Categoria : storia

“I Cappuccini a Sanluri” di Rosanna Pisanu

Tratto da “I Cappuccini a Sanluri” e da “Biblioteca della memoria” di Rosanna Pisanu
I Cappuccini arrivarono a Sanluri nel 1608: alla popolazione mancavano, persino, i beni essenziali; costretti a sopravvivere di un’agricoltura di sussistenza, coltivavano, con mezzi rudimentali e inadeguati, piccole estensioni di terre avute in affitto o a mezzadria. Spesso oberati da debiti e vincoli agrari, che non riuscivano a onorare, o stremati da alluvioni alternate a periodi di siccità, da malattie della vite e dell’allevamento, molti finivano in mano agli usurai, perdendo così ogni avere.
Le documentazioni fotografiche mostrano, anche nei secoli successivi, visi corrugati e prematuramente raggrinziti, mani e piedi asciutti e tesi per la quotidiana fatica nei campi, con vene molto evidenti nella pelle tesa sulle ossa scarne. Gli stessi sguardi smarriti esprimono quanto fosse ancora difficile l’esistenza e quante privazioni dovessero subire. Tra coloro che si distinsero nell’aiutare la popolazione, sfidando pericoli e diffidenze, si ricordano i Cappuccini. Molti sanluresi si rivolgevano a loro, non solo per la cura dell’anima ma anche del corpo, ottenendo, sempre gratuitamente, farmaci, un pasto caldo ma soprattutto la provvista dell’acqua potabile, proveniente dalla loro cisterna. Sanluri è stato, nel tempo, ricco di molti frati questuanti illustri; tra cui Sant’Ignazio da Laconi e il Beato Nicola da Gesturi, accolti sempre dal popolo come benefattori e confidenti; sempre distribuivano ai poveri tutto ciò che avevano potuto ricevere dalla carità dei buoni cittadini e dalla dispensa del convento.
Questi catastrofici eventi ci rendono, in maniera realistica, la drammaticità di Sanluri nel passato:
1629 – Epidemia di vaiolo
644/47/52/80 – Terribili carestie, a seguito soprattutto di cavallette
1652/56 – “La grande peste mediterranea”
1780 – Grave carestia – la popolazione, che contava 4162 abitanti, di cui 2269 maschi e 1893 femmine, patì la fame. In tale circostanza rifulse la carità dei frati che si prese grande cura degli ammalati e dei poveri, distribuendo loro viveri e medicine
1803 – Alluvioni – distrussero completamente i seminati
1810 – Raccolto di grano nullo – il popolo è sprovvisto anche del grano per la semina
1812 – Sarà ricordato come il famigerato “Annu doxi” per la grave carestia che colpì tutta l’isola e che provocò una grande mortalità, per la fame, anche nel nostro villaggio. A tutto ciò si aggiunsero il flagello di un’estrema siccità e il vaiolo che fece, soprattutto, strage di bambini
1815 – Non si ha neanche il grano necessario per la sussistenza
1816 – Sanluri è colpita da una “Fiera carestia”, scarsissimo il raccolto con grave penuria di grano; moltissimi furono quelli che sopravvissero grazie alla minestra del Convento. A tutto questo seguì un’altra pestilenza
1818 – La carestia si ripete nel 1818, accompagnata da un inverno crudissimo, fu un anno di “febbri maligne” di rilevante mortalità: i frati, anche in questa circostanza, offrivano gratuitamente i farmaci.
