Categoria : storia

Il banditismo in Sardegna dal 1848 al 1860 di Angelino Tedde (1969)

Pubblico, a distanza di 50 anni, (21 aprile 1969-21 aprile 2019), la mia tesi di laurea senza l’appendice documentaria. La stesi in 15 giorni e la mandai al professore torinese Narciso Nada che apportò delle correzioni, che non feci in tempo ad eseguire perché il professore per sbaglio la spedì ad altro studente. Io alla scadenza non ricevendo la corrispondenza la presentai ugualmente in segreteria nel febbraio del 1969.

 

La discussi il 21 aprile con prof. Nada, prof. Luraghi e prof. Costantini. Entrambi i primi due sono scomparsi. La cordialità dei primi due fu contrastata dal marxista Costantini al quale risposi abbastanza ingenuamente. Alla discussione, durata, 45 minuti, furono presenti mia moglie e la compianta mia cognata Teresa. Ebbi come votazione 8 punti, in genere non se ne davano più di 6. Sommando la media dei voti che era di 24, raggiunsi i 9 punti, cioè 99/110. Dal primo all’ultimo esame misi su famiglia, nacquero 3 figli, insegnai nelle scuole medie e frequentai per due anni Giurisprudenza dando 5 esami e frequentando 7 corsi. Passai a Lettere moderne nella Facoltà di Cagliari e mi trasferii a Genova per dare Storia romana e Epigrafia, nonché un altro esame di Storia della Lingua Italiana.
Nel complesso sostenni 28 esami. Per questa laurea bastavano 21, quindi ne diedi 6 in più senza contare altri 3 di Giurisprudenza, Mi furono tutti utili per la formazione culturale di base insieme allo studio della Filosofia Scolastica frequentato durante il Liceo ad Aversa (Caserta). Il mio corso di studi fu stilato dal prof. Giovanni Lilliu che come primo esame pose Atcheologia. Il lavoro ha indubbiamente varie debolezze dovute sia alla mia giovane età e agli approfondimenti che ebbi modo di portare avanti sul banditismo sardo, sdoganato da Antonio Pigliaru che ne rilevò la sua subculturalità, per cui doveva risolversi più con provvedimenti socio-economici che non con la semplice presenza dei carabinieri, utili anch’essi.

                                                        UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI GENOVA

                                                                            Tesi di laurea

   BANDITISMO IN SARDEGNA

      DAL 1848 AL 1860

RELATORE

Ch.mo Prof. Narciso Nada

                                                                                                                               LAUREANDO

                                                                                                                       ANGELINO TEDDE

                                                        ANNO ACCADEMICO 1967-‘68

                                                                               INDICE

Premessa                                                                                                  

Introduzione                                                                                              

CAPO I – Il banditismo sardo del XIV al XIX secolo                              

CAPO II – Il banditismo sardo nel 1848                                                 

CAPO III – La pubblica sicurezza a Sassari e 

                   e nella sua Provincia nel 1849                                              

CAPO IV – La pubblica sicurezza a Sassari e 

                   in Provincia nel 1850                                                            

CAPO V – La pubblica Sicurezza a Sassari e 

                  in provincia nel 1851                                                              

CAPO VI – Le origini dei delitti secondo il Municipio di Sassari         

CAPO VII – I più celebri banditi nel periodo 1848-1860                      

CAPO VIII – Genesi e forme del banditismo sardo                              

Bibliografia                                                                                                  

Appendice documentaria                                                                        

                                                                    PREMESSA                       

 

    La recrudescenza del fenomeno del banditismo in Sardegna, in questi ultimi anni, ha spinto vari studiosi a trattare l’argomento. Non c’è giornale o rivista che non abbia sentito la necessità di parlare del fenomeno, ricercandone le cause e additandone i rimedi (1). Alcuni giornalisti poi, data l’attualità del problema, hanno dato alle stampe dei libri sull’argomento. Coi limiti che ognuno può facilmente constatare (2). Ben pochi fino ad oggi hanno sentito il bisogno di trattare l’argomento a livello storico, sebbene tutti coloro che si sono interessati al fenomeno non abbiano potuto evitare di riferimenti storici.

    Nelle varie monografie sulla Sardegna non manca mai l’accenno al 

  • GUERRIERO A. (Ricciardetto): contro il banditismo occorrono mezzi estremi. In Epoca 1967,
  • n. 890.

PERNICI P. – Per noi non c’è migliore. Nuoresi fate una grande festa. Mamma, voglio un zigante. In “La Fiera Letteraria, 1968”, nn. 19, 20, 21.

  • FIORI G. – La civiltà del malessere, Bari, 1968.

VERGANI G. – Mesina, Milano 1968.

GHIROTTI G. – Mitra e Sardegna, Milano, 1968.

 

Fenomeno del banditismo (1).
Non esistono tuttavia, studi specifici sull’argomento, per nessun periodo. La mancanza di approfonditi studi sul fenomeno, che è una delle componenti della storia sociale dell’Isola, è certamente grave. Una serie di monografie sul banditismo per ciascun periodo della storia sarda e per ciascuna zona dell’Isola, sarebbe auspicabile sia per la conoscenza profonda della storia della società sarda, sia per la conoscenza stessa del fenomeno. Le note storiche sul banditismo, che comprendono millenni di storia sarda, se da una parte rispondono alle esigenze dei giornali e servono ad appagare la curiosità dei lettori, dall’altra spesso svisano i fatti e alimentano i pregiudizi (2). Questo lavoro vuol essere un tentativo di studio monografico sulla storia del banditismo sardo. Esso ha perciò dei limiti ben precisi di spazio e di tempo. Ci si soffermerà quindi a trattare delfenomeno del banditismo  così come si manifesta a Sassari e nella sua provincia,nel periodo che va dal 1848 al 1860.

(1) DI TUCCI R. – Storia della Sardegna, Sassari, 1964.

      SIOTTO PINTOR G. – Storia civile dei popoli sardi dal 1788 al 1848, Torino, 1877.

 

(2) COSTA E. – Sui banditi del Logudoro in “Giovanni Tolu”, Sassari, 1896, pp. 1-42.

 

       PERNICI P. – op. cit.

 

     Il banditismo è un fenomeno sociale e come tale ha delle componenti ben determinate senza le quali cesserebbe di avere una propria fisionomia. Iniziare un discorso sul banditismo senza inquadrarlo geograficamente e storicamente sarebbe un errore gravissimo. Perciò il discorso sul fenomeno acquisterà un senso ed un significato ben preciso solo premettendo dei dati storici e geografici essenziali per la comprensione di esso.

 

     Pertanto, prima di esaminare i fatti, si darà una visione storico-geografica della Sardegna, quindi attraverso la lettura e l’interpretazione delle testimonianze citate si offrirà una visione panoramica del banditismo nella zona del sassarese.

 

     Attraverso l’esposizione dei risultati di ricerca e l’analisi degli elementi offerti, si potranno accertare i motivi di carattere psicologico, ambientale, economico e sociale che hanno determinato il verificarsi del fenomeno.

                                                                       INTRODUZIONE      

 

     La Sardegna coi suoi 24.090 Kmq è la seconda isola del Mediterraneo. Posta nella zona centrale del bacino mediterraneo occidentale, si può dire che in essa s’incontrino il paesaggio italico con quello della meseta spagnola e delle antistanti regioni africane ed è perciò regione di transizione, non solo dal punto di vista umano, etnico, preistorico, storico, economico. Accanto ad aspri massicci cristallini e calcarei orientali si stendono infatti vasti altopiani monotoni costituenti il carattere più spiccato dell’isola e che la fanno apparire da lontano come un vasto tavolato azzurrino steso sul mare.

 

     Essa, essendo staccata più di qualunque altra isola mediterranea dal continente europeo, è stata interessata solo marginalmente dagli eventi storici che vi si sono succeduti, sicché è rimasta a lungo isolata dallo sviluppo generale della cultura e quindi non solo ha avuto forme tutte particolari di civiltà, come quella nuragica, ma vi si sono potuti inoltre mantenere fino ai nostri giorni quadri di vita arcaica (1).

 

La Sardegna nel 1848

 

    Nel 1848 la popolazione dell’isola ascendeva a 552.052 abitanti (22,93 ab. Per Kmq), dislocati in 363 comuni, in gran parte distanti l’uno dall’altro e mal collegati fra loro.

 

    A tutto il 1848 l’Isola aveva raggiunto appena 448 chilometri di strade. Risultavano costruite soltanto la strada Cagliari-Sassari-Porto Torres e alcuni tratti di quella di Iglesias.

 

    La Sardegna usciva da poco dal regime collettivo delle terre e dal regime feudale vero e proprio. Le riforme attuate da Carlo Felice prima e da Carlo Alberto poi, pur avendo tolto l’Isola da un’inerzia plurisecolare, avevano creato un forte malcontento nelle classi sociali che prevalevano nell’Isola: pastori e contadini.

(1) MORI A. : Sardegna in Le Regioni Italiane vol. XVIII nella collana diretta   da Alamagià e Migliorini. Torino 1968 p. 1-3

TERROSU ASOLE A.: Le geografia dell’isola in Sardegna un popolo una terra, Milano, 1963, p. 3.

 

    Le riforme emanate per favorire l’agricoltura e la proprietà privata avevano scontentato i pastori, vistisi di colpo sprovvisti di pascoli a buon mercato e costretti a pagarli a prezzi elevati; avevano scontentato i contadini costretti a una lotta continua coi pastori. Le lotte fra contadini e pastori, gli abusi da parte dei nuovi arricchiti, la miseria costante, le nuove gravi ingiustizie, il desiderio di uscire da una situazione insostenibile sono lo sfondo naturale in cui si sviluppa e prospera il banditismo in Sardegna nella seconda metà dell’ottocento (1).

(1) CORRIDORE F.: Storia documentata della popolazione di Sardegna,   Torino 1902, p. 69.

       BOSCOLO A. BULFERETTI L. DEL PIANOL., Profilo storico economico della Sardegna, Padova,         1962, pp. 126-152

       SOTGIU G.: Alle origini della questione sarda, Cagliari, 1967, p. 51- 61.

       SANNA N.: Il Cammino dei sardi, Cagliari, 1964, p. 430-440.

                                                                        CAPO I

                                     IL BANDITISMO SARDO DAL XIV AL XIX SECOLO

 

     Il fenomeno del banditismo è una costante della storia sociale sarda. È ancora da dimostrare tuttavia che esso risalga al periodo romano. Le azioni di guerriglia delle popolazioni interne dall’isola, tramandateci dagli storici antichi non vanno considerate come azioni di brigantaggio, a meno che non si pretenda di far passare per tali le lotte che ogni popolo oppresso combatte per propria indipendenza.

 

     Per il periodo giudicale si può accettare i giudizio di uno studioso del fenomeno:

 

“Il silenzio dell’età giudicale su norme di carattere penale non si spiega soltanto con l’indole privatistica dei documenti; ma significa proprio che non erano perseguiti né i reati di sangue né quelli contro il patrimonio e che la punizione era abbandonata alla vendetta privata (s’arrivalìa)”. (1)

 

     Il primo documento che testimonia la presenza del fenomeno in Sardegna è il Codice degli Statuti della Repubblica di Sassari; codice promulgato nel 1316.

 

(1) PINNA G.: – Due problemi della Sardegna. Analfabetismo e delinquenza, Sassari, 1955, pp. 96-101.

Al capo CXXVII si legge:

 

“qui neunu deppiat receptare alcunu isbnditu. Dae come innanti alcuna persona non deppiat reciver, non receptare in domo sua, over dessu habitamentu suo, in Sassari nen in su districtu, alcum isbanditu dessu Cumone de Sassari, nen ad isse det consizu, adiuvamentu over favore, nen privatu nen palesi, ad pena de libra V de Janua pro zascatunu, et pro zascatuna volta, qui aet receptare, alcunu isbanditu in moneta dai duas e libras X in susu. 

 

Sa mesitate dessos quale bandos siat dessu Cumone, issa attera dessu accusatore. Et qui aet accusare, deppiat provare sa accusa”. (1)

 

     Un articolo così dettagliato parla abbastanza chiaro. Da esso è facile rilevare: la presenza del fenomeno del brigantaggi a Sassari e nella sua provincia; la probabile connivenza della popolazione in genere coi delinquenti di tal fatta; gli svariati motivi per cui uno diventava bandito: una condanna a morte, una condanna alla mutilazione, una condanna al pagamento di una multa, “isbanditu in moneta.

(1) TOLA P. : – Codice degli Statuti della Repubblica di Sassari, Cagliari,  1850, p. 87.

 

 

     Se questo avveniva nella piccola Repubblica di Sassari la cui provincia non è né era tra le più aspre della Sardegna, niente vieta di supporre che il fenomeno fosse presente anche in altre zone, specialmente in quello più interne.

 

     Tale supposizione potrebbe essere suffragata dalla Carta de Logu di Eleonora d’Arborea, la cui promulgazione è da porre, secondo il Besta-Guarnerio, tra il 1376 e il 1329.

 

     Al Capo VII si legge:

 

“item ordinamus qui si alcunu esseret isbandidu dae sas terras nostras pro homjcidiu ouer pro alcuna atera occasione pro sa quale deberet morreet beneret ad alcuna de sas uillas nostras senza esser fidadu et basadu per nos, siant tenudos sos iurados et hominis de cussa uilla de tenne relluet  batirilu a sa corte nostra: et si non lu tenerent et batirint secundu que est naradu de supra, paghint sa uilla manna a sa corte nostra pro sa negligencia issore liras XXV et sa uilla pizinna liras XV et iso maiore de cussa uilla de per se liras X et ciascuno iurado liras V; et si su hominis de cussa tali uilla ischirint (c. 4) et si alcunu homjnis de cussa uilla  reciurjt et receptarjt cussu tali hominj isbandidu palisimenti ouer a’ffur et derjt illi aiudu ouer consizu o fauore et illi est prouadu, paguit a su regnu nostru liras C, et, si non pagat isse ouer ateru homjnj pro se, istit in prexone ad uoluntadj nostra salu u qui cussu homjnj isbandidu beneret in domo de sa mugere ouer dessu padri ouer dessa mama ouer dessa aju dessa aua ouer de figiu o dessu fradi o sorri carralj qui cussas personas non sian a maquicia dessa preditas lliras C in tottu nen in parti” (1)

(1) BESTA-GUARNERIO: – Carta de Logu de Arborea, Sassari, 1905, p. 8-9.

 

     La casistica particolareggiata mette in evidenza anche in questo documento: la diffusione del fenomeno; la responsabilità collettiva delle popolazioni per la cattura dei banditi; gli svariati motivi per cui un omicida o un reo qualsiasi si dava al banditismo.

 

     La gravità del fenomeno è poi attestata dal numero rilevante di documenti che ad esso si riferiscono, conservati nello Archivio di Stato di Cagliari nelle cartelle della Segreteria di Stato e degli affari Criminali, per il periodo della dominazione spagnola e sabauda sino al 1848, buona parte dei quali sono ancora da ordinare e da esaminare. Quelli pubblicati, e soprattutto le Reali Prammatiche, illustrano chiaramente la diffusione e la frequenza del fenomeno in tutta l’isola. Un quadro sintetico e chiaro offre a proposito il Loddo-Canepa per il periodo spagnolo e sabaudo del suo Dizionario Archivistico per la Sardegna. Dopo aver premesso che il termine bandito deriva dal catalano bandejare dallo spagnolo bandeado dice testualmente:

 

“Erano reputati banditi senza che fossero dichiarati tali per pregone pubblico i già condannati alla pena della galera; coloro che inquisiti di delitto importante simile pena, fossero già stati citati per scolparsi; nonché coloro di cui fosse stato decretato l’arresto dal giudice competente, qualora si dessero alla macchia per sfuggire alla giustizia” (1).

(1) LODDO CANEPA F. : – Dizionario Archivistico per la Sardegna, Cagliari, 1926, pp. 45-48.

 

“I banditi, frequentemente in compagnia di fuoriusciti (foragits), danneggiavano e opprimevano le campagne e i paesi, spalleggiati e protetti spessissimo dalla popolazione, dai nobili e dai magnati. Lo affermano chiaramente le prammatiche: en lugar de ser perseguidos son favorecidos y ayudados de muchos. (2)

 

     Circa la diffusione di questa forma di delinquenza parlano chiaro le stesse prammatiche: “son las tierras pobladas del dicho Reyno inquietadas y habayadas das de los hombres facinorosos que van en quadrilla en forma de bandeados matando y robando ganado”. (3)

 

     E in altro passo:

“Era vietato il ricetto e il favoreggiamento dei banditi e tale tassativo divieto pone il sovrano ai feudatari nelle concessioni feudali, fino dai primi tempi della conquista aragonese”. 

(2) SANNA LECCA P. : – Editti, pregoni ed altri provvedimenti emanati pel Regno di Sardegna sotto il governo dei Reali di Savoia fino al 1774, Cagliari, 1775

 

 

(3) SANNA LECCA P. , op. cit.

