Minatori e Miniere in Sardegna di Paolo Amat di San Filippo

Paolo Amat di San Filippo

Paolo Amat di San Filippo

Sorvolando la storia e gli eventi minerari del periodo nuragico, punico e romano, accenneremo ad alcune notizie sull’attività mineraria del periodo pisano, che sono state importantissime per Iglesias, anche perchè sono riportate nell’importantissimo documento storico che è il Breve di Villa di Chiesa.

E’ noto a tutti gli Iglesienti che il Breve è stato compilato quando Villa di Chiesa, così si chiamava anticamente Iglesias, era feudo del conte Ugolino Donoratico della Gherardesca.

La famiglia dei Della Gherardesca è molto antica, di origine longobarda, il presunto capostipite è il conte Ghisolfo discendente dei duchi del Friuli.

In Toscana possedettero molti territori; Gherardo I conte di Volterra è il primo capostipite certo di questa famiglia.

A seconda del castello nel quale elessero la loro dimora, i Della Gherardesca si articolarono nei rami dei conti di Castagneto, conti di Campiglia, conti di Segalari e conti di Biserno.

Poiché il nome Gherardo si ripetè nelle successive generazioni, l’intera prosapia venne denominata, prima dei Gerardeschi, e successivamente dei Della Gherardesca.

Sull’origine del cognome Donoratico si formulano due ipotesi: la prima, meno probabile deriverebbe dal termine “Dominus hieraticus” riferito all’antenato San Wilfredo, vissuto nell’VIII secolo; la seconda dal termine “Domo-raticus”, ossia “Residenza dei Signori”, riferita al grande castello eretto da questa famiglia fra il X e l’XI secolo sopra uno sperone collinare prospiciente al mare a sud di Castagneto, castello che costituì sempre il simbolo del loro potere, in quanto si trovava baricentrico rispetto ai territori di loro pertinenza compresi tra i fiumi Cecina e Cornia.

Nel diploma dell’imperatore Federico Barbarossa, del 6 aprile 1162, che assegnava al Comune di Pisa la sovranità dei territori litoranei tirrenici compresi tra Civitavecchia e Portovenere, era esclusa, dall ‘“Imperium” la zona compresa tra i fiumi Cecina e Cornia che apparteneva, come “Vetus Comitatus”, ai Della Gherardesca.

In un atto sottoscritto il 22 luglio 1213 tra i Della Gherardesca e il Podestà di Volterra Gullo, che sanciva l’impegno della famiglia comitale di difendere il Comune volterrano dall’aggressione di qualsiasi nemico, a condizione che questo Comune si astenesse dall’intraprendere azioni ostili contro Pisa, i Della Gherardesca firmano a nome della “Domo Gherardesca”, il che testimonia l’importanza di questa famiglia nella vita politica del Comune pisano, i cui membri possedevano case e torri nel quartiere cittadino di Chinseca.

I privilegi, anche fiscali, di cui i Della Gherardesca avevano da sempre goduto, sui territori di loro competenza, cessarono nel 1766, quandi il granduca Pietro Leopoldo di Lorena, figlio dell’imperatore Francesco I e di Maria Teresa d’Austria, al fine di aggiornare il catasto del suo regno, impose a Della Gherardesca di ricevere formale investitura sui territori maremmani che la famiglia gestiva giuridicamente, come libero allodio, fin dalla conquista longobarda, nell’Alto Medioevo.

Di Gherardo in Gherardo, nelle varie generazioni, da Gherardo 3°, considerato capostipite nell’anno 1000, si giunse a Gherardo 6°, conte di Donoratico, capostipite del ramo dei conti di Biserno che, nel 1113, fu uno dei condottieri che guidarono i Pisani nella vittoriosa spedizione contro Mugahid nelle Baleari, e che dalla moglie Adelasia di Guinalduccio aveva avuto: Enrico, Ranieri e Gherardo 7°.

Gherardo 7°, nel 1158 comandò le milizie che il Comune di Pisa inviò in aiuto di Federico Barbarossa impegnato nell’assedio di Milano, e che nel 1173 guidò un’ambasciata inviata da Pisa all’Imperatore e che nel 1175 partecipò alle trattative di pace con Genova.

Da Enrico discese Gherardo 10°, detto il “Vecchio” (1198-1268), padre, a sua volta di Ranieri detto “Nieri”, che sposò Beatrice di Svevia e Teccia che sposò Anselmo conte di Capraia, giudice d’Arborea.

Da Ranieri discesero: Aliotto, Gherardo 8°, Ugolino e Enrichetto detto “Enrigetto”.

Figlio di Ugolino fu Ranieri, conte di Bolgheri detto “Il Piccolino”, che venne in Sardegna, nel 1232 per contrastare i Visconti che, alleati del conte di Capraia, osteggiavano la giudcessa di Cagliari Benedetta di Massa, figlia del defunto giudice di Cagliari Guglielmo di Massa, sua cognata, in quanto Ranieri ne aveva sposato la sorella Agnese. Agnese, dal suo primo matrimonio con Mariano di Torres, aveva avuto Adelasia giudicessa di Torres che, rimasta vedova di Ubaldo Visconti, aveva poi sposato Enzo, figlio di Federico II di Svevia.

Alla morte della giudicessa Benedetta di Massa, Ranieri di Donoratico venne nominato “Rector” del giudicato di Cagliari; che la moglie Agnese governò fino al 1256, quando rinunciò a tutti i suoi diritti ereditari a favore del nipote orfano di Benedetta. Con Ranieri vennero in Sardegna il figlio Lamberto ed il giovanissimo congiunto Ugolino.

Quanto alla discendenza di Enrigetto, figlio di Ranieri, dei suoi nipoti, figli del figlio Giovanni, Tedice detto “Tige”, sposò Giacomina d’Arborea, e Ranieri detto “Neri” sposò Sofia del Monferrato.