1823 e il 1828 – I rii, a causa delle copiose piogge, strariparono, provocando gravi danni ai seminati
1829 – Il vaiolo e le febbri malariche provocarono numerose vittime
1842 – Il 15 agosto, di pomeriggio, piovve per tre ore consecutive, gran parte del grano, delle fave e di altri legumi, che, già trebbiati, si trovava nelle aie, andarono distrutti, e anche quel poco che si riuscì a salvare, subì gravi danni, infatti, essendo stati conservati molto umidi marcirono nel giro di poco tempo. La stessa sorte subì la paglia perché rinserrata senza essere ben asciugata
1845 – I contadini non furono in grado di pagare le imposte; già da due anni erano fortemente indebitati con il Monte frumentario e pertanto, molti di loro si videro costretti a disfarsi dei gioghi e degli animali da lavoro arrivando, addirittura, a barattarli con i proprietari, per pochi starelli di frumento.
1846 – Durante la notte del due novembre un’inondazione allagò talmente i terreni da impedire, per quell’anno la semina. Si perdettero grano, fave e altri legumi che, insieme a diverse masserizie, furono portati via dall’acqua. Anche negli anni successivi avvennero altre devastanti inondazioni.
1850 – Peggiorano le condizioni di vita anche per il Convento per “La legge di soppressione”. Dal 1854 – Riapparve il colera. Sanluri, dopo il contagio contava appena 3928 abitanti: pari a quella del 1799.
1855 – La vita diventò ancora più dura poiché il convento doveva ricevere, per legge, dalla Cassa ecclesiastica una determinata somma annua per le spese consuete, somma che, spesso, ritardava o non perveniva del tutto.
1881/7 agosto “Su trumbullu”: L’aumento della pressione fiscale provocarono tra il popolo, ormai stremato dalla fatica e dalla fame, una rivolta che provocò diversi morti, e numerosi arresti, tra cui diciassette condanne ai lavori forzati, due a sedici anni di detenzione e venticinque a pene minori. L’opera pietosa dei Frati riuscì a rendere più sopportabile il dolore e lo sconforto che, in tutti i sanluresi, provocò questa tragedia
1887 e 1911 – Violente epidemie di vaiolo
1891 – Cattivi raccolti, invasioni di cavallette e carestie
Scorrendo le pagine del “Registro delle morti” conservato presso la Parrocchia e i documenti presso l'”Archivio comunale di Sanluri”, fa impressione, notare l’elevatissimo numero dei decessi: i più a rischio erano gli anziani, le donne e soprattutto i bambini che, senza adeguata assistenza né cure mediche, si ammalavano gravemente e morivano. La natalità restava sempre altissima e le famiglie numerose. I bambini erano denutriti, dissenterici, tracomatosi, in preda alla malaria, con il pancino gonfio come otri per la febbre provocata dalla denutrizione e dalla zanzara anofele. Le cause di morte infantile erano imputabili a vari motivi: sicuramente a un’insufficiente difesa del fisico che portava a malattie che ora sono facilmente guaribili, ma che, allora, risultavano letali, come difterite, vaiolo, gastroenterite, polmonite, tifo, pertosse, malaria; alle scarse cure mediche che allora, i poveri non potevano affrontare. Molti bambini nascevano già morti per asfissia, altri ne morivano per denutrizione: erano nutriti per un anno, e anche più, solo con il latte materno. La loro sopravvivenza, in un tempo in cui non esisteva la possibilità d’allattamento artificiale, dipendeva, infatti, esclusivamente da questo: l’unica alternativa consisteva nel far allattare il bimbo da un’altra mamma ma non sempre era possibile.
“Per richiamare il latte” si ricorreva a tante credenze popolari, ma c’era anche un rimedio, che sapeva di miracoloso, che consisteva nel recarsi presso il Convento dei Cappuccini per chiedere un pentolino, “u casiddu, de sa minestra ‘e is paras”.
Il dottor Salvatorangelo Ledda in “Sanluri – Topografia e Statistica Medico – Storica – 1884” così commenta questa convinzione: “Tra i tanti… uno dei privilegi certamente ridicoli si è il credere che il mezzo per richiamare il latte nelle puerpere, alle quali scompare in seguito a cause differenti, consiste nell’accattare dai PP. Cappuccini una scodella di minestra e la puerpera doversela mangiare anche senza volontà. […] Per tale credenza, raramente, o molto tardi, si ricorre ai consigli del medico.”