 

“Il potere pubblico, impotente a reprimere il banditismo, cercò di combatterlo con mezzi indiretti. Era vietato di andare in più di tre armati (Pramm. 26.4) né di giorno né di notte, in luogo popolato e fuori. I capi delle quadriglie di banditi, ancora per il codice feliciano, erano puniti con la morte (art. 1749)”. (1)

 

“I banditi condannati alla pena capitale e alla galera, erano esposti alla vendetta pubblica. Come esseri ex legge, ognuno poteva arrestarli ed anche ucciderli. Assai frequentemente la loro testa era posta a prezzo”. (2)

 

    Le Prammatiche fissavano i premi per la cattura dei delinquenti. Data l protezione e l’asilo che trovavano i banditi nelle diverse parti del regno, le leggi stabilivano che nessun ministro reale e baronale potesse concedere loro guidatico sotto pena di 500 ducati, e che si potessero catturare dovunque. Fino al codice feliciano, era stato accordato su vasta scala il beneficio del guidatico al bandito, per la cattura di altro bandito, reo di maggiore o uguale delitto. Con questo sistema si tentava di estirpare i banditi aizzandoli l’un contro l’altro; si abituavano le popolazioni al tradimento, alla perfidia e all’inganno; si spargeva tra gli abitanti la diffidenza e lo spionaggio, mentre si dava incentivo alla delinquenza stessa, che si nutriva della speranza dell’impunità.

(1) LODDO CANEPA F. , op, cit.

(2) LODDO CANEPA F. , op. cit. , pag. 16.

 

    Questo il quadro impressionante sulla diffusione del fenomeno nel periodo spagnolo.

 

    Non molto diversa fu la situazione dopo il 1720, quando la Sardegna passò a casa Savoia.

 

    Si legge ancora nelLoddo Canepa:

 

“Le numerose disposizioni viceregie che si leggono nella raccolta del Sanna Lecca ad attestare come neppure gli sforzi energici del Rivaloro (1735-1738), siano valsi a gran cosa, se furono necessari tanti provvedimenti successivi, che incoraggiavano con tutti i mezzi la cattura dei banditi”. (1)

 

    I banditi esposti alla pubblica vendetta, erano esclusi anche dagli indulti generali. Ai capi delle bande era precluso il beneficio dell’impunità arrestando altro delinquente. Quelli poi che arrestavano tali capi, oltre l’impunità per sé e per i parenti, godevano della metà del premio stabilito per tali catture.

 

    Per l’editto 13.3.1759, era prescritto che al principio di ogni anno la sala criminale della Reale Udienza (R. Consiglio) pubblicasse il Catalogo dei banditi, contumacialmente condannati. Tale catalogo conteneva le generalità del bandito, i suoi connotati, il delitto commesso e la condanna riportata. Doveva tenersi nelle sale della Reale Udienza e della 

 

(1) SANNA LECCA P. – op. cit.

     LODDO CANEPA F. – op. cit.

 

governazione, nonché nelle curie subalterne, affinché fosse noto il loro stato di latitanza e resa più facile la denuncia e l’arresto (cod. Feliciano art. 2348, 2350). (1)

 

    Sebbene vi siano stati nel periodo di tempo considerato, momenti di maggior recrudescenza di questo fenomeno, in cui i fatti delittuosi ebbero insolita frequenza, si può affermare che le manifestazioni criminose erano e rimasero elemento normale e costante della vita sarda. (2)

(1) LODDO CANEPA – op. cit.

(2) ROGIER L. : – La Sardegna il banditismo del 1747 in una relazione della Reale Udienza in “La Sardegna nel Risorgimento”. Antologia di saggi Storici, Sassari, Gallizzi, 1962, pp.. 49-68.

 

 

                                                                     CAPO II

                                               IL BANDITISMO SARDO NEL 1848

 

    Nel marzo del 1848, quando il Piemonte dichiarò guerra all’Austria, i Sardi vennero a trovarsi in posizione di privilegio rispetto ai sudditi degli Stati di terraferma, non essendo soggetti all’obbligo del servizio militare. Infatti, quando furono estese alla Sardegna lo Statuto e le principali leggi sabaude, fu escluso il R. Editto 16 dicembre 1837, che sanciva il sevizio di leva per i Piemontesi, non sembrando opportuno instaurarlo, ex novo, nel particolare momento politico che l’Isola attraversava.

 

    La Sardegna era politicamente divisa, perché solo una parte dei Sardi aveva aderito alla annessione col Piemonte, voluta da una ristretta classe sociale. (1)

 

    Ma la critica situazione in cui venne a trovarsi ben presto Carlo Alberto, per l’impreparazione dei suoi eserciti e la defezione delle truppe pontificie e napoletane, suggerì al luogotenente generale, principe Eugenio, di estendere all’Isola, con decreto 7 maggio 1848, n. 319 la coscrizione obbligatoria, sia pure per un contingente dimezzato rispetto a quello degli Stati di terraferma. Per motivi politici, il provvedimento non fu applicato; e per le stesse ragioni, la Sardegna fu esplicitamente esclusa dalla successiva legge 4 luglio 1848, n. 741, che chiamava alle armi 15.000 uomini; dal decreto luogotenenziale 2 agosto 1848 che sanciva, in un ultimo disperato tentativo, la leva in massa della popolazione; e dalla legge 27 ottobre 1848, n. 832, che stabiliva l’arruolamento di oltre 13.000 unità.

(1) ARCARI P. M. : – Il quarantotto in Sardegna, Milano 1948, cap. 1 -2-3.

 

   Sui sardi incombeva pertanto, il solo obbligo morale di contribuire alla “santa causa con arruolamenti volontari, secondo proporzione con i territori di terraferma”. Per questo si erano battuti i deputati sardi, sicuri che l’Isola avrebbe risposto spontaneamente alla chiamata della parti in armi. Le speranze dei deputati sardi e del parlamento subalpino furono però deluse. Infatti, venuto meno l’entusiasmo del marzo 1848, che aveva spinto non più di 600 sardi ad arruolarsi volontariamente, a niente approdarono i reiterati appelli dei vari intendenti provinciali per spingere i sardi a prender parte alla lotta per la “santa causa”.

 

    Le autorità dinanzi a tanto assenteismo e nutrendo ben poche speranze sul risveglio del patriottismo sardo, proposero al Ministro la gravissima misura dell’arruolamento dei banditi reclusi e contumaci, di cui l’isola sovrabbondava, che avrebbe potuto dare all’esercito regio un notevole contributo numerico. Il progetto per una serie di fattori non andò aventi. (1)

    Tale proposta fu presentata però anche per parlamentare.

    Nella tornata della sera del ottobre 1848, nel corso della discussione e adozione del progetto di legge per la leva di 13 uomini, il deputato Fois, intervenendo al dibattito, dopo aver esposto brevemente le condizioni particolari dell’Isola, propone che, anziché dalla leva, si studino i mezzi di trar profitto dai banditi, uomini di molto valore e sospinti a segregarsi dalla società, il più spesso per lievi e scusabili colpe.

(1) OLLA REPETTO G. , I volontari Sardi alla I guerra di Indipendenza. In “La Sardegna nel Risorgimento”, Antologia di saggi storici. Sassari, 1962, pp. 241-260.

 

 

 Appoggia la proposta il deputato Sineo, il quale, ritiene che i banditi siano uomini posti in condizioni morali speciali, poiché generalmente su di essi pesano delitti causati da passioni generose. Per lui si tratta di uomini conosciuti per il loro coraggio, che una volta organizzati, avrebbero potuto adattarsi ad ogni rigore di disciplina e giovare moltissimo ai bisogni della guerra.

 

    A quest’ultimo fa eco il deputato Fois, sostenendo che colore che si chiamavano banditi erano tali più che altro per la paura di essere arrestati. Pochissimi a suo parere erano coloro che avevano subito condanna. Prendendo la parola, il Sulis ritiene fra l’altro che l’intervento del deputato Sineo avesse arguito del morale del paese dai briganti di cui aveva fatto cenno. Sineo replicando concluse la discussione asserendo che egli era convinto che la situazione e fisica e sociale dell’isola era ben diversa da quella delle altre provincie e da ciò si deduceva che quella classe che in Sardegna era conosciuta col nome di banditi era ben diversa da quella che veniva indicata collo stesso nome nelle altre province.

    La discussione si concluse con l’esenzione dalla leva dei Sardi, ma non prese alcuna decisione sull’arruolamento dei banditi. (1)

 

    Dei banditi sardi si parlò ancora allorché fu discussa la petizione n. 315 di Angelo Cannetto da Portotorres, nella tornata della sera del 12.XII. 1848. È interessante notare come nella discussione si cercò da una parte di chiamare i banditi con il loro nome e dall’altra con eufemismo col nome di fuoriusciti.

 

    Premessa la difficoltà di effettuare la leva militare in Sardegna, il relatore Valerio propone di chiamarvi come volontari i fuoriusciti che in essa si trovano molti, accertando che in numero di circa duemila risponderebbero all’invito e per valore e fedeltà si sarebbero segnalati. A giustificazione della sua proposta nota come o per angustie di miseria o da impeto di passione siano stati messi in bando dalla società. Enumera quindi i vantaggi che ne deriverebbero a tutta l’Isola.

(1) PINELLI TROMPEO: – Atti del Parlamento Subalpino Discussioni – Sessioni del 1848- Primo Periodo- tornata del 24.X. 1848.

 

 

    La Commissione è però contraria a che la divisa dell’esercito sia vestita da soggetti o spiriti minacciati da condanne legali; considerando tuttavia che la condizione anormale in cui si trova un così gran numero di uomini in Sardegna indica una malattia sociale la quale merita le cure del governo e opportuni provvedimenti, chiede sotto questo rapporto il rinvio della petizione ai ministri dell’Interno e di Grazia e Giustizia per gli opportuni provvedimenti.

 

    Fatta la relazione, interviene il deputato sardo Siotto Pintor, il quale sostiene che si farebbe un bene grandissimo alla causa della indipendenza italiana e alla Sardegna liberandola da quegli uomini.

 

    Egli sottolinea il fatto che si tratta semplicemente di uomini condannati i quali hanno la disgrazia che, essendo perseguitati, si danno alla campagna, perché temono la prigione dove non sono che malfattori.

 

    Il Ministro delle Finanza Ricci lo smentisce però, sostenendo che il piccolo numero che ha partecipato alla prima fase della guerra non ha dato buona prova di sé; pare anzi fossero stati più intenti a compiere cattiva azioni piuttosto che a combattere.

 

    Il deputato Vesme ritiene che sarebbe conveniente prendere qualche provvedimento relativamente al gran numero di banditi per sanare quella piaga della Sardegna, giacché molti erano banditi per delitti commessi da tempo lunghissimo.

 

    Il Pinelli sottolinea che a lui pare che si tratta davvero di banditi. Il Siotto Pintor interviene dicendo “io li chiamo fuoriusciti. Sono accusati, sono incolpati, non sono condannati”.

    Si propone un salvacondotto.

    Le varie proposte messe ali voti non vengono approvate. (1)

    A conclusione dello sguardo dato agli Atti del Parlamento Subalpino nelle varie tornate del 1848, possiamo dire che in quell’anno il banditismo in Sardegna era più florido che mai date le condizioni demografiche, geografiche, economiche e sociali del tempo, la situazione era davvero triste. Duemila banditi su mezzo milione di abitanti erano un vero flagello; se poi si pensa ai 24.090 Kmq della Sardegna, il quadro diventa più fosco. 

(1) PINELLI TROMPEO – op. cit., Tornata del 23.XII. 1848.

Del resto il medesimo Siotto Pintor in una relazione sulle condizioni dell’Isola di Sardegna, pubblicata a Torino nel 1848 dice testualmente:

“Primamente i delitti contro la proprietà sono con paurosa proporzione cresciuti, dappoichè uomini nati a ben fare sono tratti al delitto dalla prepotente necessità della fame…”

    E in altro passo:

    “E già non nel segreto e con gente poca si commettono pur qui assassinii, ma numerose bande di scellerati affrontano intiere popolazioni e inquietano le strade. Altro effetto della fame, la sicurezza della disperazione”. (1)

    E in altro passo ancora:

 

“La Sardegna che meno forse di tutte le alte provincie italiane abbisogna di truppe d’ordinanza, più di molte altre sente la necessità d’una truppa civile che tenga in freno i malfattori (non li chiama più fuoriusciti come aveva fatto in parlamento”. (2)

 

    In altro passo critica l’assoluta mancanza di forza pubblica, lo scarso numero dei Cavalleggeri di Sardegna, la simbolica presenza nelle tre principali città dell’Isola dei Carabinieri.

(1) SIOTTO-PINTOR G.: Sulle condizioni dell’isola di Sardegna, Torino, 1848, p. 32

 

        SIOTTO. PINTOR G.: Storia civile dei popoli sardi dal 1198 al 1848,Torino, 1877.

 

(2) SIOTTO-PINTOR G.: op. cit. 33.

       LEI-SPANO G.M.: La questione sarda, Torino, 1922, p. 63.

    Non sarà male riportare, alla chiusura di questo capitolo, una testimonianza del Lei- Spano. G. M. tratto da 

“La questione sarda” Torino, 1922”

 

“Permane ancora nella mente dei vecchi il ricordo di tempi non troppo remoti in cui, specie nel centro dell’Isola e in montagna, alle persone appena abbienti, era interdetto di uscire dal proprio domicilio senza farsi uccidere, ricattare o rapinare da uno dei duemila banditi, che secondo una relazione dell’Intendente divisionale Muffone, spedita a Torino verso la metà del secolo scorso, infestavano e dominavano i boschi de Goceano.

 

    I veri padroni di tutto erano i banditi che, scorrazzando le campagne nostre e annidandosi nei boschi, tenevano in iscacco le persone e le ville, specie se agivano uniti in bande, come fu costume e costante del brigantaggi”. (1)

 

(1) LEI SPANO: –  op. cit.,  

                                                                        CAPO III

                 LA PUBBLICA SICUREZZA A SASSARI E NELLA SUA PROVINCIA NEL 1849

1) Lettera del Municipio al Presidente del Consiglio dei Ministri.

 

    Le condizioni della sicurezza pubblica a Sassari erano tristissime nel 1849 e il Municipio ne era seriamente impressionato.

 

Il 22 ottobre il Consiglio Delegato della città, presieduto dal Sindaco Giacomo Deliperi, manda una lettera al Presidente dei Ministri Massimo D’Azeglio; una ne manda all’Intendente Generale della Provincia; un’altra ne invia a Torino al deputato Cossu. Dalle tre lettere si può facilmente rilevare quanto fosse precaria a difficile la situazione a Sassari e nella provincia, (1) 

 

    Ecco il testo integrale della lettera inviata al Governo:

 

“Addì 22 Ottobre 1849. Oggetto: Pubblica Sicurezza A. S.E. il Presidente dei Ministri. Torino

 

Giustamente commosso ed allarmato per i continui, e in questi ultimi giorni spaventosamente, cresciuti delitti ed attentati alla vita e proprietà dei pacifici cittadini, il Consiglio Delegato di Sassari crederebbe di mancare al proprio dovere ed al mandato conferitogli da voto di questa popolazione, se non risvegliasse per quanto sta in lui, l’attenzione del Governo sullo stato infelice, a cui trovasi ridotta questa Città e provincia”.

 

    Si parla dunque di un aumento di atti criminosi contro i cittadini e contro la proprietà. In termini più esatti si tratta di omicidi, rapine, ricatti, grassazioni.

 

    La lettera continua con tinte più fosche.

 

“Nessuno oramai degli onesti e pacifici abitanti osa sortire tranquillo a visitare i suoi poderi, perché ognuno teme che la palla di un sicario, di un nemico, di un malfattore lo colpisca per via…”

 

(1) COSTA E.: – “Sassari” – Sassari, 1959, p. 281.

 

    I sicari eseguivano generalmente i delitti commissionati dai potenti ed erano scrupolosi nell’adempimento del loro dovere. Fare il sicario era ritenuto a quei tempi un mestiere come un altro. (1) I nemici eseguivano i delitti per vendetta, i malfattori a fine di lucro.

    La lettera prosegue:

 

“e se questo stato di cose ancor per poco si prolunga ed accresce, non v’ha dubbio, che fra breve la Sardegna vedrà rinnovarsi per lei quell’epoca luttuosissima, e non molto lontana, in cui le campagne furono interamente abbandonate, e lasciate incolte, non essendovi più alcuno che s’attentasse di partire dall’abitato per coltivarle; ed in cui i paesi divisi in partiti si distruggevano con rabbia feroce a vicenda. Troppe sono già le piaghe che s’aggiunga quella maledizione delle vendette private, e di partiti, nemici implacabili d’ogni civiltà, industria e prosperità…”

 

    Fu appunto “la maledizione delle vendette private” che spinse i Saba, i Maccioccu e i Careddu a distruggersi a vicenda, proprio in quegli anni, alle porte di Sassari e nello stesso cuore della Città.