Delle tre figlie di Costantino Salusio di Lacon Serra, terzo giudice di Cagliari, Giorgia aveva sposato, nella seconda metà del 1100, Tedice 5° Donoratico Della Gherardesca, conte di Segalari, ed una terza, della quale non è noto il nome, aveva sposato il sardo Pietro giudice di Torres.

Figlio di Giorgia fu Guglielmo di Massa che, a sua volta, fu padre di Benedetta, di Preziosa, e di Agnese che, come si è già detto, vedova di Mariano di Torres, aveva sposato in seconde nozze Ranieri di Donoratico figlio di Ugolino.

Alla morte del Giudice Costantino Salusio, nel 1162, era subentrato, nel giudicato cagliaritano il genero Pietro di Torres, unico sardo tra i suoi generi. Questi, però, accordatosi con i Visconti e i conti di Capraia occupò il Castello di Castro, come allora era denominata Cagliari, e esautorò Benedetta, relegandola nel castello di Santa Igia.

Il Comune pisano e i Della Gherardesca reagirono riconquistando Cagliari e insediarono nel giudicato Guglielmo di Massa figlio di Oberto marito di Giorgia.

Nel 1215 i Visconti che erano già giudici di Gallura volevano esserlo anche di Cagliari, dato che la figlia di Costantino Salusio, il cui nome, come si è detto è ignoto, dal marito Eldito Visconti aveva avuto Ubaldo e Lamberto.

Figlio di Ubaldo fu Giovanni, terzo giudice di Gallura, che da una figlia del conte Ugolino aveva avuto Ugolino, il Nino di Gallura menzionato da Dante che, a sua volta, dalla moglie Beatrice d’Este aveva avuto Giovanna quinto giudice di Gallura.

Figlio di Lamberto, primo giudice di Gallura e di Elena di Lacon, fu Ubaldo Visconti, secondo giudice di Gallura e primo marito di Adelasia di Torres.

Pur discendendo dallo stesso ceppo longobardo ogni rapporto di parentela tra i Della Gherardesca ed i Visconti era scomparso, come prescriveva la consuetudine longobarda sancita nell’Editto di Rotari, e gli interessi delle due famiglie erano in aperto conflitto, sia per quanto riguarda la gestione politica del Comune pisano, sia per gli interessi territoriali e commerciali in Sardegna. Inoltre, come nel resto dell’Italia si combatteva tra guelfi e ghibellini, anche in sardegna i Della Gherardesca erano ghibellini, mentre i Visconti erano guelfi.

Nel 1237, a seguito di una pace siglata tra i Della Gherardesca ed i Visconti, Ranieri Della Gherardesca concluse un accordo con Rodolfo di Capraia e tornò a Pisa diventando frate Domenicano.

Espulsi i Visconti da Pisa, i della Gherardesca ebbero campo libero nel Comune pisano.

Gherardo il Vecchio 10° conte Della Gherardesca, fu per mezzo secolo alla guida del Comune. indirizzandone la politica d’intesa con la famiglia imperiale degli Hohenstaufen.

Il conte Ugolino, reso famoso da Dante, pronipote diretto di quel Tedice 5°, marito di Preziosa di Lacon Serra, era, a sua volta, figlio di Guelfo e di Uguccionella degli Upezzinghi. Suo figlio Guelfo aveva sposato la figlia di Enzo di Svevia, re di Sardegna e di Adelasia di Torres Visconti giudicessa di Gallura.

Nel 1257 il Comune di Pisa, i Della Gherardesca ed i Visconti si trovarono uniti nella spedizione contro i genovesi in Sardegna, li sconfissero, conquistarono Cagliari e feceroo strage dei genovesi a Santa Igia.

Una volta sconfitti i Genovesi, il Comune di Pisa mantenne il controllo della città di Cagliari con il porto e la rocca di Castello lasciando il resto del giudicato ai Visconti, ai Capraia e ai Della Gherardesca.

Ai Della Gherardesca toccò un terzo del giudicato di Cagliari e specificamente: a Ugolino la Curadoria del Sigerro con la città di Villa di Chiesa, a Gherardo 10° le Curadorie di Nora, Nuraminis, Decimomannu, del Sulcis e buona parte del Campidano di Cagliari

Il dominio pisano durò fino al 1326, quando le forze pisane furono battute, nella battaglia di Lutocisterna, ad opera delle forze aragonesi e catalane.

E’ probabile che la venuta del conte Ugolino in Sardegna fosse stata organizzata dal Comune pisano per cercare di limitare i possibili conflitti di potere tra gli elementi più rappresentativi della prosapia dei Della Gherardesca. Però è anche possibile che la tragica fine del conte, insieme a parte della sua famiglia, sia dovuta al timore del Comune pisano, che Ugolino stesse preparandosi, con l’argento delle miniere di Villa di Chiesa ed il favore degli Hohenstaufen, la Signoria sul Comune.

Quali che siano state le ragioni della sua venuta, in Sardegna, il conte Ugolino trasformò l’agglomerato di case che originariamente costituiva Villa di Chiesa, in una vera città, cinta da una robusta cinta muraria con venti torri e quattro porte d’accesso. Per popolare la sua città il conte adottò una politica che secoli più tardi seguirono con successo Federico II di Prussia a Berlino, il Granduca Leopoldo di Lorena a Livorno e Benito Mussolini a Carbonia.

Ugolino accolse chiunque, di buona volontà, volesse trasferirsi per vivere e lavorare onestamente a Villa di Chiesa, anche se altrove aveva commesso azioni riprovevoli. La città, ammnistrata da un podestà, fu dotata di uno statuto comunale, il “Breve di Villa di Chiesa del Sigerro”.

Il conte Ugolino adottò nelle miniere, denominate “ Fosse” della nuova città, la tecnica mineraria tedesca che era stata felicemente collaudata nelle miniere della Maremma toscana, feudo dei Della Gherardesca, dove questi gestivano delle miniere. Questa tecnologia, è ampiamente descritta e regolamentata nel “Breve”.

Questo importante documento fu scoperto e pubblicato, nel 1870, dal conte Carlo Baudi di Vesme, uno dei primi Amministratori Delegati della Società d Monteponi.