Padre Giulio Baldus da Samatzai, Frate Cappuccino, in quegli anni giovane sacerdote, racconta che lui stesso benedì, più volte, la “minestra per il latte” e che era cosa ordinaria, e quasi quotidiana, la presenza sulla porta del Convento di donne che sostavano in attesa che il frate riconsegnasse loro i pentolini con la “minestra dei frati”: quasi sempre un minestrone di cereali, spesso non molto indicato per la digestione, ma che a dire delle mamme di un tempo, abituate a partorire e ad allattare sfilze di bambini, era una minestra ottima al gusto e prodigiosa, perché vi trovavano il rimedio alla scarsità di latte durante l’allattamento. Loro, infatti, grazie alla loro inattaccabile fede e fiducia nei riguardi dei Frati, erano convinte che questa minestra permettesse di riprendere l’allattamento e far sopravvivere, così, i loro bambini. Sempre Padre Giulio Baldus, andando a ritroso nel tempo, rammenta che quelli erano momenti difficili, molto difficili, soprattutto durante l’ultima guerra mondiale e nell’immediato dopo guerra: “Non si trovava di che mangiare e, quasi, di che vestirsi. Si ricorreva a ogni mezzo per giocare la vigilanza dello Stato sulla produzione di grano, olio e cereali e, chiunque producesse alcunché di commestibile, lo commerciava “in nero”. Si diceva, comprare a “mantinica”, cioè al mercato nero.
Ma anche lì a perderci erano sempre i poveri perché non possedevano denaro, e per mangiare dovevano arrangiarsi, magari, cercando erbe commestibili nella campagna. Erano i tempi d’oro della bietola, del cardo, della cicoria e del carciofino selvatici (cuguzzua), delle lumache, piccole, medie e grandi, del pane e del caffè di orzo, e di altri numerosi espedienti inventati per la sopravvivenza come quello del sapone ottenuto con vari intrugli di grasso. Ci si doveva liberare, poi, dai vari parassiti; in quei tristi tempi di “peste fredda”, veri torturatori del corpo umano: pidocchi, cimici, pulci e mosche; gli alleati più temibili della guerra e della miseria dell’immediato dopo guerra. Solo con la venuta degli americani in Italia si poté respirare sia per il mangiare, sia per la grazia di essere liberati da parassiti vari con il famoso “di. di. ti”, un solvente chimico prodigioso che fece sparire dalla Sardegna, come d’incanto, la febbre malarica e questi “animaletti” del corpo che ci avevano resi fino ad allora come degli appestati. Lo dice uno che ha dovuto lottare per anni contro la malaria, i pidocchi, le cimici, le pulci e le mosche che invadevano case, persone, mensa e piatti su cui si mangiava un poco di minestra. Tanti della mia età non possono dimenticare, e non ringraziare abbastanza, chi ci ha liberato da quei pestiferi malanni”.
Tutto questo richiama alla memoria quanto i frati facessero quotidianamente per andare incontro a tanti poveri del paese. Frati e locali del convento, come ai tempi della peste, erano disponibili per tutti, e mai lesinarono, per il popolo bisognoso, farmaci, acqua e minestra. In quei tempi, chiunque giungesse sul colle dei cappuccini verso l’ora di pranzo, poteva vedere, ogni giorno, una piccola folla di circa cinquanta persone, con, in mano, pentolini e recipienti vari, in attesa che il frate aprisse la porta del convento e, con pentola e mestolo in mano, distribuisse la minestra “ai poveri”. Quest’aiuto provvidenziale durò fino a che “l’emergenza povertà” cessò con l’arrivo di uno stato migliore di benessere generale. Tra gli anziani di Sanluri chi non ricorda i frati Silvestro, Giovanni, Giustino Ginepro, Domenico, addetti a quel servizio di carità verso i poveri del paese? L’ultimo, in ordine di tempo, è stato forse fra Nazareno, il più conosciuto, e oggi candidato agli onori degli altari. Era esigente e imparziale verso coloro che lui chiamava “i povarelli”: a questi, ogni giorno, egli riservava il meglio della sua carità e della sua cucina.