 

    La lettera riprende:

 

“ed il Consiglio Delegato di Sassari non può credere, che, ove il Governo conosca il vero stato in cui si trova questa provincia, voglia più oltre abbandonarla alla propria sorte infelice, e caricarsi per conseguenza innanzi a Dio, ed agli uomini dell’immensa responsabilità d’aver lasciato precipitare a totale rovina una parte non indifferente dello stato, impertanto, quali che siano le misure che il Governo del Re nella saviezza intenda di adottare per far cessare uno stato di cose rovinose nel paese, e disdicevole ad un popolo civile e costituzionale, il Consiglio Delegato sarebbe colpevole, se non additasse quale sia la vera sorgente, da cui egli crede sia scaturito il male, e donde s’abbia a trarre il rimedio. Il rinnovamento delle vendette private, degli assassinii e dei furti data (ed il Ministero può facilmente verificarlo) dal tempo in cui un’amministrazione improvvida sostituì all’arma di polizia dei R. i Carabinieri, arma temuta,

(1) COSTA E. : op. cit.

 

E che aveva reso tanti servigi al paese, quella dei Cavalleggeri di Sardegna; aggiuntavi la diminuzione di guarnigione, ridotta pressoché al solo Corpo dei Cacciatori Franchi…”

 

    La legge del taglione, o meglio, il codice della vendetta, era in quei tempi in uso in tutte le plaghe dell’Isola e non solo come avviene ai nostri giorni presso le popolazioni barbaricine come con un magistrale saggio ha dimostrato lo studioso Antonio Pigliaru. (1)

 

    La stessa vita pastorale della stragrande maggioranza della popolazione della provincia di Sassari, spingeva ai furti, alle vendette, agli omicidi.

 

    Al Consiglio Delegato pare di ravvisare tuttavia la causa di tutti i mali nella sostituzione dell’arma dei Reali Carabinieri con quella dei Cavalleggeri di Sardegna e con lo stesso sparuto numero di questi ultimi. Infatti con le RR Patenti 9 febbraio 1832 furono soppresse in Sardegna le due divisioni di Carabinieri e l’ispezione generale dell’arma. Con Regio Biglietto 27.11.1941 fu istituita una classe di Carabinieri Veterani di 41 uomini in totale, distaccati in Sardegna e assegnati ai comandi di Cagliari, Sassari, Alghero e Tempio.

    È innegabile che in tutti i tempi l’Isola non è stata debitamente presidiata dalle forze dell’ordine e ciò non sempre per l’improvvida amministrazione, ma piuttosto per la sua stessa conformazione geografica e per la situazione demografica. L’Isola è stata sempre priva di strade, i centri abitati troppo distanti l’uno dall’altro e la popolazione fu sempre troppo esigua rispetto all’estensione del territorio.

    Ogni rimedio fu sempre inferiore al male. Il banditismo sardo è caratteristico, anzi tipico della regione e s’inserisce nella sua struttura economica e sociale, perciò non è azzardato sostenere che ogni società ha una criminologia tipica: la criminologia tipica della provincia di Sassari nel 1849 era quella di una società prettamente agricolo pastorale, alle prese con gravi difficoltà esistenziali.

(1) PIGLIARU A.: – La vendetta barbaricina come ordinamento giuridico,Milano, 1859

 

    Pare pertanto esagerata, per quanto giustificabile, l’affermazione del Consiglio Delegato:

“Tutti sanno, ed il Governo non lo ignora, che i Carabinieri erano giunti a purgare il paese da tutti i malandrini e banditi, a ricondurre l’ordine, e la sicurezza nella vita e nella proprietà degli abitanti, la confidenza ed il rispetto per il Governo; e recentissime ancora, quando due o tre mesi fa si trovavano in Sassari quei pochi carabinieri in attività di servizio, si è sperimentato il benefico e salutare effetto del timore che si ha di tale arma, poiché quivi bastò a frenare i delitti e i furti”

 

[Il compianto Antonio Pigliaru, leggendo questi passi, esclamò: -Queste sono le tesi del Caffè della Nuova Sardegna-Aldo Cesaraccio-]

 

    Che i Carabinieri fossero una remora per frenare l’attività criminale della città e della provincia nessuno lo nega, ma che fossero il toccasana contro il fenomeno del banditismo è ingenuo affermarlo.

 

    È da rilevare tuttavia che l’azione dei Cavalleggeri doveva essere davvero efficace se la lettera continua con questo tenore:

 

“Ciò è cognito a tutto il paese, mentre che l’esperienza purtroppo ha dimostrato, che i Cavalleggeri, incaricati del servizio di polizia, malgrado tutta la loro buona volontà e zelo, sia per la loro dubbia qualità di truppa di linea e di polizia, sia per la fondamentale loro istituzione, sia per altre cause ignote al Consiglio Delegato, furono e sono impotenti a contenere i maleintenzionati e ad assicurare la pubblica tranquillità”.

 

    La poca forza di truppa di linea poi, principalmente se si ha riguardo alla compagnia di rigore dei Franchi, delle quali, giusto il regolamento disciplinare di tale Corpo, non si può tirar gran partito per vari e numerosi distaccamenti che abbisognerebbero, per appoggiare nei vari punti della Provincia la forza del Governo e della legge, forma uno dei principali ostacoli al buon andamento delle cose, non potendo le autorità locali e governative farsi rispettare; che anzi da questa impotenza ne nasce e cresce ogni giorno il discredito del Governo  e della legge.

 

    Come si è già detto, poco dopo l’avvenimento al trono di Carlo Alberto, per conciliare con le condizioni dell’erario il bisogno sempre più sentito di forza militare, abolite le due divisioni di Sardegna dei Carabinieri Reali (Patenti 9.2.1832), veniva costituito un corpo di Cavalleggeri di Sardegna, diviso in quattro squadroni sparsi nell’Isola per il servizio della polizia civile e giudiziaria.

 

    Il Corpo si componeva di quattro squadroni, uno Stato Maggiore, 675 uomini compresi gli ufficiali, 372 cavalli. Solo con Regio Biglietto 27.2.1841 fu istituita una classe di Carabinieri “veterani” di 41 uomini in totale, che furono dislocati in Sardegna e assegnati ai comandi di Cagliari, Sassari, Alghero e Tempio. (1) E’ facile capire che con 41 Carabinieri dislocati in quattro stazioni non si potesse condurre di certo una lotta seria contro i banditi e facinorosi di varia specie.

 

    La lettera si chiude con le seguenti proposte:

“Perlochè il Consiglio Delegato si fa lecito di esporre francamente, e lealmente la sua opinione, e su cioè tutte le misure che si volessero.”

(1) LODDO CANEPA F. : op. cit.

     SIOTTO PINTOR G. : op. cit.

 

“adottare in proposito, riusciranno inefficaci, se non si fanno precedere 1° dalla riforma radicale dell’arma di polizia, col ristabilire cioè nell’isola i carabinieri aiutati da quei corpi che il Governo francese fece per la Corsica. 2° da un sufficiente aumento di guarnigione, sicché si possano avere i necessari distaccamenti, ed anche qualche colonna mobile per dar la caccia ai molti banditi e facinorosi che infestano e derubano le campagne”

 

“L’istesso disarmo totale o parziale dell’Isola, che sarebbe pur tanto desiderabile, senza queste precedenti riforme riuscirebbe non solo difficile ed imperfetto, ma eziandio dannoso, in quanto che i soli buoni deporrebbero le armi, mentre i tristi ed i banditia danno altrui le conserverebbero, il Governo, trovandosi nell’impotenza di assicurare e difendere la vita e la proprietà degli onesti e pacifici abitanti”

 

    Le richieste della giunta Comunale di Sassari rivelano chiaramente la tristissima situazione che si era venuta creare a Sassari e nel sassarese ed erano i rimedi più ovvii per porre fine ad una situazione assai precaria e insopportabile. Interessante la disapprovazione per il disarmo, che in quel frangente si sarebbe risolto a disagio della popolazione.
[Che però si fece, mentre a tutt’oggi (2019)-negli Usa- il problema ancora sussiste]

 

2) lettera del Municipio all’Intendente Generale.

 

    Nella lettera che lo stesso Municipio invia all’Intendente Generale della Provincia, dopo aver premesso che il Consiglio Delegato non può 

 

(1) lettera inviata al Presidente dei Ministri M. D’Azeglio il 22.X.1848

 

     (A.S.C., Busta 83).

 

Restare impassibile spettatore delle disgrazie che affliggono la Patria

“che tanto da vicino attaccano il comune benessere, turbando la sicurezza reale ed individuale degli abitanti”, sostiene chiaramente che “nell’attuale stato delle cose l’aumento dei delitti, non può che ripetersi dalla quasi assoluta mancanza di forza appositaa contenere l’audacia dei malviventi, dopo lunga e triste esperienza nell’Isola che delitti e delinquenti si riproducono e crescono in ragione diretta del difetto di reazione dell’arma pubblica”.

 

    Bisogna dire che qui il Consiglio Delegato è stato più esplicito: non si tratta soltanto della sostituzione dei Carabinieri coi Cavalleggeri, si tratta di mancanza di tutori dell’ordine pubblico. Tale grave carenza spinge il Consiglio a sostenere la tesi dell’inopportunità del disarmo, nel caso che la lettera indirizzata al Governo, fraintesa, avesse provocato una simile decisione.

 

“se non che il generale disarmo nella attuale circostanza presenterebbe delle insuperabili difficoltà e farebbe riverger- (sic) tutta la soggezione ed i pericoli nella sola classe degli uomini onesti. Lunga esperienza ha dimostrato che i malviventi non cedono mai l’arma, qualunque sia la severità della pena; che se per effetto di una nuova legge si disarma il docile uomo onesto, ne conseguirà che questi abbandonerà tutti i suoi affari pel timore di venir sorpreso inerme dal malvivente armato”.
La tesi sostenuta dalla Giunta è naturalmente discutibile: le armi in mano ai cittadini sono sempre un’occasione prossima al delitto; gli stessi malviventi del resto, prima di essere o di diventare tali sono stati “onesti e pacifici cittadini”.

    Ad ogni modo per il Consiglio Delegato,

 

“Quella genia di persone, raramente ritiene le armi e le monizioni in casa, le ritiene nascoste alla campagna, nelle mura, nelle siepi, nelle caverne e le caccia nel solo momento di prevalersene”.

 

    A mo’ d’esempio cita il caso di un detenuto evaso dalle carceri di Sassari, che riuscì ad “armar più colleghi a poca distanza, estraendo le armi ed ogni cosa relativa da incogniti nascondigli.

 

“Finché la difesa dunque dell’individuo sarà ristretta, come oggi, alla sola reazione del privato, sommi pericoli e danni fa presagire il generale disarmo, anzi in molti paesi cesserà perfino la sicurezza del domicilio, e nella propria casa, non essendo difficili le scalate, allorché dall’interno non può temersi le reazioni dell’arma di fuoco, mentre casi simili si sperimentarono dolorosamente in questi tempi a Laerru a Tres Nuraghes a Scanu ed in molti altri punti dell’Isola…”.

 

    Dopo aver raccomandato all’Intendente Generale di sconsigliare il Governo dell’emanare leggi sul disarmo totale dell’Isola, il Consiglio Delegato ripete anche in questa lettera quanto aveva detto nella precedente al Governo: l’unico rimedio ai mali consiste “nell’aumento ed attività apposita forza; giacché quella cui oggi è affidata la tutela dell’Isola, non può darsi adatta e meno sufficiente”. Si passa quindi a fare una critica di inefficienza a i Corpi dei Cacciatori Franchi e dei Cavalleggeri.

 

“Il Corpo dei Cacciatori Franchi, né può occuparsi della Polizia, né sarebbe prudenziale ingerirvelo, dacché la parte di cui forse si potrebbe ed anche di qualche dubbio disporre, non basta forse a sorvegliare quella che per legge regimentale è tenuta sotto osservazione”, (1)

 

(1) Il Corpo dei Cacciatori Franchi era una compagnia di rigore, costituita da nullatenenti, oziosi e vagabondi, condannati a pene leggere, i quali potevano invece che a tali pene, essere destinati ad intraprendere il servizio militare. Essi non formavano in tempo di pace unità superiore alla brigata di fanteria ed erano distribuiti nel territorio secondo criteri di opportunità. Quando si divisero con giusto criterio i combattenti, dai non combattenti, i primi furono compresi.

 

“L’altro dei Cavalleggeri di Sardegna, o manca di sufficiente numero ai bisogni necessario, mentre appena sorregge alla corrispondenza delle postazioni, o difetta di direzione che forma l’interessante centro delle operazioni talché ovunque sia per esser il vacquo. Nissuno, o pochissimo vantaggio egli presenta, anzi pare estinguendosi perfin l’idea della forza morale e fisica operativa…”

 

    In parole povere: i Cavalleggeri sono inadatti e inutili, nonché esigui per la lotta contro i delinquenti

 

“La soluzione del problema quindi, torna all’aumento della forza, ma d’un Corpo che intenda unicamente alla persecuzione di malviventi per istinto e per scopo, come gli antichi Carabinieri, che avevan ridonato tranquillità all’Isola ed alla cui fatale soppressione, ebbe nuovo lagrimevol primordio, la baldanza dei facinorosi”.

 

    La lettera fa quindi un riferimento alla vicina Corsica dove il Governo francese sembra riuscito a estirpare la mala erba del banditismo, ricorrendo all’istituzione d’un apposito corpo di polizia.

 

“La vicina Corsica, varie fiate trovassi in circostanze più difficili, dacché il pugnale del sicario introducevasi ad immolar vittime perfino nelle chiese e nelle funzioni più solenni: pure l’avervi stabilito i Collegiatori,  o Bersaglieri Ambulanti, portò tanto effetto, che disperati i corsi malviventi, di perdurarla più a lungo in Corsica, fuggian ai litorali di Sardegna ed oggi flagellano ed affiggono più popolazioni della Gallura, seppure non han fatto progressi pure nell’interno, dacché poteron inoltrarsi senza che nessuna difficoltà, mentre alla mancanza della forza, si aggiunse l’effrenata licenza di viaggiar tutti senza carta di via, e di fissar domicilio, ove meglio va a genio all’incognito, senza cautela di sorta da parte della Polizia”.

 

    È interessante rilevare come non bastando quasi i banditi sardi a rendere insicura la situazione nell’Isola, si aggiungessero i banditi corsi, costretti a fuggire dalla loro terra per l’efficienza dei corpi di polizia francese. (1)

 

   Se tutto è da credere, bisogna pur dire che Francia di allora, ben diversamente del Piemonte, era capace di mantenere a posto “i facinorosi” con appositi mezzi polizieschi.

 

“Se in Sardegna si ristabilissero gli antichi Reali Carabinieri, con un discreto Corpo di Bersaglieri Ambulanti, dedicati unicamente alla persecuzione dei malviventi, i felici risultati sarebbero certi, poiché gli abitanti, se facili sono alla prevaricazione nell’abbandono, proni sono anche al timore, ed al ravvedimento, nel cospetto della imponente…” 

 

    La lettera dell’intendente si chiude con la seguente supplica:

 

“Il consiglio vorrebbe pure pregare la gentilezza della S.V. Ill.ma onde temperare quanto si possibile l’accordo dei porti d’arma, diffidando degli attestati che si spediscono dai Mandamenti, dettati talvolta o da timore, o da lubricità dei testi di buona condotta. Una caterva di cacciatori da grive, ora irrompe nelle campagne, che non distingue più proprietà e cagiona danni di ogni sorta, con insultarvi perfino i padroni ed i guardiani o manenti”.” Inoltre di far girare una qualche pattuglia dei Cavalleggeri, chiamar il porto d’armi indistintamente ad ogni persona, ritirarne il permesso da persone di dubbia condotta, ed arrestare inesorabilmente quelli che si trovassero senza”. (1)

 

(1) lettera all’Intendente Generale di Sassari del 22.X.1849

 

     (A.S.C., Busta 83).

 

    A conclusione di questa lettera è facile rilevare quanto la situazione fosse davvero precaria a Sassari e in Sardegna, per la sicurezza pubblica, e come l’unica soluzione, per gli amministratori di Sassari del problema dovesse consistere nell’istituzione e aumento di una forza di polizia.

 

3) Lettera del Municipio al deputato Cossu.

 

  Più sintetica, ma non meno valida è la lettera che lo stesso Comune invia al deputato sassarese Prof. Francesco Cossu a Torino.

 

“Resasi oramai troppo scandalosa e terribile ad un tempo la molteplicità dei delitti in Sardegna, ed in specie in questo Capo Settentrionale, il Consiglio Delegato, cui sta a cuore il benessere e la prosperità del suo paese, non poté a meno di far conoscere al Presidente dei Ministri questo stato di cose, e far rilavare la sorgente da cui crede derivare tanto disordine e proporre i mezzi, che a di lui conoscenza verrebbero ad andare al riparo.

