Categoria : cultura

“Perché…Deledda” di Giovanna Elies

Per raccontare di lei si sono sprecati fiumi d’inchiostro, a partire dai molti che l’hanno osteggiata, fino ai pochi che l’hanno difesa, per arrivare ai pochissimi che sono riusciti ad inquadrare la sua persona e le sue opere sotto una luce scevra da preconcetti e, ancora meglio, sottratta ad alcuni inesorabili canoni di arretratezza, pericolosi molto di più di alcuni potenti virus in circolazione.Solo per fare alcuni esempi. Dai commenti sulle lettere scritte a Stanis Manca emerge coralmente la considerazione di lei come una giovane “ingenua”. Il riferimento potrebbe essere rivolto, in particolare, ad alcune espressioni contenute nella lettera del 9 gennaio 1892 : […]“ spero non vi scandalizzerete se nel mio racconto troverete una fanciulla che dà convegni al suo innamorato”; Più che ingenuità traspare una velata paura che il ruolo della protagonista potesse dare adito a fraintendimenti. Di sicuro emerge una particolare attenzione per il proprio status, una dimostrazione che il desiderio di libertà, di apertura, di successo non potesse essere scambiato per trasgressione. *

-Del romanzo “ La madre” E. Cecchi scrisse:” dopo Marianna Sirca ‘ […] un’altra, ma anche più nera delle sue pitture tutte in nero “.

Nella realtà, Grazia vive una Sardegna unitaria che definire “nera” potrebbe essere un eufemismo, dal momento che gli arresti dei fuorilegge erano all’ordine del giorno. Si sa, infatti , che tra il 1898 e il marzo del 1899 furono arrestati in Barbagia 642 fuorilegge. Col senno do oggi potremmo chiederci: ma erano davvero si trattava di individui fuorilegge?

*In certi periodi del Novecento dimostrare un accenno di solidarietà e /o ammirazione per la scrittrice avrebbe potuto essere considerato un attacco in piena regola al buon senso comune, alla Letteratura nazionale, ai suoi scrittori, agli adepti, ai lettori e, perché no, anche agli operatori del settore, considerando la sola citazione come un “ delitto di lesa maestà”.

A dire il vero, questo tipo di reato, se reato si può definire, è ancora oggi di casa nel nostro sistema letterario.

Nel Novecento, prima e dopo l’assegnazione del Nobel -fino ad arrivare al tardo Novecento- le letture preferite degli italiani si concentravano principalmente sui mostri sacri della nostra letteratura, quelli che molto più tardi Montale chiamerà “ poeti laureati”, sui più conosciuti scrittori russi -non tutti per la verità – oppure sui più pubblicizzati scrittori americani. I palati più raffinati, invece, rivolgevano le loro attenzioni ad autori come Tostoj e Dostoevskj per quanto concerne la letteratura russa, oppure Mann, Kafka ed Ibsen per le letterature del Nord- Europa, Balzac e Hugo per la Francia, Lorca e De Unamuno per la Spagna.

I Circoli letterari, numerosissimi in Italia, contribuivano alla divulgazione ed alla veicolazione di modelli culturali diversificati, cogliendo in ciascuna delle letterature sia i tratti evidenti dell’appartenenza come i canoni universali che legano e affratellano gli uomini indipendentemente dalla loro estrazione sociale e dalla posizione geografica. Dunque un fermento di idee, di scambi, di dibattiti che, fatta eccezione per le avanguardie, spesso ruotavano intorno a personaggi già molto conosciuti e a temi già abbondantemente indagati.

Solo negli ultimissimi anni del Novecento sono comparsi in alcune Università italiane le prime ipotesi di studio su alcuni scrittori sconosciuti al grande pubblico – non solo Deledda, come lei Nievo, Tozzi, Marco Praga – considerati “scrittori minori”. Dicitura, usata e abusata anche ai giorni nostri, nasconde un concentrato di motivazioni – le più impensabili, che relegano il malcapitato scrittore in una sorta di struttura letteraria parallela a quella ufficiale e che , senza tema di essere smentiti, potremmo – molto semplicemente – chiamare “ghetto”. Di quali colpe letterarie si sarebbero macchiati questi scrittori non ci è dato di sapere, sappiamo soltanto, e ci basti, che per quasi tutto il Novecento non è stato possibile trovare i loro nomi nelle Antologie destinate alla scuola Superiore e tanto meno nelle Antologie specializzate in critica letteraria, con le dovute eccezioni, ovviamente!. Ė recente l’odissea di una studentessa universitaria alla ricerca, in tutte le librerie e biblioteche d’ Italia, di un noto romanzo di Marco Praga, scrittore sconosciuto (forse ignorato) a molti letterati – troppi – a critici, ma anche agli addetti ai lavori. Incredibile. Questo scrittore, a torto o a ragione, giaceva e giace, in buona compagnia, in una specie di limbo per “mezzitalenti” dal quale credo sia molto difficile farlo trasmigrare nei sistemi letterari accreditati. Tutto questo non solo è strano ma è inconcepibile: la nostra cultura, europeizzata a dovere, globalizzata al punto giusto e pronta a identificarsi e a dialogare con tutte le culture del mondo, lascia dietro la porta pezzi della propria storia nel momento stesso in cui accoglie totalmente e senza riserve quella degli altri.