Alcuni termini specifici della prassi mineraria contenuti nel “Breve”, tradotti ed interpretati, sulla base di importanti trattati storici di tecnica minero-metallurgica, quali il “De Re Metallica” di Georgius Agricola, pseudonimo di Georg Bauer (1548), il “Bergwörterbuch”(BWB) di H. Veith, ed il “Costituto di Massa”, furono pubblicati, dall’ingegnere minerario Eugenio Marchese, braccio destro del ministro Quintino Sella e fondatore dell’Istituto Minerario di Iglesias, nel primo Fascicolo, dell’Anno I (15 gennaio 1877) del periodico “Rivista Economica della Sardegna”.

Di questi termini riportiamo i più significativi:

Scionfa: Vasca, Bacino di deposito delle acque “…l’infima cavità nella quale vanno a raccogliersi le acque di una miniera che poi vengono estratte al giorno…”. Dal tedesco “Sumpf”, “…vasca o bacino di deposito nel quale si raccoglie la vena minutissima trascinata dalle acque” (Agricola – De Re Metallica).

Scionfare: Esaurire le acque di miniera. Dal tedesco “Sümpfen”. “…Das Sümpfen der Wasser mittels einer Handpumpe und grosser Kübel… Die zuflüsse nahmen… rasch zu und konnten…nicht mehr gesümpft werden” (BWB – H.Veith).

Stonfo o Stonfa: “…Per ciascuna “Stonfa” soldi due…si veramente che non passi “Stonfi” due..(Breve di Villa di Chiesa). Deriva probabilmente da “Stufe o Stuffe” segno inciso nella pietra dai “rilevatori dei piani, o misuratori, o Cordeggiatori”, secondo il Breve.

“Stuffe: ein Zeichnen in Gestein… Eine Stuffe Schlagen” “Signo in saxum inciso pangere terminos” (Agricola – De Re Metallica).

Gottare: Dal tedesco “Kutten o Gutten”, che significa scavare nelle discariche per estrarne il minerale che vi si possa ancora trovare fra lo sterile. “Kutten, anche Khutten – “Die Halden umgraben um das noch darin vorhandene Erz auslesen” (Scavare i rigetti per recuperarne il minerale presente – BWB).

Dorgomena: Galleria di traverso. Deriva, probabilmente dal tedesco “Durchgraben oppure Durchkommen o ancora Durchgehen che significa: Attraversare.

Cantina: Galleria di preparazione. Probabilmente dal tedesco “Kasten”, La“Fossa latens” di Agricola.

Guindo: “…Lavoro sotterraneo di preparazione che si spicca da un bottino o canale per procedere in direzione differente…”, “…Si contingerit dictum boctinum mictere guindonem vel anteguinduum eo quod non posset varcare per rectum viagium…”. Potrebbe corrispondere al “ Fornello o anche alla Discenderia, ma anche dal tedesco “Windloch” che significa “Comunicazione di aeraggio”; “… Die Wint oder Licht Löcher…”.

Bolga: “…Sacco in pelle per l’estrazione al giorno del monte scavato o dell’acqua dall’interno della fossa…”. Dal tedesco “Bulge”; …Utres, bulge – auch liderne sack… (Agricola). “Terra autem et saxa et res metallicae aliaq fossiles ligone cavata vel ferramentis excisa in vasis aut corbibus aut saccis e puteis extrahuntur – Quaedam aquarum plena machinis extrahuntur, ut moduli et bulge. Alia sunt lignea, sicuti stulae et moduli, alia scortea, veluti bulge…” (Agricola).

Bulgajolo: “.. Operaio addetto al trasporto della bulga dall’interno della miniera al giorno e sino alla località dove trovavan scolo le acque della fossa, a seconda che era impiegato al trasporto della vena o all’esaurimento dell’acqua…”.

Fancello di truogora: “… Cernitore del minerale estratto dalla “fossa”. Il Fancello di truogora lavorava alla bocca della “fossa”; non era pertanto un lavatore di vena, giacché la vena in generale non si lavava alla bocca della “fossa” ma bensì lungo i torrenti, come Canadonica, nelle apposite “piazze”, come è indicato nel Breve.

Per questa separazione, o cernita, il “fancello” era provvisto di recipienti di legno per le diverse qualità della vena come si pratica ancora oggigiorno per mezzo delle “Gavette o Coffe”.

Questo recipiente in tedesco si chiama “Trog”…”. “…res metallicae…cisiis vel capsis patent exehuntur e cunicolis – et utrisq. alveis efferuntur…” ; “…Alveus major – bergtrog; alveus minor – ertztrog …” (Agricola). “…Nun Will ich reden von Trögen in Welche die Erdschollen, Gestein, Metall und andere ding, die mann auss der Erde hauet, geworffen werden – Der Trog aus holz ist flach muldenförmig, mit Eisenbändern beschlagen und mit Handgriffen versehen oder hat Hölungen an den Seiten zum anfassen…” (BWB).

Lavoratori di truogora, et tulani, et modulatori: Probabilmente i primi sono gli artigiani che fabbricavano gli attrezzi e gli utensili necessari alle escavazioni minerarie. Della “Truogora” si è già detto, mentre il “Modulus”doveva essere la “Benna o Mastello” corrispondente alla “Bulga” già descritta, pertanto i “Modulatori” dovevano essere gli artigiani che fabbricavano tale attrezzo. Nulla si sa sui “Tulani”.

Giletta, Gheletta: E’ il litargirio, dal tedesco “Glaette”. “…Bey Freiberg erhält man aus 100 Theilen “Glatte” 80 bis 82 Theile Blei…” (Wörterbuch der Hüttnkunde, di Lampadius).

Ceneraccio: E’ il materiale costituente la Coppella, che serviva per la separazione dell’argento dal piombo (Coppellazione), costruita, appunto, con una opportuna miscela di argilla e polvere di ossa calcinate. “Ipse vero catinus conficitur ex pulvere terreno et “cinere” (Agricola).

