Categoria : pedagogia

Un catalogo degli asili in Sardegna tra Otto e Novecento di Viviana Onida

Un’indagine, una ricerca, in qualsiasi campo di studio sia svolta, per essere un buon lavoro necessita dell’utilizzo di un ampio repertorio di strumenti. E’, infatti, solo mettendo assieme molti studi, disponendo di un’ampia articolazione di tecniche per la rilevazione dei dati che si hanno quelle possibilità di combinazione d’informazioni che consentono allo studioso di formulare le sue ipotesi generali sul “problema”.

Il termine strumento, nel suo significato più ampio, indica quello “oggetto” che permette la realizzazione di un lavoro specifico, che aiuta nell’esercizio di un’arte, di un mestiere e simili. All’interno del lavoro intellettuale, questi supporti operativi sono costituiti dalle fonti documentarie e dalle varie modalità di rilevazione empirica dei dati.

 Le prime, le fonti, sono sempre basilari in un lavoro di ricerca; lo studioso non può prescindere dall’analizzare il cosiddetto “materiale esistente” prodotto da altri in quanto, com’evidenzia Charles Wright Mills, è solo con l’aiuto di tale materiale che si può raggiungere una prima conoscenza dell’“evento” e fare il primo abbozzo di teoria. Inoltre, qualsiasi enunciazione finale dovrà “coprire” sia i dati, per quanto disponibili e noti al ricercatore, sia tenere conto delle teorie esistenti, in senso positivo o negativo.

Tutto ciò diventa ancor più necessario quando l’indagine riguarda il passato, un tema o un oggetto non più rintracciabile nel tempo attuale; le fonti documentarie sono allora l’unica possibilità d’informazione, l’unico strumento di ricerca possibile.

In questo senso è da considerare l’impegno di quest mia ricerca: un catalogo, un repertorio degli asili infantili in Sardegna fondati tra l’Otto ed il Novecento, inserito nel filone di ricerca promosso dall’insegnamento di “Storia della scuola e delle istituzioni educative” tenuto da Angelino Tedde.

 Sotto la sua guida, numerose laureande hanno fatto emergere, con i loro studi, quella che era la condizione dell’infanzia sarda nella storia e la rete assistenziale-educativa che, tra Otto e Novecento, si sviluppò in suo soccorso soprattutto per opera della Chiesa, delle Congregazioni religiose e di un gran numero di benefattori e filantropi.

 Si è così voluto rispondere, in maniera sempre più approfondita, all’esigenza di far luce su una realtà, quale quella sarda, che per ragioni storico-geografiche, presenta una sua specificità anche sotto il profilo della storia infantile e della sua educazione.

Come sostiene F. Cambi sono storie da costruire caso per caso, area per area, momento per momento poiché l’oggetto della storia dell’infanzia è un prodotto storico ed è silenzioso, “muto” egli dice, giacché di esso sono gli adulti a parlare, quindi è memorizzato in una coscienza ed “interpretato” dalla cultura, dalla categoria.

Per tali motivi, nel suo studio è necessario un corpus assai ampio di testimonianze e di documenti da mettere insieme, incrociare ed incrementare il più possibile, soprattutto all’interno dell’attuale clima culturale in cui anche la storia ha perduto le sue tradizionali certezze per divenire più “umana”, de-centrata, pluralistica e relativistica.

In quest’ottica si colloca anche il mio lavoro, nell’esigenza di un ampliamento delle fonti e dei materiali documentari sui quali poter fondare ulteriori indagini e nella produzione e sfruttamento organico e sistematico di dati solo parzialmente rilevati o non completamente utilizzati.

Per la riuscita di questo lavoro conclusivo del mio percorso universitario, un grand’aiuto è stato trovato nella disponibilità del docente e delle tante religiose che hanno risposto alle mie richieste d’informazioni con molta cortesia. Un ringraziamento particolare è rivolto a Suor Giuseppina Mocci, Figlia della Carità, che da Cagliari ha cercato personalmente per me fondamentali dati archivistici giunti sempre accompagnati da affettuosi incoraggiamenti ed auguri.

 I.  Perché un catalogo degli asili

1.1        Il mondo dell’infanzia in Sardegna tra Otto e Novecento

“Il mondo dell’infanzia costituisce un’area tematica di crescente interesse sotto il profilo storiografico”[1] e, come detto nel capitolo introduttivo, quest’inventario delle scuole infantili nate in Sardegna vuole essere un punto di riferimento per ulteriori approfondimenti del tema, soprattutto in ambito regionale.

In merito al perché di questo strumento specifico sugli asili, la prima motivazione è da ricercare nella condizione che l’infanzia sarda viveva nel periodo storico considerato (1848-1968); queste strutture hanno, infatti, rappresentato una delle risposte ai suoi bisogni, soprattutto per l’infanzia povera.

Come in Europa e nel resto d’Italia, anche in Sardegna larghi strati della popolazione vivevano ai margini della realtà sociale, in condizioni d’estrema miseria[2]. All’economia isolana, contrassegnata da modelli di vita agro-pastorali e dominata a lungo da un’organizzazione feudale, corrispondeva una popolazione costituita da pochi e ricchi proprietari terrieri, i cosiddetti prinzipales, e da una moltitudine di persone che traeva i mezzi del proprio sostentamento da un’agricoltura e da una pastorizia di scarso rendimento[3]. A ciò si devono aggiungere le vicissitudini storiche e politiche dell’isola, con le forti crisi economiche, le leggi protezionistiche e i due conflitti mondiali, cui una popolazione che quotidianamente lottava contro la fame, le malattie e lo sfruttamento dovette far fronte[4].

Tra il 1850 ed il 1899 il numero delle famiglie sarde andava dalle 91 mila alle 172 mila circa, e tra le 172 mila, all’inizio del secolo, e le 300 mila nel 1960. Fatta eccezione dei due centri più popolosi di Cagliari e Sassari, queste vivevano in 350 aggregati urbani di dimensioni molto modeste, iniziando gradualmente a spostarsi dalla campagna ai centri abitati da metà dell’Ottocento fino a giungere ai conosciuti fenomeni dell’urbanesimo negli anni ’50 e ’60 del Novecento[5].

E’ necessario fare riferimento alla famiglia sarda, ai suoi riti nella vita quotidiana, ai suoi spazi fisici, alle sue relazioni interne poiché queste sue caratteristiche, unitamente ai rapporti esterni con l’assetto sociale, economico e culturale, determinavano la “condizione dell’infanzia”[6].

Le tipologie familiari di questo periodo variano tra città e campagna e tra ceti sociali. Nelle città erano più frequenti le famiglie nucleari, mentre quelle allargate caratterizzavano i piccoli centri e le campagne[7].

Quelle aristocratiche si avvicinavano anche in Sardegna, come nel resto d’Europa, al passaggio dall’“organizzazione” premoderna a quella moderna, in altre parole da una tipologia di relazioni primarie aperte verso l’esterno, più pubbliche che private, ad una forma maggiormente chiusa in se stessa e molto attenta nei confronti dei sentimenti familiari, fra i quali spicca il valore dell’infanzia, la sua “scoperta”[8].

Al contrario le famiglie più povere, provate da situazioni di disagio, trovavano numerosi ostacoli nel raggiungere questa transizione, nel realizzare tale ideale di vita borghese[9]. Sia l’uomo sia la donna costituenti il gruppo familiare erano, infatti, sottoposti a dei compiti quotidiani molto defatiganti, che li impegnavano nel lavoro dalle prime ore della mattina fino al tramonto.

Le madri, deputate alla cura dei figli oltre che della casa, provvedevano al pane, all’acqua attinta dalle fonti, agli animali, alla legna da ardere, insomma a tutte quelle “piccole” mansioni cui il padre, assente per lunghi periodi o fuori casa dall’alba per svolgere la sua attività, non poteva provvedere. Le donne, inoltre, per contribuire al bilancio familiare, prestavano spesso servizio presso famiglie benestanti in qualità di serve[10].

Così, chiamate ad espletare gravosi impegni, le madri si allontanavano per lungo tempo dall’abitazione ed i bambini si trovavano abbandonati a se stessi. L’infanzia, ben curata nel primo e nel secondo anno di vita, in seguito viveva per le strade in situazioni igienico-sanitarie promiscue e precarie[11].

Anche se, come dice M. C. Sotgia, le famiglie disagiate, di tanto in tanto, variavano, il nucleo duro di povertà ed emarginazione non si riusciva ad intaccarlo[12].

I Comuni, che con le proprie congregazioni di carità dovevano soccorrere i poveri[13], erano spesso incapaci di farlo perché sprovvisti di mezzi.

Una scarsa e povera alimentazione non aiutava i bambini né gli adulti colpiti dalle malattie più frequenti come la malaria, la tubercolosi, il tracoma, al punto che una circolare ministeriale, indirizzata alle amministrazioni comunali, consigliava, come profilassi, l’esclusione dei bambini tracomatosi dalle scuole[14].

A Sassari fu applicata immediatamente, ma l’ingente numero di bambini esclusi, appartenenti alle classi più disagiate della città, costrinse l’amministrazione comunale a trovare una soluzione nella scuola per tracomatosi. Nel 1902 fu così istituita, nella città, una sezione scolastica per i tracomatosi; l’iniziativa fu seguita da tutte le città italiane[15].

La situazione igienico-sanitaria delle abitazioni, dei villaggi e dei centri urbani non era certo adeguata. Nei centri rurali e nei quartieri poveri delle città, uomini e bestie convivevano; mancava l’acqua potabile attinta dalle poche sorgenti del paese o della città; assenti le fognature per cui, per i bisogni fisiologici, si ricorreva alla campagna ed ai pubblici mondezzai.

Per quanto concerne le case queste erano scomode, poco accoglienti e sovraffollate: intere famiglie vivevano in un’unica stanza con il letto o i letti per tutti, la cucina e, quando c’era una latrina, essa era posizionata in prossimità della porta di casa. Luce e aria erano “garantiti” da una portafinestra, sola apertura dell’abitazione[16].

In caso di malattia di un familiare per il quale era necessario l’assoluto riposo con convalescenza a letto, l’equilibrio quotidiano era sconvolto e talvolta la soluzione era l’allontanamento dalla casa dei soggetti meno importanti, in altre parole non produttivi, quali erano i giovanissimi.

I bambini erano perciò costretti ad “arrangiarsi” per trovare un riparo tra i mille pericoli, diurni e notturni, della strada[17].

“Da tutto ciò scaturivano i limiti dell’assistenza all’infanzia in generale in tutti gli ambiti familiari e in quasi tutti i modelli di vita, se si eccettuano, forse, le famiglie aristocratiche che affidavano l’educazione dei figli a vere e proprie serve-balie”[18], madri dei bambini appartenenti alle classi sociali meno agiate che lasciavano soli i propri figli per tentare, con qualche lavoro, di sbarcare il lunario.

Non mancavano le nascite illegittime, conseguenza della pratica diffusa, sia in città sia nei centri rurali, del meretricio e di una diffusa promiscuità[19]. Per tale fatto, l’esposizione dei neonati era uso ricorrente, non solo da parte delle madri illegittime ma anche di quelle legittime.

Per salvare i bambini che, quando abbandonati nelle strade andavano incontro a morte certa, quasi tutti i centri urbani istituivano la “ruota”. Gli infanti così raccolti venivano ospitati nei brefotrofi fino allo svezzamento, che avveniva dietro pagamento di  balie che, spesso, non si sprecavano in cure ed affettuosità[20].