Accade, ormai che a ritmo sempre più incalzante entrino- tradotti- nel nostro sistema culturale scritti di culture diverse e lontane dalla nostra, adeguatamente pubblicizzati e altrettanto adeguatamente osannati; non mi pare accada lo stesso per i nostri autori e per quanto, rispetto a certa letteratura, non si possa affermare di essere maestri in “ effetti speciali” come per esempio gli americani, è pur vero che il più sconosciuto dei nostri autori usa la nostra lingua in modo molto più corretto di quanto non facciano gli autori stranieri, compresi quelli dei tanto famosi best-sellers, che fra l’altro sono dei veri e propri blef, in quanto o scritti da più editor o scritti da scrittori che per vivere scrivono per altri

La suddivisione del patrimonio letterario in autori ed opere, minori e maggiori, non tiene conto del fascino stesso dell’opera d’arte e si dimostra in fin dei conti più una operazione di esclusione che di critica vera e propria; esclusione che non giova né al sistema letterario né alla cultura.

Di sicuro, per ritornare al tema dominante, l’aver definito Nuoro con l’appellativo di “Atene sarda” più che il massimo della onorificenza concessa alla propria città natale sembrerebbe un “clamoroso autogol” dal momento che la stessa scrittrice nelle pagine della Nuova Antologia, in un articolo del 1901, scrive:” L’interno del paese è di una primitività più che medioevale, con strade strette e mal lastricate, viottoli, casupole di granito con scalette esterne, cortiletti, pergolati, porticine spalancate dalle quali si intravedono cucine nere e interni poveri ma pittoreschi [….]”. Ritenere che un siffatto paese potesse in qualche modo restituire l’immagine della città simbolo della cultura greca solo perché in un determinato periodo vi si nota una concentrazione inusuale di talenti è una operazione un po’ forzata ma che, a guardare lontano, anticipa l’idea di Marcello Serra “ Sardegna, quasi un Continente”; non solo, numerosi ricercatori di Tradizioni popolari sono concordi sul fatto che molte delle novità d’oltralpe – letterarie come di costume- entrassero in Italia passando attraverso la Sardegna. Ė accertato storicamente che perfino la notizia della crocefissione di un uomo giusto a Gerusalemme sia arrivata a Cagliari solo sette giorni dopo l’esecuzione, vale a dire – per quell’epoca – in tempo reale. Non solo Continente, dunque, ma Continente con postazione centrale in quel “mare nostrum” culla di civiltà. Pertanto si potrebbe desumere che non solo le notizie di cronaca, i dettami della moda e del ballo ma anche le novità letterarie seguissero il medesimo itinerario, tanto è vero che Grazia dimostra quasi subito di sapersi ben orientare fra riviste letterarie, critici, scrittori di chiara fama, ossia in tutto quell’ apparato che contribuirà a darle visibilità. Ė indubbio che la Sardegna, per la sua situazione di subalternità, potesse essere considerata “ terra di missione”, condizione che non è in contrasto con la nascita di menti acute, intelligenze notevoli e talenti La Deledda,, fra l’altro, ha ampiamente dimostrato di saper vedere oltre: “ […]tra dieci anni udrete parlare di me” e non v’è dubbio che possa essere stata trasportata verso questo giudizio dalla impressionante diversità tra il contesto geo-urbano – primitivo oltre la medioevalità e povero a sufficienza- e la presenza di un gruppo di artisti che a ragion veduta hanno proiettato la piccola cittadina in un universo senza confini e senza tempo. Che poi, da molte parti, quegli stessi intellettuali siano considerati “ minori” è ancora tutto da verificare, ché di minorità hanno poco e niente..

La scrittrice, principalmente e come gran parte di chi vive un’esistenza segnata dai limiti marini, che tra l’altro sono i più ricchi di pathos ma anche i più stretti, vive la sua stagione di insularità in modo sofferto ma coerente; sa che le sue esperienze dovranno viaggiare solo attraverso le rare possibilità che il suo mondo le offre, fra le quali primeggia il ruolo di probabile madre di famiglia deputata al comando solo all’interno della propria casa e dei propri averi, esattamente come la madre. Nuoro, infatti, e non diversamente da altri paesi, era il cuore della cultura barbaricina: l’uomo, che fosse agricoltore, pastore o commerciante, era spesso lontano da casa; la donna, esattamente come nelle epoche precedenti, assumeva il comando della casa e l’educazione dei figli senza trascurare tutte le attività collaterali. La Deledda, sentendosi più portata per osservare e raccontare piuttosto che a impratichirsi nel cucito e nel ricamo e meno che mai a interessarsi dei fornelli, cercò, fin dalla prima giovinezza, una mediazione con il mondo circostante, nella speranza di evitare o evitarsi quella sorta di destinazione ineluttabile a cui erano legate le donne nel sistema familiare di allora.