Guscierno di fossa: Gli strumenti necessari al lavoro nella “Fossa”, probabilmente dal tedesco “Gezeug o Gezahe” “…Zachen -Vorrath von allerley Eisen und Hand – Gezeug… Gezahe sind alle instrumente, so die Bergleute zu Gewinnung der Gänge…gebrauchen…” (BWB).

Bellifanna: Miscela ossidata di piombo argentifero prodotto dai “Guelchi” nei forni di arrostimento della galena che poi viene “Smirata” nella Coppella per estrarne l’argento. Deriva dai termini tedeschi “Blei”, Piombo e “Pfanne”, Catino.”Pfanne= Catinus aeneus; Pfenlein = Catillus” (Agricola). “…tracto ad fine l’ariento lo possa levare de la bellifamma…” (Breve).

Bistante: Fornitore di fondi pei lavori della fossa deriva dal termine tedesco “Besteller”:”…Procuratores parciumsunt habentes plenum manatum omnia faciendi de partibus, Sed sunt Procuratores tantunmodo expensarum qui vulgariter “Bestelter” dicuntur…” (Breve)

Guelco: Mastro fonditore, forse dal tedesco “Walke”.

Trente: Azioni o titoli di possesso di una Fossa. termine che deriva probabilmente dat verbo tedesco “Trennen” (Separare), Avrebbe il significato di Parte, Partecipazione, Concetto differente dal termine “Teil” (Parte).

Il Breve di Villa di Chiesa venne utilizzato anche dopo la conquista aragonese-catalana del 1324, e a Iglesias, dove sotto i conti della Gherardesca venivano coniati gli “Aquilini” pisani, sotto il re Alfonso d’Aragona vennero coniati gli “Alfonsini” catalano-aragonesi.

Dopo la scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colombo, e la successiva scoperta delle risorse minerarie del “Nuovo Mondo” da parte dei Conquistadores spagnoli, l’industria mineraria sarda languì fino ad estinguersi quasi del tutto. Rimasero solo alcuni ricercatori minerari e fonditori in proprio, autorizzati o meno a svolgere quella attività.

Si riportano qui di seguito alcune autorizzazioni minerarie relative al territorio di Iglesias nel corso del tempo, pubblicate dall’ingegnere minerario Francesco Mameli (fratello di Giorgio, padre di Goffredo), primo Ingegnere Capo del Corpo delle Miniere nell’Isola, nei fascicoli IV, V, VI e VII della “Rivista Economica della Sardegna”, Anno I, 1877:

1)- Nel 1326 il re Giacomo d’Aragona, dopo aver tolto il “Regnum Sardiniae” al dominio del Comune di Pisa, rinnovò la concessione di alcune terre situate nella Curadoria del Sigerro (già feudo del conte Ugolino) al conte Bonifacio, figlio di Gherardo e a Tommaso, Gaddo e Barnaba, figli di Ranieri di Donoratico della Gherardesca (del ramo della famiglia che si era asservito ai catalano-aragonesi), ad esclusione delle miniere d’argento che erano riservate al Regio Demanio.

2)- Nel 1420 venne accordata a Michele Coxo la protezione Regia affinché lui, la sua famiglia e i suoi dipendenti non fossero disturbati nell’escavazione di minere nel territorio di Iglesias.

3)- Nel 1472 viene stipulata una convenzione tra il Regio Patrimonio ed alcuni genovesi per scavare miniere nel territorio di Iglesias.

4)- Nel 1491 viene concesso un permesso di scavar miniere in Villa Iglesias dietro pagamento, al Regio Patrimonio, dell’undecima parte del prodotto.

5)- Nel 1507 viene concessa licenza, a un mercante di Cagliari di estrarre Gallanza (Galena), mediante pagamento di due soldi per cantaro (circa 40 Kg.), alla Regia Cassa.

6)- Sempre nel 1507 viene permesso a Giovanni Francesco Napoletano, per tutta la sua vita, di fondere minerale a Iglesias e specificatamente nella miniera di Monte Fèmego, dietro pagamento dell’undecima parte del prodotto alla Regia Cassa.

7)- Nel 1514 viene permesso a Carlo Martino di scavare miniere d’ogni tipo nelle montagne di Iglesias, dietro pagamento dell’undecima parte del prodotto alla Regia Cassa.

8)- Nel 1528, in considerazione delle gravi spese sostenute da Lorenzo Maça per la costruzione del forno e per la provvista di legna, viene prolungata a tre anni la sua concessione per scavare miniere nei territori di Iglesias

9)- Nel 1550 viene concesso a Giacomo Martì il possesso delle miniere di San Giovanni, nel territorio di Iglesias.

10)- Nel 1622 viene concesso a Michele Blanquet di scavare miniere nelle montagne di Iglesias pagando il 10% del prodotto al Regio Patrimonio.

11)- Nel 1625 la Giunta Patrimoniale concede a Martino Esquirro il permesso per scavare, in qualunque parte del Regno, miniere di Stagno,Piombo, Rame,, Pietre rosse,e simili, e di costruire mulini, acquedotti, case, edifici, e di tagliar legna, pagando al Regio Patrimonio il 5% del prodotto.

12)- Nel 1627 viene data licenza a Giuliano Passiu di scavare una miniera di Galanza in località Corona de Mengas, nel territorio di Iglesias.

13)- Nel 1627 Il Procuratore Reale ordina ai Ministri di Giustizia di Villa Iglesias, di vietare a chiunque di lavorare nelle miniere, ad eccezione degli operai di Giacomo Esquirro, al quale è stata concessa la privativa trentennale nel 1626.

14)- Nel 1628 viene effettuato un sopralluogo nella fonderia di piombo di Mala Ropa a Nebida, in territorio di Iglesias.

15)- Nel 1628 viene denunciata al Regio Patrimonio una miniera in Sa Sedda de Monte Luponi (Monteponi?) nel territorio di Iglesias.