La mancanza di tenerezza con i bambini e tra genitori e figli in genere, era tipica della mentalità dell’epoca, così come la convinzione che fosse meglio abituare i piccoli ai rigori del tempo ed a sopportare le privazioni perché diventassero forti e atti ai lavori più duri[21].

L’infanzia, in tal modo privata delle dovute cure e attenzioni, era soggetta ad ogni tipo d’incidente, sia dentro sia fuori casa e andava spesso incontro a gravi menomazioni fisiche, fin quand’anche alla morte precoce.

I bambini più “fortunati” trovavano un lavoro usurante e faticoso che li toglieva dal destino dei più che vivevano per strada, laceri, sudici e spesso malati. Molte volte si riunivano in bande note a Sassari col nome di “pizzinni pizzoni”, di “piccioccheddus de crobi” a Cagliari e di “mignons del carrer” ad Alghero[22]. Sopravvivevano compiendo atti di criminalità, tra i quali primeggiavano il furto nelle campagne e nei negozi cittadini. Il loro destino era quasi sempre segnato: s’iniziava con piccoli guai con la giustizia ed è facile ritenere che in età adulta, per necessità o per scelta, confluissero nelle fila della delinquenza sarda alimentando la piaga sociale che rendeva la Sardegna del tempo la regione più “criminalizzata” d’Italia[23].

Questa preoccupante situazione non poteva lasciare indifferenti persone sensibili e illuminate, ecclesiastici e laici, cattolici sardi che, soprattutto dopo l’Unità, svilupperanno in favore delle famiglie povere e particolarmente dei fanciulli, tutta una serie d’attività ed iniziative sociali tra le quali l’istituzione di strutture educative per l’elevazione dell’infanzia[24].

II. Situazione sociale, politica ed economica della Sardegna tra il 1848 ed il 1968

 2.1 La fine del “Regnum Sardiniae”

Il biennio 1847-48 segna una tappa fondamentale nella storia della Sardegna: la fine del Regnum Sardiniae e la perdita della sua formale autonomia[25].

Il governo sabaudo, già dagli anni venti dell’Ottocento, pose le basi per una trasformazione delle strutture economiche e dei rapporti sociali dell’isola tali da avvicinarle, almeno sul piano normativo, a quelle degli Stati di terraferma.

Negli anni venti si elaborò, infatti, una legislazione sulle “chiudende” volta alla formazione di una proprietà “perfetta”, ossia individuale, non soggetta agli usi collettivi né agli oneri feudali e, sotto il Regno di Carlo Alberto, (1831-1849), si portò a compimento l’opera d’eliminazione della giurisdizione feudale, ritenuta d’intralcio sia per lo sviluppo economico dell’isola che per il consolidamento del potere sabaudo[26].

La “fusione perfetta con gli stati di terraferma” fu concessa da Carlo Alberto nel dicembre del 1847 dopo che due delegazioni, provenienti da Sassari e da Cagliari, si recarono a Genova richiedendo, per l’isola, domande di riforme e aiuti tra i quali, appunto, quello dell’unificazione legislativa e istituzionale della Sardegna agli altri Stati ormai unificati con lo Statuto.

Da un punto di vista internazionale, il momento scelto per questa transizione risultò il meno adatto, visto il processo di crescita del movimento liberale anche in Italia che portò Carlo Alberto a concedere lo Statuto e dichiarare, quasi contemporaneamente, guerra per la liberazione all’Austria. La guerra, com’è noto, ebbe un esito rovinoso ed il governo, già dall’inizio del 1849, inviò nell’isola un commissario straordinario per riportare ordine nelle città e nelle campagne contro qualsiasi movimento d’opinione filofrancese o, addirittura, “repubblicano”[27].

 

2.2 Il popolo sardo nella prima metà dell’Ottocento

Come rivela il sia pure discutibile censimento del 1848, la Sardegna era all’epoca un’isola “spopolata”, “dedita alla pastorizia e all’agricoltura, ancora chiusa in se stessa” nella quale su 547.102, abitanti solo 27.621, (5,04%), sapevano leggere e scrivere[28].

La condizione in cui versava l’isola, per diversi aspetti, aveva delle analogie col Mezzogiorno italiano: nelle città governava un ristretto numero di famiglie aristocratiche e borghesi professionali, nei villaggi, invece, famiglie di origine agraria.

Erano tali gruppi ad intrattenere rapporti col sistema di potere centrale, facendo sovente da intermediari in operazioni politiche ed anche commerciali e finanziarie, nell’ottica dell’inserimento della Sardegna nel più vasto mercato nazionale.

 Il resto della popolazione era costituito da comunità contadine e pastorali messe in crisi, nei loro consolidati equilibri interni, dai provvedimenti governativi che intendevano “modernizzare” l’isola, ma che spesso non tenevano conto delle condizioni oggettive che caratterizzavano la società sarda[29].

Tale processo di “modernizzazione” che, come visto, il governo piemontese promuoveva già dagli anni venti, si sarebbe dovuto portare a compimento con la “fusione”, che si rivelò ben presto nelle sue pesanti conseguenze. La pressione fiscale, le ingiustizie e gli abusi “legali” nel mondo rurale, gli arricchimenti violenti delle classi possidenti, la politica repressiva nei confronti delle manifestazioni di disagio delle classi subalterne che richiedevano il ritorno “a su connottu”, cioè al conosciuto, n’erano l’espressione manifesta[30].

Sembrava così che il progresso dell’isola dovesse passare attraverso una divaricazione delle condizioni di classe per la quale i ricchi diventavano più ricchi ed anche più “moderni”, e i poveri più poveri ancora, con uno sconvolgimento dell’organizzazione economica e sociale che apparteneva ad una radicata tradizione. A tal punto le speranze erano riposte nell’insorgente processo d’unificazione del paese, che sembrava aprire nuove ed interessanti prospettive anche per la Sardegna[31].

 

2.3 La Sardegna nell’Italia unita

La situazione non cambiò molto con l’unificazione nazionale. La politica della Destra Storica al governo non sembrava molto diversa da quella che aveva connotato la passata gestione sabauda.

Tesa, infatti, a salvaguardare l’Unità, qualunque movimento d’autonomismo costituiva un pericolo che fu anticipato o sedato dall’accentramento dei poteri politico-amministrativi e con l’estensione della legislazione sabauda alle nuove regioni annesse.

Lo stato di marginalità politica e culturale e la subordinazione economica della Sardegna portò ad una “questione sarda”, nell’ambito della più ampia “questione meridionale”, sulle cui basi si diffondeva anche l’ipotesi autonomistica incentrata sulle specificità della situazione dell’isola[32].

Nel resto del Meridione la gestione del potere era rimasta nelle mani delle classi dirigenti locali e, soprattutto con l’avvento della Sinistra, (1876-1887), la classe politica meridionale s’inserì negli apparati di governo, contribuendo all’elaborazione delle linee di politica generali. In Sardegna così non avvenne; se, infatti, l’opposizione dei politici sardi fu spesso vivace, il loro contributo al governo dello Stato fu assai modesto[33], (ad eccezione del Cocco-Ortu, come vedremo).

 2.4 La crisi di fine secolo

Per quasi tutto il quindicennio 1875-1890 l’isola visse un periodo di respiro grazie all’intensificarsi degli scambi commerciali con la Francia ed anche con i nodi portuali dell’Italia settentrionale.

Ciò stimolò l’esportazione, soprattutto di bestiame, e l’importazione di forme moderne di allevamento e di agricoltura.

Ma la rottura dei rapporti commerciali con la Francia e la “guerra delle tariffe” che bloccò l’esportazione, segnarono una svolta verso la crisi.

Le conseguenze di ciò s’abbatterono sia sulle campagne, col ritorno all’agricoltura e all’allevamento di sussistenza, che nelle città, con i fallimenti delle banche, generale impoverimento, declassamento di potere dei proprietari agrari e affermazione di ceti professionali e commerciali.

L’unico settore che, in questo quadro di generalizzata depressione, riuscì a decollare e resistere pur tra crisi ricorrenti, fu quello minerario del bacino dell’Iglesiente[34].

Il malessere generale si manifestava nelle zone interne con nuove esplosioni della criminalità tradizionale in risposta alla quale il governo attuò una “guerra” condotta da una grand’operazione di polizia[35]. Le denunce della gravità della generale situazione in cui versava l’isola non mancarono, ma a dar loro una veste ufficiale furono le inchieste parlamentari.

Quella espletata dal Pais-Serra, nel 1894, e voluta dal governo Crispi, mise in luce gli aspetti più macroscopici dell’arretratezza economica dell’isola e contribuì a creare una consapevolezza della situazione sarda e dei rimedi possibili. Questa sfociò, nel 1897, nelle prime misure di quella che si sarebbe chiamata, nella sua versione aggiornata del 1907, la “legislazione speciale”, promossa dal Cocco-Ortu allora Ministro nel gabinetto Gioliotti[36].

2.5 L’età Giolittiana e la legislazione speciale per la Sardegna

I primi anni del Novecento sono contrassegnati, in Italia, dal ritorno al governo di Giolitti, (1903-1914).

Questo periodo vede anche in Sardegna una spinta all’industrializzazione portata avanti, come nel resto del Meridione, in un modo non capace di favorire organicamente lo sviluppo economico per tutta la nazione. Esso fu, infatti, contrassegnato, per l’isola, dall’insediamento di gruppi capitalistici extra-regionali, dalla subordinazione del mercato isolano alle regioni del mercato nazionale, dall’aumento generalizzato del costo della vita e dall’espulsione in massa della popolazione dalle campagne, fatto che costituì il primo importante flusso migratorio sardo.

Insieme a questo, altro elemento chiave dell’età giolittiana è costituito dall’improvvisa crescita della tensione sociale che si espresse nel movimento operaio attraverso consistenti scioperi dal lavoro, (1904), e con violenti motti popolari contro il carovita in varie parti dell’isola, (1906)[37].

Mutò tuttavia, in maniera significativa, l’atteggiamento della classe politica italiana che mostrò maggiore attenzione nei confronti delle regioni meridionali e delle isole, anche per l’eco di questi avvenimenti nella stampa nazionale.

Tutto ciò, unito alla presenza e all’impegno al governo di Francesco Cocco-Ortu, l’uomo di maggiore prestigio della classe politica sarda di quegli anni, ebbe come risultato alcune iniziative legislative in favore dell’isola nel quadro di una generale politica di “leggi speciali” dirette alle regioni meridionali.

Confluite in un Testo Unico nel 1907, in esse si prevedevano le diverse possibilità di intervento nei vari settori della vita e dell’economia della Sardegna, fra le quali le comunicazioni, la bonifica, il credito agrario e l’istruzione. In merito alle bonifiche, è in questo quadro che nacque la più grande impresa di risanamento del territorio della storia recente della regione: quella della bassa Valle del Tirso e del Campidano di Oristano[38].

Dal punto di vista politico, invece, esisteva un sistema clientelare favorito dallo stesso Giolitti e dal controllo che esercitava sia sulla maggioranza parlamentare sia sull’amministrazione periferica dello Stato mediante i Prefetti. Il tutto aveva conseguenze anche in sede elettorale dove, con dei brogli, si realizzavano favoritismi per gli uomini politici a lui fedeli.

Questo carattere della vita politica subì in Sardegna una scossa con le elezioni a suffragio universale del 1913, che videro i leaders del clientelismo politico sardo mettere insieme solo il minimo dei voti necessari per essere rieletti.

Qualcosa quindi si muoveva tra le classi popolari, in una tornata elettorale che vide l’avanzata dei socialisti e delle altre forze democratiche, radicali e repubblicane[39].