A Sanluri, anche fino a un cinquantennio fa, un grosso limite era costituito dalla scarsità d’acqua, non solo per l’agricoltura e la pastorizia ma anche per l’igiene e l’acqua potabile. I corsi d’acqua, Riu Piras, Riu Mannu, Riu Ciccu, Riu Acqua Sassa, Masoni Nostru, in estate erano più che altro dei rigagnoli, spesso asciutti, mentre in inverno, a causa delle copiose piogge, costituivano un pericolo non solo per l’agricoltura ma anche per l’incolumità degli stessi abitanti. Per gli usi non alimentari, per lavarsi e per abbeverare gli animali, alcune case avevano un pozzo e una vasca in cemento, o semplicemente scavata, che raccoglieva le acque piovane delle grondaie. Per approvvigionarsi d’acqua potabile si era invece costretti a recarsi presso fontane, pozzi e cisterne private perché le fontane e i pozzi del paese erano spesso inservibili e malsani. I ricchi provvedevano all’approvvigionamento idrico solitamente la domenica: la loro servitù si doveva recare, su carri trainati da buoi o da cavalli, presso alcune fonti distanti anche parecchi chilometri dal paese, a Funtana Noa, a Mare Idda, a Bangia Udu in territorio di Samassi o alle numerose “mizzas” sparse nella campagna, per riempire d’acqua delle botti di legno.
Dottor Salvatorangelo Ledda in “Sanluri- Topografia e Statistica Medico-Storica – 1884” testimonia che: “Le sorgenti d’acqua, relativamente potabile, sono circa venti, ma quasi tutte di scarsissimo sgorgo e lontane dall’abitato. L’acqua di queste sorgenti si attinge con vasi di legno, si porta in paese colle botti sui carri e si conserva nelle stesse botti od in vasi di terra cotta. Coloro, cui per deficienza di mezzi di trasporto, quali sono i braccianti, non è dato potersi servire di quest’acqua, bevono quella leggiera e stracarica di sali di alcuni pozzi esistenti entro il paese, la cui acqua è inquinata da diuturni gemizii dei letamai”.
Nel paese vi erano anche alcune cisterne di privati che raccoglievano “S’acqua de pruìu” che poi, però era venduta. L’acqua della cisterna comunale si vendeva a cinque centesimi il litro, quella che si dovette portare da Villacidro con carri ferroviari, costava trenta centesimi il decalitro ma la popolazione non poteva permettersi questa spesa. Solo il Convento offriva l’acqua gratuitamente: da quattro secoli, ormai, era uno dei punti principali per l’approvvigionamento dell’acqua potabile. Dentro, al centro del chiostro, vi era, e vi è tuttora, una cisterna che raccoglieva l’acqua piovana durante la stagione delle piogge. Era costruita mediante un sistema di canalizzazione in coccio che coinvolgeva l’acqua dentro una buca piena di ciottoli di fiume sempre più piccoli; l’ultimo filtro era costituito da pezzi di carbone di legna. I sanluresi salivano, arrancando una stradina quasi campestre, a metà della quale si soffermavano di fronte alla Croce di limite, dove vi era una lapide marmorea, scolpita su pietra marmorea bianca, fissata sotto la croce giurisdizionale (una croce metallica color grigio chiaro) che segnava il limite di proprietà del convento. Fu collocata, verso la fine del diciottesimo secolo, per volere del Vescovo di Cagliari Don Vittorio Melano, a metà della salita, a sinistra, di fronte alla chiesa gotico aragonese di San Rocco.