Sappiamo, dalle storie che lo stesso sistema letterario ci ha rivelato, quanto fosse difficile provare a sciogliere i legacci della tradizione, rispettosi dei ruoli, specie per una donna, ma non è neppure pensabile che il suo percorso di crescita, la sua rivolta contro i margini strettissimi della tradizione, il suo voler essere diversa dai modelli femminili di allora potesse restare saldamente ancorato e compresso all’interno dei confini isolani; sarebbe piaciuto a molti, ma così non è stato!. Se così fosse dovrebbe esserlo per tutti coloro che hanno intrapreso l’ attività letteraria per spirito di contraddizione e anche in questo caso non è transitivo che all’interno dello spirito di contraddizione non viva un talento o peggio ancora che si tratti di un talento minore. ……

Forse è proprio sul significato dell’aggettivo “ minore” che ci si deve intendere. In Italia, per minori si intende prima di tutto “ regionali”. Seguendo la falsariga di questi giudizi ci si potrebbe interrogare a lungo sugli scrittori regionali dal momento che le Regioni sono una realtà tangibile del nostro sistema statale, regioni che hanno caratteristiche geografiche differenti e ben precise e spesso lingue e culture diverse. Sotto questa prospettiva ogni regionalismo dovrebbe essere piuttosto una peculiarità che uno svantaggio.

Non che la Deledda non abbia avuto i suoi onori e i suoi momenti di gloria. La sua carriera è costellata di riconoscimenti ed anche il Nobel, nonostante le numerose critiche, ebbe il suo ruolo ed anche il suo fascino.. Oggi, questo ambito premio avrebbe suscitato sicuramente meno polemiche, soprattutto alla luce delle assegnazione degli ultimi Cinquant’anni. E proprio in considerazione di alcune assegnazioni, il nostro sistema letterario dovrebbe fare il classico passo indietro e dare alla Deledda ciò che è suo: scrivere e raccontare, da autodidatta, con la sua stessa intensità e suscitare nei lettori emozioni forti ma genuine non deve essere stato proprio facile; scrivere e raccontare seguendo i canoni e le strutture di alcuni scrittori e/o poeti insigniti recentemente del Nobel, non è difficile.

Ma torniamo a Grazia, Cosima, Damiana nata a… vissuta a…..professione …..ragazza di buona famiglia…… scrittrice autodidatta; bell’esempio di razzismo regionalistico ed intellettuale! E se non fosse nata in Sardegna ma in uno dei tanti paesini dell’Appennino abruzzese cambierebbe qualcosa!? Avrebbe raccontato la storia della sua gente con la stessa identica maestria e probabilmente si sarebbe gridato al miracolo. Se addirittura, un secolo più tardi, fosse nata in una isoletta delle Antille – vedi Derek Walcott – tutti avrebbero concordato con l’assegnazione del Nobel, i suoi libri sarebbero andati a ruba e tradotti in tutte le lingue, italiano compreso: dejà vu: evidentemente il ruolo di queste isolette non è lo stesso della Sardegna…oppure gli altri sanno o possono “vendere” meglio di noi il prodotto della propria cultura…

Questo autore così osannato, in patria e fuori se pur a ragione, con una operazione – innovatrice per l’universo americano ma non per la cultura italiana ed europea che da 20 secoli attinge dalla madre Grecia- ha ripescato il mito dell’Odissea e lo ha riproposto con una personalissima interpretazione, così come del resto hanno fatto Joyce ed altri, ottenendo il meritato successo. In realtà, come l’autore stesso ha dichiarato, in quest’opera parla di se stesso e dell’isola nella quale è nato, vive e lavora. Andando a sfogliare le pagine di una qualunque storia della letteratura mondiale ci si rende immediatamente conto che la maggior parte degli autori, quelli validi , hanno raccontato se stessi ed il proprio piccolo mondo, esattamente come la Deledda , da Tolstoi a Walcott. L’elenco sarebbe infinito. In tutti questi autori il richiamo alla propria cultura originaria è sempre molto forte e sentito ed è anche accompagnato da espressioni tipiche del lessico locale; in tutti i grandi romanzi, italiani o stranieri, Promessi Sposi compreso, sono evidenti i segni della cultura locale. E non si comprende perché l’isola di Sardegna, in troppe occasioni doppiamente isola, ricca di un patrimonio culturale, architettonico e linguistico veramente unico, autoctono ed inimitabile, avrebbe dovuto rinunciare al suo patrimonio di tradizioni per mano della sua più grande scrittrice. Tutto ciò che in altri autori gioca a favore, in Deledda gioca a sfavore, come se le origini fossero una tara e non una peculiarità.