16)- Nel 1628 il Procuratore Reale proibisce a chiunque di Iglesias discavare miniere o vendere Galanza, perché le miniere sono riservate, per Carta Reale del re Filippo IV di Spagna, al Regio Patrimonio. E ciò per gli abusi che taluni iglesienti facevano scavando miniere violando le disposizioni Regie.

17)- Nel 1628 viene formalmente vietato a Nicola Labro di scavare miniere dovunque, ed in particolare nel territorio di Iglesias, visto che il Sovrano ne ha concesso la privativa, per tutto il Regno, a Giacomo Squirro, ed in particolare per le miniere di Galanza che coltivava a Iglesias e a Arbus.

18)- Nel 1629 viene proibito a chiunque di Iglesias di scavare miniere di Galanza e piombo, o commerciarne i prodotti, senza il permesso di Giacomo Esquirro che ne ha la concessione Regia, ad eccezione delle miniere d’oro e d’argento.

Si precisa che il termine sardo “Galanza” deriva dal termine tedesco “Blei Glanz” che si riferisce all’ingobbio delle ceramiche ottenuto spalmando, sui manufatti d’argilla crudi, una sospensione acquosa di galena finemente macinata che, in cottura a 800-900C° forma dei silicati di piombo bassofondenti, che invitriano il manufatto ceramico. L’eventuale presenza di pirite nella Galena, durante la cottura e la formazione dei silicati di piombo, impartisce all’ingobbio, in ambiente riducente una colorazione verdastra, e in quello ossidante una colorazione giallastra.

19)- Nel 1632 Filippo Duch, Amministratore delle concessioni minerarie in privativa Regia, presenta un esposto contro Gerolamo Palma che coltivava miniere di Galanza a Iglesias.

20)- Nel 1632 viene formalizzato il divieto, a chiunque di Iglesias, di estrarre Galanza senza il permesso di Filippo Duch.

21)- Nel 1637 viene denunciata la miniera di Galanza di Su Isperru de S’Arcu, nel territorio di Iglesias.

22)- Nel 1638 viene denunciata la miniera di Galanza de Monte Poni nel territorio di Iglesias.

23)- Nel 1638 viene denunziata la miniera di Sa Sedda de Monte Poni.

24)- Nel 1639 viene concessa licenza per scavare una miniera in località Palmaris, dietro pagamento, alla Regia Cassa, di sei soldi e 8 denari in una unica soluzione.

25)- Ancora nel 1639 viene concessa, a Salvatore Bianco, una licenza per scavare una miniera in località Su Mori de Marini.

26)- Sempre nel 1639 viene concessa a Giuliano Pisano una licenza per scavare una miniera a Monte Poni, dietro pagamento, alla regia Cassa, di 6 soldi e 8 denari.

27)- Nel 1639, viene concessa, a N. Carta, una licenza per scavare una miniera di Galanza, sempre a Monte Poni.

28)- Nel 1640 viene pubblicato, a Iglesias, un Pregone che impone ai minatori che escavano Galanza, di render conto, al Regio Patrimonio, della loro produzione quotidiana.

29)- Nel 1640 viene permesso, specificando i loro obblighi, a due cittadini iglesienti, di scavare Galanza in una miniera di Monte Poni.

30)- Nel 1643 la vedova di Giacomo Esquirro, in qualità di erede del Concessionario, chiede il sequestro di tutta la produzione mineraria, fino a che non siano resi, dall’Amministratore del Concessionario, i conti relativi al diritto del 5% dovuto al Regio Patrimonio.

31)- Esiste un libro nel quale sono annotate le partite di Galanza consegnate all’Amministratore del Regio Patrimonio di Iglesias, don Luigi De Spinoso, dal 1629

al 1644, dal quale risultano 17.762 cantara di Galanza, che in considerazione della percentuale del 5%, dovuta al Fisco, corrisponderebbero a 88.810 cantara, estratte in quindici anni, pari a una produzione di circa 6.000 cantara all’anno.

32)- Nel 1647 il Procuratore Reale concede, a Nicolò Perella, tutte le miniere di Galanza di Iglesias e quelle di tutto il Regno, che gli erano già state concesse con Diploma Regio del 1642, per 40 anni, dietro pagamento, al Regio Patrimonio, del 5% dl prodotto.

33)- 1649 Il Procuratore Regio Castelvì concede varie provvidenze per incrementare le miniere di Iglesias e ovviare agli abusi nella consegna delle partite di Galanza dovute.

34)- Nel 1649 Antonio Porcu viene rimesso in possesso delle miniere di Galanza di Monte Poni, in territorio di Iglesias.

35)- Negli anni 1691-92 viene concesso a don Michele Olives e suoi eredi, di ricercare, scavare e lavorare, in qualsiasi parte del Regno di Sardegna, miniere di piombo, rame, stagno, pietre rosse, cerulee e simili per 40 anni come era stato concesso, a suo tempo, a Bernardo Tolo e Nicolò Nurro, sempre dietro pagamento, Alla Regia Cassa, del 5% del prodotto. L’Olives dovrà produrre una garanzia di 10.000 scudi; pertanto il Procuratore Regio Rogger dà disposizioni per eliminare le vendite clandestine di Galanza fatte in pregiudizio del Concessionario Olives.

36) Nel 1704 il negoziante di Cagliari Stefano Durante esporta da Cagliari Galanza e Antimonio.

37) 1711 Il Regio Patrimonio deputa una persona che controlli le escavazioni minerarie fatte per conto del Concessionario Stefano Durante.

38) 1721 Don Pietro Nieddu e Stefano Durante ottengono, per 20 anni, la concessione generale di tutte le miniere della Sardegna, ad eccezione dell’oro e dell’argento, dietro pagamento, alla Cassa delle Finanze, del 6% dei prodotti, in contante o in prodotto minerario.