Una scritta in castigliano, incastonata sulla struttura, riporta:
EL ILLUSTRISSIMO Y REVERENDISIMO SENOR
DON VICTORIO MELANO ARZOPISPO DE CALLER
CPNCEDE 40 DIAS DE INDULGENCIA
A TODOS QUE PASANDO DELANTE
DE ESTA CRUZ RESAREN UN PADRE
NUESTRO Y AVE MARIA
Traduzione (sciogliendo le abbreviazioni)
L’ Illustrissimo e Reverendissimo Signor
Don Victorio Melano Arcivescovo di Cagliari,
concede 40 giorni d’indulgenza
a tutti coloro che passando davanti
a questa croce reciteranno un Padre
Nostro e un Ave Maria>
È priva di data ma è certo che Monsignor Melano fu Arcivescovo di Cagliari dal 1778 al 1797. Joaquín Arce, nel suo libro, datato 1960, “Espana en Cerdeña”, ristampato in italiano, a Cagliari, poco dopo la scomparsa dell’autore, col titolo “La Spagna in Sardegna nel 1982”, riferendosi alla lapide (pagina 532), la definisce <La mas tardia de las datables> (La più tarda datata nella lingua castigliana fra quelle trovate sparse in Sardegna).
Una lapide che in lingua spagnola invitava, “a rasai” (a pregare), per ottenere l’indulgenza plenaria di quaranta giorni.
P. Eliseo Lilliu in un suo scritto “Conosci il Convento” testimonia che: <La popolazione che voleva dissetarsi con l’acqua veramente potabile, saliva al Convento per una stradina quasi campestre, a metà della quale s’incontrava, e s’incontra tutt’ora, la croce di limite, con sotto la lapide marmorea, in lingua spagnola, che invita a “rasai”, cioè a pregare per ottenere l’indulgenza di 40 giorni>. La lapide, rimossa dalla sede originaria, è custodita nel Museo etnografico dei Cappuccini di Sanluri.
Arrivati lassù, si suonava la campana della portineria e si chiedeva, “Pro amor’e Deus”, la carità di una brocca d’acqua. Essendo in vigore la clausura, non si poteva entrare nel chiostro e, pertanto, si doveva consegnare la brocca a un frate, che, con molto spirito cristiano, eseguiva l’umile servizio d’acquaiolo, attingendo l’acqua con la carrucola.
I frati offrivano ricovero, anche per la notte, ai poveri viandanti che non potevano permettersi il lusso di riposare in una locanda. Nel convento vi era “Su stab’e guventu”, un rifugio abituale anche per i senzatetto e gli sbandati e, per loro veniva acceso nel chiostro un fuoco affinché si scaldassero. Tanto era diffusa quest’usanza che, poi, i perdigiorno e i scapestrati si sentivano spesso dire: “Sìghi diaìci e finit chi andas a croccài ais butegheddas de guventu”.
Antoine Claude Pasquin, detto Valery (1789-1847), bibliotecario di Carlo V di Borbone e di Luigi Filippo, autore di numerosi saggi, viaggiatore attento e molto curioso, quando venne in Sardegna, e anche a Sanluri nel 1834, così descrive il convento in un suo diario “Viaggio in Sardegna” (Traduzione curata da Maria Grazia Longhi per l’edizione Ilisso di Nuoro, Capitolo XLIV): “Sanluri è un grosso borgo di 3460 abitanti, celebre nella storia del Medioevo. La piana di Sanluri, occupata ogni tanto da qualche boschetto di palme e da siepi di fichidindia, passa per una delle più feconde e delle meglio coltivate dell’isola. La chiesetta cupolata è risplendente di marmo e annuncia la ricchezza del luogo. […] Questo paese mi ha lasciato un caro e nuovo ricordo dei Cappuccini: i cavalli del vetturino non furono in grado di arrivare fino a Cagliari, secondo quanto convenuto, e non mi ero procurato nessuna lettera di raccomandazione per questo villaggio che non ha una locanda; vagavo in piena notte senza sapere dove trovare alloggio quando, bussando alla porta della casa dei Cappuccini, vi trovai, nonostante l’ora tarda, un frate ancora in piedi, il fattore amministratore (un uomo buonissimo) e un letto”.