“ Certamente scrivo ancora male, ma vedrete col tempo…” scrive in una lettera a Stanis Manca (4 agosto 1892). Commentare questa frase è quasi imbarazzante! Il periodo non è dei più felici, l’isola si trova a far parte di un Regno che stenta a riconoscere, le tensioni sociali, economiche e culturali vengono sommariamente considerate alla stessa stregua del banditismo ed il banditismo è, alcune volte, determinato da eventi legati alla pressione fiscale, alla espropriazione dei beni, a ingiuste condanne ed anche alla convinzione che esso fosse una sorta di gene trasmesso di padre in figlio. Erano anni, quelli della Deledda, nei quali la reazione violenta dello Stato colpì in modo sistematico la popolazione dell’isola e, come la storia ci insegna, caddero non solo colpevoli veri ma anche persone innocenti. In un simile contesto non poteva essere possibile che nessuno prendesse carta e penna e raccontasse, forse immaginando, forse elaborando, forse enfatizzando alcune figure e in ogni caso fissando su carta, situazioni, suoni, colori, emozioni, disfatte. Non una, dunque, ma cento Deledda avrebbero dovuto nascere, scrivere, tramandare e più che altro denunciare la situazione in cui versava la Sardegna. Non lo fece, si limitò a raccontare ciò che i suoi occhi vedevano: alcune volte la cruda realtà, altre volte una realtà frammista ad elaborazione letteraria. In tutti i suoi romanzi, in particolare quelli in cui l’isola e la sua etnicità hanno un ruolo predominante, la cruda realtà nuorese si incontra e scontra con l’immaginario della scrittrice. Ė sufficiente pensare alle modalità con le quali affronta il problema del banditismo: non essendo interessata al fenomeno in chiave sociale, delinea le figure dei fuorilegge come una sorta di eroi, del male ma sempre eroi. Non vi è nulla di audace in questo, sempre dal punto di vista letterario, piuttosto il racconto di una tradizione viva allora come ancora oggi che identifica la figura del latitante con la massima espressione di coraggio. Se poi il latitante abitualmente rompe il suo isolamento e si spinge, spesso in occasione di feste patronali, a ridosso dell’abitato, quando non anche dentro l’abitato stesso, è chiaro che da mera figura di fuorilegge transita in quella di mito e di eroe nell’immaginario collettivo di tutti, non solo degli scrittori. Appare, dunque, del tutto naturale che la scrittrice conoscesse queste situazioni; la sua famiglia partecipava assiduamente alle manifestazioni della religiosità popolare, in particolare al pellegrinaggio a Nostra Signora del Rimedio, dove non era certo inusuale incontrare individui in debito con la legge, riconosciuti da tutti i partecipanti alla festa ( tranne che dalle forze dell’ordine), tollerati e ospitati davano un bell’esempio di coraggio e “balentia”. La visione di latitanti- eroi-miti potrebbe avere come radice la familiarità che gli stessi avevano con la popolazione mentre erano ricercati.

Non c’è nulla di nuovo in questo; molti latitanti del nostro meridione hanno persino l’abitudine di farsi curare in cliniche private. Certo non possono essere considerati né miti né eroi, ma neppure poveri mortali. Obiettare alla Deledda la mancanza di una esplorazione razionale sull’argomento appare più come un pretesto che una occasione mancata. Intanto perché non è consequenziale che uno scrittore di romanzi e novelle si occupi di critica e di fenomeni sociali, entrambi gli aspetti essendo già abbastanza presenti nelle narrazioni. Per Lei che fu oggetto di numerosissime osservazioni (che sicuramente le impedirono di esprimere al meglio il proprio talento) e che, nel volgere di un tempo brevissimo, si era trovata a non poter contare su una certa solidità familiare, fissare la propria attenzione sul fenomeno del banditismo avrebbe potuto non essere la cosa giusta.

La sua produzione letteraria che va dal 1884 al 1936 comprende 35 romanzi, 30 racconti, 350 novelle, 50 articoli, 50 poesie e tutta una serie di lettere attraverso le quali sperava di poter uscire dai limiti insulari*. Ė quasi impressionante scoprire l’attenzione di cui ha goduto la scrittrice e l’ampia diffusione delle sue opere. Si tratta, dunque, di una produzione di tutto rispetto che, salvo qualche eccezione, rimane ignorata e non c’è differenza fra la sorte delle opere scritte in Sardegna e quelle della produzione romana.

Volendo redigere, in base alle traduzioni, una specie di classifica sui consensi ottenuti dalle sue opere, troviamo al primo posto “Elias Portolu”, proprio uno di quei romanzi dove il paesaggio aspro e selvaggio assume la stessa intensità dei sentimenti.