 2.6 I sardi e la Grande Guerra

L’ingresso dell’Italia nella Grande Guerra è preceduto in Sardegna da una serie di disordini contro il carovita che imperversò durante l’età giolittiana e che fu aggravato dalla siccità e dal disastroso andamento dell’annata agraria del 1914..

La guerra assunse così in Sardegna due aspetti: da un lato l’eroismo dei soldati sardi conosciuti come “gli intrepidi sardi della Brigata Sassari” per le straordinarie imprese di cui furono protagonisti al fronte; dall’altra per il particolare peso negativo che la situazione bellica ebbe sull’economia dell’isola, sia nell’approvvigionamento nazionale, che nella chiamata alle armi di quasi tutti gli uomini adulti, pastori e contadini, sardi.

Ma per il popolo dell’isola la guerra rappresentò anche un’esperienza particolarmente importante ed incisiva che li portò, nel contatto con l’ambiente militare e nella partecipazione ad una vicenda “nazionale”, a maturare una nuova consapevolezza della “questione sarda”.

La guerra aveva determinato un cambiamento culturale e di mentalità in tutti gli ex combattenti, dalla quale scaturì una neonata volontà di partecipazione al dibattito politico. Nella penisola da ciò sorse il Fascio interventista rivoluzionario, fondato a Milano da Deffenu, Mussolini, Corridoni, Bianchi e Dinale; in Sardegna invece nacque dapprima una nuova organizzazione dei combattenti (1919), e, tra il 1920 ed il 1921, il Partito Sardo d’Azione[40].

A questo punto la vita politica della Sardegna mutò: tutta la rete clientelare dei tradizionali esponenti liberali, moderati o democratici, entrò in crisi o saltò completamente e fu sostituita dal consenso elettorale, (elezioni del 1921 e del 1924), per il neonato Partito Sardo d’Azione.

Con esso le masse rurali entravano con forza per la prima volta nella loro storia, organizzate, nel dibattito politico regionale insieme al nuovo ruolo che andava assumendo una parte della borghesia intellettuale e imprenditoriale formatasi negli anni precedenti la guerra. Il proletariato fu invece più sensibile ai richiami dell’ideologia socialista.

Il Partito sardo d’Azione, quale “partito di popolo”, annoverava tra i suoi intenti il “dare coscienza di sé al proletariato affinché sappia redimersi spiritualmente ed economicamente”ed auspicava anche un nuovo rapporto col governo, attraverso il quale giungere ad un’autonomia, soprattutto economica ed amministrativa, ritenuta strumento di rinascita[41].

Il partito non ebbe effettivamente il tempo di definire la sua fisionomia, poiché fu travolto dagli eventi successivi all’ascesa al potere di Mussolini e del fascismo. Ma la sua importanza va vista più che per i risultati concreti della sua azione, che in realtà non ci furono, per l’operazione politica e culturale che riuscì a perseguire nei suoi pochi anni di vita democratica[42].

2.7 Il ventennio fascista

Nel 1921 si formavano i primi nuclei fascisti sardi, con ritardo rispetto alla penisola dove, in quell’anno, dilagava già l’attività squadristica fascista verso ogni organizzazione e iniziativa sindacale e verso le sedi del partito socialista e di quello popolare.

L’azione di tali gruppi in Sardegna fu modesta e circoscritta all’Iglesiente, dove la presenza delle organizzazioni socialiste e operaie era più forte[43]; non raggiunse mai invece le campagne che, sino al consolidamento dell’ingerenza mussoliniana, non conobbero il fascismo. Non bisogna, per questo, dimenticare che in Sardegna, soprattutto nelle zone rurali, vi era una diffusione capillare dell’ideologia sardista e autonomistica.

Tuttavia, con l’ascesa al governo di Mussolini nell’ottobre del 1922, alcuni dirigenti del partito sardo videro il fascismo come un possibile sbocco di molti degli ideali sardisti ammaliati in questo anche dai “richiami” mussoliniani alla stessa matrice combattentistica del sardismo e del fascismo.

Nel corso del 1923 molti sardisti, incoraggiati anche dalle prospettive di una politica di interventi economici per la Sardegna da parte del governo, confluirono nel Partito Fascista. Il Partito Sardo mantenne comunque una sua solida organizzazione nelle campagne e, nelle elezioni del 1924, ottenne, come già detto, una sua rappresentanza. Ma alla fine dell’anno, nel quadro delle leggi “fascistissime” finalizzate ad abbattere definitivamente le opposizioni, fu sciolto d’autorità[44].

Mentre in tutta Italia si consumava la liquidazione “legale” dello Stato liberale con la costruzione e il consolidamento delle strutture del regime fascista, in Sardegna si andavano spegnendo, con le libertà politiche e civili, anche le speranze riposte nel Governo di Mussolini per qualche miglioramento della situazione isolana.

Una risposta si ebbe nel 1924 con “la legge del miliardo” che stanziava questa somma per opere pubbliche nell’isola[45]. Non era altro, in realtà, che una versione neanche molto aggiornata della “legislazione speciale” d’età liberale che si rivelava ancora insufficiente nei suoi interventi.

Analizziamo le modificazioni economiche e sociali introdotte dal fascismo nell’isola, tenendo conto di quattro prospettive: economica, territoriale, sociale, della classe dirigente e della modernizzazione.

      Economica

Alla breve ripresa degli anni 1921-1925 della Sardegna, seguì l’arrivo della politica deflativa del governo anche nell’isola, alla quale si aggiunse la crisi internazionale dei primi anni Trenta.

Ciò che caratterizzò tutto il ventennio fu la disoccupazione, il calo dei salari, il fenomeno migratorio e la forte pressione fiscale.

La caduta del valore della terra e dei prezzi all’ingrosso dei prodotti agricoli e zootecnici danneggiò l’allevamento e l’industria casearia. La “campagna del grano” avviata nel ’26 all’interno della politica di “autarchia”, cioè di autonomia economica diretta a sfruttare al massimo le risorse interne in ogni settore, ebbe come unici risultati quelli dell’allargamento della superficie seminata a grano ed il restringimento dell’area a pascolo. I bassi prezzi e le basse rese del grano non consentirono, infatti, un progresso per il comparto agrario mentre l’allevamento registrò addirittura una perdita.

Altro settore d’intervento statale per la Sardegna fu quello minerario che, all’interno dell’“autarchia”, promosse lo sviluppo delle miniere dell’Inglesiente e un maggiore sfruttamento delle risorse carbonifere del bacino del Sulcis. L’operazione fu suggellata, nel 1938, dalla creazione della nuova città di Carbonia.

Si crearono così alcune grosse “isole moderne”, ma la struttura economica della regione fu poco intaccata dal progresso dell’industria mineraria. L’unica “ricchezza” che determinò fu l’occupazione di manodopera che, nonostante la politica dei bassi salari, migliorò la condizione degli operai nei confronti di altri strati sociali, (contadini, pastori, muratori). Da questo, il detto nell’Iglesiente: “minadoi, dottoi”[46].

 

   Assetto territoriale

Il governo fascista individuò alcune zone particolarmente adatte per il popolamento e la ristrutturazione agraria e, con le leggi Serpieri del 1924 e del ’33 sulla bonifica integrale, furono trasformati in tutto 50 mila ettari di terra.

Le bonifiche più estese si operarono nel Terralbese dove sorse, intorno al 1930, il centro di Mussolinia, (oggi Arborea), e nella Nurra dove, nel ’36, fu fondata Fertilia.

Con questi interventi il fascismo intensificò anche la lotta contro la malaria, iniziata con le prime bonifiche nell’età giolittiana.

Ma sull’assetto territoriale ciò che incise profondamente fu la creazione della nuova provincia di Nuoro e la rapida crescita delle città maggiori, Sassari e Cagliari, seguita da quella dei centri urbani minori[47].

     Struttura sociale

Nonostante gli interventi sulla bonifica integrale, il mondo agricolo sardo non visse grandi cambiamenti ad opera della politica economica fascista. Soprattutto la Sardegna pastorale delle aree interne risultò assolutamente impermeabile a queste politiche.

Fu la Sardegna urbana quella maggiormente raggiunta in questo senso, con l’espansione che la contraddistinse, la crescita dell’alfabetizzazione, il regresso della lingua sarda e le prime assunzioni dei modelli di vita d’oltre Tirreno[48].

      Classe dirigente

Il fascismo, soprattutto dopo il passaggio nelle sue file della destra sardista i cui dirigenti appartenevano alla borghesia agraria tradizionale, lasciò sostanzialmente intatta la struttura di potere preesistente. Continuò, infatti, ad estrarre i suoi dirigenti dalle classi da sempre detentrici del potere, ovvero dalla borghesia delle professioni nelle città e dai proprietari terrieri nei paesi[49].

    Modernizzazione

Come visto, il regime portò sicuramente una serie di elementi di modernizzazione nella realtà di vita sarda; ma all’infuori delle città, come ha scritto M. Brigaglia, il fascismo non riuscì a raggiungere né i pastori, né i contadini che insieme costituivano la grande maggioranza della popolazione isolana.

Il mondo rurale sardo fu, quindi, appena sfiorato dai mutamenti istituzionali, dalla politica economica e dalla “cultura” del fascismo[50].

 2.8 Dalla seconda Guerra mondiale all’autonomia regionale

Anche la seconda guerra mondiale, (settembre 1939), riservò all’isola un destino particolare che, una volta tanto, vide la sua insularità costituire un vantaggio; essa fu, infatti, l’unica regione dell’Europa in guerra a non esser attraversata dagli eserciti in lotta.

Soltanto con i terribili bombardamenti di Cagliari del 1943 e quelli meno gravi di Olbia, La Maddalena, Alghero e Porto Torres l’isola sperimentò direttamente gli orrori della guerra che provocarono lo “sfollamento” delle città, cioè il trasferimento delle popolazioni urbane verso la campagna[51].

Già all’indomani dell’armistizio dell’8 settembre, la Sardegna si trovò liberata in modo indolore dalle truppe tedesche e poteva iniziare la sua ricostruzione.

E’ necessario affermare che la mancanza del fenomeno della Resistenza nell’isola determinò un passaggio, dalla gestione del potere fascista ai nuovi modi di gestione, all’insegna della continuità. La classe dirigente rimase, ancora una volta, la stessa e furono ricostituiti i grandi partiti- la Democrazia Cristiana, il Partito Comunista, quello Socialista e il Partito sardo- ai quali si aggiunse un elemento politicamente nuovo: la Chiesa[52].

Sul piano istituzionale, nel 1944, la gestione amministrativa, militare e politica fu affidata ad un Alto Commissario, il generale sardo Pietro Pinna, al quale si affiancò una Consulta regionale  nominata dai partiti ed in seguito scelta in base ai risultati elettorali.

Alle elezioni del 1946 per la Costituente e al referendum per decidere la forma istituzionale, (monarchica o repubblicana), dello Stato italiano, l’elettorato sardo mostrò con chiarezza il suo orientamento moderato votando nel 60.9 per cento a favore della conservazione della Monarchia. La D.C., avuta la maggioranza dei voti per la Costituente, conquistava alle prime elezioni del ‘48 per il Parlamento, il 51.1 per cento dei voti, consacrandosi partito leader dell’isola.

Frattanto, il dibattito politico regionale era polarizzato sul “problema” autonomia, cioè sulla collocazione istituzionale della Sardegna nell’ambito delle strutture dello Stato Repubblicano che l’Assemblea Costituente andava discutendo e definendo.  