 

    Nell’adempiere a quest’atto di dovere, non può dispensarsi, dall’interessare la S. V. Ill.ma che nella degna qualità di Deputato della Città, caldo quanto altri d’amor patrio, vorrà con ogni impegno appoggiare i giusti richiami del Consiglio e viemmagiormente far rilevare le ragioni che lo stesso espose al sullodato Presidente, e che mi reco a pregio compiegarle per copia, per rinforzarlo con quei suggerimenti ed aggiunte, che sarebbero per avventura sfuggire al Consiglio e che nella di Lei saviezza giudicherà opportuni.

 

    Il progetto del disarmo generale, forse vagheggiato dal Ministero, ha il Consiglio creduto contrastare per le ragioni ivi esposte e che spero, conoscente quant’è della Sardegna, troverà Ella plausibili. Nel pregarla di volersi intanto occupare di così importante oggetto, che tutta interessa l’Isola nostra, La prego altresì far parte dell’esposto al condegno Deputato Sulis, per vie meglio, di comune accordo, poter sortire questa bisogna il desiderato scopo. Le protesto gli atti di ben distinto rispetto con cui mi raffermo. (1)

(1) Al Deputato F. Cossu del 22.X.1844 (A.S.C., Busta 83).

                                                                  CAPO IV

                          LA PUBBLICA SICUREZZA A SASSARI E IN PROVINCIA NEL 1850

 

    Del tutto inefficace doveva essere stato l’esposto inviato dal Consiglio Delegato del Comune di Sassari, il 22.X.1949, al governo di Torino, se il medesimo Consiglio, ad appena quattro mesi di distanza, sente il bisogno impellente di inviare un altro esposto allo stesso Governo, indirizzandolo questa volta, in data 9 marzo, al Ministro di Guerra e Marina, Alfonso Della Marmora.

 

“Lo spaventevol crescere di delitti nella Provincia del Logudoro e la troppa compromessa sicurezza individuale dei pacifici cittadini suggeriva al Consiglio Delegato di Sassari di rassegnare al Governo le sue rimostranze, onde muoverlo a compianto verso una popolazione gravata da orribili mali per i ripetuti assassinamenti, per impudenti e crudeli vendette.

 

    Quelle doglianze umiliate al Sig. Presidente dei Ministri dalli 22 ottobre scorso anno, erano pur anche avvalorate da codesto Sig. Intendente Generale il quale, persuaso Egli ancora della vita indifesa e mal sicura menata in quel tempo dagli onesti regnicoli, del rapido crescere e propagarsi d’uomini demoralizzati e di mal affare, dell’effrenata licenza con cui manomettevano ogni sacrosanto diritto d’individualità e proprietà, ne istruiva il Governo e ne promuoveva le energiche risoluzioni.

    Si fu allora che sull’esperienza della vicina Corsica il cui quadro era da questo Consiglio segnato, come tipo a studiare e rimediare i nostri mali, si fu allora che questa Provincia divenne lusingata delle sollecite amorose cure del governo a di lei riguardo e delle misure che intendeva adoprare onde ristabilire in questa e nei vicini paesi la decaduta forza morale.

    I nostri rappresentanti faceanci con giubilo presentire il prossimo arrivo di un competente nerbo di polizia della quale preferibilmente il paese nostro abbisogna, per mantenervi il buon ordine, garantire il domicilio, la proprietà e la persona dei cittadini e di sradicar la infesta razza dei vagabondi, scapestrati e facinorosi.

 

    Ma è destino di questa nostra terra che qualunque istruzione sacrosanta venga funestata ed offuscata dalla cattiveria degli assassini e dall’energia degli scellerati i quali ben lungi dal rinfrancarsi all’ordinato libero Regime (sic), violando la sicurezza personale e reale ne stanno minando l’esistenza.

 

    Quella aspettativa infatti di vedere avverarsi le risoluzioni del Superiore Governo, avea non poco contenuti i malviventi, repressi gli assassini, fatto un momentaneo richiamo al timore ed alla soggezione verso la autorità e le leggi; svanite però quelle apprensioni, ogni sconcio, ogni sociale sconvolgimento si ripristinò”.

 

    La lettera, dopo aver fatto un chiaro riferimento alla situazione creatasi nel 1849 e già illustrata con la lettera inviata il 22 ottobre dello stesso anno, sostiene che i malviventi, i banditi e i delinquenti in generale, avevano interrotto la loro attività criminale sia pure momentaneamente, solo al sentir dire che stavano per arrivare dal Continente truppe di Polizia. L’affermazione è troppo semplicistica e rassomiglia a quell’altra sul timore rivenziale che i banditi avrebbero avuto nel 1849, per quei pochi Carabinieri veterani che stazionavano a Sassari. Ed ecco la situazione venutasi a creare nel 1850.

 

“Qua semplici grassazioni, là accompagnate da omicidio; quivi il ribaldo che attraversa armata mano l’azione esecutiva della legge, ivi l’assassino ed il sicario che compie un’ingiusta vendetta”.

 

  Per fortuna il Consiglio delegato non si ferma questa volta a parlare in modo generico, ma scende ad elencare le tipiche forme di banditismo che si manifestavano nel sassarese ed in Sardegna: grassazioni, vale a dire, rapina a mano armata per le strade; grassazioni accompagnate da omicidio; conflitto a fuoco coi tutori dell’ordine; esecuzione di omicidi dietro commissione; vendette private. La lettera prosegue:

 

“Eppure lo stato di questa Provincia presentasi da questo lato così deplorevole; che è pur forza di dirlo, qualunque materiale vantaggio vogliasi dal Governo promuover e per l’Isola intera, o per le Provincie parzialmente, sarà sempre inutile, fino a che non saran garantite la proprietà e la persona”.

 

    Priorità assoluta dunque alla Sicurezza Pubblica, non si pensava minimamente che “qualunque materiale vantaggio”, sarebbe servito a estirpare la mala erba del banditismo.

 

“La forza, come altra volta rifletteva questo Consiglio, la forza armatasi è l’unico mezzo a prevenire così fatti disordini, senza procedere al terrorismo ed agli aggravii, senza imporre la popolo con impeto e brutale, dessa agisce sul morale dell’uomo più che sul fisico; e richiamando al timore ed alla soggezione ristabilisce senza sangue l’ordine e la tranquillità, ed assicura ai pacifici cittadini il godimento delle costituzionali franchigie”.

 

    Strano, ma giustificato questo atteggiamento del Consiglio delegato di Sassari: da una parte vuole come priorità assoluta la forza armata, dall’altra teme che vengano tolte quelle libertà costituzionali ormai concesse ai cittadini. D’altra parte, più volte nella storia sarda, il governo Piemontese, dopo essersi disinteressato dell’isola per parecchio tempo, era ricorso a mezzi tali da mettere a disagio non solo i malviventi, ma anche le persone oneste. (1)

 

(1) COSTA E.: – op. cit., p. 292-332.

 

“Un fatto avvenuto nella stessa Sardegna varrebbe a persuaderne i più ritrosi. Fino a che l’azione della legge sulle Barracellerie  (2) era costante, la sua influenza morale agiva sui popolani e le proprietà erano quasi onninamente rispettate, resasi poi quella legge barcollante senza escogitare alcun nuovo ed utile provvedimento non v’ha più ritegno alcuno ai depredamenti e devastazioni rurali. Ciò quanto alla sicurezza della proprietà. La sicurezza individuale, l’inviolabilità del domicilio hanno seguito le stesse fasi. Fino a che l’arma accorta e temuta dei Carabinieri Reali o altra di polizia ha imposto soggezione agli uomini vagabondi e di mal affare, la Sardegna se non vantava estirpati, calcolava almeno minorato il numero dei delitti, ridotta poi la forza, assottigliato il numero degli agenti di polizia, la scellerazione ha traboccata  e non v’ha città in Sardegna, non vi ha Comune o borgata che non noveri dei fatti atroci, e da lungo inauditi contro i cittadini non solo, ma pur anche contro i pubblici funzionari. Questo male dal Consiglio lamentato ha troppo fresche rimembranze perché possa passarlo in silenzio. Non ha molti giorni che agenti incaricati del pubblico servizio mentre recavansi ad eseguire le relative attribuzioni cadevano atterrati nelle vicinanze ed in un pubblico stradone di Sassari dalla palla d’un sicario o d’un ingiusto vendicativo”.

 

(2) Delle compagnie barracellarie si hanno nozioni fin dal tempo dei Giudici (nei secoli XII e XIII). Esse vennero stabilite in ciascun villaggi con l’obbligo di ricompensare mediante retribuzione, qualunque danno sopportato nelle proprietà. Fu questa una delle ottime istituzioni sarde conservata fino ai nostri giorni con qualche modifica. Dopo il 1848 divennero volontarie.

 

 COSTA E.: – op. cit., p. 250.

 LODDO CANEPA F.: – op. cit., p. 80.

 

    Causa della recrudescenza del fenomeno del banditismo e della delinquenza in generale, per il Consiglio Delegato, furono dunque la soppressione delle due divisioni di Carabinieri Reali e il Venir meno delle Compagnie Barracellari nell’isola. Gli agenti colpiti per via sono i due compari civici di Sassari, come si avrà modo di vedere più avanti.

 

“Disgraziatamente la legge criminale nella sua amplitudine costituzionale non dà pena che ai rei incontrastabilmente convinti”.

 

    È proprio grave che la Giunta Municipale di Sassari scriva in questo modo, tuttavia bisogna tener conto dello stato d’animo e del brevissimo periodo in cui erano in atto le leggi costituzionali. La questione poi appare meno grave se si pensa che ancora oggi in Sardegna vi è della gente, e non sempre quella meno qualificata, che sostiene l’uso indiscriminato del confino o addirittura della condanna dietro semplici sospetti. Ciò naturalmente non giova né alla giustizia né ai cittadini, molti dei quali si danno alla latitanza e scivolano poi nel banditismo a causa della scarsa fiducia che si ha nella giustizia dello stato.

 

“L’ampiezza delle nostre campagne, la difficoltà d’aver testi coscienziosi e veridici imperterriti nell’affrontare il timore della privata vendetta favorisce l’impunità ed il delitto trionfa. E l’impudenza dei grassatori e degli assassini è oggimai arrivata a tal segno da non esservi schermo nella luce del giorno e nel penetrale della propria casa”.

 

    Ed ecco altre cause dell’insicurezza pubblica in Sassari, nella sua provincia e nell’intera Sardegna: la vastità del territorio di fronte di fronte allo scarso numero degli abitanti; l’omertà. Gli stessi “Pubblici Ufficiali” come asserisce in altro punto la lettera pagavano l’adempimento al loro dovere cadendo della “privata vendetta”, immaginiamoci quanto più facilmente fossero soggetti alla vendetta i privati troppo loquaci. Il codice della vendetta, in uso presso i popoli primitivi e dediti alla pastorizia, era allora in vigore in tutta la Sardegna. Chi parlava poteva considerarsi destinato a sicura morte. È lo stesso pericolo che oggi corre chi parla troppo nella Questura di Nuoro.

 

    Io stesso che per motivi di studio intervistavo un noleggiatore rapinato 3 anni orsono e che era stato interrogato a Nuoro di fronte ai suoi presunti rapinatori, che egli aveva riconosciuto, ho raccolto questa dichiarazione:

 

“Ho riconosciuto due dei banditi, ma mi son guardato bene dal farlo. Ho moglie e figli. I parenti degli accusati mi avrebbero spedito al Creatore, la sera stessa, prima di lasciare Nuoro. La notizia della mia chiacchierata l’avrebbero conosciuta istantaneamente. In Questura parlano anche i muri”.

 

    Coi duemila banditi che allora s’aggiravano per la Sardegna, sferzandola e tormentandola; con la situazione economica e sociale che vigeva allora, parlare significava assistere in anteprima al proprio funerale.

 

“Né a questi mali può opporre un riparo la Guardia Nazionale, poiché essa non ha altra missione che di confermare e ristabilire l’ordine e la tranquillità pubblica senza però discendere alla sorveglianza particolare degli individui intorno alla loro condotta”.

 

    Il Consiglio, come si è già visto, dopo aver messo in evidenza l’inefficienza dei Cacciatori Franchi, sostiene ora l’impossibilità della Guardia Nazionale di frenare la delinquenza.

 

(1) la Guardia Nazionale, organizzata in Piemonte e in Sardegna il 4.III. 1848, si chiamò Milizia Comunale ed era formata da cittadini capaci di usare le armi. Il che spiega la sua indisponibilità contro i delinquenti.

 

COSTA E.: – op. cit. E. TRECCCANI.

 

 

“In paesi dove per mancanza di polizia hanno luogo le private vendette con speranza di una totale impunità si riduce gradatamente la società allo stato di primitive barbarie. I buoni temono fortemente di comprarsi col loro zelo l’inimicizia dei tristi, l’intranquillità della vita, l’incertezza di salvarla dai tenebrosi loro raggiri dove che garantendo la pubblica sicurezza per mezzo di apposita forza, che è la legge parlante nella sua esecuzione, il tristo non potrebbe aver mezzo d’insorgere contro una massa compatta ed operosa per istituto che possiederebbe tutti gli argomenti fisici e morali per comprimerlo e sbaldanzirlo”.

 

    È la richiesta ante litteram dei “caschi blu”, che però, come ai nostri giorni, anche allora sarebbero serviti a deludere profondamente il Consiglio Delegato. Soltanto il cambiamento radicale di una struttura economica arcaica potrà far scomparire definitivamente dell’isola il fenomeno del banditismo.

 

“Non sia mai vero, che il quadro dal Consiglio delineato alla E. V. tragga a spiacevole conseguenza contro i Sardi supponendoli efferati barbari e sanguinari”.

 

    C’è in questa proposizione la preoccupazione di sempre, non si vuole che Sardegna equivalga a banditismo e che sardi significhi banditi.

 

“Un popolo lasciato a se stesso la tutela di leggi, ma senza braccia che le eseguiscano, non può che irrompere nella massima parte a passioni sbrigliate e degradanti come ben lo dimostra la storia che in ogni tempo in cui il Governo del Re con energia provvedeva alla sicurezza delle persone e della proprietà la Sardegna godette giorni tranquilli e prosperi”.

 

    Il riferimento ai “giorni tranquilli” in queste lettere non manca mai, sebbene i tempi tranquilli a guardare alla storia siano stati ben pochi, almeno riguardo al problema della pubblica sicurezza. (1)

 

    La lettera così si chiude:

 

“Tale instanza e viva preghiera il Municipio suddetto m’incarica di rassegnare all’E. V. a tutela dei buoni a cui con assoluta annegazione consacrando io stesso il mio riposo mi sforzo almeno di tentare ogni mezzo per pienamente felicitarlo, interpretando i buoni uffici di chi preposto alla somma degli affari, con infaticabile zelo e provvidente attaccamento indirizza e regge i nostri destini.

 

    Laddove confidandomi che le premurose e vive mei supplicazioni troveranno nel suo cuore un’eco favorevole, ne attendo i pieno adempimento per aver quindi la dolce consolazione d’attestargliene i più sentiti ringraziamenti, protestandomi sempre come ora mi costituisco con riverente profondo rispetto”. (2)

 

    Come di consueto, alla lettera inviata al Ministero di Guerra e Marina, fa seguito quella dell’Intendente Generale della Provincia di Sassari addì 12 Marzo

 

“Dopo l’uccisione non ha guari occorsa del comparo civico Ignazio Delitala e la ferita pericolosa e forse mortale inferta all’altro pur comparo Pietro Carrucciu, l’audacia e la baldanza dei facinorosi, specialmente fra la classe dei custodi di gregge è andata di giorno in giorno trasmodando, e la loro impudenza arriva al segno, di aver inondati di bestiame rude e minuto

 

(1) SIOTTO PINTOR: – op. cit.

 

(2) Lettera al Ministro di Guerra e Marina (A.S.C. Busta, 84).

 

i pascoli riservati, e di tener bloccati, col terrore delle proibite loro sembianze occultate, dietro a breccie aperte sui viotoli e nei pubblici stradoni e cittadini inoffensivi e pacifici, costretti a trascorrere la campagna, per causa di professione od attendenza di patrimonio”.

 

    Questo passo è molto significativo. Da esso si rileva quanto segue: la maggior parte dei “facinorosi” apparteneva alla categoria dei “custodi di gregge”; le colpe loro attribuite sono le seguenti: l’invasione dei pascoli riservati, l’andar mascherati per la campagna grassando i cittadini.

 

    La lettera prosegue:

 

“Nello stesso sito in cui accadeva il surriferito atroce delitto si han positive notizie di trovarvisi giornalmente delle intiere quadriglie di malviventi, i quali attaccano tutti indistintamente per crassare o per assassinare”.

 

    È in parole povere la traduzione quasi letterale della descrizione fatta tanti secoli prima dagli spagnoli sul banditismo sardo, o meglio, su di una delle forme del banditismo sardo:

 

“Son las tierras pobladas del dicho Reyno inquietadas y habayadas da los hombres facinorosos que van en quadrilla en forma de bandeados matando y robando ganado”. (1)

 

(1) SANNA LECCA: – op. cit.