A. Momigliano scrisse nel 1963 “ […]forse il libro di più alta e solida moralità che sia stato scritto in Italia dopo i Promessi Sposi”, mentre P. Pancrazi, in un articolo pubblicato sul Corriere della Sera (1 settembre 1936), scrisse: […]la critica italiana ha grandi debiti verso la scrittrice sarda […] io non so se – finché perdurerà l’amore del cerebralismo e dell’europeismo dell’arte – gli studiosi del continente italiano potranno rivolgere, seriamente e proficuamente, la loro attenzione all’opera della scrittrice sarda, che è, nella sua origine, regionalistica e – artisticamente, cioè nelle sue umane significazioni- universale”. Era il 1936 e ancora oggi si attende questo risveglio. La sua arte è rimasta come in ombra, difficilmente brani tratti dai suoi scritti vengono inseriti nelle Antologie scolastiche; nella realtà non ritroviamo neppure brani tratti da opere di Fogazzaro, di Svevo, di Aleramo e di tutti quei talentuosi scrittori che hanno raccontato la realtà secondo se stessi e non secondo i dettami della Critica. Ha Scritto G. Cerina:” la Deledda è uno dei tanti intellettuali – sicuramente il più noto ed autorevole, pur con i limiti della sua formazione culturale di autodidatta – che colgono i sintomi di crisi nel tessuto della società patriarcale”. La connotazione specifica della Deledda che ritroviamo in ogni testo che parli di lei e delle sue opere è il sostantivo maschile /femminile “autodidatta”, e non si capisce bene se sia un merito o un demerito quando non anche un “marchio”. Probabilmente ci si dimentica che la formazione scolastica degli individui è un po’ come la formazione familiare: chi ha la fortuna di trovare un buon docente avrà più possibilità di acquisire gli strumenti per la vita e per la carriera esattamente come chi ha la fortuna di nascere in una famiglia serena e unita; diversamente tutto è lasciato al caso. “ Sorte curret e no caddu – la fortuna corre non il cavallo” recita un antico andante. Tanto è vero che non tutti quelli che hanno la fortuna di incontrare nella propria strada docenti con i fiocchi ne ripetono l’esperienza, così come non tutti coloro che nascono in famiglie unite, serene, agiate e per bene si manifestano come tali. Ma, deleddianamente parlando, a chi può giovare ancora percorrere itinerari tortuosi all’interno dei quali far sedimentare un sistema di letterarietà anziché portarlo alla luce ? Ė una bella domanda, questa. La risposta potrebbe essere in un’espressione che ci arriva direttamente dalla Francia: “pour parler“. In effetti siamo nell’epoca della comunicazione e come tale l’importante è comunicare; che cosa, come e quanto non è mai specificato. Il concetto di medioevalità di cui la Deledda stessa scrive in diverse occasioni potrebbe essere riferito più alle consuetudini che all’aspetto paesaggistico di Nuoro come della Sardegna. D’altronde sia l’anno di nascita come gli anni giovanili della scrittrice coincidono con un faticoso periodo postunitario nel quale la realtà scolastica andava incontro ad una serie infinita di problematiche: intanto “[….] l’obbligatorietà della frequenza si scontrava direttamente con gli agrari e con il clero; i primi affermavano che l’istruzione distoglieva i giovani dal lavoro, gli altri erano preoccupati dall’esito delle cattive letture e di conseguenza dalla crescita dell’immoralità [….]. L’istruzione di base, avrebbe dovuto, fra l’altro, servire a saldare i vincoli dell’ Unità Nazionale […]. (V. Saracino,Scuola e educazione: linee di sviluppo storico).

Sappiamo tutti che la meritoria legge sull’istruzione attraversò l’Italia ormai unita con una leggerezza simile ad una piuma d’uccello; quanto al fatto che dovesse anche promuovere e saldare i vincoli dell’Unità non è un fatto di certo nuovo; la Legge, ovviamente meritoria, ha avviato in qualche misura una serie di trasformazioni e in ogni caso ha compreso che solo l’istruzione avrebbe potuto porre le basi della vera unitarietà. Per ottenere ciò, tuttavia, la stessa legge doveva passare sotto le forche caudine delle abitudini, delle tradizioni, delle mentalità, dei sistemi di vita e quant’altro. Tutto questo riguarda molto da vicino il nostro premio “ Nobel” in quanto vittima eccellente del sistema, inutile- dunque- insistere sulla strada dell’autodidattismo; qui da noi come nelle assolate Regioni del Sud, non esistevano scelte e non solo ai tempi di Grazia ma neppure nei primi decenni della prima metà del Novecento. Quante giovani volenterose e intelligenti non hanno potuto proseguire gli studi -oltre la scuola Elementare- e non solamente in quanto nate in famiglie povere ma anche e forse di più per divieto paterno. Della mia classe elementare, 30 allieve vivaci caratterialmente ed intellettualmente, solo in 4 hanno avuto la fortuna di frequentare tutti gli ordini di scuola , 26 sono rimaste alla fonda. Ė accaduto! In simili contesti, l’essere autodidatti è un grande merito, è una opportunità, quasi un privilegio. Strano, che siano stati in pochi ad accorgersene!

Nel 1877, quando Grazia ha 6 anni, l’approvazione della Legge Coppino sembra aprire uno spiraglio nella lotta contro l’evasione dell’obbligo scolastico, specialmente con l’avvento al potere di una “ sinistra liberale” che trova un irriducibile avversario proprio all’interno della Chiesa, nonostante buona parte dell’istruzione fosse sottoposta alla sua egemonia. Nel ventennio postunitario, le leggi sull’istruzione non riescono ad eliminare il disagio delle popolazioni in quanto debbono fare i conti con la diffusa ignoranza e la subalternità alle classi egemoni

Quella che potrebbe essere considerata una svolta è datata 1888, con i programmi scolastici del Gabelli. Grazia ha già 17 anni. Con i programmi del Gabelli, la Scuola inizia un vero e proprio percorso di formazione andando a considerare principalmente l’aspetto psicopedagogico dell’educazione. Tutto questo, per la Sardegna, è sicuramente fantascienza e , come tutti sappiamo, lo è ancora di più per la condizione femminile.

In un siffatto contesto, la giovane Grazia subisce l’onda nera dei pregiudizi cui era sottoposta tutta la popolazione con l’aggravante di appartenere al sesso femminile.

