Categoria : cultura

A proposito dell’integrazione riuscita, non riuscita e varianti di Angelino Tedde

Si sa che ognuno di noi nel corso della sua vita, dalla nascita alla morte, si crea un’identità, una specie di carta d’identità psicologica che man mano si aggiusta, si assesta, si dissesta a seconda del fascio di relazioni che ha nel tempo e nell’ambiente in cui vive.
Nel mio paese, dalla nascita ai dieci anni, nel rapporto con la rete parentale, parentelare, amicale, ospedaliere (dal momento che ogni anno dai due in poi mi son fatto sempre una ventina di giorni nel reparto oculistico) e potremmo aggiungere altre reti mi son formata la mia identità delle tre infanzie, del mio paese, delle mie ridotte relazioni. Non potevo sentirmi estraneo ai miei compagni nemmeno perché essi frequentavano la scuola alla quale io non potevo accedere per non contagiare non so di quale malattia agli occhi i miei compagni. A dire la verità ho sempre avuto in uggia la scuola e mi sono trovato sempre a disagio. Io che per dieci anni ho corso per le strade del borgo, ho giocato con gli amici, mi sono procurati i tutoli di granoturco per costruire i buoi e le pale di ficodindia per costruire carri. A sentire il maestro, che tenendo spesso una bacchetta in mano, diceva cose che erano estranee al mio linguaggio, posso dire che a scuola, se esiste un’integrazione, non mi sono integrato mai. L’unica capace di interessarmi era la perfughese maestra Maria Athene, che mi faceva correggere i compiti dei compagni minori e m’impegnava in una funzione che sentivo piacevole.

Non avvenne così nelle successive classi delle medie inferiori e di quelle superiori. I professori mi stancavano con le loro litanie, fatta eccezione, forse, del professore di Storia dell’Arte. Le nozioni che mi propinavano facevo prima ad apprendermele leggendo da solo che non ascoltando quelle campane stonate dei pur impegnati docenti. La mia attenzione non superava i tre quarti d’ora, poi vagavo con la mente per conto mio e spesso venivo redarguito per questo mio vagare. Se tutto questo significa che a scuola non mi sono integrato, diciamo pure che è così, ma di questa mancata integrazione non me ne importava e non me ne importa tuttora un bel niente, perché durante le ore di studio apprendevo le nozioni per conto mio. Nel corso della mia giovinezza ho vissuto per alcuni anni sia nel Nord sia nel Sud d’Italia, venendo a contatto con altri modi di credere e di pensare. Ecco tutto questo m’interessava, ero curioso di sapere, ero capace di provocare i compagni. A Nord importunavo i compagni pacifici a Sud contrastavo i compagni polemici e ho appreso da loro a non prendermela, da sardo isolano pronto alle mani e permaloso. Posso dire che ho perso la mia permalosità con una vis polemica pari alla loro. Mi sono davvero integrato, in fondo i primi e i secondi erano simpatici e tutto sommato mi sopportavano agevolmente. La mia identità si è arricchita con lo stupore e ridevo quando i piemontesi dicevano che noi sardi scambiavamo il sapone per formaggio e i campani e siciliani sostenevano che i nordici erano piuttosto annebbiati. Mentre loro godevano di sole e mare luminosi e quindi d’una intelligenza luminosa, mentre noi sardi marciavamo a quattro zampe come le nostre pecore.
Tutte queste cose mi facevano sorridere, ma li capivo e mi dicevo che forse anch’io se fossi nato in Continente avrei avuto tanti pregiudizi sugl’isolani. Non sopportai tuttavia facilmente che ci chiamassero sardignoli e prontamente ai campani rispondevo che loro erano campagnoli. Asserendo che sardi proveniva da Sardinia come campani proveniva da Campania e non viceversa. La mia identità si arricchiva con queste relazioni ed io restavo sardo, i campani campani, ma ritenevo che la storia ci aveva unito sia sotto il dominio dei romani quanto sotto quello degli spagnoli e che il loro modo di dire che con la lingua, cioè chiedendo, si giungeva anche in Sardegna, lo trovavo esagerato. Non erano di certo trecento chilometri di distanza marina che ci rendevano così estranei!  Forse per questo motivo non sono mai stato un “sardista” esasperato anche valorizzando la lingua sarda, che per me è stata la lingua dei miei genitori, dei miei parenti, dei miei compagni e del mio paese.