 

    Certo, per amor di patria, non si poteva essere subito così chiari col Governo di Torino, con l’Intendente Generale sì.

 

     Con tutti quegli uomini che allora vivevano alla macchia non ci si deve meravigliare né delle intere bande di fuorilegge né delle numerose grassazioni e assassini che commettevano. La vasta estensione delle campagne, la bassa densità della popolazione, la vita pastorale condotta, la quasi assoluta mancanza di forza pubblica, le lotte continue per la ricerca dei pascoli erano l’ambiente naturale di un banditismo di tal fatta.

 

“La pubblica sicurezza così compromessa non può che richiamare le sollecite cure del Governo, il quale è il solo che possa disporre dei mezzi acconci a comprimere così fatti disordini”.

 

    Dal Governo Costituzionale, dalla rinuncia ai privilegi, i Sardi si attendevano certo un miglioramento; un maggior interessamento da parte del Governo torinese, al quale però, in quel tempo stavano più a cuore le suture delle ferite arrecategli dall’Austria, piuttosto che le “querule lagnanze” dei Consigli delegati delle città sarde sulla pubblica sicurezza.

 

“Affrettandomi pertanto d’informare diligentemente la S.V. Ill.ma, priegola avvalorare queste mei doglianze presso il Governo del Re, il quale conoscendo di già, per quale fatale giattura di forza di polizia, siansi in questa Provincia smisuratamente moltiplicati i delitti, potrà in virtù di unanimi richiami, più facilmente determinarsi ad apporvi valevole rimedio.

 

    Ho in ciò l’onore di costituirmi con profondo rispetto”. (1)

 

    Così anche per il 1850, sul banditismo sardo, e in particolare modo su quello sassarese, si ha un quadro abbastanza eloquente. Da questa lettera, come si vedrà più avanti, sarà possibile dedurre dei dati utili e documentati sulle varie forme del banditismo sardo.

 

(1) Lettera all’Intendente Generale di Sassari. (A.S.C.. , 84).

 

                                                                         CAPO V

                             LA PUBBLICA SICUREZZA A SASSARI E PROVINCIA NEL 1851

1) Lettera del Municipio al Ministro degl’Interni Galvagno

 

    Le ripetute lettere al Governo di Torino, inviate da Consiglio Delegato di Sassari, nel corso degli anni che vanno dal 1849 al 1851, non fanno che mettere in evidenza una situazione che andava facendosi sempre più grave e alla quale il Governo Torinese non pensava minimamente di porvi riparo.

 

    A circa un anno e mezzo dalla lettera inviata a Torino nel 1850, il Municipio di Sassari, sempre più preoccupato della situazione che era andata creandosi a Sassari e nella sua Provincia, ma particolarmente nella Nurra, invia dunque al Ministro degl’Interni Galvagno la seguente lettera:

 

“Un numero di delitti strabocchevole ed eccessivo consumasi da non molto in questa città di Sassari e i suoi territori. Gli attacchi in quadriglie avvenuti nelle campagne della Nurra, ed in altre, avranno certo portato la loro fama oltre i nostri lidi; le insidie nelle circostanze di Sassari, e frequentemente entro città nei luoghi più popolosi senza distinzione di età di sesso o di qualità e condizioni sociali non sono meno eclatanti, né saranno perciò dalla fama atroce taciute. Insomma alla sicurezza delle proprietà rispondono i continui devastamenti; alla sicurezza personale rispondono i continui enormi delitti”.

 

    Si riparla dunque di delitti contro la proprietà e contro gl’individui: devastazione dei pascoli e dei seminati, grassazioni e omicidi.

 

    Tali azioni delittuose non si commettono dai singoli soltanto, ma da bande intere di malviventi. I delitti non avvengono soltanto in aperta campagna, ma anche nei centri più frequentati e popolosi della città. Non solo si uccidono gli uomini ma anche le donne. Si fa violenza si ricchi e ai poveri: si tratta di una vera orgia di sangue.

 

    Basti, fra tutti gli episodi, il seguente, tratto dal “Sassari” di Enrico Costa:

 

“I Saba e i Maccioccu”. Era il lunedì penultimo di carnevale. Il ballo del Teatro Civico (solito farsi alla domenica) si era protratto più del consueto; e le maschere, alle otto di mattina, salivano o scendevano nel Corso, chiacchierando allegramente sulle peripizie del veglione. Ad un tratto s’intesero quattro fucilate verso l’oratorio di S. Andrea, seguite da grida di spavento. Un uomo boccheggiante giaceva disteso a terra, immerso nel proprio sangue, vicino alla chiesa. Un altro uomo fuggiva chiedendo soccorso; altro fanciullo stramazzava sulla soglia di una casa vicina. La folla era accorsa tuttalà, a quel secondo teatro, dove si svolgeva il dramma più sanguinoso. Che cosa era accaduto? La famiglia Saba stava di casa verso il viottolo di S. Andrea, e le si tendevano continuamente agguati dalla squadriglia dei nemici Maccioccu. La mattina del lunedì, avuto avviso che i Saba dovevano attraversare il Corso, una squadriglia composta di sette od otto individui, tutti mascherati, s’impostarono sotto al portico che prospetta il vicolo di S. Andrea, aspettando il passaggio dei nemici. Comparvero finalmente i tre Saba, il padre Ciccio, e i due figli Giovanni e Gavino; né si ebbe riguardo di fa loro fuoco addosso malgrado la gente che attraversava il Corso”.

 

    Tre omicidi in una sola livida mattina del Febbraio 1851, a Sassari, in pieno centro. Ed ecco, secondo il Municipio, le cause di siffatti delitti:

 

“Così in senso del Consiglio ricorrente, derivano principalmente da difetto di polizia; però non a caso si credono accresciuti dalla numerosa caterva dei permessi per delazione conceduta a persone cui non abbisogna, spesso sospette, più spesso ancora di condotta realmente diffamata comunque travisata all’autorità concedente da infedeli informazioni; e dalla presenza del Corpo dei Cacciatori Franchi, il quale non godendo molto la pubblica confidenza due effetti produce egualmente dannosi, il primo di potersi da taluni credere egli stesso partecipe dei delitti che accadono: il 2° di annullare nel cuore di popolani quella forza morale sempre relativa al grado di rispetto che impone la truppa”

 

    Si concedevano le armi dunque a chi non meritava tali concessioni: si dubitava inoltre che lo stesso Corpo dei Cacciatori Franchi avesse le mani in pasta nei delitti che si commettevano.

 

    La lettera continua:

 

“Siffatta condizione di cose nonché venir migliorata teme ed a ragione il Consiglio, che verrà ad aggravarsi coll’attuamento delle nuove leggi sulla leva, e sull’ordinamento dell’imposta prediale”.

 

    La legge sulla leva e quella sull’imposta prediale, secondo il Municipio, avrebbe reso la situazione ancora più difficile.

 

    Prosegue ancora la lettera:

 

“Tali organici provvedimenti contrari affatto alle immemoriali abitudini dei Sardi anziché tranquillarne gli animi, ne viziano il costume, e forza vuolsì e preponderanza d’azione governativa per mantenerli nel dovere”.

 

    L’obbligo della leva, per la quale i Sardi godevano il privilegio dell’esenzione, (1848) e l’imposta prediale (1851) esosa rispetto al valore reale dei terreni, non potevano che suscitare malcontento e spingere gl’individui a i margini della società, perché costrettivi dalle leggi inopportune.

 

“Quindi la sicurezza ben lungi dal consolidarsi nell’Isola accrescerà il numero dei malcontenti, e con essi una reazione che se non avviva il carattere di politico movimento vestirà per certo quello di torbidi intestini, di intimidazione e vendette e quindi di nuovi e più atroci misfatti.

 

    Il Consiglio non può credere che il Governo non pensi di proposito a prevenire simili mali. Il solo attuale stato di cose stima che dovrebbe indurlo a dar mano ai provvedimenti necessari per procurare in questa provincia una maggior sicurezza nelle proprietà e nelle persone. Un popolo lasciato a sé facilmente diventa un popolo demoralizzato, e l’impunità nei minimi delitti è licenza a commetterne più enormi. Perciò il Consiglio Civico di Sassari, vivamente penetrato dall’infelice posizione dei suoi amministratori ed assediato dagl’incessanti richiami degli stessi, interessa e prega caldamente l’E.V. a voler porre rimedio ai presenti mali, convinto e persuaso che siffatta misura sarà forte riparo eziandio per gli avveniri.

 

Il Sindaco di Città, G. Deliperi”. (1)

 

2) Lettera all’Intendente Generale di Sassari

 

    Una lettera, spedita dallo stesso Comune all’Intendente Generale di Sassari, in data 15 luglio 1851, mette in chiara luce una delle componenti del fenomeno del banditismo in Sassari e nella sua Provincia in quello stesso anno.

 

(1) Lettera al Ministro Degl’interni (A.S.C., Busta 84).

“Commesso dai frequenti ed enormi delitti che, trascurato ogni rispetto alle persone ed alla proprietà, perpetrasi nella Nurra in questi ultimi tempi, il Consiglio Comunale radunavasi straordinariamente in seduta delli 8 corrente a ciò autorizzato dal Sig. Intendente Generale, che, colla solita saviezza e perspicacia nelle questioni di diritto amministrativo, avvertiva di poter sì gravi eccessi derivare dall’invalso abuso d’introdurre al pascolo nelle regioni della Nurra una straordinaria quantità di bestiame for. Guardato da pastori ugualmente non indigeni; col quale abuso crescendo occasione di dannose collisioni fra queste persone collettizie ed i popolatori della Nurra, non era a dubitare che ne venisse turbato l’ordine e compromessa la sicurezza delle persone e delle proprietà”.

    Sulla Nurra si apre dunque uno spiraglio di luce. Quali le cause dei delitti così frequenti in quella regione? Si pensi che nel solo mese di giugno erano avvenuti colà bene dieci omicidi, tutti per vendetta. (1)

    La causa di tutto sarebbe il pascolo abusivo dei pastori non nurresi.

    La lettere prosegue:

 

“Ad ovviare a tele inconveniente, tornando acconcio il disposto delle RR Patenti 28 Maggio 1844, concernenti le norme di espulsione dai territori suddetti d’ogni qualunque sorta di bestiame non indigeno, ne invocava la piena ed esatta osservanza.

 

    Trovando che le su esposte considerazioni del Sig. Intendente erano di tale peso da meritare che il Consiglio vi deliberasse sopra, occupavasi nella seduta sovraccennata e discusso a lungo l’oggetto pigliava quelle risoluzioni che il sottoscritto si affretta a trasmettere al prelodato sig. Intendente nell’unito ordinato, per quei provvedimenti che stimerà opportuni.

 

Il Sindaco di Città, G. Deliperi”. (2)

 

(1) COSTA E.: – cit., pag. 384.

 

(2) Lettera all’intendente Generale di Sassari (A.S.C., Busta 84).

 

     Il comune è costretto, dunque, a espellere dalla regione tutti i pastori estranei ad essa, onde evitare il crescente moltiplicarsi di atti delittuosi. Tale provvedimento, come si vedrà più avanti, avrà un’efficacia relativa sulla Nurra, che era in quei tempi un autentico covo di banditi.

 

3) Lettera all’Intendente Generale sui provvedimenti per i frequenti delitti della Nurra.

 

    Il Consiglio Comunale di Sassari, non soddisfatto per lo sfratto dato ai pastori non nurresi si affretta a prendere altri provvedimenti, nella speranza che questi possano porre riparo ai frequenti delitti che nella Nurra si commettono e quindi, in ultima analisi, al fenomeno del banditismo. Invia perciò ben due lettere all’Intendente Generale per informarlo dei provvedimenti presi.

 

    Entrambe le lettere sono inviate in data 15 luglio 1851, la prima ha per oggetto: Provvedimenti per occorrere ai frequenti delitti nella Nurra”.

 

“La lontananza da Sassari delle diverse borgate della Nurra, quali più o meno si trovano nelle diverse regioni di Zirra, Lampianu, San Giorgio ed altre rallentando l’azione amministrativa a prò delle medesime, e costituendole in uno stato di abbandono e di trascuratezza a riguardo non solo dei propri interessi, ma ben anche dell’ordine pubblico, suggerivano come non ultima misura per prevenire i molti delitti che ivi si commettono, lo stabilimento d’un Vice Sindaco a termini dell’art. 87 della legge 7 ottobre 1848. La proposta accolta con soddisfazione dal Consiglio Comunale in seduta delli 8 Corrente mese e lungamente discussa; concorrendo ciascuno nella massima di doversi promuovere per questo è possibile il bene morale e materiale di quei popolatori mantenendo più direttamente; per mezzo di esso vice Sindaco i loro rapporti col Governo e collo stesso Consiglio, veniva ad unanimità adottata, con riserva di formulare apposito regolamento da sottoporsi alla approvazione del Sig. Intendente in senso della linea dell’art. 70 della legge precitata.

 

    Onde la proposta abbia il suo pieno effetto nei modi e termini in cui viene deliberata il sottoscritto si affretta di trasmettere al Sig. Intendente Generale il relativo ordinato, con preghiera di compiacersi impartirgli il suo voto di approvazione. Il Sindaco di Citta, G. Deliperi”. (1)

 

4) Lettera del Municipio all’Intendente Generale

 

    La seconda lettere ha per oggetto: Provvedimenti relativi alla frequenza dei delitti nella Nurra”.

 

“Considerando che la separazione della Compagnia Barracellare (2) proposta al Consiglio Comunale dal Sig. Intendente Generale in seduta straordinaria delli 8 corrente mese potea non poco contribuire a prevenire gli eccessi ed i delitti che frequentemente si commettono nelle regioni della Nurra, in quantochè costituendo le medesime una forza pubblica sul luogo ben organizzata, era agevole di mantenere per di lei mezzo in soggezione i molti facinorosi fra i suoi popolatori, assai più che per l’opera dei Barracelli Ausiliari, i quali non avendo alcuna guarentigia e sono un esempio continuato di abuso introdotto contro la più esplicita 

 

(1) Lettera all’Intendente Generale (A.S.C., Busta 84).

 

(2) Il Consiglio Delegato delibera di dislocare nella Nurra una parte della Compagnia Barracellare di Sassari dietro proposta dell’intendente Generale.

 

Disposizione di legge, ponendo altresì mente alla vastità dell’agro sassarese, la quale non permette certamente che la Compagnia Barracellare di Sassari presti un servizio di sorveglianza ed ordine pubblico nelle lontane regioni della Nurra, veniva il Consiglio sullodato nell’unanime sentimento d’abbracciare il proposto partito di separazione della Compagnia Barracellare, intorno a qual deliberazione urgendo di promuoversi in modo analogo l’approvazione dell’autorità amministrativa il sottoscritto si affretta trasmetterne al Sig. Intendente Generale il relativo ordinamento per quelle disposizioni che in sua saviezza stimerà del caso. Il Sindaco di Città G. Deliperi”. (1)

 

    Da tutt’è due le lettere è facile dedurre come il Consiglio Comunale della città si sforzasse di fare quanto era nelle sue possibilità, per prevenire i delitti più atroci e frequenti che si commettevano nel suo agro, che per la vastità e per la conformazione geografica offriva impunità a tutti i malfattori dell’intera provincia, come si avrà modo di vedere più oltre.

 

(1) Lettere all’Intendente Generale (A.S.C., Busta 84).

 

                                                                         CAPO VI

                             LE ORIGINI DEI DELITTI SECONDO IL MUNICIPIO DI SASSARI

 

    A conclusione delle lettere che il Municipio di Sassari ha inviato al Governo di Torino e all’Intendente Generale della medesima Provincia, nel corso degli anni 1849, 1850, 1851, è davvero significativa e oltremodo interessante dal punto di vista storico, un’altra lettera inedita, che lo stesso Municipio invia al deputato Sulis a Torino in data 23 luglio 1851. Con molta probabilità il deputato sassarese voleva essere informato chiaramente, sull’origine dei delitti in Sardegna, dal Consiglio Municipale di Sassari, da momento che egli sicuramente pensava che le origini dei delitti fossero diverse da quelle prospettate dal Consiglio Civico.

 

    “Al Sig. Avv. Francesco Sulis. Deputato alle Camere Nazionali. Oggetto: sulle origini dei delitti in Sardegna”.

 

    Chiaro fin da principio appare dunque il contenuto sostanziale della lettera e, di tale portata, da rendere incontestabile l’interpretazione data alle lettere precedenti dal sottoscritto, di fronte a chi volesse attribuire la delinquenza a Sassari, nel periodo trattato, non al fenomeno del banditismo, ma ad altri fenomeni che col banditismo non hanno niente a che vedere.

 

    Ed ecco il testo della lettera, passo per passo.

 

“Le origini dei delitti per riparare ai quali questo Municipio s’indusse a ricorrere al Governo del Re non sono le fazione né gli odi di parte”.