Nel giugno del 1947 il Governo aveva approvato l’art. 116 della Costituzione che riconosceva alla Sardegna, (unitamente alla Sicilia per la loro tradizione storica, al Friuli-Venezia Giulia per la posizione geografica-strategica e alla Valle d’Aosta col Trentino Alto Adige per la composizione etnica di frontiera), il diritto a vedersi attribuite forme e condizioni particolari di autonomia secondo statuti speciali adottati con leggi costituzionali[53].

Per i contenuti dello Statuto, sui quali la Consulta Regionale lavorava da tempo, i contrasti tra i partiti isolani erano molto forti, ragione per cui il compromesso che ne risultò ridimensionava i poteri autonomistici. Lo Statuto speciale approvato dall’Assemblea costituente il 31 gennaio 1948 apparve così da subito dotato di minor forza di quanto occorresse alla Sardegna per un suo reale autogoverno. E la sua riforma sarà uno dei temi centrali della politica isolana degli anni che seguiranno[54].

2.9 Nascita dell’autonomia

I decenni successivi alla nascita della Regione autonoma Sardegna sono contrassegnati da interventi politici, sia su scala nazionale che regionale, atti a raggiungere una sempre maggiore integrazione dell’isola nella vita economica e politica nazionale[55].

L’Italia, prostrata dagli anni di guerra, iniziava un’operazione di ricostruzione economica guidata politicamente dalla Democrazia Cristiana e particolarmente da De Gasperi e sotto “l’ombrello” protettivo americano, in piena adesione al Piano Marshall che prevedeva cospiqui aiuti economici ai paesi europei.

Si seguì un modello “occidentale” di ricostruzione e di sviluppo che, per la rinascita economica, puntava soprattutto sul settore industriale e che trovò nell’adesione alla Nato del ’49, il suo naturale supporto di carattere militare.

La Sardegna, nei primi anni cinquanta, è in gran parte come l’ha lasciata il governo fascista: una parte del Mezzogiorno abbandonato e depresso il cui “malessere” si esprime con grandi lotte dei minatori per la salvezza del loro lavoro, (l’attività mineraria iniziava la sua lunga crisi), e con quelle dei contadini per la conquista della terra.

Ma è nello stesso decennio 1945-’55 che hanno inizio quegli interventi, di cui dicevamo sopra, che hanno cambiato la situazione isolana. Del 1950 è, infatti, in ambito nazionale, l’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno che avviava un vasto programma di interventi nel sud. Le sue azioni si concentreranno, dal ’57 in poi, nell’industrializzazione.

 Nello stesso anno sono approvate le leggi di riforma agraria, delle quali il democristiano sassarese Antonio Segni fu uno degli artefici; e nel 1951 fu creato l’Ente di trasformazione fondiaria e agraria, (ETFAS), sotto la spinta anche di quel movimento contadino che lottava contro la disoccupazione e richiedeva una programmazione economica che correggesse e risolvesse i problemi della struttura agraria sarda.

Altri interventi dello Stato e della Regione furono in tal senso l’istituzione dell’Ente Flumendosa, (1952), preposto ad un programma di opere atte all’utilizzo, a scopo irriguo, delle acque del medio e basso corso del Flumendosa; l’Ensae, Ente sardo di elettricità (1953); l’Esit, Ente sardo industrie, (1950) e, più tardi, (1957), l’Isola, Istituto sardo per l’organizzazione del lavoro artigiano.

Ma l’evento più importante del periodo fu la liberazione dell’isola da uno dei suoi mali endemici, la malaria raggiunta grazie ad un’azione di disinfestazione ad opera dell’Ente Regionale per la lotta anti-anofelica, (Erlaas), con personale direttivo e finanziamenti statunitensi e italiani[56].

2.10 Il Piano di Rinascita

Nelle elezioni del ’57 si modificavano, in parte, gli indirizzi di governo regionale in stretto legame con i mutamenti nel clima politico nazionale.

Tali elezioni, infatti, misero in moto un processo di rinnovamento in seno alla DC che, pur conservando la sua posizione di partito di maggioranza relativa e la guida della Giunta regionale, fu segnata da un ricambio dei suoi dirigenti locali e dalla formazione di numerose correnti sulla scia delle analoghe articolazioni interne del partito in ambito nazionale.

Le premesse di questo fatto si ebbero già l’anno precedente, quando un gruppo di giovani vinse a Sassari il congresso provinciale del partito, ai danni di un establishment apparentemente indistruttibile, anche per la protezione del leader della DC isolana, Antonio Segni  più volte sottosegretario e ministro nel governo nazionale[57].

Gli “uomini nuovi” della DC sassarese erano Cossiga, Dettori, Demartini e Soddu, che negli anni successivi avrebbero avuto ruoli di grande responsabilità nella Regione come nel Parlamento e nel Governo. A loro risale l’avvio della modernizzazione del sistema di governo regionale che avvicinò la Sardegna al rinnovamento caratterizzante il nuovo dinamismo fanfaniano nella DC nazionale e il superamento definitivo del degasperismo.

Nel ’58 nasceva una giunta regionale DC- Partito sardo d’Azione con un programma sociale avanzato che anticipava la formula nazionale dei governi di Centro-Sinistra, nati nei primi anni ‘60 dalla collaborazione tra DC, Partito Socialista e partiti minori. Punto focale della “nuova” Giunta fu l’art. 13 dello Statuto che stabiliva il dovere, per Stato e Regione, di predisporre un piano organico per la rinascita economica e sociale dell’isola.

Al piano lavorava già dal 1951 una Commissione di studio che nel ’58, all’avvio del “nuovo corso” regionale, consegnava il suo “rapporto conclusivo. Quest’ultimo fu rivisto, da un “Gruppo di lavoro” ristretto, con una filosofia dello sviluppo in sintonia con la posizione dei meridionalisti al lavoro intorno alla Cassa per il Mezzogiorno: si sceglieva di puntare su uno sviluppo accelerato da affidare non più all’agricoltura ma all’industria.

La legge, la n. 588, sarà approvata definitivamente nel 1962 e interverrà in una Sardegna che già cambiava per effetto del progresso del Paese e per l’esportazione degli elementi di questa modernità dalla Penisola e dall’Europa verso le zone “marginali”.

Negli ultimi anni 60, nuovi poteri penetravano dall’esterno nella Sardegna, come la grande industria petrolchimica e la grande speculazione turistica a dimensione internazionale che travalicavano le linee di programma dei “pianificatori”. Ciò, da una parte, contribuì all’immersione sempre più rapida dell’isola nella “civiltà europea”, individuata dall’aumento della scolarità e dei tassi di alfabetizzazione, dallo sviluppo delle comunicazioni di massa, dall’incremento dei consumi e della mobilità sociale. Ma a questi fenomeni di segno positivo si affiancava una serie di problemi che i programmatori non erano pronti e preparati ad affrontare e che non solo non furono risolti negli anni della Rinascita, (1962-’74) ma si sarebbero anzi aggravati[58].

Tra questi la crisi mineraria, l’intensa urbanizzazione del territorio e dei modi di vita, le dimensioni dell’industrializzazione e la fuga dalle campagne, il turismo, il problema delle “zone interne” ed una nuove e esplosione del banditismo. Tutti fatti che denunciavano con chiarezza il persistere, e talvolta il crescere, delle deficienze strutturali dell’isola e l’acutizzarsi del malessere popolare[59].

     III. La scuola dell’infanzia in Italia:

 dalle sale di custodia alla scuola materna statale

3.1 L’alba della scuola infantile: gli asili aportiani nel Risorgimento

Alla nascita delle prime scuole infantili in Italia è legato il nome e l’opera dell’abate Ferrante Aporti. La maggior parte della critica, a seguito di un vivace dibattito, gli attribuisce la paternità dell’istituzione delle prime scuole infantili sorte in Italia a partire dal 1829. A tale data risale la fondazione di un asilo per bambine “agiate” e al 1831 quella del primo asilo di carità istituito a Cremona[60].

L’iniziale intento era alleviare le terribili condizioni di vita dei bambini del popolo e di “ammaestrarli” socialmente e moralmente. Ben presto, però, gli asili aportiani rendono più complessi i loro fini inserendoli nel vasto quadro della temperie risorgimentale fino al punto di costituire uno degli aspetti centrali dell’azione politica e educativa dei liberali moderati durante il Risorgimento[61]. I liberali moderati sono, così, i promotori degli asili nella prima fase risorgimentale, in base al principio per cui l’educazione delle masse è funzionale all’emancipazione nazionale ed al perseguimento di un nuovo assetto sociale nel quale il ceto borghese deve primeggiare.

Dove le condizioni politiche, socioculturali ed economiche sono adatte, gli asili prosperano, anche perché vanno incontro alle esigenze delle famiglie dei lavoratori nel sorvegliare e curare i loro figli, in tal modo nutriti e assistiti nel corpo e nella mente come mai avrebbero potuto esserlo a casa loro[62].

 Anche nel Mezzogiorno l’iniziativa dell’educazione popolare è attiva poiché, nonostante la minor consistenza di un vero e proprio ceto medio in grado di portare avanti un progetto di rinnovamento sociale[63], qui ebbe grande incidenza l’azione caritativo assistenziale ed educativo scolastica svolta dagli istituti religiosi maschili e femminili che, nel corso dell’Ottocento, fioriscono anche con nuove congregazioni religiose in tutta la penisola. Questo fatto rappresenta la testimonianza della nuova sensibilità sociale della Chiesa e rivela la sua volontà di far fronte alle grandi miserie morali e materiali prodotte dalle trasformazioni socio-economiche del secolo XIX e di corrispondere più efficacemente alle peculiari e crescenti necessità pastorali ed educative delle popolazioni[64].

Il primo asilo infantile in Sardegna nascerà ad Alghero nel 1848 e,  nel 1850, seguirà a Sassari l’asilo “Eleonora d’Arborea”, diretto dal Consiglio di Amministrazione dell’Orfanotrofio delle Figlie di Maria[65].

La forma istitutiva che godette di maggiori fortune fu quella delle Società degli asili di carità, sorrette dai proventi delle varie iniziative dei soci, attivi e onorari. Un comitato guidava l’esistenza amministrativa e didattica della scuola infantile, mentre un Segretario, un Economo ed un Cassiere coadiuvavano il Presidente della società nel garantirne il buon andamento[66]. Dopo l’Unità d’Italia tale organizzazione societaria, che rimarrà pressoché invariata nel tempo, diverrà, insieme alle varie e variegate istituzioni di assistenza e beneficenza sorte in questi anni, Opera Pia affidata, dal punto di vista normativo, al Ministero degli Interni secondo la legge 3 agosto 1862, n. 753[67].

3.2 Politica prescolastica e alfabettizzazione nell’Italia unita

La borghesia liberale moderata, che aveva compiuto il Risorgimento e che nel 1860 prende il potere, mette ora a punto una strategia politica di disinteresse nei confronti dell’istruzione popolare in generale e della scuola materna in particolare. Tale cambiamento si era verificato già dal 1849, quando ebbe il sopravvento sia il timore che l’istruzione popolare impartita dagli asili fomentasse idee sovversive, sia la volontà dei più moderati tra i liberali di scegliere, per compiere il Risorgimento, la via più breve, ossia la diplomazia cavourriana e delle armi piemontesi, piuttosto che quella dell’emancipazione del popolo attraverso l’istruzione.