Ciò nonostante, spinta principalmente dal talento, dal pensiero di migliorare la sua personale condizione e dal desiderio di far sentire la propria voce, diede inizio a quell’attività che le ha permesso di salire la scala del successo. In “ Grazia Deledda” di Nella Zoja, Garzanti, dicembre 1939, si legge, tra l’altro: […] se è vero che tutti i libri hanno, all’infuori del loro valore in sede critica, una giustificazione agli occhi di chi li scrive, e magari di chi li legge, per il presente profilo biocritico può forse valere questa giustificazione: d’essere fatto con simpatia umana. Una simpatia umana che segue, di conquista in conquista, tutta la vita e l’opera di Grazia Deledda fino alla morte quasi tragicamente grigia: senza il capolavoro”.

Onestamente, riesce abbastanza difficile entrare nei meandri di queste poche frasi, ritengo opinione comune che gli scrittori non abbiano bisogno di simpatia umana, almeno per quello che scrivono; quanto alla mancanza di un capolavoro, obiettare sarebbe fin troppo facile, se il giudizio fosse riferito a Cosima, Grazia aveva sicuramente intuito che la sua ultima opera sarebbe stata il filo conduttore di tutto il suo lavoro. Ebbene si, capolavoro, ultimo fra tanti, ma non per lei, per noi piuttosto; lei stessa, con Cosima, ci ha lasciato la chiave per entrare nel suo mondo e infatti bisognerebbe intraprende un itinerario conoscitivo che parta da Cosima e si concluda con “ Fior di Sardegna”.

Cosima è per la Deledda l’inizio del sogno, di quel cammino tanto pensato, immaginato e atteso; in Cosima sta il principio della sua arte, il filo conduttore di una esistenza interamente dedicata a raccontare e a raccontarsi. La scrittrice, che non è più la giovane indagata e martoriata dalla critica, si riappropria del suo passato, del suo vissuto, dei suoi stessi sogni ed aspirazioni ripercorrendoli a con una fredda lucidità, con gli occhi di una memoria sempre viva e presente e con una tecnica narrativa da far invidia al più accreditato degli scrittori

******Cosima ha lo stesso grande valore di ciò che è stato “Il vecchio e il mare” per Hemingway, “Malombra” per Fogazzaro, “Il podere” per Tozzi, “ La biondina” per Praga, “Paese d’ombre” per Dessì, “ Il giorno del giudizio “ per Satta, “ Una donna” per Sibilla Aleramo e………l’elenco potrebbe andare all’infinito coinvolgendo scrittori definiti “ maggiori” e “ minori” in una sorta di assemblamento nel quale i maggiori fanno bella mostra di sé, i minori attendono…forse un critico che conosca i segreti del suo mestiere e mescoli le loro carte, potremmo dire, come Dio comanda.

-“ La casa era semplice, ma comoda: due camere per piano, grandi, un po’ basse, coi pianciti e i soffitti di legno; imbiancate con calce; l’ingresso diviso in mezzo da una parete: a destra la scala, la prima rampata di scalini di granito, il resto di ardesia; a sinistra alcuni gradini che scendevano nella cantina. Il portoncino solido, fermato con un grosso gancio di ferro, aveva un battente che picchiava come un martello, e un catenaccio e una serratura con la chiave grande come quella di un castello. La stanza a sinistra dell’ingresso era adibita a molti usi, con un letto alto e duro, uno scrittoio, un armadio ampio, di noce, sedie quasi rustiche, impagliate, verniciate allegramente di azzurro: quella a destra era la sala da pranzo, con un tavolo di castagno, sedie come quelle altre, un camino col pavimento battuto. Null’altro”

La descrizione dei pochi metri quadri dell’ingresso della casa dà, immediatamente, l’idea della donna Grazia e della scrittrice. Ė una descrizione essenziale, con pochi orpelli, condotta in modo magistrale sotto la spinta del ricordo- La casa era semplice- l’imperfetto del verbo si scontra immediatamente con la linearità del ricordo. Una casa che non vede da anni, che non ha mai amato e dalla quale ha sempre desiderato di andare via, ritorna nella sua vita, nella sua mente e nella sua penna. Ma non è una operazione sentimentale, piuttosto una necessità, un ritorno alle origini costruito con una sensibilità incredibilmente vera e logica. Grazia scrive ciò la sua memoria visiva le rimanda, senza emozioni o pentimenti; scrive e contemporaneamente entra nella casa, tocca gli oggetti, li riconosce e li descrive, dopo anni riesce a fermare il tempo, quello stesso che aveva tanto sperato trascorresse in fretta

Perfetto ed essenziale il linguaggio, alcune aggettivazioni senza ingombro, passaggi rapidi e precisi segnati dalle virgole ma senza ansia, quasi senza pretese e chiusi – ma non costretti- da un punto e virgola che stacca e non spezza. Grazia non descrive l’ingresso della sua casa, è lì; tutto si materializza, pian piano, davanti a lei, come un tempo!

Dopo tanti anni, la sua casa diventa finalmente un punto fermo, la base d’appoggio di una esistenza intesa come un viaggio frenetico verso un obiettivo….raggiunto, più che raggiunto, in un universo dove nessun confine obbliga la vita e nessun sogno resta tale.

La Nuoro tanto ristretta e chiusa è ormai lontana, anzi lontanissima; si perdono nei sentieri della memoria le difficoltà, le chiacchiere paesane, le interferenze familiari e quel senso di insoddisfazione che gravava come un peso sulla sua personalità.