 

    Si tratta di una proposizione rilevantissima: le fazioni politiche, la conquista del potere nella città non c’entra. Del resto il popolo non aveva raggiunto ancora una mentalità così democratica da impegnarsi in una lotta cruenta a scopi politici.Per quanto grave sia la condizione di un paese risso e diviso da nimistà e da opinioni, pur sarebbe direi, quasi migliore per Sassari, il trovarsi in siffatto stato e le famiglie essendo spesso libere nel prendervi parte, lascerebbero campo a chi amministra di provvedervi con appositi rimedi”. È indubbio: una lotta politica si conduce a viso aperto in genere si riconoscono i protagonisti di tali lotte da parte dei cittadini che parteggiamo per l’una o l’altra fazione.”

 

    “Ma ben atra è la nostra piaga; che il delitto cresce in Sassari per la prima impunità che vi gode. I delinquenti o vi sono per indole, o vi sono per la miseria che fa preferire al lucro del lavoro stentato il gratuito soldo dei prepotenti; e se si disse che i malviventi corrono in fazioni armate no è già perché abbiano in mente di difendere né un partito né un’opinione, sibbene perché il vizio affratella i tristi come l’amicizia affratella i buoni e quelli han doppio guadagno rendendo con tal mezzo a questi più tenuti”.

 

    Prima d’interpretare questo passo è bene rilevare che certamente lo scrivano nel trascrivere la lettera ha commesso due errori materiali che badando al contesto della lettera possono essere facilmente corretti, “prima impunità” dovrebbe significare “piena impunità”; “a questi più tenuti” dovrebbe suonare “questi più temuti”. Cioè a Sassari i delinquenti godevano piena impunità; i delinquenti d’altronde scorrendo armati, a cavallo e in “quadriglia” erano più sicuri e temibili ad un tempo.

 

    Ed ecco le affermazioni di un bandito che avvalorano la denuncia del Comune.

 

“Nel 1850 la citta di Sassari era un luogo sicuro per i banditi, poiché scarso vi era il numero dei carabinieri”. Sull’imbrunire presi una zappa sulle spalle ed entrai in Sassari arditamente, confuso coi zappatori che a quella ora ritornano dai lavori di campagna”.

 

    Si tratta di frasi tratte dall’autobiografia del celebre bandito Giovanni Tolu, di cui si parlerà in seguito. (1) La lettera prosegue:

 

“L’origine addunque dei delitti che in infestano Sassari e la Provincia sta nella certezza dell’impunità. Le ragioni di siffatta impunità sono difetto totale di polizia e mancanza di convenevole guarnigione”.

 

    Il tasto su cui si batte è sempre lo stesso: mancanza assoluta di forze dell’ordine.

 

“L’ufficio di sicurezza non ha guari stabilito, per prevenire i delitti, è esercitato da un Delegato, o da agenti, che non sono regnicoli: questi non pratici del paese, non conoscenti delle persone, non possono adoprar con successo alcun atto di sorveglianza, perlochè han finora recato allo stato un inutile dispendio senza benché minimo benefizio per i comuni dove sono in funzione”.

 

    Un ufficio di polizia del tutto inefficiente e condotto da estranei al luogo, non può indubbiamente limitare l’attività dei malviventi.

 

“Il servizio di polizia disimpegnato da una dozzina di Carabinieri Veterani canuti ed invalidi, ora è diviso coll’arma dei Cavalleggeri, ma questa ne è altresì insufficiente, perché attualmente assai minora dal concentramento che se ne fa a Cagliari per maneggio ed istruzione”.

 

(1) COSTA E.: – “Giovanni Tolu”, Sassari 1886, p. 230.

 

  Indubbiamente dodici carabinieri per tutta per tutta la provincia di Sassari erano troppo pochi, per non dire equivalenti a nulla, tenuto conto della vastità del territorio e della diffusione della delinquenza. I Cavalleggeri erano inetti e insufficienti oltre che poco raccomandabili come si avrà modo di vedere in seguito.

 

“Per ultimo la guarnigione assottigliata da otto e più distaccamenti non ha quasi disponibilità degli uomini per por nella notte due pattuglie”.

 

    Se questo era lo stato di sicurezza pubblica all’interno degli abitati, si può facilmente immaginare quale fosse quello delle campagne.

 

“In generale può dirsi nulla la sorveglianza nell’intiero territorio della Provincia. Una qualche misera spedizione dei Cavalleggeri in seguito a qualche enorme attentato nelle regioni della Nurra ecco tutto. La stazione della Crucca è già da lungo tempo disertata col decadere di quello agronomico stabilimento”.

 

    Il brano della lettera si commenta da sé.

 

“Posto siffatto quadro non è difficile il conoscere come non senza giusti motivi di timore, ciascuno debba stare in questi luoghi in apprensione del suo destino, giacché basta per l’uomo pubblico il non tradire il proprio dovere, pre esser fatto segno alle soperchierie e spesso alle trame dei ribaldi: basta al privato di non associarsi od accondiscendere alle loro voglie per attirarsene addosso il maltalento”.

 

    Sovente i banditi intimidivano i privati a fare o non fare una determinata azione minacciandoli di morte se avessero trasgredito gli ordini. Basti vedere a proposito i vari episodi della vita di celebri banditi come Giovanni Tolu, Giovanni Cano, Agostino Alvau, Pietro Cambilargiu e così via. (1)

 

(1) E. COSTA: – op. cit.

 

     LIBRI A. – “Giovanni Cano”, Cagliari 1871.

 

     LIPPERI TOLU F.: Osilo, Sassari 1913, pag. 111-113.

 

“Un popolo non abbastanza incivilito, a cui la rozzezza delle masse ha tuttora lasciato gustare profondamente l’utile delle liberali istituzioni, non è meraviglia se talvolta pretenda le forme dell’attuale nostro governo né questi deve perciò esser corrivo ad adottare con il medesimo misure di massimo rigore a vece dei molti mezzi che ha in mano, per farsi rispettare con dignità senza farsi tiranno e dispotico.

 

    Con queste parole io accenno allo stato d’assedio che il governo avea in animo d’adoprare contro i sassaresi, per prevenire degl’inconvenienti che potrebbensi con successo combattere con tutt’altre misure”.

 

    Il Consiglio chiede indubbiamente dei provvedimenti, ma non è disposto ad accettare passivamente lo stato d’assedio con cui sovente i vari governi hanno cercato di far scomparire la piaga del banditismo. (1) Le leggi speciali di polizia non approdano a nulla se le condizioni economiche, sociali e culturali una regione non mutano.

 

    La lettera continua:

 

“Io e con me il Consiglio ci associamo all’idea da V.S. Ill.ma esternata nel gentilissimo delli 9 corrente di doversi cioè combattere un tal mezzo siccome produttivo a noi di danni incalcolabili materiali e morali. I reati che commettonsi nei nostri territori, non avendo alcun carattere politico, ma vestendo il carattere di speciali convinzioni, per le quali taluni della feccia del volgo si crede più o meno garantito nel mal fare non è sicuramente il caso di adottare per impedirgli un mezzo la di cui odiosità ricadrebbe sulla generalità dei cittadini buoni per indole e per convincimento obbedienti e rispettosi al Governo ed alle leggi. L’adoprar addunque questo mezzo sarebbe infliggere al paese una nota di rivoltoso che stima di non aver meritato in faccia alle altre città dell’Isola e dello Stato”.

 

(1) DI TUCCI R.: – op. cit., pag. 131

 

    Per il Municipio porre l’assedio alla citta significa non aver capito la situazione. Non si tratta di una rivolta politica, ma di un costume errato: quello di farsi giustizia da sé. Con l’assedio si sarebbe ricoperta Sassari d’ignominia; il male non avrebbe potuto essere estirpato e inoltre gli onesti avrebbero dovuto piangere le colpe dei disonesti.

 

    La lettere si conclude:

 

“Lo scambio del Corpo Cacciatori franchi seppur verrà eseguito è già un passo verso il rimedio desiderato. Ma non posso lasciar osservare che rimpiazzandolo con un solo Batt.ne della Brigata Casale la forza minorerà di numero e Sassari ne rimarrà affatto priva dietro lo sminuzzamento che se ne fa coi distaccamenti sovraccennati. Ella potrà fare sopra ciò al Ministro i dovuti rilievi”. (1)

 

    Con l’accenno al tanto desiderato trasferimento e cambio dei Cacciatori Franchi, invisi ai cittadini a causa delle ribalderie che sovente commettevano, la lettera termina di trattare l’argomento riguardante la pubblica sicurezza a Sassari nella sua provincia e in tutta la Sardegna.

 

  Il documento rivela con chiarezza le origini dei delitti e accenna a quella che, secondo il Municipio di Sassari, ne sono le cause: la Scarsezza delle forze di polizia e l’assoluta inefficienza di quelle esistenti.

 

(1) Lettera al deputato Sulis (A.S.C., Busta 84).

 

 CAPO VII

 

    I PIU’ CELEBRI BANDITI DEL PERIODO 1848-1860

 

    Il quadro finora tracciato sul fenomeno del banditismo a Sassari e nella sua provincia, negli anni che vanno dal 1848 al 1851, non sarebbe chiaro e completo se non si accennasse anche ai più celebri banditi che in quegli stessi anni infestarono la zona.

 

    Alla trattazione dell’argomento si prestano molto bene quelle opere che trattano di celebri banditi, non molte in verità, ma assai attendibili. Si tratta in genere di biografie abbastanza utili per le notizie e per i dati che riportano, sempre che si sappia discernere ciò che è valido da ciò che non è degno di essere accolto in una documentazione seria. D’altronde, se si pensa, che in quegli anni, e precisamente dal 1848 al 1855 non si pubblicavano a Sassari molti giornali, tali biografie acquistano un’importanza storica rilevante per la conoscenza del fenomeno studiato.

 

    Una delle fonti principali, per la conoscenza dei più famigerati banditi del periodo che va dal 1848 al 1860, è l’autobiografia di Giovanni Tolu, dettata allo storico sassarese Enrico Costa dallo stesso bandito dopo che questi fu assolto dalla Corte d’Assise di Frosinone il 21 ottobre 1882. (1)

 

    Ci si soffermerà naturalmente sui banditi del Logudoro, cioè della zona di Sassari; non si parlerà dei banditi delle altre zone, per i limiti imposti a questo studio.

 

(1) COSTA E.: – “Giovanni Tolu” – Sassari, 1886.

 

    Le imprese delittuose, commesse da questi malviventi, serviranno a mettere in risalto e a documentare meglio le lettere inviate dal Municipio di Sassari al Governo, all’Intendente Generale e si deputati sardi.

 

    Poiché sarebbe arduo e non assolutamente necessario riportare in questa breve monografia, il curriculum delle centinaia di banditi che, nell’epoca trattata, infestarono le zone del Logudoro, ci si limiterà a parlare unicamente di quelli più rappresentativi, che servano a dare un’idea più chiara del fenomeno del banditismo, che allora toccava un po’ tutti gli strati sociali.

 

    Tra i più noti banditi dell’epoca trattata sono da ricordare due studenti: Giovanni Cano e Agostino Alvau. Per quanto entrambi nativi di altre provincie, tuttavia entrambi ebbero stretti legami con la città sia prima come durante la loro vita di fuorilegge. Le loro provincie del resto appartenevano alla divisione di Sassari e sono situate come quest’ultima nel Logudoro.

 

    Ed ecco come entrambi, sia pure in modi completamente diversi, presero la via del banditismo.

 

    GIOVANNI CANO (1) nacque nella cittadina di Ozieri, a circa una quarantina di chilometri da Sassari. Appartenne a famiglia agiata, tanto che compì gli studi nel collegio del Canopoleno di Sassari. La madre gli morì dando alla luce la sorella Adelita, secondogenita della famiglia. Perdette il padre quando incominciò a frequentare il primo anno di Giurisprudenza presso l’Università di Sassari.

 

(1) LIBRI A. : – Giovanni Cano, il bandito della Gallura, Cagliari, 1871

 

La prematura scomparsa del padre costrinse il giovane studente a prendere le redini della famiglia e a trasferirsi temporaneamente ad Ozieri. Insieme all’eredità paterna il giovane ne eredita le amicizie, tra le quali quella di un giovane medico lombardo, che aveva la famiglia a Sassari, ma che risiedeva ad Ozieri. Con la morte del capofamiglia, l’amicizia fra il medico e la famiglia Cano, composta da Giovanni e da Adelita, divenne molto più calorosa, tanto che la casa di Cano era aperta al medio lombardo, anche quando Giovanni, per motivi di studio o d’affari, era costretto a recarsi a Sassari. La frequenza e le visite prolungate del medico in casa di Giovanni, durante le sue assenze, divennero tanto frequenti da provocare maldicenza nei riguardi di Adelita. Il giovane studente, pur non dando credito alle chiacchiere, pregò l’amico di diradare le sue visite onde evitare che il nome della sorella ne fosse disonorato; lo pregò di evitare di visitare la sorella specialmente durante la sua assenza.

 

    Il medico accettò di buon grado le proposte dell’amico e promise di accondiscendere scrupolosamente ai suoi desideri.

 

    Non passò molto tempo tuttavia che Giovanni Cano conobbe da più parti che, nei giorni in cui egli era via da Ozieri, il medico lombardo continuava a frequentare la sua casa.

 

    Lealmente il giovane andò a parlare con l’amico, il quale gli assicurò che trattavasi di chiacchiere.

 

    Di fronte al fermo diniego del medico il giovane volle rendersi conto personalmente della verità. Poiché in quei giorni doveva partecipare ad una battuta di caccia insieme ad altri compaesani, pensò d’invitare l’amico e d’informarne anche la sorella. L’amico non accettò l’invito, come del resto il giovane si aspettava e desiderava in cuor suo, onde metterne alla prova la parola.

 

    Partì per la caccia dunque, ma dopo aver fatto non molta strada, con la scusa di un malore, ritornò sui suoi passi e giunse al paese sul far della sera. Entrò in casa furtivamente e sorprese la sorella nelle braccia dell’amico. Lo affrontò con parole di disprezzo, gli proibì di vantarsi di tale bravata e ancora una volta gli ordinò, se gli era cara la vita, di non oltrepassare la soglia di casa sua. Inoltre, per togliere la sorella e l’antico amico dall’occasione, si trasferì ad Oschiri, un paesetto a 20 chilometri da Ozieri. Poi, come di consueto, il giovane si recò a Sassari per iscriversi all’Università. Ivi cadde ammalato e per di più, non molto tempo dopo, venne a sapere che il medico lombardo, ancora una volta, travestito, cercava i convegni amorosi con la sorella Adelita, frequentandone la casa di Oschiri.

 

    Il giovane studente, rimessosi in salute, armato di carabina e di pistole s’incamminò a cavallo, di notte, per Oschiri. Alle quattro del mattino giunse nelle adiacenze di casa sua, dove incontrò uno dei suoi servi che lo informò della presenza del medico lombardo nelle stanze della sorella.

 

    Ne attese l’uscita e finalmente lo sorprese, mentre abbandonava la casa. Lo fermò. Il medico restò terrorizzato, consapevole ormai del destino che lo attendeva. Solo alloro implorò pietà per sé in nome della moglie e di figli. Il Cano, che si era reso conto da tempo della slealtà dell’antico amico, lo invitò a prepararsi al duello e, consegnatagli una pistola, ordinò ad un suo servo di dare il segnale dello scontro, con tre colpi di arma da fuoco.

 

    Il medico lombardo però, senza attendere il segnale del terzo colpo, già al secondo colpo, scaricò tutta la sua pistola. La reazione del Cano e del suo servo non tardò ad effettuarsi contro il fuggitivo, che cadde fulminato. Gli spari richiamarono l’attenzione di due cavalleggeri in perlustrazione nella zona. All’ordine di deporre le armi il servo del Cano fece fuoco su uno di essi, l’altro cavalleggero sparò sul servo, freddandolo. Il Cano istintivamente sparò sul cavalleggero, uccidendolo. L’altro cavalleggero raggiunse Ozieri e fu colui che con la sua testimonianza decretò la condanna a morte del Cano da parte della Corte d’Appello di Sassari.

 

    Nel corso della sua vita di fuorilegge il Cano trascorse un anno col bandito gallurese Gian Domenico Porqueddu, alla macchia da 25 anni.

 

    Conobbe i banditi dell’Anglona, del Manteacuto e della Gallura. Fece il mandriano nel Nuorese. La sua cacciagione allietò le mense del conte Pinna e dei signori Cavi e Finali, agenti del conte Beltrami, tutti di Macomer.

 

    Nei pressi di Macomer fu riconosciuto, venne a conflitto e uccise il cavalleggero che uscito illeso dal conflitto di Oschiri e che lo pedinava da tempo. Trascorse quindi un anno nel Sulcis, lavorando nelle miniere e nelle campagne, successivamente si rifugiò nella Nurra e fu servo pastore dei fratelli Marras, che ebbero a che fare con la giustizia, ma furono assolti. Più tardi si allontanò da questi ultimi, per ritornare nei pressi della sua casa di Oschiri, dove viveva ormai fuor di senno, fin dal giorno dell’assassinio del medico lombardo, la sorella Adelita.