Ecco, quindi, che il primo documento legislativo del nostro ordinamento scolastico, la Legge Casati (1859) entrata in vigore il 1° gennaio 1860, affida l’istruzione elementare ai Comuni senza minimamente preoccuparsi della loro disponibilità economica e politica e non regolamenta le iniziative legate all’istituzione degli asili infantil[68].

In questo modo, i liberali al governo perseguono diversi obiettivi, sia sociopolitici che economici: in primis si sollevano dall’onere economico incoraggiando l’iniziativa privata, come quella cattolica; offrono, poi, un ricompenso alla Chiesa per le sue perdite economiche e “temporali” affidandole l’educazione infantile del popolo; quest’ultima, pur ritenuta marginale e di poca importanza come età nella formazione dell’individuo, era però giudicata pericolosa nel fomentare sentimenti di ribellione che un’istruzione rigidamente confessionale poteva invece smorzare[69].

In definitiva lo Stato laico lascia alla Chiesa ciò che ritiene formativamente inutile, economicamente deficitario e politicamente pericoloso. Si può così capire bene l’importanza che rivestivano le iniziative degli istituti religiosi, soprattutto femminili per quanto riguarda gli asili d’infanzia e le scuole elementari, in merito all’intervento caritativo-assistenziale ed educativo-scolastico; azioni ed eventi che sono invece stati letti ed interpretati troppo spesso in modo riduttivo, secondo una prospettiva che tende a isolare l’esperienza religiosa e a considerarla priva di effettivi collegamenti con la realtà storica e sociale[70].

  

3.3 Gli asili infantili nei primi quarant’anni del Regno

 d’Italia

 

Nell’anno scolastico 1862-63 gli asili infantili della penisola, secondo l’inchiesta Natoli, erano 1806 con 81.513 iscritti; in trent’anni il loro numero si accrescerà di poche centinaia, con una media di circa 18 unità all’anno. Al contrario, la percentuale degli iscritti triplica, passando dal 6% circa degli anni 1862-63 al 20% dell’ultimo anno del secolo, (considerando, però, che gli asili ospitavano anche fanciulli che andavano oltre il 6° anno di età)[71].

La conseguenza di tali dati si rileva nella Relazione Gioda del 1889 nella quale, tra l’altro, si legge: “ (…) in molti asili i bambini riuniti in un’aula sola sorpassano i 130 (…), pessime sono le condizioni dei locali, del materiale didattico e delle suppellettili nella maggior parte dei nostri Asili (…) [72]. In linea, però, con la visione caritatevole di queste strutture, nel 58% di essi si somministra il vitto una volta al giorno, talvolta anche due.

Nonostante diverse iniziative parlamentari e denunzie di studiosi tentassero di cambiare, in senso educativo, la situazione degli asili d’infanzia provando a sciogliere o comunque a chiarire l’assurda mezzadria tra Ministro della Pubblica Istruzione e Ministro degli interni, la legge 17/7/1890 ribadisce quanto sancito dalla precedente del 1862, per cui gli asili sono considerati ancora Opere Pie, atti di carità[73].

Evidenti interessi, sia economici che politici, erano coinvolti in tal senso. Soprattutto per i cattolici, l’inclusione delle scuole infantili sotto l’egida del Ministero della P. I. avrebbe determinato l’espandersi del metodo froebeliano, appoggiato dai laici e proveniente da un paese protestante, ed avrebbe ridotto la capacità di controllo che essi esercitavano sulle strutture infantili come opere di carità. La stessa relazione Gioda rileva che gli asili promossi dai privati, ossia sostanzialmente dai cattolici, ha raggiunto ormai l’80% e che spesso i Comuni, che ne risultavano fondatori mediante la locale Congregazione di Carità, ne davano la gestione alle Congregazioni religiose.

Un contributo a questo è dato dal fatto che le persone che insegnano gratuitamente in strutture in favore dei fanciulli poveri, o privatamente, o che educano in pubblici asili sono dispensate dal presentare titoli di idoneità, (R.D. 15/9/1860, n. 4336); titoli che d’altronde si conseguivano con un breve “corso di metodo” o con la partecipazione alle cosiddette “conferenze magistrali”[74].

Per ciò che concerne il metodo d’insegnamento, molta ostilità, come dicevamo, è presente da parte dello schieramento cattolico nei confronti dell’insegnamento froebeliano. Il dibattito tra oppositori e sostenitori troverà una soluzione nella creazione del “metodo misto”, ottenuto con la fusione degli elementi ritenuti validi del froebelismo e dell’aportismo; ma a poco a poco il primo conquisterà l’intellighenzia pedagogica della nazione, innescando un dibattito sulla scuola dell’infanzia che andrà sempre più elevandosi fino a superare, alla fine del secolo e almeno di principio, la concezione sia custodialistica sia scolasticistica degli asili.

Su questa linea si giunge al metodo delle Agazzi e poi della Montessori che, soprattutto nel nuovo secolo, daranno nuova linfa al settore dell’educazione infantile con dei modelli educativi organici ed operativamente funzionali[75].

3.4 Asili e maestre nel periodo giolittiano

 Momenti importanti per l’istruzione popolare sono costituiti, in questo periodo, dall’emanazione della legge Credaro del 4/6/1911, n. 487, che trasferisce allo Stato la competenza sull’istruzione elementare e dalla legge 15/7/1906, n. 383, istitutiva della “Commissione centrale per il Mezzogiorno” per la lotta contro l’analfabetismo nelle province del sud e nelle isole[76].

Per gli asili infantili, la legge 4/1/1914, n. 27, con cui si emanano i primi programmi redatti da Pietro Pasquali, costituisce un primo passo verso il riconoscimento reale del ruolo educativo delle strutture prescolastiche. Evidente è l’influsso del pensiero di Froebel e della Agazzi ed il disegno di un’infanzia di matrice idealistica e spiritualistica, (il bambino è considerato tutto fantasia e sentimento), nonostante i programmi siano percorsi da suggestioni positivistiche, (sul piano didattico si valorizza l’operosità del bambino)[77].

In questo contesto sociale e culturale la scuola infantile conosce, quindi, una stagione molto propizia, soprattutto per gli interventi a livello teorico, come visto, ma anche per quelli a livello pratico; indubbi sono, infatti, gli incrementi quantitativi che si registrano nel settore prescolastico durante tutto il corso dell’età giolittiana[78].

L’elemento che accomuna gli asili di vecchia istituzione è quello delle difficoltà finanziarie in cui versano. Intorno ad essi si sta spegnendo il grande slancio della pubblica beneficenza, che li ha sostenuti per molti anni, e non solo non sorgono più nuove società, ma per quelle già esistenti è sempre più difficile sostituire i soci che scompaiono[79].

Il rafforzamento degli asili e del numero delle insegnanti è da iscriversi all’intraprendenza della Chiesa che fonda sia nuovi asili, sia immette personale religioso in quelli già esistenti, agevolata in questo dall’esigua spesa che permette l’assunzione di suore rispetto al personale laico. Ne consegue, quindi, che molti degli asili aperti dagli inizi del secolo in poi, lo sono o per iniziativa di parroci e ordini religiosi, o di Opere pie, o di comunali Congregazioni di Carità.

3.5 La scuola materna nel ventennio fascista

 

Lo scoppio della Prima Guerra Mondiale e l’avvento del fascismo porta in Italia il trionfo dell’idealismo gentiliano e, nel 1923, la Riforma Gentile dà un’impronta a tutta la scuola italiana d’ogni ordine e grado, compresa quella del grado preparatorio[80].

Con l’R.D. gentiliano del 31 Dicembre 1923, n. 3106, gli asili infantili assumono la denominazione di “Scuola Materna” e divengono parte integrante dell’istruzione elementare. Essi, infatti, ne costituiscono il grado “preparatorio” della durata di tre anni[81], ma non sono inclusi nell’obbligo scolastico.

E’ importante rilevare che il Decreto introduce la vigilanza del Ministero della P.I. su tutti gli istituti per l’educazione dell’infanzia esistenti, con il concorso dello stesso ministero nella fondazione di nuovi istituti da parte di enti pubblici o privati.

Per quanto riguarda l’insegnamento, il personale educativo delle scuole materne deve essere fornito del titolo legale di abilitazione all’insegnamento del grado preparatorio, conseguito con la frequenza di scuole triennali di metodo unitamente al tirocinio, oppure con corsi biennali estivi. Tali scuole diverranno, con l’ R.D. 11 Agosto 1933, n. 1286, “Scuole Magistrali” per le quali non è previsto l’esame di Stato ma una prova finale, alla quale le alunne privatiste possono accedere senza alcun titolo di studio purché abbiano compiuto i ventun’anni di età e si impegnino a svolgere un anno di tirocinio[82].

Questa scelta da parte dello Stato favorisce il proliferare delle scuole magistrali private, al punto che ben presto il settore è praticamente controllato interamente dalla Chiesa che possiede, così, l’intera branca dell’educazione infantile[83].

Nel 1939 il Gran Consiglio del Fascismo approva la Carta della Scuola, emanata dal Ministro Bottai in qualità di Ministro dell’educazione nazionale.

Tra le ventinove Dichiarazioni di cui la Carta si compone, tre (VIII, IX, XXV) riguardano anche la scuola materna. Nella prima, (VII), si afferma che la scuola è biennale ed è compresa nell’ordine elementare, (obbligatorietà della scuola); nella seconda, (IX), che la scuola materna disciplina e educa le prime manifestazioni dell’intelligenza e del carattere del bambino; nella terza, (XXV), infine, si stabilisce la continuità tra scuola materna ed elementare[84].

Tutta l’impalcatura della Carta della Scuola finisce, però, col ridursi all’emanazione di una circolare ministeriale, del 1940, sui “Programmi per gli esperimenti della scuola materna”.

Nel 1945 compaiono i nuovi “Programmi, istruzione e modelli per le scuole elementari e materne”, stilati sotto l’egida degli Alleati ed elaborati frettolosamente per l’ingente necessità di sostituire gli ordinamenti fascisti con i nuovi ideali ispirati alla Resistenza.

Per quanto riguarda la Sardegna, il Ministero della P.I. provvede, con la legge 1 giugno 1942, n. 901, all’istituzione dell’ E.S.MA.S.[85], (Ente per le Scuole Materne della Sardegna), affidandone il funzionamento, nel 1946, ad un Commissario Straordinario.

La nascita dell’ente e le successive disposizioni legislative in favore delle scuole materne ESMAS favoriscono l’istituzione di queste scuole in molti centri dell’isola[86]. Inoltre, molti asili infantili sorti per iniziativa privata, scelsero di essere trasformati in scuole materne ESMAS per motivi di ordine economico, mancanza di locali idonei o difficoltà nel reperimento di personale abilitato[87].

 3.6 La nascita della scuola materna statale

 La Costituzione repubblicana, entrata in vigore il 1° gennaio 1948, oltre ad affermare i valori libertari dell’uomo e del cittadino prevede, all’articolo n. 33, l’istituzione di scuole statali d’ogni ordine e grado nell’ambito del più generale impegno dello Stato volto a rimuovere gli ostacoli d’ordine economico e sociale che limitando, di fatto, la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana. 