Diversi anni prima, nel 1892, scriveva a Stanis Manca:” […] io ho due passioni in cuore, due passioni ardenti, indomabili, che sono il premio della mia esistenza, la mia vita medesima; sono il mio motto, l’impresa cavalleresca dell ‘anima mia: amore e gloria!

Ha vent’anni, l’età più bella per eccellenza, il tempo in cui – per una giovane di buona famiglia- si delineano le principali coordinate attraverso le quali si snoderà la propria vita. Grazia vuole tutto, tranne che questo. Non lascia spazi aperti intorno a sé, non permette che altri decidano della sua vita e che una cittadina di provincia chiusa nel cuore della vecchia Sardegna, dove la medioevalità si succhia già nel latte materno, esprima uno spirito così libero, sognante ma anche volitivo è quasi uno miracolo.

A quel tempo, Grazia, immagina ma non sa realmente quale potrebbe essere la sua vita; nei nostri borghi l’esistenza scorre lenta, scandita dai rintocchi del campanile; il tempo lo si misura dalle muffe sui muri cadenti delle case, dalla paritaria che regna sovrana nelle architravi dei corrali, dalle violacciocche che al primo sentore di, primavera fanno capolino tra le fughe dei muretti a secco.

Nel 1891, sempre a Stanis Manca aveva scritto:”[…] Io sono ben giovine e forse ho illusioni che l’esperienza farà svanire, ma mi pare che la vita sia lunga e che in essa vi sia tempo a tutto, che tutto si equilibri in essa, l’amore con la gloria, così come il dolore con la gioia”

Oggi possiamo dire che oltre ad essere stata un’ottima scrittrice, sia stata un’ottima manager di se stessa; ha raggiunto traguardi impensati per noi ma non per lei, ha lasciato di sé una traccia indelebile, per tutti, che la si consideri “ maggiore o minore”

Ma, ecco che, all’apice del successo, nella piena maturità di donna e di scrittrice, quella casa – così ostinatamente abbandonata – ritorna. Cosima non è più Grazia. La notorietà, la vita continentale, il massimo dei riconoscimenti non bastano più. In cima alla scala della vita c’è ancora la sua casa, la vecchia casa, quell’angolo di mondo in cui aveva vissuto tante emozioni e tanti travagli. Questo si che si può chiamare “ su connotu”: il legame viscerale, mai spezzato con quelle stante che ora ripercorre abbracciandole per sentirne il contatto ed il respiro. Non è la casa dei ricordi, è la casa come centro della vita e principio dell’esistenza.

[…]Un uscio, solido pur esso e fermato da ganci e catenacci, metteva nella cucina. E la cucina era, come in tutte le case ancora patriarcali, l’ambiente più abitato, più tiepido di vita e di intimità:

Usa l’aggettivo “ tiepido” Cosima ancora una volta per difendere il suo status; non vuole sottrarsi al gioco perfido dei ricordi e tanto meno esporre la sua anima ad essi.

Cosima è ormai un’altra donna, segnata dai successi, intimorita – forse- da quell’assalto incondizionato di popolarità che ha travolto i suoi sogni per portarli troppo velocemente nella vetta più alta. C’è sempre un tempo per tutte le cose! Chi può mai sapere se il turbinio della vita romana ed il successo, tanto sognati, non abbiano avuto invece un ruolo determinante nei sentimenti della scrittrice, pronta a spiccare il volo, in una prima fase per poi, a volo compiuto, rifugiarsi in quelle tracce di Sardegna che istintivamente s’era messa in valigia. Roma, dopo i primi timidi approcci, potrebbe esserle sembrata inospitale, non sarebbe stata la prima volta, anche Leopardi ne ebbe una impressione negativa. Erano ormai lontane le spettegolate paesane ma sempre più vicine le critiche di chi, nella nuova provincia non meno ostile della sua, la considerava un fuoco fatuo; i lavori, che spesso uscivano a puntate su “Nuova Antologia” venivano sottoposti ad un severo esame e ad altrettanti severi giudizi: incertezza formale, segni di decadentismo misti a residui naturalistici, tensioni moralistiche e antiretoriche, ma ciò che verosimilmente dovette dispiacere molto alla scrittrice fu la rilevazione dei “ progressi”. Una sorta di verifica formativa, si direbbe oggi, in itinere. Non esiste critica su di lei che non indaghi la sua maturazione tematica e stilistica. Il suo essere scrittrice non cessò mai di essere sotto esame, se a tutto questo si aggiunge la facilità con cui veniva ospitata nelle riviste letterarie e quindi la pubblicazione, a puntate, delle sue opere ecco che il quadro tracciato da molti critici come“ scrittrice da Feuilleton” quasi calza a pennello! Non esiste, però, alcuna logica, che definisca il romanzo pubblicato a puntate una sorta di sottoprodotto, se non è dichiaratamente considerato tale e in ogni caso anche i romanzi d’appendice hanno avuto i loro pregi ed i loro meriti. Ancora oggi si legge così tanto poco in Italia per quanto la situazione culturale delle masse sia discreta, si presume che all’epoca della Deledda si leggesse ancora molto ma molto di meno e che i racconti a puntate fossero uno stratagemma per appassionare alla lettura non è un segreto per nessuno, fin dalla fine del Settecento; oggi il nostro sistema culturale li ha sostituiti con le telenovelas ( seguite da un pubblico medio basso) ma anche con gli sceneggiati ( seguiti da un’utenza medio-alta)..Questo a dimostrare che esiste un fatturato culturale per tutti i palati e per tutte le tasche e che in fondo la notorietà è sempre decretata dal popolo piuttosto che dalle fasce elitarie.. Forse, per ritornare sull’argomento “ingenuità” le si può addebitare una eccessiva sovraesposizione, un eccesso di presenzialismo che l’ha proiettata, senza le giuste difese, in un mondo di “Colombi” ma anche di “Sparvieri”.

