“Il maiale d’annata” di Mario Nieddu

L’unico che non si divertiva era il maiale, poveraccio !
Per la verità se l’era spassata nei bagordi per oltre un anno. Ingrassava a vista d’occhio giorno dopo giorno e divorava con rumor di croste tutto il pastone, incurante del galateo. Non faceva che mangiare trangugiando con voracità le pietanze che mia madre preparava, sempre più succulente e abbondanti. I suoi occhi, protetti da ciglia dorate, lunghissime e robuste, sembravano inghiottiti dalla testa. Ormai non era in grado di muoversi agevolmente, si trascinava sulla pancia per raggiungere il trogolo. La sua schiena era larga come un tavolino. L’unica parte magra del suo corpo era quel ricciolo che gli faceva da coda…
Attorno c’era aria di festa, ma il maiale non ci fece caso finché non arrivò mio padre con uno stilo d’acciaio brillante, lungo e sottile. Forse sospettò qualcosa, mentre per sicurezza gli aiutanti legavano con una fune robusta le sue zampe. Iniziò a mugugnare in maniera ritmica e il respiro si faceva pesante.
Gli attorcigliarono sul muso una specie di museruola con una corda di rafia, non grossa, ma resistente. I suoi grugniti divennero gridi soffocati. Venne capovolto sulla schiena. Così supino era possibile verificare l’anatomia dello sterno e individuare l’altezza del cuore.
Era iniziata la nostra festa, tra il lavorio degli adulti e l’andirivieni delle donne, con pentole, vassoi e piatti. Mia madre non volle assistere alla cerimonia. Si era affezionata a quell’animale innocente. Era stata lei a crescerlo con la consapevolezza giornaliera di essere anche il suo carnefice…
Io ero contento. Era la nostra ricchezza quel maiale, era nato per quella.
Dagli sguardi d’intesa degli adulti esperti, il lardo doveva avere uno spessore straordinario. Inoltre quel maiale, su “porcu mannale”, era eccezionalmente pesante… quanta carne e quante salsicce! Quel maiale ci dava tranquillità per l’anno futuro.
Mio padre affilò con cura lo stilo, poggiò le mani sullo sterno morbido come un cuscino e segnò un punto immaginario col pollice. Il silenzio attorno interrotto soltanto dal respiro soffocato del maiale. Mio padre stava chino, con un ginocchio poggiato sul maiale riverso sulla schiena. Sembrava che fossero soli.
Puntato lo stilo accanto al pollice, lo infilò per tutta la lunghezza dentro lo la cassa toracica del maiale. Questi non dava segni di sofferenza. Quando però la sottilissima lama toccò il cuore ci fu un grugnito, uno solo grugnito, non alto, ma profondo e immenso. Le zampe ebbero un tremito e tutto finì lì. Gli astanti si complimentarono con mio padre :-Dritto al cuore eh?! Così si fa, l’animale non deve soffrire!- Le donne trassero un sospiro di sollievo.
A quel punto mia madre uscì dalla cucina e versò del vino rosso su piccoli bicchieri poggiati su un piano improvvisato con tavoloni poggiati su conci di tufo. Tutti bevvero, quasi per combattere la sete. Il maiale riposava, serenamente supino sull’acciottolato di fronte alla porta di casa. Con le zampe slegate e divaricate appariva enorme.
Issato su una scala, dopo avergli strappato le setole e ben pulito con le fiammelle di una fascina di legna adatta allo scopo, venne aperto in due. Il sangue raccolto in una bacinella, subito trattato con il sale per evitare coaguli, e in un recipiente più grande poste con cura le interiora e la coratella.
“Sa mesa”, quella usata per impastare il pane, era adattissima per squartare il maiale.
Quanta roba. Io ero felice. Tutto quel ben di Dio era nostro.
A quel punto però veniva il compito più ingrato, quello più odioso che io ritenevo ingiusto, ma che mi toccava assolvere. “S’ispinu”.
Mia madre ordinava con cura su piatti fondi una serie di porzioni di carne, possibilmente uguali di peso e di contenuto. Venivano coperti per protezione con piatti sempre fondi. Un bel tovagliolo bianco faceva da busta. Così io, come quella cicogna che porta i bambini, attraversavo di continuo buona parte del paese. Dovevo distribuire s’ispinu a tutti i parenti. Ogni volta che facevo ritorno a casa, sopra sa mesa c’era sempre meno carne.
Alla fine della distribuzione non ero stanco, ma triste. Era ben poco quello che rimaneva tra lardo e carne adatta per le salsicce. Mia madre mi diceva che era un’usanza, che anche gli altri parenti quando ammazzavano il maiale ci facevano recapitare s’ispinu.
Maledetta usanza ! Dopo un anno di attesa, dopo aver assaporato tutta quella fortuna in casa, si rientrava nelle condizioni di indigenza. Anche il maiale a quel punto avrebbe considerato l’inutilità del suo sacrificio finale.
Avevo , forse, otto anni.

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