Ho sempre apprezzato però il lombardo e il piemontese, il veneto e il friulano come anche il napoletano e il siciliano che sono tutti figli della stessa madre lingua latina e successivamente della madre lingua italiana senza parlare del clima, della cultura letteraria e artistica, ma soprattutto della formazione che a tutti ha dato Santa Madre Chiesa che facendoci togliere l’anello dal naso ha favorito anche il nostro progresso umano, facendoci capire che tutti siamo figli dello stesso Padre che abita nei Cieli. La forza unitiva della fede cristiana che ha unito i popoli e i generi è stata ed è ancora potentissima: ecco perché amo scrivere cristiani atei, cristiani non praticanti e cristiani praticanti: abbiamo acquisito tutti gli stessi valori nonostante lo sfacelo di certi radicalismi individualistici che percorre l’Europa. La fede, che da piccolo non ho molto approfondito né tanto meno praticato, una volta conosciuta, ha ampliato la mia identità. Quando vedo i miei amici atei coi quali ho avuto tanto contatto non vedo estranei, ma amici fraterni da me non dissimili sui valori anche se mi rendo conto che amano scherzosamente darmi del bigotto e del credulone.
Questi giudizi li rimando al giorno in cui tutti vedremo chiaro e nessuno potrà negare l’evidenza della verità.
Ho avuto modo di visitare svariati paesi d’Europa e debbo dire che sono stato trattato benissimo tanto alla grande Sorbona I di Parigi, quanto alla minore università di Mons. Le presidi che in entrambe le università ci hanno offerto il caffè (a Parigi) il pranzo e il dessert a Mons si sono comportate squisitamente al punto che qualcuno si è meravigliato. Io, però, sia alla Sorbona I sia a Mons mi son presentato come si usa con i gadget preziosi della nostra università di Sassari ottenendo apprezzamenti per la guida dello studente, stampate ed elegante, con il medaglione della nostra università e con dei graziosi fazzoletti on il disegno del nostro stemma.
Per farla breve non mi sono e non si son sentiti estranei gli studenti e le studentesse, sapendo che le università erano il luogo, e lo sono ancora, del sapere universale e poco importa che che siano ubicate in Belgio o in Francia, in Spagna o in Olanda. Uniti pur nelle differenze: chiamatela pure integrazione.

Basta concepire in modo liquido le relazioni e non chiudersi dentro un fortino o un  guscio.
Ho un amico  sardo che lavora ad Abu Dabi ed è suggestivo vederlo come invitato tra gl’invitati ad un matrimonio arabo, vestito così come si veste nella sua cittadina sarda. Se questa è integrazione

ditelo voi, per me lo è. Ho conosciuto stranieri di molte parti del mondo, cortesi, gentili, ma con le loro abitudini come del resto lo siamo tutti noi. Non m’importa che mi chiamino l’italiano oppure il sardo, m’interessa che i rapporti siano paritari, corretti, rispettosi. Con tutte queste esperienze mi sento cittadino del mondo, avverto che tutti mi sono fratelli e che come ci sono dei grandi delinquenti tra i nostri connazionali altrettanto ce ne possono essere tra i cosiddetti stranieri, ma questo conta poco. Ora so che io sono alla base figlio di mia madre e di mio padre, parente degli appartenenti al mio albero genealogico, chiaramontese, sardo, italiano, europeo, ma anche africano, asiatico, sudamericano, nordamericano e australiano, con i canguri.
La mia identità si è andata allargando ed estendendo a tutto il mondo, ma per me che sono cristiano, siamo tutti figli del Dio Trinitario che ci ha creati, ci ha redenti e ci ha santificati. Se capissimo questo non ci sarebbe davvero il gran problema dell’integrazione perché tra fratelli ci si ama, ci si aiuta e si cerca di agire con lealtà.

A chiusura di questo scritto voglio ricordare la bella personalità di Hamsatou Djasse, una sorella o se volete figlia, senegalese nigerina, che visse una decina d’anni a Chiaramonti, che nessuno fece sentire estranea e che lei stessa non si sentiva estranea. Hamsa ha sempre conservato quella carica umana popolare e contadina, caratteristica della nostra gente, eppure era africana e musulmana, che contraddistingueva la sua anima pacifica e il suo calore umano. Se questa è integrazione, Hamsa si era integrata,anzi abbelliva le caratteristiche della nostra gente semplice

e buona.

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