Nel frattempo, nel giugno del 1958, sono emanati i nuovi Orientamenti per l’attività educativa della scuola materna con i quali, pur non essendo ancora statale, la scuola materna è distinta dall’elementare, riconquistando la propria autonomia e le proprie finalità, legate alle specifiche necessità dei bambini dai tre ai sei anni[88]. Essi tendono a presentarsi innovativi fin dalla stessa denominazione, diversa da quelle precedenti, “Programmi”, evidenziando il carattere assolutamente non prescrittivo delle indicazioni fornite ed il desiderio di valorizzare il più possibile la spontaneità infantile cui si sarebbe dovuta uniformare tutta l’organizzazione della scuola materna. Il bambino degli Orientamenti si presenta astratto, senza connotazioni storico-sociali, lontano dal mondo contemporaneo. Poco convincenti appaiono questi insistiti riferimenti alla mitica spontaneità infantile e l’esaltazione della maestra-madre, impegnata esclusivamente con i bambini della propria sezione e della quale si rileva molto la dote materna[89].

Dieci anni più tardi, con la Legge 18 marzo 1968, n. 444, sono istituite, a seguito di un ventennale dibattito politico e culturale, le scuole materne statali. Queste accolgono i bambini in età prescolastica dai tre ai sei anni e si propongono fini di educazione, di sviluppo della personalità infantile, di assistenza e di preparazione alla frequenza della scuola dell’obbligo, integrando l’opera della famiglia. La sua funzione, che appare incerta tra diversi fini, non le conferisce una fisionomia ben precisa.

Gli Orientamenti dell’attività educativa nelle scuole materne statali, approvati con il D.P.R. n. 647 del 10 settembre 1969, forniranno alla legge istitutiva l’impianto pedagogico-educativo delle scuole. Essi prefigurano, almeno a livello di principio, un nuovo modello pedagogico e culturale dell’educazione prescolastica, cercando di sancirne l’autonomia istituzionale e tentando, pur tra ambiguità e contraddizioni, di sottrarla al tutorato della scuola elementare[90]. La loro applicazione, però, è stata tutt’altro che diffusa per molto tempo, e ciò ha contribuito a rendere grama e stentata la vita della scuola materna per altri anni ancora.

 IV.  La ricerca

 4.1 Il repertorio delle fonti sugli asili infantili

 La pubblicistica sugli asili, sia quella apparsa nelle riviste specializzate, sia quella dei quotidiani e dei periodici, è vastissima in quanto il “problema” dell’infanzia e della sua educazione, fin dall’Unità d’Italia, è fortemente sentito[91].

D’altra parte, lo stesso regolamento sull’istruzione popolare della legge Boncompagni apparso nel 1853, riserva vari articoli alla istituzione, da parte dei comuni riformati (1848), di strutture infantili. In essi si incoraggiano i Comuni alla promozione di asili di educazione ed è, inoltre, possibile affermare che tali articoli furono ispirati dall’Aporti, che il Boncompagni fortemente stimava[92].

Per ciò che nello specifico riguarda la Sardegna, manca, però, un vero e proprio repertorio che dia, in modo esauriente, un’idea su come sia stato affrontato il problema dell’educazione dell’infanzia dal 1848 al 1968.

Sul piano delle realizzazioni, l’isola non si discosta da quel movimento entusiasta, costituito da promotori di varia estrazione sociale e condizione civile, che opera in favore degli asili nella parte centro-settentrionale della penisola[93]. D’altra parte, finora, il problema dell’educazione dell’infanzia, dalla fusione dell’isola col Piemonte fino all’istituzione della Scuola Materna Statale, non ha sollecitato l’attenzione degli storici della Sardegna, anche perché la scoperta della storia infantile è recente e rientra nell’ambito della “nuova” storia, diffusasi in Italia in tempi abbastanza recenti[94].

Anche l’istituzione delle cattedre di Storia della pedagogia e di Storia della scuola e delle istituzioni educative, nel panorama delle nuove discipline, è di nuova data.

Da quanto detto deriva la scarsa conoscenza della storia dell’infanzia e dell’opera degli asili in Sardegna, lacuna che, nell’ultimo decennio,  si è iniziata a colmare con ricerche e conseguenti pubblicazioni tendenti a illuminare il graduale sviluppo degli asili per l’infanzia in Sardegna nel periodo Risorgimentale e, soprattutto, dall’Unità all’istituzione della Scuola Materna Statale.

Fondamentali, a questo proposito, risultano i lavori di ricerca svolti nell’insegnamento di Storia della scuola e delle istituzioni educative condotto da A. Tedde[95]. Tra i più importanti sono da annoverare il catalogo degli asili apparso nel libro “Iniziative sociali di G. B. Manzella” a cura di Lucia Palmas e il lavoro successivo a cura di Maria Francesca Sulas, nei quali, proprio per dare un’idea dello sviluppo delle strutture d’infanzia in Sardegna, sono stati schedati circa 220 asili nel primo lavoro e quasi 300 nel secondo.

A queste ricerche è da aggiungersi la mia che, tenendo conto delle precedenti indagini conoscitive, ha mirato a meglio precisare e documentare, mediante apposite schede informatiche, non soltanto i campi già trattati dalle precedenti giovani studiose, ma ad ampliarli, in particolar modo per il campo dei promotori degli asili infantili.

 Attraverso varie elaborazioni informatiche ed indicatori si è cercato di rendere più chiaro il quadro d’insieme dello sviluppo degli asili nell’isola, avendo presenti le educatrici d’infanzia, i luoghi di fondazione, i promotori e, soprattutto, gli archivi di riferimento, tramite i quali sarà possibile continuare le indagini per una più approfondita conoscenza del loro funzionamento e conseguente efficacia.

4.2. Metodologia della ricerca

Il lavoro di ricerca svolto ha preso in considerazione un intervallo temporale che comprende la seconda metà dell’Ottocento e la prima del Novecento. Lo scopo di quest’indagine è stato accertare lo sviluppo degli asili in Sardegna dal 1848 al 1968, rivisitando e precisando quanto raccolto nei precedenti cataloghi di cui sopra, controllandone le informazioni, apportando le dovute correzioni ed approfondendo le indagini per completarle il più possibile. Per raggiungere questo obiettivo conoscitivo è stata realizzata una accurata ricerca archivistica, sia presso le Case Generalizie e le Case Madri delle Congregazioni religiose educatrici, sia negli archivi delle sedi in cui le scuole infantili sono, ad oggi, ancora attive. Sono, inoltre, stati consultati alcuni registri parrocchiali e, indirettamente, anche documenti comunali che, insieme alle informazioni raccolte nei lavori di tesi precedentemente elencati, hanno portato ad ampliare il catalogo dai 220 asili di partenza ai 299 di oggi.

Alla raccolta dei dati è seguita l’attenta compilazione delle schede informatiche, nelle quali ogni asilo infantile è stato analizzato sulla base di cinque campi d’indagine: l’anno di fondazione della struttura educativa; l’identificazione precisa delle maestre o delle Congregazioni religiose di cui facevano parte le educatrici d’infanzia; il nome della scuola; il luogo di fondazione e la nuova e fondamentale indicazione del promotore dell’asilo d’infanzia, rimasto non identificato nei lavori precedenti.

Per quanto riguarda quest’ultimo campo d’indagine e quindi la scelta di indagare su chi, sensibile nei confronti dei bisogni dell’infanzia abbandonata, si è impegnato, anche e soprattutto economicamente, per la costituzione degli asili sardi, la storia di queste strutture per l’educazione dell’infanzia ne ha fornito l’esigenza. Come vedremo dall’analisi dei dati raccolti, nella loro diffusione l’azione dello Stato unitario e post unitario non è stata molto partecipativa. Anche la legge Casati (1859), considerata la Magna Charta del sistema scolastico italiano[96], ha trascurato totalmente di regolamentare iniziative che, ricche di esperienze positive maturate fino al 1849 ad opera della borghesia moderata fautrice del Risorgimento[97], avrebbero potuto rivelarsi di grande efficacia educativa. Intervenne, però, con graduali sovvenzioni e con la tutela giuridica mentre il compito educativo fu lasciato completamnete ai privati e soprattutto alla Chiesa che, all’interno di uno Stato laico e liberaldemocratico, poté inculturare cristianamete le giovani generazioni salvaguardandole dallo gnosticismo religioso.

Da ciò l’esigenza di rilevare i promotori degli asili, nonostante la complessità del lavoro, giacché diverse iniziative stentavano a decollare o si arenavano perché sorrette da finanziamenti non costanti e poco consistenti.

Il punto di partenza dell’indagine, il 1848, è determinato, come vedremo, dalla nascita dell’asilo d’Alghero[98], una testimonianza del fatto che lo stato di abbandono dell’infanzia sarda iniziasse ad attirare l’interesse di uomini di Chiesa, come l’abate Aporti, che istituiscono orfanotrofi, ospizi per ragazzi abbandonati, laboratori per l’avviamento professionale delle fanciulle povere e, soprattutto, asili infantili. Le iniziali motivazioni caritative saranno incanalate verso fini religioso-educativi, prima, e anche politico-nazionali, dopo. In questa direzione procederanno anche le strutture aportiane che diverranno scuole infantili, ossia luoghi non solo di ricovero e assistenza per i poveri, ma soprattutto di educazione[99].

Con la compilazione dello schedario, che abbraccia 299 asili, si è mirato a creare uno strumento preliminare alla ricerca vera e propria sulle singole strutture, così che, più approfonditamente, si possa in futuro indagare sull’attività effettiva portata avanti dagli amministratori e dalle educatrici d’infanzia, sui vari metodi pedagogici seguiti e sull’efficacia educativa dei vari contesti in cui gli asili hanno funzionato. L’obiettivo che si voleva raggiungere è ed è stato, in primo luogo, quello di porre fine al silenzio degli storici sulle strutture educative dell’infanzia in Sardegna che, come si è ormai dimostrato, si son sviluppate in modo analogo alle regioni centro-settentrionali della penisola[100].

Altro, invece, potrà essere il risultato delle indagini sulla loro effettiva corretta attività educativa.

Per ciò che riguarda le dinamiche dello sviluppo che gli asili infantili hanno avuto in Sardegna dal 1848 al 1968, l’apposito diagramma, ricavato dall’indice cronologico, offre una chiara visione di come, nel corso degli anni, queste strutture si sono sviluppate nella regione.

Nell’arco di tempo considerato possiamo distinguere due periodi: il primo che va dal 1848 al 1927 ed il secondo che comprende gli anni dal 1927 al 1967. Il primo arco temporale è contrassegnato dalla graduale fondazione degli asili; in particolare tra il 1848 e il 1870 si procede con l’istituzione di un asilo all’anno, salvo alcuni picchi tra il 1870 ed il 1879, tra il 1896 ed il 1901 e, in modo più consistente, dal 1903 al 1916, con maggiore attività nel 1919 e meno tra il 1921 e il 1925. Tuttavia, il periodo più fecondo di tutti gli anni oggetto dell’analisi è quello che va dal 1927 al 1929.

Da tale data non ci sarà più un’attività fondativa pari, ma l’istituzione degli asili risulterà comunque più intensa e vivace con livelli maggiori nel 1937, nel 1947 e nel 1955. Da notare che, in questo secondo periodo, vi è un’accresciuta sensibilità nei confronti dell’infanzia e maggior interesse, sia da parte dello Stato sia della Regione Autonoma della Sardegna, a supportare finanziariamente il robustimento degli asili esistenti e la promozione di altri dove questi erano richiesti[101].

In modo ancora più chiaro illustrano lo sviluppo delle strutture infantili le quattro cartine della Sardegna. La prima di queste mostra la fondazione di ben 23 asili tra gli anni 1848-1900; segue la seconda con l’istituzione di altri 50 tra il 1901 ed il 1922; la terza che illustra ben 111 asili istituiti tra il 1923 ed il 1943, infine, la quarta rappresentazione geografica con la fondazione di altri 115 negli anni 1944-1968.