Molti cappuccini si dedicavano allo studio di erbe e piante per trarne qualità benefiche, e nello stesso orto, in recinti appositamente studiati (di cui si vedono ancora i resti di alte mura di cinta), coltivavano anche spezie e diverse erbe officinali che, trasformate in medicinali, venivano date ai malati della zona che ricorrevano numerosi al convento, sicuri che anche se non potevano pagare, ricevevano ugualmente ciò di cui avevano bisogno. Il Viceré Conte di Lemons e sua moglie Donna Caterina, gli Arcivescovi di Cagliari e Oristano, chiesero, con insistenza, ai Cappuccini di Sanluri l’allestimento della “Farmacia per il popolo” ; provvidero, loro stessi, alle spese di tutto. Padre Geremia fece fabbricare il vasellame con il suo nome e l’effigie di San Francesco stimmatizzato, e avviò un attrezzato laboratorio, divenuto ben presto uno dei più importanti della Sardegna. Si assegnò alla “Farmacia del convento” una parte dell’orto per la coltura di erbe officinali, il cosiddetto “Orto dei semplici”. La Farmacia, con relativo laboratorio e spezieria, divenne Real Farmacia, la prima e più importante spezieria della Sardegna. Fino alla II Guerra Mondiale era famoso l’“Unguento di Santa Rosalia”, per la risoluzione di foruncoli e altre dermatosi (ingredienti: olio puro d’oliva, cera vergine, minio, pece nera, pece greca, canfora). Tra i vari frati addetti alla farmacia (come risulta dai “Regestum cappuccinorum”) vi era anche un frate sanlurese, Fra Cosimo da Sanluri, al secolo Salvatore Porru: uno dei pochi religiosi che pronunciò i voti nel periodo della soppressione e dispersione degli Ordini religiosi (6 maggio 1875 in Masullas). Tenne l’incarico di assistente del Padre farmacista per diversi anni nonostante la sua salute cagionevole che, poi, a causa di “apoplessia” lo portò all’infermità completa. Ne ebbe anche la Direzione dopo la morte del suo Maestro Fra Bernardo Pistis da Cagliari. Morì il 27 luglio del 1901. Nel 1989, con l’entrata in vigore della Riforma Sanitaria, la Farmacia cessò di esistere e alcuni arredi, strumenti e vari preparati medicinali sono confluiti nel Museo Storico Etnografico del convento. Si possono, pertanto, ammirare vasellame di vario tipo ed epoca, diversi mortai con pestelli, un apparecchio elettromagnetico usato per lenire le emicranie, un corno da flebotomo con notevoli incisioni, libri di erboristeria, medicina e chirurgia dal ‘500 in poi, e stampe d’epoca di erbe e funghi.
La spezieria e la farmacia erano molto rinomate e anche i ricchi e i nobili vi si recavano per chiedere i medicinali, ritenuti particolarmente prodigiosi. Col ricavato delle loro offerte si provvedeva alla manutenzione della farmacia stessa. Il 26 dicembre del 1703 fu costruita anche un’infermeria, ordinata dal Commissario e visitatore generale P. Gian Carlo da Milano, al tempo della divisione della provincia monastica: <Ora occorre provvedere alla farmacia, giacché la mancanza di medicinali, o le medicine guaste offerte o somministrate dai medici o farmacisti laici, è stata la causa della morte o dell’invalidità permanente di alcuni frati. Si dispone alla farmacia del libro di medicina intitolato DISCORIDE (che si trovava nel Convento di Villasor)>.