Leggendo a caso una delle tante introduzioni ad una sua opera – Cosima, Mondatori 1975- si rimane quasi sconcertati: […] Le elementari furono le sole scuole che frequentò regolarmente. In seguito si abbandonò a una congerie di letture Dumas, Balzac, Hugo, Scott, Invernizio. La precoce vocazione di scrittrice si alimentò dunque di un disordinato ultraromanticismo, incline ai vividi contrasti di colori e linee, al fervore e all’enfasi dell’orchestrazione melodrammatica.

In questo modo la si spoglia completamente e le si attribuisce una personalità disordinata: la scelta delle letture non può e non deve essere sempre propedeutica, salvo si tratti di argomenti che lo richiedano; un individuo nella propria vita deve essere libero di scegliere le proprie letture e i propri itinerari conoscitivi, indipendentemente da ciò che poi il suo estro gli/le permetterà di scrivere.

Per fortuna, nella quarta di copertina, lo stesso commentatore scrive […] In questo romanzo la Deledda, risalendo ancora una volta alle proprie origini, riassume i motivi della sua ispirazione con un tocco vigilato, di perfetta misura.

Grazia, come lei stessa ci racconta, riuscirà alla fine a recarsi a Cagliari – un primo timido passo verso il sogno ed è proprio la descrizione della casa che la ospita, fatta 36 anni dopo, con oggettività, lucidità e precisione tipica di chi ritorna in quel luogo facendo ben attenzione solo col pensiero, senza che l’anima ne sia coinvolta

Cosima, dunque, porta con sé i tratti di un itinerario completo, dove principio e fine si incontrano finalmente, in termini diametralmente opposti.

[…] Dopo averla rimpinzata di dolci e bevande, la sua ospite, che continuava a baciarla e quasi a leccarla come un cane che ha ritrovato il padrone, la lasciò sola nell’appartamento ov’ella abitava col paziente marito che era impiegato in un’azienda privata. Aveva destinato a Grazia la camera più bella, col balcone, quella appunto donde si vedeva il mare: e le lasciava libero anche il salotto, pieno di fiori di carta, di vasi incrinati, di tovagliette, di oggetti di cattivo gusto”

Due case, due vite; la prima essenziale ma ricca di intimità, la seconda più agiata ma piena di oggetti di cattivo gusto. Forse davvero, al di là del successo, la sorte non l’ha favorita. Tuttavia, è innegabile che la sua opera – di grande livello e respiro- abbia contribuito alla conservazione e alla diffusione di un patrimonio tradizionale e sociale che altrimenti sarebbe rimasto, per usare un neologismo, “inconosciuto”

Ha raccontato della sua isola persone, situazioni, paesaggi e cose con un trasporto e con un attaccamento difficile da ripetere e che nessuno è ancora riuscito ad eguagliare e neppure a comprendere a fondo.

Per tutto questo……Deledda..

Giovanna Elies

*[Le sue opere sono state divulgate in moltissimi paesi stranieri : Svezia ( Cenere, La fuga in Egitto, Il vecchio della montagna, Le colpe altrui,, La via del male, Annalena Bilsini), Norvegia ( Naufraghi in porto, La fuga in Egitto, Il Dio dei viventi,, Il segreto dell’uomo solitario, L’edera, Annalena Bilsini), Finlandia (Elias Portolu, La fuga in Egitto, Marianna Sirka, Nostalgie), Germania ( Colombi e sparvieri,, Le novelle,, Nel deserto, Il vecchio della montagna,, Nostalgie, Anime oneste, Sino al confine, L’Edera, Racconti sardi, Le tentazioni, Elias Portolu, La fuga in Egitto, L’ombra del passato, Il segreto dell’uomo solitario), Francia ( Canne al vento, Elias Portolu, Cenere, La via del male, La Giustizia, L’ombra del passato, Nel deserto, Colombi e sparvieri), Spagna,( Cenere, Nostalgie,, Dopo il divorzio, Il fidanzato scomparso, Marianna Sirka, Anime oneste), Inghilterra (Nostalgie, Cenere), Austria ( La giustizia, Il nostro padrone), Polonia ( Annalena Bilsini,, Cenere, Canne al vento, La fuga in Egitto, Naufraghi in porto ossia Dopo il divorzio), Ungheria ( Il nostro padrone, L’Edera, Anime oneste), Cecoslovacchia (Elias portolu, Cenere), Olanda ( La madre, Elias Portolu

Commenti sono sospesi.

RSS Sottoscrivi.