 

    Morta la sorella, il Cano si lasciò arrestare dai cavalleggeri nel cimitero di Oschiri, ove si era recato a pregare sulla tomba dell’infelice sorella. Un foglio genovese ebbe a scrivere: “Ieri venne giustiziato in Oschiri, Cano, reo di parecchi omicidi e di aperta ribellione alla forza armata. L’animo di questo consumato ribaldo doveva essere temprato al delitto, perché mai si vide un uomo affrontare la morte con animo più impavido e sfrontatamente tranquillo.

 

    Pare inoltre che questo Cano non difettasse di una certa istruzione e d’un tal quale astuto e sottile ingegno, il che contribuì a rendere, durante otto anni, frustranee le incessanti ricerche delle forza pubblica.  

 

    Diverso fu il commento d’un noto penalista: Egli fu condannato; ed il giorno in cui egli incontrò la morte con una stoica serenità d’animo gli astanti piangevano, e la popolazione di Oschiri era immersa nel più profondo cordoglio”. (1)

 

(1) LIBRI A. : – op. cit. pag.. 221-224

 

AGOSTINO ALVAU (2) nacque ad Alghero ed era studente quando un giorno, andato a caccia senza porto d’armi, sorpreso dai carabinieri, invitato a cedere l’arma, rispose con la ribellione.

 

    Riuscito a fuggire si diede alla macchia e iniziò la sua carriera di bandito senza aver commesso alcun delitto.

 

    In breve tempo tuttavia divenne famosissimo per le sue audaci e feroci imprese banditesche. La sua carriera di bandito fu breve, ma molto intensa. Venuto spesso a conflitto coi tutori dell’ordine, riuscì sempre a farla franca. Una volta, insieme ad un complice, ingaggio un conflitto a fuoco con  dodici carabinieri, nell’oscurità della notte, all’uscita di Sassari. I tutori dell’ordine, sorpresi nell’oscurità, furono costretti a rientrare in città, lasciando un uomo sul luogo del conflitto.

 

    L’impresa più temeraria l’Alvau la commise a Sassari, in pieno centro e in un giorno di festa. Poiché un certo Antonio, soprannominato Ammazzacavalli, per la sua meritata fama di cavallerizzo e di domatore, aveva lasciato trapelare il proposito di uccidere il bandito, quest’ultimo decretò di uccidere il temerario. Prima tentò di sopprimerlo presentandosi a casa sua travestito da prete, ma non essendogli andato a segno il tentativo, ricorse ad un altro stratagemma.

 

    Un giorno di Carnevale, in cui la piazza centrale della città era gremita di gente in festa, il bandito, a cavallo e mascherato, si fece in mezzo alla folla e fatto cenno all’Ammazzacavalli di avvicinarsi, lo liquidò sparandogli addosso e quindi a spron battuto scomparve tra la folla terrorizzata e, liberatosi del cavallo alla periferia della città, riparò in casa di amici nurresi. Le sue tristi gesta spinsero il governo a promettere l’impunità ed un premio in danaro a qualunque bandito avesse ucciso o fatto arrestare

 

(2) COSTA E.: – op. cit., pag. 169-177.

 

L’Alvau. Si trattava di un sistema già collaudato nell’Isola.

 

    Spesso del resto le autorità concedevano ai banditi speciali salvacondotti e la stessa impunità qualora avessero collaborato a far luce su atroci fatti di sangue. (1)

 

    L’eccessiva temerarietà perse però l’Alvau. Fra gli ovili della Nurra che il bandito frequentava era quello di un certo Giovanni Careddu, ammogliato con una giovane e bella donna senza prole. Alla moglie di costui l’Alvau fece una corte serrata, tanto che fra i due s’intrecciò una relazione. Accortosi del fatto un fratello della donna, pregò la sorella di rompere la relazione col bandito. Per tutta risposta il fuorilegge liquidò l’importuno. A questo punto entrarono in azione altri due banditi, Antonio Santo Careddu di Sorso e Paolo Careddu di Sennori, entrambi parenti del marito tradito. Costoro fecero capire chiaramente all’Alvau di smetterla con l’indecorosa tresca. L’impudente però non volle dar peso all’ammonimento e continuò l’indecente relazione.

 

    Un giorno si trovarono nell’ovile di Campanedda, nella Nurra, i tre banditi, ospiti di Giovanni Careddu. Giocavano tutti alle carte. Ad un certo punto Antonio Santo Careddu si diresse verso l’uscio per aprire la porta, dal momento che la camera era invasa dal fumo, poi voltandosi di scatto, fece fuoco sul bandito algherese che, dopo aver cercato invano di difendersi, colpito anche da Paolo Careddu, cadde fulminato. La sua morte apportò l’impunità e denaro ai due banditi Careddu, nonché la pace in un focolare compromesso dalla focosità del bandito.

 

    Il cadavere di Alvau, crivellato anche dai carabinieri fatti giungere da Portotorres, fu portato sulle fascine a Sassari e quindi esposto nella Piazza Castello, dove già il bandito si era macchiato di un atroce delitto. Queste le squallide storie di due banditi appartenenti a classi sociali abbienti e forniti di una certa cultura. Pur non essendo di Sassari e della sua provincia, fecero sentire sulla città e sulle sue campagne la loro triste presenza.

 

1) LODDO CANEPA: – op. cit.

 

    Della provincia di Sassari sono invece i famigerati banditi che verranno ora ricordati. Essi sono Giovanni Tolu di Florinas, Pietro Cambilargiu di Osilo, Antonio Maria Derudas di Cargeghe, Antonio Spano di Ossi. Tutti costoro spiccano nel gran numero di banditi che infestarono la zona del Sassarese tra il 1848 e il 1860.

 

GIOVANNI TOLU (1) nacque a Florinas, che dista appena una ventina di chilometri da Sassari, il 14 marzo 1822. I suoi guai ebbero inizio quando, giunto in età di ammogliarsi, pose gli occhi sulla perpetua del prete del paese.

 

    Pare che la giovinetta fosse frutto di una scappatella del prete e quindi gli fosse prima di tutto figlia. Il Tolu, tenace più che mai, nonostante l’opposizione e le minacce del prete, riuscì a portare all’altare la ragazza. Il matrimonio tuttavia non fu felice, se un po’ per il carattere della ragazza, un po’ per le mene del prete, i due sposi si separarono ad appena sei mesi dalle nozze. Al fallimento del matrimonio s’aggiunsero dei fortissimi dolori al fisico del Tolu, il quale vistosi rovinato famigliarmente e fisicamente, attribuì tutte le sue disgrazie ai malefici del prete. Pensò di eliminare le sue sventure con l’eliminarne la causa. Perciò il 27 dicembre del 1850, attese al varco il prete al centro del paese, di prima mattina e, dopo aver tentato invano di sparargli (la pistola fece sempre cilecca), lo caricò di percosse. Le urla del sacerdote fecero accorrere gente e il Tolu fu costretto a scomparire e dal giorno si diede alla macchia.

 

    Il 21 agosto del 1951 il prete moriva per i postumi delle ferite riportate, non senza aver prima sguinzagliato contro il Tolu i suoi sicari.

 

(1) COSTA E. : – op. cit.

 

Di questi il Tolu si liberò man mano nel corso della sua lunga carriera di bandito. Il 19 maggio 1851 toccò ad un certo Giuseppe Dore; il 4 gennaio 1853 a Francesco Rassu; il 29 settembre 1854 a Salvatore Rassu. Il pericolo di esser fatto fuori e la sete di vendetta furono la causa di questi atroci delitti, tutti ammessi dallo stesso bandito nella sua autobiografia. Il Tolu nel corso della sua latitanza visse periodicamente a contatto con altri banditi. Ebbe in tempi diversi come compagni dimacchia i banditi Antonio Rassu d’Ittiri, Leonardo Piga, ugualmente d’Ittiri; Antonio Maria Derudas e Giovanni Puzzone di Cargeghe, Pietro Cambilargiu e Pietro Deligios di Osilo; Sebastiano Branca di Ossi; Giovanni Andrea Ilde della Nurra; Antonio Careddu e Giommaria Cossu di Nulvi; Giommaria Ibba di Osilo.

 

    Quasi tutti vennero arrestati o uccisi. Tutti gli altri gli furono compagni per breve tempo, soltanto il Derudas si accompagnò a lui per circa due anni. Il Tolu visse alla macchia sino al 22 settembre 1880, quando 19 carabinieri al comando di un maresciallo accerchiarono nella Nurra, presso la località Leccari, ovile della figlia e lo trassero in arresto senza che egli opponesse resistenza, per amore della figlia allora incinta. La casa era un vero arsenale, dotata di 20 cariche di dinamite con cui il bandito avrebbe potuto seminare strage fra i tutori dell’ordine. Il vecchio bandito, da circa trent’anni alla macchia fu condotto a Sassari in catene. Il 9 luglio 1881 la Corte di Cassazione di Roma dichiarò prescritti quattro processi e revocò la sentenza contumaciale di morte, invitando il bandito alle Assise di Oristano per i reati di Nuzzi e di Monte Rasu. In seguito il processo fu celebrato a Frosinone e il vecchio bandito fu assolto. Alla sua assoluzione concorsero certificati a favore del bandito inviati dalla popolazione di quasi tutti i paesi della provincia di Sassari, dove il bandito aveva svolto sovente una  benefica attività di tutore dell’ordine contro altri banditi, ladri e sicari. Sembrano assurdità eppure il Tolu nel corso della sua latitanza era stato assunto nella compagnia barracellare di Florinas per proteggere le campagne da altri fuorilegge. Ciò non gl’impedì di venire spesso a conflitto con le forse dell’ordine e d’intimorire anche un giudice, penetrando furtivamente nella sua abitazione. Ritornato libero visse al 4 luglio 1896. Egli fu uno dei pochi banditi che, dopo quasi trent’anni di macchia, riuscì a tornare in libertà e per di più a dettare la sua autobiografia, interessantissima per la conoscenza del fenomeno del banditismo nella seconda metà dell’ottocento.

 

PIETRO CAMBILARGIU (1) divenne bandito nel 1848. Egli lavorava da apprendista presso Nicolò Cherchi. Rimproverato aspramente, e schiaffeggiato dal maestro, gli si rivoltò, lo ferì mortalmente e si diede alla latitanza. Dopo un anno di vita randagia fu catturato e condannato a tre anni di lavori forzati nell’ergastolo di Cagliari. Di là evase e cominciò la sua vera vita di bandito. Uccise un certo Pietro Marongiu che voleva farlo catturare. In seguito batté la campagna con i banditi osilesi Pietro Dore e Giomaria Ledda. Quest’ultimo lo tradì per avere l’impunità e la libertà. Cambilargiu dopo una serie di umiliazioni: fu frustato dal boia e condotto al suo paese con remo sulle spalle e la corda al collo; fu mandato all’ergastolo a Villafranca, da cui, dopo aver dato segno di buona condotta ed aver ottenuto una certa libertà di movimento, evase e riparò prima in Francia poi in Corsica. Assetato di vendetta per il tradimento subito rientrò nell’Isola, mandò i suoi saluti al Ledda, che allora esercitava la professione del fabbro. Questi non volle credere alla sua presenza nel territorio di Osilo. Il Cambilargiu penetrò in paese e fattosi vedere da Ledda nella sua stessa officina di fabbro, dopo averlo chiamato, gli sparò a bruciapelo uccidendolo.

 

    Questa vendetta, giunta dopo anni, inesorabile, rese il Cambilargiu celebre in tutta l’Isola. Le sue gesta sanguinarie, secondo il Tolu, venivano esaltate dai parenti, che, grazie alla sua protezione, potevano commettere ogni sorta di delitti e di soprusi nella zona.

 

(1) COSTA E. : – op. cit., pag. 196, 251.

 

     LIPPERI TOLU F. : – Osilo- Sassari 1913, pag. 105, 111, 113.

 

    Il bandito osilese compì un altro atroce delitto nei confronti di un altro collaboratore dei tutori dell’ordine: un certo Leonardo Satta. Questi si recava a Sassari, per avvertire i carabinieri e per prendere il premio della sua “soffiata” ma fu prevenuto dal Cambilargiu che lo incontrò per la campagna. Dopo averlo invitato a raccomandare la sua anima a Dio, lo uccise freddamente, di fronte all’ovile di un compaesano presso cui il Satta, avendo scorto il bandito, intendeva rifugiarsi.

 

    Pietro Cambilargiu nel corso della sua triste carriera ebbe come compagni di macchia i banditi Tolu, Spano e Fresu.
L’attività criminale del bandito osilese si svolse nell’intera provincia di Sassari. Egli prese parte a grassazioni, assassini per vendette e per lucro. Inoltre fu sicario e commise vari omicidi dietro pagamento.
Il famigerato bandito fu ucciso nel pomeriggio del 23 giugno 1856 nella vallata del Logulento, non molto distante da Sassari.
Secondo il Tolu fu ucciso dal nipote, che aveva qualche conto da regolare con la giustizia, in cambio dell’impunità.
Il Comune di Sassari invia al Ministero dell’Interno la seguente lettera, in data 28 giugno 1856, sulla morte del bandito.

 

 

“Eccellenza, il pomeriggio del 23 cadente coronava un desiderio generale il famigerato Pietro Cambilargiu da Osilo, dopo una disperata resistenza cadeva vittima dell’arma dei nostri Carabinieri, che se bene in piccolo numero non mancarono anche in questa difficilissima congiura di mostrarsi degni dell’onoranza che è loro dovuta per moltissimi tratti di coraggio e di valore, acquistando nuovo diritto alla benemerenza di questa popolazione.

 

    Il Maresciallo d’alloggio Scaniglia Efisio, abbastanza noto per tanti atti di bravura da esso lui praticati, era a capo della piccola spedizione, composta dei Carabinieri Usai, Sargiu, Porqueddu, Puggioni e Catta, ed alla energia e scaltrezza del primo, ed all’ordine entusiasta dei secondi, nonché la città di Sassari, ma eziandio il Logudoro dovrà la tranquillità desiderata, per la mancata esistenza di un fuoriuscito che infestò per ogni sorta di malfare e che era pernicioso altresì col solo prestigio del temuto suo nome.

 

    Il Municipio di Sassari partecipando al voto di suoi Amministrati nel mentre prova un sentimento di profonda riconoscenza vero l’arma benemerita dei Carabinieri di Sardegna, per un atto tanto più commendevole quanto maggiori furono i pericoli che ha dovuto correre per condurlo a fine, compie al tempo istesso al dovere di raccomandare all’Eccellenza Vostra così il prefato Maresciallo Scaniglia come i giovani carabinieri che tanto valorosamente lo secondarono nella difficile impresa. La considerazione che l’Eccellenza Vostra si degnerà compartire ai medesimi se sarà nuovo pegno di aggradimento, come premio al provato merito del primo non lascerà di essere possente e utile incentivo al crescente valore dei secondi, per aggiungere maggior lustro alla nobile arma cui appartengono e prestar nuovi servigi alla patria riconoscente ed al Governo del Re che sa convenientemente rimunerare.

 

    Altro voto comune rimane ancora a compiersi e questo Municipio nell’attuale favorevole congiuntura è contento di solo accennarlo alla Eccellenza V. nella lusinga che nell’alta sua saviezza di degnerà provvederne il coronamento. Riguardo quello alla scarsezza della forza materiale della prelodata arma, la quale presterebbe maggior servigi e necessari ove chiesto dalla difficile condizione dell’Isola.

 

    Il sottoscritto pertanto a nome del Municipio che rappresenta ha l’onore di rivolgere alla E. V. le più vive preghiere e supplicazioni affinché prendendo in considerazione l’esposto voglia compiacersi provvedere perché la prestazione dei carabinieri in questa città sia aumentato e si porti la sua forza materiale a quel numero d’individui che è urgentemente reclamato dai bisogni della pubblica sicurezza. Il Sindaco G. Sotgiu”. (1)

 

(1) Lettera al Ministro degl’Interni (A.S.C., Busta 85).