39)- 1740 Poichè la concessione Nieddu Durante non aveva portato frutti di gran rilievo ed era prossima alla sua scadenza, l’Intendenza Generale del Regno di Sardegna, ormai sotto lo scettro di Casa Savoia, diede la concessione mineraria a una società costituita dall’ingegnere minerario Carlo Gustavo Mandell, console di Svezia a Cagliari e dai suoi soci, l’inglese Carl Brander e il barone tedesco Karl von Holtzendorff.

A quel tempo tra il Regno di Svezia e quello di Sardegna si erano instaurati importanti rapporti commerciali. Infatti La Svezia forniva, al Regno di Sardegna manufatti di ferro, ed in particolare cannoni, in cambio di sale marino. L’acciaio svedese era rinomato per cui, stante la grande produzione di sale delle saline sarde, il cambio era, per il Regno di Sardegna, molto vantaggioso.

Il Console di Svezia era, pertanto, in una posizione di prestigio.

La Concessione avrebbe dovuto avere una durata di 30 anni e serebbe stata esclusiva, sia per la coltivazione di tutte le miniere dell’Isola, per la fusione dei minerali e l’esportazione dei metalli risultanti, con l’obblgo di conferire all’Azienda delle Finanze il 10% della Galanza scavata, che non doveva essere meno di 51.000 cantara l’anno, valutata 4 lire la cantara. Per i primi 4 anni, i Concessionari avrebbero dovuto pagare solo il 2% dei minerali estratti e/o esportati, nei 6 anni successivi il 5%, e nei 20 anni la 20.sima parte di tutti i minerali tranne l’oro e l’argento, alla 10.ma parte, lo stagno e il rame alla 15.ma parte e tutti gli altri minerali e metalli alla 20.ma parte. I Concessionari avrebbero potuto servirsi gratuitamente della legna nei boschi demaniali, ma non di piante d’alto fusto, nei boschi comunali a pagamento; i Comuni, dal canto loro, avrebbero dovuto fornire, a pagamento, uomini e carri, fuorchè nel periodo della semina e del raccolto.

Avndo i precedenti Concessionari Nieddu e Durante fatto opposizione, si addivenne ad un accordo, permettendo a questi di continuare le escavazioni della Galanza nel solo territorio di Arbus, fino al mese di maggio del 1741, dopodiché quelle miniere sarebbero state a disposizione della Concessione Mandell. In Sardegna non esisteva no Minatori, essendo ormai svanito il ricordo dell’attvità mineraria del periodo di Ugolino della Gherardesca.

In queste condizioni la Reale Compagnia delle Miniere, come si chiamava la Concessione Mandell, si vide costretta ad importare dalla Germania la forza lavoro. Grazie all’intervento di Christian Bösen, un tedesco dell’Hildescheim, nell’Arz, che fu nominato direttore della fonderia, vennero nell’Isola, dalla Bassa Sassonia, 47 persone pratiche di fonderia, 92 minatori ed altre 50 persone, rispettivamente fabbri, falegnami, boscaioli, carbonai, arruolati da un figlio dello stesso Bösen, dato che, a quel tempo nell’Isola, quelle professioni quasi non esistevano. Il figlio ultimogenito del Bösen, Karl , venne con le mansioni di “Assaggiatore”.

La stessa scelta del luogo dove realizzare la fonderia fu errata, forse le informazioni fornite sulla salubrità del luogo, sul regime e sulla portata del Rio Leni erano state dolosamente presentate favorevoli.

Sta di fatto che gli edifici della Fonderia furono costruiti, nel 1742, in zona malarica, il flusso delle acque del Rio Leni risultò prettamente torrentizio e periodico, le foreste alquanto spoglie, e gli abitanti del vicino paese di Villacidro inospitali e xenfobi.

I guai del Concessionario incominciarono subito. Già nel 1743 egli stesso aveva segnalato all’Intendenza Generale la morte per Intemperie, come era denominata a quel tempo la malaria, di una cinquantina di lavoranti tedeschi, per cui aveva dovuto sostituirli, almeno per le mansioni meno specialistiche, con 30 operai sardi.

La conseguenza della mancanza di personale esperto fu tale che, dovettero venir promossi fonditori, anche lavoranti, i cosidetti “Levacraccia” addetti esclusivamente all’asportazione dai forni, con lunghi rastrelli o marre, delle scorie dalla superficie del metallo fuso.

Stante, inoltre, la mancanza di persone esperte nella costruzione e gestione dei forni, quelli costruiti o modificati dai sardi sul modello di quelli tradizionali casalinghi, ridussero di molto la produttività, per l’elevato consumo di combustibile, e per le incrostazioni delle canne fumarie degli stessi che ne ostacolavano la corretta marcia, inconvenienti aggravati anche dalla scarsa volontà di apprendere di gran parte del personale isolano addetto.

Infatti la trasformazione del sardo da pastore transumante o contadino, in minatore o operaio metallurgico fu prevalentemente dovuta alle frequenti annate di siccità e di carestia, quando il sardo si rese conto che con un lavoro di pochi mesi, anche se più duro di quello abituale, avrebbe potuto guadagnare di più.

Stanti le condizioni ambientali della zona. nella fonderia si poteva lavoravre solo in inverno e nei primi mesi di primavera o negli ultimi dell’autunno e i sardi erano più resistenti alla malaria.

Poiché gli operai tedeschi venivano pagati il sabato, essi erano frequentemente vittime di grassazioni da parte degli abitanti della zona, per cui la direzione della fonderia si vide costretta ad effettuare i pagamenti a Cagliari.

I carradori che portavano il minerale dalle miniere alla fonderia, dato che il minerale veniva pagato a peso, miscelavano fraudolentemente lo sterile al minerale per farne aumentare il peso.

L’economo Jean Delahaye che, scoperta la frode, ne aveva declassato alcuni carichi riducendone il prezzo, fu sgozzato da qualcuno di loro, senza che si fosse potuto conoscerne l’autore.

Un caposquadra tedesco, forse ritenuto troppo esigente, fu fatto a pezzi dall’esplosione di una carica di polvere alla quale era stato legato.