Il confronto fra le quattro cartine mette in risalto il processo di sviluppo inarrestabile di queste strutture infantili in Sardegna.

Se dall’indice cronologico si è ricavata la genesi dello sviluppo degli asili sardi, l’indice delle educatrici d’infanzia ha permesso di rilevare l’impegno profuso dalle varie congregazioni religiose che hanno diretto educativamente, nell’ordine di una decina, il maggior numero di asili.

Il prospetto 1 mette in risalto le congregazioni protagoniste di quest’opera caritativa e educativa, portata avanti dalle Figlie della Carità, di origine francese e di provenienza torinese, dalle Figlie di San Giuseppe, di fondazione sarda, dalle Figlie di Maria Ausiliatrice e dalle Suore si San Giuseppe Benedetto Cottolengo, di fondazione torinese, dalle Suore Francescane di Seillon e dalle Missionarie del Sacro Costato, di Gravina Puglie e, infine, dalle Missionarie Figlie di Gesù Crocifisso di Tempio, dalle Suore Manzelliane di Sassari, dalle Ancelle della Sacra Famiglia di Cagliari e dalle Orsoline di S. G. in Somasca.

Queste dieci Congregazioni, che sono presenti in Sardegna a partire dalla metà dell’Ottocento fino alla metà del Novecento, con i loro fondatori o superiori generali, sono state le vere e proprie protagoniste dell’educazione infantile del maggior numero dei bambini sardi. Tra queste, così come illustrato dalle cinque cartine e dal prospetto 2, si sono contraddistinte le Figlie della Carità, con la direzione educativa di 60 asili sparsi un po’ in tutta l’isola, le Suore di San Giuseppe Benedetto Cottolengo, con 35 scuole,  le cagliaritane Ancelle della Sacra Famiglia, con  35 asili diffusi soprattutto nella Sardegna meridionale, le Figlie di San Giuseppe con 28 asili nel cuore dell’isola e, infine, le Missionarie Figlie di Gesù Crocifisso con 24 asili presenti, in maggiore concentrazione, nella parte settentrionale della regione.

Tali Congregazioni furono fondate da veri e propri  protagonisti di promozione educativa dell’infanzia, sia della penisola sia della Sardegna; sono da ricordare i Preti della Missione, con particolare riferimento alla figura emblematica di Giovanni  Battista Manzella, il piemontese San Giuseppe Benedetto Cottolengo, il ligure oblato di Maria Vergine Felice Prinetti, fondatore delle Figlie di San Giuseppe, il milanese Vescovo di Cagliari col suo Vicario Generale Giuseppe Orrù, fondatori delle Ancelle della Sacra Famiglia ed il tempiese Salvatore Vico, fondatore delle Missionarie Figlie di Gesù Crocifisso.

Da non dimenticare le altre Congregazioni religiose che, in modo fattivo anche se più ridotto, si impegnarono nell’educazione dell’infanzia, così come anche tante pioniere maestre laiche (12%) che svolsero, in vari Comuni, la loro attività educativa.

In merito all’indice dei luoghi, tenendo presente che in Sardegna, nel periodo considerato, il numero dei Comuni oscillerà tra i 290 ed i 370 circa, si può osservare che le strutture per l’infanzia sorsero in quasi tutti i centri, fermo restando che un’ulteriore e più vasta ricerca potrebbe permettere di rinvenire altre scuole infantili che, in questo catalogo, dati i limiti del lavoro, non sono state inserite.

Non è stato possibile, infatti, portare avanti indagini accurate negli archivi dei singoli Comuni, con particolare riferimento ai verbali delle delibere del Consiglio Comunale che, in seguito a qualche sondaggio, come nel caso di Chiaramonti, ha determinato la scoperta di un’attività educativa sfuggita a precedenti rilevazioni.

Ciò che, più di tutti, arricchisce questo catalogo, rispetto ai precedenti, è l’indice dei promotori.

Occorre premettere che il metodo di promozione degli asili, da parte di Ferrante Aporti, si basava sull’iniziale costituzione di un comitato promotore al quale seguiva il reclutamento di azionisti, vale a dire di benefattori disposti a versare una quota annua; infine, si procedeva alla ricerca di fondi più consistenti presso le varie istituzioni e alla predisposizione di uno statuto che, seguendo varie fasi di sviluppo, giungesse alla costituzione di un ente o corpo morale che dava personalità giuridica all’asilo conferendo agli amministratori la capacità di agire attivamente e passivamente alla tutela degli interessi dell’ente.

In linea di massima, con le variazioni dovute ai diversi periodi e contesti istituzionali, si procedette in tal modo anche in Sardegna. Tra il 1848 ed il 1860, per la costituzione degli asili, si fece riferimento alle leggi e alle consuetudini del Regno di Sardegna[102] successivamente all’Unità il riferimento fu la legislazione del 1862, del 1890, del 1929 e del 1937.

Per quanto detto, nell’indice dei promotori figurano circa 261 tra personaggi ed enti di vario genere, quasi sempre collaterali alle iniziative dei promotori costituiti da nobiluomini, nobildonne, signori alto borghesi con altrettante signore, uomini di Chiesa e, tra gli enti, spicca l’ESMAS. Quasi sempre, così come già accennato dalla letteratura, accanto al promotore laico si poneva il copromotore ecclesiastico e, accanto ad essi, la comunale Congregazione di Carità, soci azionisti ed il Comune. A questi occorre aggiungere le varie comunità in cui sorgeva l’istituzione: spesso le madri degli scolaretti, il parroco della Chiesa locale o gli stessi promotori ecclesiastici e laici, con manifestazioni di vario genere, (pesche di beneficenza, spettacoli ricreativi, recite teatrali, raccolta di fondi), davano il loro generoso contributo determinando l’efficacia dell’iniziativa. Un’attenta lettura dell’indice offre ogni chiarimento in proposito.

Conclusioni

 Gli obiettivi prefissati e poi raggiunti con la ricerca sono stati quello di revisionare e meglio puntualizzare il repertorio esistente, accrescere con ulteriori ricerche l’indagine e, infine, inserire nelle schede del catalogo realizzato il campo sui promotori degli asili infantili istituiti in Sardegna tra il 1848 e il 1968. La contestualizzazione di questa istituzione ha richiesto un approfondimento sul catalogo, o repertorio, o schedario, delle singole strutture educative, quale strumento preliminare alla ricerca per chiunque volesse indagare sulla risposta data in Sardegna ai bisogni dell’infanzia.

Il lavoro è stato coronato dal successo grazie  alla vastità di notizie raccolte soprattutto presso gli archivi delle congregazioni religiose, sia nelle Case Generalizie, sia in quelle locali, nonché nella stessa esistente letteratura.

Per meglio capire il processo di sviluppo di queste strutture per l’infanzia ci si è dovuti soffermare  sulla situazione sociale, politica ed economica della Sardegna per gli anni considerati dall’indagine: centoventanni che hanno visto la regione uscire dal proprio isolamento istituzionale per inserirsi in un primo momento nel Regno di Sardegna unificato e, successivamente, costituire il primo nucleo del Regno d’Italia. Tutti questi momenti sono stati contrassegnati per l’isola da una profonda crisi che, nonostante le grosse contraddizioni sul piano economico, sociale e culturale, l’hanno avvicinata alle altre regioni del Paese.

Non ci si poteva non soffermare, per tanti versi, sulla questione meridionale, su quella dell’autonomia e sul periodo del Ventennio fascista, anni nei quali le istituzioni per l’infanzia sono, man mano, cresciute numericamente.

Altro momento importante del lavoro è rappresentato dallo sguardo dato alla scuola dell’infanzia da un punto di vista storico- normativo ed educativo-pedagogico, evidenziando il percorso di sviluppo degli asili della penisola e, in particolare, delle regioni centro-settentrionali nelle quali l’opera degli asili si è favorevolmente accresciuta. A ciò è seguito l’ovvio e necessario confronto con lo sviluppo degli asili in Sardegna, ignorato quasi del tutto dalla letteratura nazionale.

Da ultimo ci si è soffermati a focalizzare il repertorio, mettendo in luce la metodologia della ricerca e i vari indici predisposti sui campi costituenti la scheda informatica di ciascun asilo.

 Si è così giunti alla conclusione che, nella stragrande maggioranza, i promotori degli asili infantili sardi, per gli anni considerati, sono stati personaggi vicini a quelle persone di Chiesa dedite ad iniziative assistenziali e alle opere educativo-scolastiche che si sono impegnate per la creazione di queste strutture offrendo anche il personale educativo. Con ulteriori approfondimenti si potrà anche rilevare l’appartenenza dei promotori al vasto e variegato movimento cattolico che si diffuse in Sardegna, come nella penisola, immediatamente dopo l’Unità.


[1]F. CAMBI, L’infanzia e la sua storia: un problema storiografico, in L. CAIMI (a cura di), ), Infanzia Educazione e società in Italia tra Otto e Novecento. Interpretazioni, prospettive di ricerca, esperienze in Sardegna, Edes, Sassari 1997, p. 11.

[2] L. CODA, La Sardegna nella crisi di fine secolo, Chiarella, Sassari 1974.

[3] M. LE LANNOU, Pastori e contadini di Sardegna, Della Torre, Sassari 1979.

[4] L. DEL PIANO, La Sardegna nell’Ottocento, Sassari 1994.

[5]A. TEDDE, Per una storia dello sviluppo urbano in Sardegna,  Diesse, Sassari 1989.

[6] ID., Iniziative assistenziali e educative per l’infanzia in Sardegna tra Otto e Novecento, in L. CAIMI (a cura di), Infanzia Educazione, cit., p. 71.

[7] ID.- G. NUVOLI, La famiglia in Sardegna, Diesse, Sassari 1978.

[8] F. CAMBI, S. ULIVIERI, Storia dell’infanzia nell’Italia liberale, La Nuova Italia, Scandicci 1998 (prima ed. 1988), p. 2.

[9] Ivi, p. 13.

[10] M. C. SOTGIA, Povertà e emarginazione in Sardegna nella prima metà del Novecento, in A. TEDDE (a cura di), Iniziative sociali di G. B. Manzella e delle Congregazioni religiose in Sardegna nel Novecento, Associazione Alcide de Gasperi, Sassari 1996, p. 11.

[11] G. NUVOLI, L’infanzia abbandonata ad Alghero dal Settecento al Novecento, tesi di laurea, Uniss, Facoltà di Scienze Politiche, a.a. 1987-’88.

[12]M. C. SOTGIA, Povertà e emarginazione, cit., p. 9 e ss.

[13] A. TEDDE (a cura di), Leggi e regolamenti sulle Istituzioni Pubbliche di assistenza e beneficenza (1862-1937), Intra Moenia, Sassari 2000.

 

[14]E. TOGNOTTI, La malaria in Sardegna, F. Angeli, Milano 1996.

[15]G. M. SOTGIA, Il tracoma nelle scuole elementari di Sassari, Tipografia Operaia, Sassari 1921.

[16] F. COLETTI, La mortalità nei primi anni d’età e la vita sociale in Sardegna, F.lli Bocca, Torino 1908, pp. 75-78.

[17] F. SANNA RANDACCIO, L’infanzia cenciosa e l’istruzione popolare, Muscas di Valdès, Cagliari 1898.

[18]A. TEDDE, La famiglia nella storia sarda, in A. TEDDE, G. NUVOLI, Note sulla famiglia in Sardegna, Diesse, Sassari 1978.

[19]M. C. SOTGIA, Povertà e emarginazione, cit., p. 13.