 

    Ed ecco quanto la “Gazzetta Popolare” (1) di Cagliari scriveva nel n° 15 del 1856 sui due banditi di cui si è parlato:

 

“Due uomini da dodici e più anni vivono in opposizione alla legge, che sotto gli occhi del Governo ammazzano chiunque loro garba, che prelevano annuo tributo sui ricchi proprietari taglieggiandoli ad arbitrio, eccovi i banditi Tolu e Cambilargiu! Essi dirimpetto all’altare della giustizia hanno elevato un contraltare di private vendette, sui ricorrono tutti i malvagi uomini delle provincia di Sassari; e vi ha chi valuta assai più la protezione del Cambilargiu che la protezione del Governo…

 

    Per l’onor del nostro paese, per l’onore d’Italia, i ministri provvedano. Se non bastano duemila lire di premio, ne offrano cinquemila…

 

    Se non trovano indicatori sul posto, si mandino d’altronde…la polizia abbia d’una volta indicatori fissi anche in Sardegna, e non aspetti a buscarli all’occasione. In questa come in qualunque altra faccenda l’esercizio e la pratica fa tutto. Il denaro che si spreca in vagliare vanamente le opinioni s’applichi a miglior uso e Cambilargiu cadrà. Ci cadde di mano la penna nel parlare d’esploratori segreti, ed invochiamo il giorno che il mondo ne possa far senza. Ma se al presente la stessa Svizzera ed Inghilterra vi devono ricorrere per tutela delle persone e delle proprietà, che vale scansare il nome, quando abbisogniamo per deplorabile necessità sociale, della cosa? Il Ministro degl’Interni organizzi d’una volta la polizia debitamente, e metta a capo della medesima non contabili, ma persone istruita nei processi criminale. Chi deve prevenire i reati, agevolare la punizione, fermare i delinquenti, deve conoscere la storia dei fatti analoghi.

 

    Uno dei massimi difetti del nostro governo è porre a capo della polizia persone allevate nella contabilità e nelle scuole del contenzioso amministrativo. Il cav. Pinella nella legge che presentò ebbe assai più

 

(1) Gazzetta Popolare, Cagliari 1851-1860.

 

Buon senso perché propose toglierli dall’Ufficio Fiscale. Insomma con Polizia sistemata, con a capo della medesima persone dotte nella materia, l’’ordine può essere facilmente restituito. I Ministri che dispongono di tanti mezzi non hanno essi rossore a confessarsi, dopo dodici anni di prova, impotenti ad arrestar due uomini? Se hanno il deplorabile coraggio di emettere siffatta vergognosa confessione, allora rifacciano la strada battuta dal governo assoluto e diano ai sardi la facoltà di sbarazzarne essi stessi al modo migliore che potranno. L’Europa e la posterità vedranno alla vergognosa confessione e li giudicherà. Ma almeno cesserà l’enorme assurdo di un governo che né toglie egli gli assassini, né permette ad altri, come può meglio, li tolga di mezzo”.

 

    Simili accenti del più autorevole giornale dell’Isola documentano e denunciano chiaramente quanto pericolosa e grave fosse l’attività criminosa dei due fuorilegge summenzionati, per non aggiungere poi quella di tutti gli altri.

 

    ANTONIO MARIA DERUDAS (1) cominciò a battere la campagna, dopo aver assassinato, insieme al suo degno amico Giovanni Maria Puzzone, il capitano dei barracelli che, secondo il Tolu, li disturbava nelle loro imprese rapaci.

    Al Derudas si unì successivamente anche Angelo Masala, altro omicida. Il Derudas ed il Puzzone in seguito si liberarono di quest’ultimo con un altro complice. Tutt’è tre banditi erano di Cargeghe, che dista non più di dieci chilometri da Sassari.

    Nel periodo in cui il Derudas batté la campagna con Giovanni Tolu commise svariati delitti dietro pagamento. Tra gli altri uccise un mugnaio per mandato della moglie; un suo compagno di macchia, datosi al banditismo dopo aver percosso il proprio padrone, fu da lui ugualmente ucciso dietro pagamento. Il bandito più temuto di Cargeghe fu giudicato spregevole dai suoi stessi compagni banditi, perché si prestava con troppa facilità a fare il sicario. La sua carriera ebbe termine quando, sposatosi alla macchia con una mugnaia, fu catturato nel sonno dai carabinieri in una  località del convegno fra i due sposi. Alla sua condanna concorse una testimonianza scritta del Tolu. L’efferato bandito morì dopo quattro anni di pena, in seguito alla condanna ai lavori forzati a vita.

Anche il suo degno amico cargeghese Puzzone fini in galera.

(1) COSTA E.: – op. cit., p. 177-182.

    ANTONIO SPANO (1) di Ossi fu bandito per vendetta. Alcuni giovinastri gli avevano ucciso barbaramente la madre, che non aveva voluto accondiscendere alle loro proposte galanti.

    Il giovane iniziò la sua vita di bandito, dopo aver ucciso un amico che lo canzonò facendo allusioni al fatto.

    Una volta alla macchia il giovane prese vendetta degli uccisori della madre in seguito uccise dietro commissione e commise ogni genere di nefandezze.

    Si unì al Cambilargiu e gli tenne compagnia per vario tempo. Tra gli assassinii attribuiti allo Spano ci fu anche quello di un negoziante sassarese, certo Giovanni Antonio Matti, noto Dionisio. Lo Spano fu catturato a Muros dai carabinieri, che riuscirono a penetrare travestiti da venditori ambulanti nella casa in cui egli era ospitato. Condannato a morte dal Tribunale di Cagliari, mentre veniva ricondotto a Sassari per essere impiccato nella pubblica piazza, riuscì ad avvelenarsi.

(1) COSTA E.: – p. 196-259.

    Queste in breva alcune squallide biografie di banditi che infestarono la provincia di Sassari nel periodo che dal 1848 al 1860 e oltre.

    Si son dovuti ricordare soltanto alcuni fra i peggiori banditi che funestarono le campagne del sassarese in quell’epoca di cui trattano le lettere inviate dal Comune di Sassari al Governo.

    Le autobiografie e le biografie dei vari banditi mettono in risalto un fatto molto importante. Nel periodo che va dalla prima alla seconda guerra d’Indipendenza il banditismo nella provincia di Sassari fu diffusissimo.

    Si uccideva con facilità e con altrettanta facilità ci si dava alla macchia. Ogni reato leggero o grave che fosse, poteva facilmente condurre alla latitanza e da questa al banditismo il passo ea agevole.

    Si può dire che non c’è, paese della provincia di Sassari che non abbia avuto i suoi banditi più o meno celebri.

    La regione del sassarese era ed è abbastanza varia e accidentata. La Nurra poi coi suoi boschi estesissimi, prima che il Cavour (1) ne decretasse la rovina con disboscamento. Offriva ai banditi un valido rifugio.

 

(1) SOTGIU G.: – Alle origini della questione Sarda. Note di storia del Risorgimento, Cagliari 1967,

p. 104.

 

                                                                                          CAPO VIII

 

                       GENESI E FORME DEL BANDITISMO SARDO

 

La documentazione inserita nei precedenti capitoli permette di fare finalmente alcune considerazioni di carattere generale sul banditismo sardo dell’epoca in esame.

 

    Una prima riflessione si può fare sulla genesi del banditismo. In termini più concreti, ci si può chiedere, come nasca il bandito sardo, o per essere più esatti, come un sardo del 1848 o del 1860 diventava bandito? C’è un elemento costante, istituzionale, che possa accomunare i singoli casi di banditismo? A questa domanda credo che ormai si possa rispondere, basandosi sui dati fin qui elaborati.

 

    Un sardo qualsiasi poteva diventare bandito commettendo un reato. E, si badi bene, non commettendo necessariamente un reato grave. Anche un reato leggero, poteva spingere il sardo ai margini della società. Lo si è visto nel caso dell’Alvau, il bandito algherese. In fondo, il giovane studente fu trovato a caccia senza porto d’armi. Con molta probabilità avrebbe potuto cavarsela con poco. Eppure, per non deporre le armi, preferisce affrontare i tutori dell’ordine e darsi alla latitanza.

 

    Dalla latitanza al banditismo il passo è breve e agevole. È sufficiente essere ricercato dall’autorità giudiziaria o incorrere per caso nelle forze dell’ordine, perché si riceva il battesimo di bandito.

 

    Le cause di questa genesi possono essere variamente spiegate. Può essere la scarsa fiducia nella giustizia; potrebbe essere il cattivo funzionamento di essa; l’eccessiva lentezza o la severità della pena. Potrebbe essere anche l’innata claustrofobia del sardo e il terrore del carcere in attesa di giudizio; o l’impossibilità di dimostrare la propria innocenza. Potrebbe essere anche la paura di una giustizia diversa da quella sarda, ossia dal concetto che della giustizia hanno i sardi. La scala dei valori della società sarda potrebbe non collimare con la scala dei valori cui s’ispira la giustizia dello Stato. (1) Qualunque siano le causa di questa genesi, essa può essere indiscutibilmente tracciata così: violazione di una legge, fuga della sanzione, ossia latitanza e, infine, attività criminosa di bandito.

 

    L’altra considerazione che si piò e si deve fare è quella sulle forme attraverso le quali si manifesta il banditismo sardo nel periodo trattato. Come si esplicava l’attività dei banditi sardi del periodo considerato? Le risposte a questi quesiti possono essere varie.

 

    Una volta che un individuo si dava alla latitanza doveva badare a che nessuno cercasse di consegnarlo alla giustizia. Perciò il latitante era circospetto, guardingo, terribilmente diffidente. Da una parte doveva stare attento a non cadere nelle mani delle forze dell’ordine, dall’altra aveva bisogno di amici fidati presso cui trovare aiuto e appoggio nei momenti più critici.

 

    Il primo rischio che il latitante sardo della seconda metà dell’Ottocento corre è dunque quello dello scontro con i tutori dell’ordine. Ingaggiare un conflitto a fuoco coi tutori della legge, quando se ne è violata un’altra, leggera o grave che sia, è già attività criminosa, è già atto di banditismo.

 

    Lo scontro a fuoco può causare di per se stesso una serie di reati che non incoraggiano di certo il latitante a consegnarsi all’autorità giudiziaria. Una delle prime forme con cui il banditismo si manifesta in Sardegna nell’epoca in esame è dunque la rivolta a mano armata contro le forze dell’ordine.

 

    Più spesso però questa forma è concomitante ad altre forme, ma principalmente a quella che mette in pericolo la libertà e la vita del latitante: l’eliminazione dei nemici.

 

    Nei profili dei banditi sardi riscontrati si nota che i fuorilegge uccidevano sovente per prevenire l’azione di qualcuno che avesse voluto farli cadere nelle mani della giustizia. Il Tolu, l’Alvau, il Cano uccidono tutti coloro che tentano di agevolare il compito ai tutori dell’ordine. Quale torto più grave si può fare al bandito che quello di consegnarlo alla giustizia? Il bandito è un uomo come gli altri. Ha parenti ed amici, coloro che credono alla legittimità delle sue azioni. Costoro lo informano dei pericoli che egli corre. Il bandito sardo, prima di compiere il delitto, vuole rendersi conto personalmente della perfidia di chi vuol perderlo. Portata a termine la sua indagine, uccide senza pietà chi abbia trovato colpevole nei suoi confronti. (1)

 

    Il conflitto a fuoco, l’uccisione dei nemici: ecco due forme con cui si manifesta il banditismo sardo. Si tratta di forme generate da motivi esistenziali per il latitante prima e per il bandito poi.

 

    A queste due se ne aggiungono altre più gravi. Il bandito compie dei delitti dietro pagamento: siamo di fronte al bandito sicario. Questa forma di banditismo nei luoghi e nell’epoca trattata era diffusissimo. Essa nasceva dall’orgoglio primordiale dei sardi. Il sardo, uomo o donna, sembrava rimasto attaccato ancora a quel senso della “gravitas” per cui i Romani più antichi non permettevano che la loro persona fosse oggetto di riso e di scherno sui palcoscenici di teatri. Era, in fondo, la gravitas di un popolo attaccato ad un’etica pastorale ed arcaica. L’offesa rivolta al singolo o al gruppo familiare, come magistralmente ha rilevato per la società barbaricina lo studioso A. Pigliaru, andava cancellata, da ciò la vendetta.

 

    Il codice della vendetta era applicato in Sardegna inesorabilmente: le offese si lavavano col sangue. Tutte le lettere inviate dal Comune di Sassari al Governo parlano chiaramente di “private vendette”.

 

(1) PIGLIARU A.: – op. cit.

 

    COSTA E.: – op. cit.

 

E la vendetta privata era un costume ancestrale di sardi. Basterebbe parlare coi vecchi dei paesi della provincia di Sassari, per apprendere tante truci storie di vendette che alimentarono nel passato la piaga del banditismo. Per quanto si sia ben lontani dall’attribuire tutte le cause del banditismo sardo alla vendetta, tuttavia è innegabile che essa sia una delle forme che lo ha sempre alimentato.

 

    La vendetta per chi aveva i soldi e non voleva correre rischi la si poteva comprare e la si comprava. Si offriva una cifra al bandito, perché togliesse di mezzo il colpevole. Cambilargiu, Spano, Derudas, secondo le affermazioni del bandito Tolu, erano dei “miserabili sicari”. Il Derudas uccide il marito di una mugnaia per commissione; il Cambilargiu, sempre dietro pagamento, arriva ad uccidere un suo compagno di macchia. La stessa cosa fecero sovente gli altri banditi sardi. (1)

 

    C’è, come s’è visto, un’altra forma che alimenta il banditismo: il delitto d’onore. Il bandito Cano perché uccide? Uccide il medico lombardo. Ammogliato, con figli e amico di famiglia, che si lega con la sorella Adelita. Il giovane uccide per il disonore che una tale relazione getta nella sua famiglia. Questi fatti che altrove, forse, non avrebbero potuto infangare il buon nome di una famiglia, nella Sardegna del 1848 erano inammissibili. Allora in Sardegna l’ospite era sacro, l’amico ugualmente sacro, ma l’onore e il buon nome di una famiglia erano al di sopra di ogni considerazione. Il Cano uccide quindi per onore, prima di tutto. E siccome un tale delitto era conforme alla mentalità della gente comune, sarebbe sembrato assurdo darsi nelle mani della giustizia, per espiare una colpa che non ere ritenuta colpa.

 

(1) PIGLIARU A.: – op. cit.

 

     COSTA E.: – op. cit.

 

    Ma non solo l’autodifesa, la vendetta privata, il delitto d’onore erano le forme che alimentavano il banditismo sardo.

 

    Le grassazioni, le intimidazioni, i taglieggiamenti, le minacce di morte erano altre forme assai frequenti con cui si esplicava l’attività dei banditi.

 

    In che cosa consisteva la grassazione? Si trattava in effetti di rapina e a mano armata in aperta campagna, o addirittura nell’abitazione delle vittime. Le grassazioni difficilmente venivano compiute da un singolo bandito: in genere esse si compivano in squadriglie di banditi. Si trattava di autentici colpi di mano, compiuto da un nutrito numero di malviventi.

 

    Le vittime venivano depredate e all’occorrenza anche uccise. Le campagne erano insicure proprio per la presenza di queste squadriglie che rubavano, depredavano e a volte uccidevano. Non rifuggivano dalle rappresaglie vere e proprie: sovente ci rimettevano la pelle gli stessi tutori dell’ordine. Queste bande penetravano nei paesi e nelle città, quando lo ritenevano opportuno, per compiere simili reati.

 

    Le popolazioni vivevano spesso nel panico e nessuno osava contraddire gli ordini dei banditi: si pagava, si ospitava, e a volte si perdonavano i torti se erano i banditi ad ordinarlo.

 

    Queste in sintesi alcune forme, attraverso le quali il banditismo si manifestava nell’Isola nella seconda metà dell’Ottocento.

 

                                                                   BIBLIOGRAFIA

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22.X.1849, (Busta 83).

Lettera all’Intendente Generale di Sassari sulla pubblica sicurezza spedita dal Municipio di Sassari in data 22.X.1849, (Busta 83).

 

 

Lettera al deputato Cossu in Torino, spedita dal Municipio di Sassari in data 22.X.1849, (Busta 83).

 

Lettera al Ministero di Guerra e Marina sulla pubblica sicurezza, spedita dal Municipio di Sassari in data 9.3.185o (Busta 83).

 

 

Lettera all’Intendente Generale di Sassari sulla pubblica sicurezza spedita dal Municipio di Sassari in data 3.7.1851 (Busta 83).

 

 

Lettera al Ministro degl’interni sulla sicurezza personale e della proprietà, spedita dal Municipio di Sassari in data 3.7.1851, (Busta 84).

 

 

Lettera all’Intendente Generale di Sassari, sui provvedimenti relativi a frequenti delitti occorsi nella Nurra, spedita dal Municipio di Sassari in data 15.7.1851, (Busta 84).

 

 

 

Lettera all’Intendente Generale sui provvedimenti per occorrere ai  frequenti delitti nella Nurra, spedita dal Municipio in data 15.7.1851, (Busta 84).

 

 

Lettera all’Intendente Generale di Sassari sui provvedimenti relativi alla  frequenza dei delitti nella Nurra, spedita dal Municipio di Sassari in data 15.7.1851,(Busta 84).

 

 

 

Lettera al deputato Francesco Sulis in Torino sulle origini dei delitti in Sardegna, spedita dal Municipio di Sassari  in data 23.7.1951, (Busta n. 84).

 

 

Lettera al Ministro dell’interno sull’uccisione del bandito Pietro Cambilargiu e domanda di accrescimento di forza, spedita dal Municipio di Sassari in data 28.6.1956, (Busta 85).

 

 

 

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