Una intera squadra di lavoranti tedeschi, che dormiva tranquilla in una baracca di legno, forse in preda ai fumi del generoso vino della zona, fu arsa viva nell’incendio doloso della stessa, ad opera di ignoti.

Per risparmiare, la direzione della fonderia cambiò lo status dei minatori, da dipendenti diretti a subconcessionari che operavano come imprenditori autonomi, seppur rimborsati delle spese vive.

Essi però operando senza alcun controllo si rubavano reciprocamente, gli attrezzi di lavoro, e perfino il prodotto dello scavo.

La stessa situazione finanziaria della Karl’s Hütte (Fonderia di Carlo dai nomi dei tre soci Mandell, Brander e von Höltzendorff) precipitò. Uno dopo l’altro i soci finanziatori, Brander e von Höltzendoff abbandonarono l’intrapresa.

Mandel, cercando di rimediare, associò alla sua impresa due finanziatori ebrei, l’inglese Isacco Net e il suo nipote napoletano Isacco Lopez Pinchiero.

Pur vigendo, a quel tempo nel Regno di Sardegna, alcune norme che, improntate formalmente all’ortodossia cattolica, escludevano gli Ebrei da tutti gli Uffici e Istituzioni, in vista dei vantaggi economici derivanti alla Compagnia delle Miniere da questo nuovo apporto finanziario, l’Intendenza Generale, adottando la famosa politica di Vespasiano, del: “Pecunia non olet!”, accettò, pur con qualche restrizione, i nuovi ifinanziatori ebrei. Le restrizioni si limitavano a imporre, a questi, il rispetto delle festività cattoliche, di celebrare in modo riservato quelle ebraiche e di servirsi esclusivamente di servitori correligionari. Giunsero pertanto dalla Penisola, Jacob Meyer e Angelo Pisa.

I subconcessionari minatori, ben presto accusarono il Mandell di pagare poco il minerale, che lui pagava ad un prezzo variabile tra 6 e 16 reali la cantara (di 140 libbre). Nel prezzo, che veniva praticato qualsiasi fosse la distanza della miniera dalla fonderia, era compreso anche quello del contenitore (Coffa).

Sul mercato interno la Galanza impiegata per l’ingobbio delle ceramiche veniva pagata, a Oristano 22 reali e mezzo, a Decimo 30 reali, ed a San Gavino 32 reali la cantara (di 135 libbre) (a quel tempo la unità di peso, in Sardegna, differivano da paese a paese).

Nello stesso periodo nei vari porti dell’Europa la Galanza veniva pagata anche 35 reali la cantara (di 125 libbre).

Nel 1746, anche Isacco Net si eclissò, e nel 1748, a seguito di screzi con i finanziatori ebrei anche il Bösen se ne tornò in Germania.

Nel 1752 l’Intendenza Generale sospettò che il Mandell esportasse del piombo non disargentato, frodando il Regio Fisco; alcune analisi effettuate, all’insaputa dello stesso Mandell su campioni di piombo che stavano per essere esportati, parvero suffragare il sospetto.

L’Intendenza Generale contestò allora al Mandell il mancato pagamento dei diritti fiscali sull’argento contenuto nel piombo d’opera esportato, e il fatto che era stata trattata una quantità di galena inferiore alle 5.000 cantara annue prevista dal contratto di Concessione, e infine il mancato rendiconto dell’intera attività della stessa. La maggior parte delle accuse era pretestusa, tuttavia alcune omissioni, da parte del Mandell potevano giustificarne qualcuna. Aveva probabilmente giocato a sfavore del Mandell un suo precedente intervento a favore di un comandante di nave svedese che aveva avuto un contrasto con l’Intendenza Generale a proposito di un carico di salmarino.

Respingendo le controdeduzioni a sua difesa, l’intendenza Generale si accinse a dichiarare decaduta la Concessione.

Stante l’importante carica del Mandell, che era Console di Svezia, un provvedimento così grave avrebbe sicuramente influito negativamente suii buoni rapporti commerciali con quel Regno.

L’Establishment Sabaudo (il ministro Giovanbattista Bogino di Migliandolo e l’Ispettore Generale delle Miniere del Regno di Sardegna, Spirito Benedetto Nicolis di Robilant), inviò pertanto a Cagliari, per controllare, con molto tatto e diplomazia, la Concessione Mandell, il sottotenente d’Artiglieria Gio Stefano Ponzio che, dopo aver soggiornato, come Cadetto, per tre anni, con altri tre colleghi e il di Robilant a Freiberg per impratichirsi della tecnica minero-metalllurgica tedesca, insegnava nelle Scuole Teoriche d’Arrtiglieria e Genio all’Accademia Militare di Torino.

Il Ponzio installò a Cagliari, in prossimità della Torre di San Pancrazio un laboratorio chimico docimastico e ispezionò tutti i filoni metalliferi in coltivazione facendone relazione al Robilant. Nella sua relazione segnalò che il Mandell pagava ai subconcessionari la “Galanza compatta” a 6 reali (2,5 Lire) la cantara (di 135 libbre) e la “Minudiglia” pulita, 1 Lira e 16 soldi. Il trasporto era pagato 8 soldi, a prescindere dalla distanza, per cui, a seconda del filone coltivato essi potevano correre il rischio di aver lavorato per niente.

Nel 1748 filoni coltivati erano: a Matopa ad opera di Pedro Diana di Iglesias; a Monteponi ad opera del tedesco Salomon Heber; a Grugua ad opera di Antonio Melis Angius di Iglesias; a Montevecchio ad opera di Ignazio Serpi e di Sisinnio Espis entrambidi Guspini; a San Pietro di Gasarchu ad opera di Antonio Garau di Arbus; a Gasarchu ad opera di Antiogo Mely e di Juan Maria Aru entrambi di Arbus; a Su Ingurtosu ad opera di Antonio Gadeo, di Juliano Concas e di Francisco Zedda di Arbus; a Jennamari ad opera di Joseph Puddu e Francisco Corda; a Riu Mannu ad opera di Georges Montis e di Ignazio Serpi; a Sa Tella ad opera di Salvador Manes; a Su Padenti de Etey ad opera di Bartolomeo Zucca; e a Sa Tella e Riu Mannu ad opera di Pedro Vacca di Arbus.