La medicina popolare, anche fino a qualche decennio fa, ricorreva alle erbe che costituivano il rimedio principale per curare le malattie sia dell’uomo, sia degli animali domestici o da lavoro. Erano principalmente usate per lievi patologie dell’apparato respiratorio, per problemi al tratto gastro-intestinale, per dermatiti e dolori reumatici o anche per patologie più importanti come febbri, con chiare differenziazioni tra malariche, maltesi o tifoidi, e disturbi concernenti disfunzioni ormonali, di tipo estrogenico. Non, sempre, però il popolino ne conosceva proprietà e dosi e spesso erano più i danni che i benefici. La “Farmacia per il popolo” fu, allora, molto importante poiché in Sardegna, fin dal Medioevo, i medicinali erano un bene di lusso; solo nel 1738 Carlo Emanuele ordinò un tariffario più modesto ma ugualmente restavano inaccessibili al popolo.
Nell’Ottocento, come dichiara Salvatorangelo Ledda (“Sanluri, Topografia…): “ L’onorario per il servizio medico di un anno consiste in 50 litri di grano per ciascuna famiglia agiata, composta da più individui, in litri 25 per le meno agiate, e dai litri 6 ai 12 per ciascun individuo scapolo separato dalla famiglia, come sono i servi e le serve. Quest’onorario si paga ad anno maturato, dopo il 10 agosto. Il servizio chirurgico poi, è retribuito secondo il portato tariffario del 31 dicembre 1842”. Il prezzo del grano, purtroppo, che avrebbe dovuto oscillare su lire due e pochi soldi lo starello, sovente, a causa delle carestie, saliva a 25 lire; e molti sanluresi e altri dei paesi limitrofi, non possedendo denaro, diedero, per uno starello di grano, un giogo di tori di un anno, oppure si videro costretti a scambiare uno starello di grano con uno di terreno. Molti si privarono di tutto: qualcuno arrivò a vendersi persino le tegole del tetto, altri la casa e, in molti, la libertà. Gli atti notarili conservati presso l’Archivio di Cagliari e del Comune di Sanluri, documentano abbondantemente questa tragedia, aggravata dall’usura.
Bibliografia
Archivio comunale di Sanluri e di Cagliari
Colli Vignarelli F., “Sanluri, terra ‘e lori, Cagliari 1965
S. Ledda, “Topografia e Statistica Medico-Storica del Comune di Sanluri in Provincia di Cagliari 1884”
P. Atanasio da Quartu,S. E., O.F.M., Cagliari 1904
P. Eliseo Lilliu, “Conosci il convento”, Sanluri 1988
P. Giulio Baldus da Samatzai, “Il Convento dei Cappuccini a Sanluri, Sanluri, 2010”
Rosanna Pisanu, “Biblioteca della memoria”, Sanluri, 2005
Rosanna Pisanu, “I Cappuccini a Sanluri”, Sanluri 2009
Joaquín Arce, 1960, “Espana en Cerdeña”, ristampato in italiano, a Cagliari, poco dopo la scomparsa dell’autore, col titolo “La Spagna in Sardegna nel 1982”, lapide (pagina 532)
(Traduzione curata da Maria Grazia Longhi per l’edizione Ilisso di Nuoro, Capitolo XLIV

Tra kw fitigrasie
Bisaccia per la questua
Colle dei Cappuccini
Convento dei Cappuccini
Cisterna dei Cappuccini all’interno del chiostro
Cisterna con l’acquaiolo Fra Ignazio Ambu da Oristano
Cisterna con Fra Nicola da Gesturi
Documenti (Archivio Sanluri)
Lapide del XVIII secolo in lingua spagnola
“La minestra” cucinata da Fra Salvatore Mercenaro di Calasetta
Farmaci e oggettistica (Museo Cappuccini, Sanluri)
Dipinto frate contadino (Museo dei Cappuccini, Sanluri)
Pozzo privato, Sanluri
Processione

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