[20]D. CADEDDU, Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza. Catalogo degli isituti per l’infanzia abbandonata (1832-1970), tesi di laurea, Uniss, Facoltà di Lettere e Filosofia.

 [21] F. CAMBI, S. ULIVIERI, Storia dell’infanzia, cit., p.12.

[22] A. TEDDE, Iniziative assistenziali, cit., p. 78.

[23] G. BECCHI, Caccia grossa. Scene e figure del banditismo sardo, la Poligrafica, Milano 1900.

[24]A. TEDDE, Istituti assistenziali educativi in Sardegna (1832-1968), in  ID. (a cura di), Cattolici per l’infanzia in Sardegna tra Otto e Novecento, Associazione Alcide de Gasperi, Sassari 1997, p. 145.

[25] G. SERRI, La Sardegna in età moderna e contemporanea, in P. DE GIOANNIS, G. G. ORTU, L. M. PLAISANT, G. SERRI, La Sardegna e la storia, Celt, Cagliari 1988, p. 61.

[26] R. CARTA RASPI, Storia della Sardegna, Mursia, Milano 1971, p. 50.

[27] G. SOTGIA (a cura di), La Sardegna nel 1948: la polemica sulla “fusione”, Fossataro, Cagliari 1968.

[28] G. FOIS, La Sardegna “ italiana” in M. BRIGAGLIA (a cura di), Storia della Sardegna, Della Torre, Cagliari 1998, p. 244.

[29] M. LE LANNOU, Pastori e contadini, cit., pp. 78-79.

[30] G. SERRI, La Sardegna in età moderna, cit., p. 68.

[31] Ivi, p. 70.

[32] G. M. LEI SPANO, La questione sarda, Reprint, Sassari 1990.

[33] G. SERRI, La Sardegna in età moderna, cit., p. 76.

 

[34] F. MANCONI, Le miniere e i minatori della Sardegna, Cagliari 1986.

[35] G. BECCHI, Caccia grossa, cit., p. 63.

[36] ID. (a cura di), Le inchieste parlamentari sulla Sardegna dell’ Ottocento, Fossataro, Cagliari 1984.

[37] G. SOTGIU, Lotte politiche e sociali nella Sardegna contemporanea, Edes, Cagliari 1974.

[38] E. TOGNOTTI, Storia delle bonifiche, in M. BRIGAGLIA (a cura di), La Sardegna, Cagliari 1988, vol. III, pp. 236-242.

[39] G. SERRI, La Sardegna in età moderna, cit., pp. 90 e ss.

[40] G. FOIS, La Sardegna “ italiana”, cit., p. 256 e ss.

[41] G. SERRI, La Sardegna in età moderna, cit., p. 102.

[42] G. SOTGIU, Storia della Sardegna dalla grande guerra al fascismo, Roma- Bari 1986.

[43] A. CORSI (a cura di), Socialismo e fascismo nell’Iglesiente, Cagliari 1979.

[44] G. SERRI, La Sardegna in età moderna, cit., p. 104.

[45] G. FOIS, La Sardegna “ italiana”, cit., p. 258.

[46] “Quaderni sardi di storia”, 1-4, (1980-84).

[47] Ivi.

[48] G. FOIS, La Sardegna “ italiana”, cit., p. 259.

[49] “Quaderni sardi”, cit.

[50] G. FOIS, La Sardegna “ italiana”, cit., p. 259-265.

[51] R. CARTA RASPI, Storia della, cit., p. 180.

[52] F. MANCONI, G. MELIS, G. PISU, Storia dei partiti popolari in Sardegna, Della Torre, Sassari 1979.

[53] Art. 116 della Costituzione.

[54]F. MANCONI, G. MELIS, G. PISU, Storia dei partiti, cit., p. 206.

[55] G. SERRI, La Sardegna in età moderna, cit., p. 114.

[56] M. R. CARDIA, La nascita della Regione autonoma della Sardegna, 1943-1948, Milano 1942, pp. 222 e ss.

 

[57] M. BRIGAGLIA e G. MELIS, La Sardegna autonomistica, in M. BRIGAGLIA (a cura di), Storia della Sardegna, Della Torre, Cagliari 1998, p. 286.

[58] G. SERRI, La Sardegna in età moderna, cit., p. 118.

[59] M. BRIGAGLIA e G. MELIS, La Sardegna, cit. p. 291.

[60] E. CATARSI, G. GENOVESI, L’infanzia a scuola. L’educazione infantile in Italia dalle sale di custodia alla materna statale. Juvenilia, Bergamo, 1985, pp. 11-15.

[61]G. CALO’, Pedagogia del Risorgimento, Sansoni, Firenze 1965, p. 46-47.

[62] Ivi, p. 49.

[63] A. BROCCOLI, Educazione e politica nel Mezzogiorno d’Italia (1767-1860), La Nuova Italia, Firenze 1968, p. 142.

[64] R. SANI (a cura di), Chiesa, educazione e società nella Lombardia del primo Ottocento. Gli istituti religiosi tra impegno educativo e nuove forme di apostolato (1815-1861), Centro Ambrosiano, Milano 1996.

[65] I. SERRA, L’asilo aportiano di Alghero (1844-1848), in A. TEDDE (a cura di), Cattolici per l’infanzia, cit., 45; id., L’asilo aportiano di Alghero (1848-1849), in L. CAIMI (a cura di), Infanzia, Educazione, cit., p. 98; id., Gli asili aportiani in Sardegna, in “Annali di storia dell’educazione e delle istituzioni scolastiche”, 6 (1999), pp. 153, 156; Archivio orfanotrofio “Figlie di Maria” Sassari.

[66] E. CATARSI, L’asilo e la scuola dell’infanzia, La Nuova Italia, Firenze 1994, p. 49.

[67] A. TEDDE (a cura di), Leggi e regolamenti sulle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza (1862-1937), Intramoenia, Sassari 2000, p. 8.

[68] R. LENZI, La legge Casati alla luce delle risultanze statistiche, 1959, p. 117.

[69] G. BONETTA, Storia della scuola e delle istituzioni educative, Giunti, Prato 1997, pp. 123- 125.

[70] A. BIANCHI,La storia della scuola in Italia dall’Unità ai giorni nostri, in L. PAZZAGLIA e R. SANI (a cura di), Scuola e società nell’Italia unita. Dalla legge Casati al Centro Sinistra, La Scuola, Brescia 2001, p.520.

[71] R. LENZI, La legge Casati alla luce, cit., p.120.

[72] C. GIODA, Gli asili d’infanzia in Italia, in D. GASPARINI, Adolfo Pick, il pensiero e l’opera, CDNSD, Firenze 1970, pp. 257-278.

[73]A. TEDDE (a cura di), Leggi e regolamenti, cit., p. 26.

 

[74] C. COVATO, A. M. SORGE, L’istruzione normale dalla legge Casati all’età giolittiana, Ministero per i beni culturali e ambientali, Roma 1994, p. 165.

[75] D. ORLANDO, Pedagogia dell’infanzia e Scuola Materna, La Scuola, Brescia 1970, p. 59-61.

[76] G. GENOVESI, Storia della scuola in Italia dal Settecento a oggi, Laterza, Roma-Bari, 1999.

[77] R. FORNACA, La scuola italiana e il positivismo, in E. R. PAPA (a cura di), Il positivismo e la cultura italiana, Angeli, Milano 1985, pp. 79-80.

[78] P. GUARNIERI, Filosofia e scuola nell’età giolittiana, Loescher, Torino 1980, p. 170.

[79] T. BRUTTINI, Filastrocche e girotondo. Storia degli asili senesi dalla fondazione al fascismo, Amministrazione Provincia Siena, 1982.

[80] P. GENOVESI, La riforma Gentile tra educazione e politica, Corso, Ferrara 1996, pp. 95-96.

[81] R. D. 1 ottobre 1923, n. 2185, art. 1.

 

[82] P. GENOVESI, La riforma Gentile, cit., pp. 117-119.

[83] E. CATARSI, G. GENOVESI, L’infanzia a scuola, cit., p. 153.

[84] G. GENOVESI, Storia della scuola, cit., pp. 2-10.

[85] L. 1° giugno 1942, n. 901 Costituzione di un ente per le scuole materne della Sardegna.

[86] Relazione sulla nascita e sul funzionamento delle scuole materne ESMAS del Commissario Straordinario dell’Ente, prof. A. Amicarelli, Consigliere Regionale, Cagliari 1960.

[87] Indagine conoscitiva sullo stato della scuola materna in Sardegna, in “Quaderni di Sardegna Autonomia”, 2 (1977).

[88]F. LOMBARDI, I programmi della scuola per l’infanzia in Italia dal 1914 al 1969, La Scuola, Brescia 1970, pp. 227-235.

[89] Ivi, pp. 230-236.

[90] E. CATARSI, G. GENOVESI, L’infanzia a scuola, cit., p. 237.

[91] L. TRISCIUZZI, F. CAMBI, L’infanzia nella società moderna, Editori Riuniti, Roma 1989, p. 58.

[92] G. GENOVESI, Storia della scuola, cit., p. 32.

[93] E. CATARSI, G. GENOVESI, L’infanzia a scuola, cit., p. 240.

[94] R. SANI, L’educazione dell’infanzia nella storia. Interpretazioni e prospettive di ricerca, in L. CAIMI (a cura di), Infanzia, educazione, cit., p. 21.

[95] L. A. PALMAS, Repertorio degli asili infantili in Sardegna, (1900-1968); M. F. SULAS, Asili di Carità, Giardini d’infanzia e Scuole materne in Sardegna (1848-1968): catalogo degli asili; M. GRANELLA, Asili infantili in Gallura nel primo Novecento. L’asilo infantile Maria Pes di Calangianus (Sassari) 1927-1950; G. MORITTU, Asili infantili in Gallura nel primo Novecento. L’asilo infantile “La Consolata” di Luras (Sassari) (1917-1968); M. G. SANNA, L’asilo comunale di Benetutti (Sassari) (1915-1968); M. MARRAS, L’impegno sociale e religioso di Salvatore Vico in Sardegna dal 1922 al 1976; G. CONGIAS, L’impegno educativo e formativo di Padre Giovanni Battista Manzella in Sardegna (1900-1937); D. CADEDDU, Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza. Catalogo degli istituti per l’infanzia abbandonata (1832-1970).

 

[96] S. SANTAMAITA, Storia della scuola. Dalla scuola al sistema formativo, Bruno Mondadori, Milano 1999, p. 7.

[97] E. CATARSI- G. GENOVESI, L’infanzia a scuola. L’educazione infantile in Italia dalle sale di custodia alla materna statale, Juvenilia, Bergamo 1985, p. 14.

[98] I. SERRA, L’asilo aportiano di Alghero (1844-1848), in A. TEDDE (a cura di), Cattolici per l’infanzia, cit., 45; id., L’asilo aportiano di Alghero (1848-1849), in L. CAIMI (a cura di), Infanzia, Educazione, cit., p. 98; id., Gli asili aportiani in Sardegna, in “Annali di storia dell’educazione e delle istituzioni scolastiche”, 6 (1999), pp. 153, 156.

[99] G. CALO’, Ferrante Aporti e gli asili infantili, in “Rivista d’Italia”, XXX, 1927, vol. III, pp. 63-93.

[100] Vedi in proposito Annali di storia”, cit.

[101] Relazione sulla nascita e sul funzionamento delle scuole materne ESMAS, cit.

[102] Regolamento delle scuole pei maestri delle scuole elementari e speciali, titolo XV Asili d’infanzia, artt. 71-77.

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