolor di Lucrezia” (v. 41); le guerre del tempo della Repubblica; la sconfitta dei Latini e dei Galli; il passaggio di Annibale tra “l’alpestre rocce” e l’abbattimento dei Cartaginesi (dell'”orgoglio de li Arabi”); il trionfo dei “giovanetti” Scipione e Pompeo; e quindi Cesare con le sue vittorie prodigiose, così fulminee, che non è possibile tenergli dietro né con la parola né con lo scritto “che nol seguiteria lingua né penna” (v. 63). Segue, con il ricordo di Ottaviano Augusto, l’accenno a “la trista Cleopatra” (v. 76), che “la morte prese subitana e atra” (v. 78) e, quindi, al mondo posto “in tanta pace” che si mantenne sorprendentemente chiuso il tempio di Giano.

Ma, soprattutto, Dante richiama quel che avvenne sotto Tiberio, e che può esser colto solo “con occhio chiaro e con affetto puro” (v. 87), cioè la condanna a morte di Cristo voluta dalla giustizia divina a soddisfazione del peccato di Adamo.

Sotto quell’imperatore Dio concesse all’aquila la “gloria di far vendetta a la sua ira” (v. 90), mentre, sorprendentemente, sotto il suo successore, Tito, – il poeta lo spiegherà nel canto successivo – a sua volta quella condanna di Cristo troverà la sua punizione.

L’imperatore rievoca, infine, il tempo in cui “il dente longobardo morse / la Santa Chiesa” (vv. 94-95), e la protezione riservatale da Carlo Magno, che la soccorse, vincendo i Longobardi, sotto la sua insegna – “sotto le sue ali” (v. 95).

Risulta, allora, ugualmente deplorevole e funesto il comportamento sia di quanti all’insegna pubblica oppongono l’emblema privato dei “gigli gialli” (v. 100) – e sono i guelfi – sia dei ghibellini, che se ne appropriano, riducendolo all’insegna di una fazione.

Sono così fieramente ammoniti e gli uni e gli altri: i ghibellini a condurre le loro imprese “sott’altro segno”, visto che scindono l’aquila dalla giustizia; e Carlo d’Angiò – “Carlo novello” (v. 106) – con i suoi guelfi, a non illudersi di poterla abbattere, ma d’aver paura dei suoi artigli, che hanno strappato il pelo a potenti ben maggiori di lui – “ma tema de li artigli/ ch’a più alto leon trasser lo vello” (vv. 107-108).

Certamente Dio non è disposto a mutare l’insegna del potere sovrano e universale, da lui provvidenzialmente protetta e custodita, con l’insegna di quei gigli che rappresentano un potere piccolo e insignificante. Non stupirebbe – premonisce oscuramente Dante – che l’opposizione a un tale disegno comportasse, come già altre volte, il pianto dei figli per la colpa dei padri.

Con quest’ultimo grido di avvertimento e di sprezzo, ha termine l’ardente e insieme dolente sequenza, che racchiude rimprovero e minaccia, amarezza e speranza, sotto il colore retorico dell’ironia.

Così Giustiniano ha largamente dato risposta alla prima domanda del poeta su chi fosse l’anima nascosta nella sua stessa luce: una risposta che in realtà ha permesso a Dante di manifestare tutto il suo sdegno e la sua condanna per la politica del suo tempo, segnata da divisioni e lotte intestine che, in antitesi al progetto divino del potere imperiale, fomentano crudeltà e ingiustizie.

Resta da rispondere alla seconda domanda: quali siano gli spiriti che dimorano nel cielo di Mercurio, “questa picciola stella” (v. 111). Sono “i buoni spiriti”, che sulla terra hanno deviato dal vero fine, Dio, operando “perché onore e fama li succeda” (v. 114), e quindi elevando con più debole vigore verso il cielo “i raggi del vero amore” (v. 117).

Né per questo è intaccata e compromessa la loro “letizia”, che proviene tutta dal vedere la corrispondenza tra il premio e il merito. Dio modera il loro desiderio – “addolcisce la viva giustizia/ in noi l’affetto” (vv. 121-122) – che non potrebbe volere una cosa ingiusta, come un grado di beatitudine non commisurato al merito.

Da qui la “dolce armonia” (v. 126) che regna tra i vari seggi del Paradiso, simile alla dolcezza, che in un canto polifonico scaturisce tra le diverse e concordi voci: “Diverse voci fan dolci note” (v. 124).

Gli ultimi versi rievocano la figura di un giusto, che brilla di luce nella stella di Mercurio e la cui “ovra grande e bella” fu tuttavia “mal gradita” (v. 129), cioè mal ricompensata. Si tratta di Romeo di Villanova – “persona umìle e peregrina”. Di ritorno da un pellegrinaggio a San Giacomo di Compostella, capitato a corte del conte di Provenza Raimondo Beringhieri, ne divenne primo ministro, servendolo con ineccepibile giustizia e facendo delle sue quattro figlie quattro regine.

A motivo delle calunnie degli invidiosi cortigiani fu tuttavia dal conte sospettato di cattiva amministrazione, per cui se ne partì “povero e vetusto” (v. 139), d’altronde, non senza che i provenzali, suoi accusatori, con la venuta degli Angioini, subissero il castigo della loro malvagità, secondo il principio “Mal cammina / qual si fa danno del ben fare altrui” (vv. 131-132).

Il mondo non conobbe l’intimo del suo cuore e la pena profonda provata nella sua vita di mendicante, accettata con pazienza e fierezza: ne fosse a conoscenza, non farebbe che accrescere la sua lode: “E se ‘l mondo sapesse il cor ch’elli ebbe / mendicando sua vita a frusto a frusto, / assai lo loda, e più lo loderebbe” (vv. 140-142).

In questi ultimi versi, intensi e appassionati, Dante adombra certamente la sua stessa condizione di “pellegrino” e di mendicante, come egli scrive nel Convivio, sopportata pazientemente per amore della giustizia; giunto al Paradiso ne può contemplare e pregustare ormai il premio eterno.

(©L’Osservatore Romano – 8 agosto 2010)

Commenti sono sospesi.

RSS Sottoscrivi.