Nel 1750 lavoravano: a Santa Lucia il tedesco Michel Zotter; a su Gurtosu Juan Maria, e Juan Aru; a Su Purgatoriu Sebastian Marrocu; a Gasarchu Juan Gadeu, e Juan Antonio Armas; a Jennamari Joseph Puddu e Sebastiano Marrocu; a Su Gurtosu, Sa Tella, e Gasarchu, Francisco Garau; a Riu Mannu Georges Montis.

Negli anni 1757-58 erano in coltivazione filoni: a Su Gurtosu ad opera di Francisco Antonio Lampis, Gioanni Arro, Sebastian Marocco, Pedro Caddeo, Antonio Puzzolo, Gioan Antonio Corda, Pitani Arro, e Nicolas Fanari, tutti di Arbus; a Genna Mari ad opera di Simone Corda e Josepho Puddo di Arbus; a Montevecchio ad opera di Antiogo Angel Canchella di Arbus, e di Antiogo Puzzo, Ignazio Agus e Antiogo Manis tutti e tre di Guspini; a Sa Tela ad opera di Francesco Serpis e Pedro Serchis di Guspini.

Nel 1759 il Mandell morì, probabilmente anche lui di Intemperie nominando come suo erede universale il nipote Carlo Bank , residente a Londra, e come esecutore testamentario l’avvocato Antonio Vincenzo Mameli d’Olmedilla, Regio Avvocato Fiscale, uomo di specchiata integrità morale e di grandi doti organizzative.

Costui, padre dell’avvocato Giovanni Maria Mameli, marito della nobile Peppica Corrias di Iglesias, e del Capitano di Marina Raimondo Mameli, padre di Giorgio e q nonno di Goffredo Mameli, Gestì con competenza e capacità, e a totali sue spese, per circa due anni, la fonderia, nelle more della sentenza che avrebbe decretato la decadenza della Concessione Mandell.

Essendo morto, forse per la Malaria, solo dopo sei mesi dal suo arrivo in Sardegna il Ponzio, fu inviato nell’Isola, a sostituirlo il savoiardo Pietro Belly, anche lui sttotenente d’Artiglieria, che aveva frequentato, come allievo del Ponzio, il Corso di Studi Metallurgici nelle Scuole Teoriche d’Artiglieria e Genio di Torino.

L’arrivo in Sardegna del Belly coincise con l’emissione della sentenza d’annullamento della concessine Mandell, per cui al Belly toccò l’ingrato incarico di gestire l’intrapresa per conto dell’Intendenza Generale.

Quando, a questo punto, l’avvocato Antonio Vincenzo Mameli, chiese all’Intendenza Generale la restituzione delle somme che aveva anticipato di tasca propria per la gestione interinale della Fonderia, ricevette un rifiuto categorico.

Dal canto suo il Fisco sabaudo si appropriò di tutti i beni della Società, sequestrando anche quelli degli eredi; pertanto il luogotenente Pietro Belly dovette sciropparsi l’onere della gestione della fonderia. Egli dovette affrontare gli stessi problemi del Mandell, con la differenza che avrebbe dovuto risponderne all’Intendenza Generale del Regno.

Questa, che precedentemente aveva considerato, il basso prezzo pagato ai fornitori di Galanza, una colpa da imputare al Mandell, lo considerò ora una strategia accorta da lodare nel Belly.

Nel 1760 il Belly inviò al di Robilant una relazione particolareggiata della fonderia con tutte le attrezzature, segnalandone lo stato precario.. La marcia de forni risentiva delle variate dimesioni degli stess, il che causava dispersine di calore e perdita di piombo e argento nei fumi, le coppelle, mal formulate si spaccavano con conseguente perdita di argento. Le ruote idrauliche erano in pessime condizioni ed i mantici poco efficienti.

Pur in queste condizioni il Belly riuscì a mantenere in attività la fonderia. Senza finanziamenti, infatti l’Intendenza Generale era più propensa a ricevere redditi piuttosto che accollarsi spese, e con la macchine che risalivano alla gestione Mandell, la situìuazione divenne precaria; le risorse di combustibile della zona erano praticamente esaurite, i preventivi per le riparazioni dei forni, troppo elevati, non furono accolti.

Pur pagando il minerale, la legna ed il carbone al prezzo di vent’anni prima, fu chiaro che non era più economicamente possibile continuare l’attività della fonderia. Per ovviare al costo della manodopera si pensò anche di utilizzare i forzati, ma un più attento esame del progetto ne fece scartare l’adozione.

Questi fattori, insieme alla scoperta di nuovi giacimenti nel territorio di Iglesias confermarono l’esigenza di realizzare una nuova fonderia a Domusnovas.

A differnza del suo predecessore Ponzio, Pietro Belly fece carriera; giunse infatti al grado di luogotenente colonnello di Fanteria, divenne membro della prestigiosa Accademia delle Scienze di Torino e nel 1788 fu nominato Ispettore Superiore delle Miniere di Iglesias.

Morì sessantenne a Torino nel luglio 1791, era infatti nato nel 1731.

In considerazione dei suoi meriti, e del fatto che lasciava la moglie donna Cristina in condizioni disagiate, Vittorio Amedeo III assegnò alla vedova una pensione annua di 200 lire di Piemonte.

La fonderia di Villacidro cessò l’attività nel 1798.

Come in molte reazioni biologiche per la quali è necessario un certo periodo di tempo perché si completino, così anche le vicissitudini della fonderia di Villacidro, passate attraverso le esperienze di Mandell, Ponzio, Mameli e Belly, possono venir considerate come il “Periodo d’Induzione” dell’attività minero-metallurgica sarda, che, dalla seconda metà dell’800 ai primi decenni del ‘900, assurse ad importanza mondiale, per poi cadere, ai nostri giorni, ineluttabilmente in basso.

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