Categoria : memoria e storia

“Michele Montesu,(1892-1989), mio bisnonno, copia del suo manuale del Genio Militare della prima guerra mondiale” di Simone Unali

“I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano disceso con orgogliosa sicurezza”. Correva l’anno 1918 e, più precisamente, era il 4 novembre quando il capo di stato maggiore del Regio Esercito Italiano, generale Armando Diaz, annunciò la vittoria italiana nel primo conflitto mondiale e la sconfitta dell’impero austro-ungarico. Un conflitto lungo e sanguinoso, che causò in tutto il mondo la morte di circa dieci milioni di soldati e quasi sette milioni di civili. Il mondo e l’Europa si rialzarono a stento, con il desiderio che un conflitto del genere non si verificasse mai più. E invece, circa vent’anni dopo, scoppiò una nuova guerra mondiale, più efferata della prima, che si era dimenticata troppo in fretta. O si era fatto finta di dimenticare. L’Italia della vittoria, nel biennio 1918/19, doveva fare i conti con i danni causati dalla guerra, all’industria ma soprattutto all’agricoltura; doveva fare i conti specialmente con la fame. Il paese si rialzò comunque, pronto a voltare pagina. Questo 2018 è appena cominciato (solo quattro giorni fa le capitali di tutto il mondo hanno salutato il nuovo anno), eppure il pensiero corre già verso il 1918. Riecheggiano le parole del Capo dello Stato Sergio Mattarella nel suo discorso di fine anno agli italiani: “I giovani nati nel 1999 voteranno per la prima volta per eleggere le nuove Camere. Quelli nati cent’anni prima, nel 1899, andarono in guerra e molti di loro morirono: non dimentichiamolo”. In un secolo i progressi sono stati tanti, a partire dal più lungo periodo storico di pace in Europa, così come le conquiste sociali e le innovazioni. Per andare avanti però, per perseguire gli obbiettivi che ci siamo posti e continuare a percorrere la via del progresso e dell’evoluzione della specie umana è necessario voltarsi, guardare il passato e discernere ciò che può essere recuperato e ciò che invece deve essere abbandonato completamente, combattuto, sconfitto. Nel primo centenario dalla fine del primo conflitto mondiale ricordare è un dovere, ricordare sopratutto le tante vittime, ma anche i tanti gesti eroici di sacrificio compiuti da chi nel quotidiano o sul campo di battaglia combatteva la propria guerra. La storicizzazione di quegli anni è indispensabile per comprenderli fino a fondo, per poter trarre oggi le conclusioni in vista del futuro.

Qualche giorno fa, frugando in un cassetto, mi è capitato fra le mani libretto dalla copertina sbiadita e consumata dal tempo appartenuto a mio bisnonno Michele Montesu, che, come tanti altri chiaramontesi, combattè in quegli anni caldi. Aperto l’opuscoletto, nel frontespizio, per fortuna ancora integro, lessi l’intestazione: “Ministero Della Guerra, Comando del corpo di stato maggiore – Ufficio istruzioni e Manovre” e più in basso: “Istruzione sui lavori del campo di battaglia”. A piè pagina, poi, compariva lo stemma del Regio Esercito e l’editrice: “Voghera Enrico, tipografo editore del giornale militare – Roma, 1913”. Scorrendo le pagine e osservando le numerose illustrazioni, che presentavano misurazioni precise e dati sui materiali da impiegare, capì immediatamente che si trattava di un manuale destinato al Genio Militare, del quale mio bisnonno fece parte, inquadrato nella 23esima compagnia del Primo Reggimento Genio Zappatori, che aveva il compito di costruire e fortificare le strutture difensive di prima linea, le trincee per l’appunto. Pochi giorni fa, ascoltando le parole del presidente, il mio pensiero non potè che tornare a quel libretto che tanto mi aveva incuriosito, datato 1913, pochi anni prima dell’entrata in guerra dell’Italia. Secondo le norme e le istruzioni riportate in quelle pagine i soldati italiani costruirono le proprie trincee, le proprie postazioni per le mitragliatrici, i propri ripari; seguendo quelle pagine posarono le proprie linee telegrafiche di comunicazione e, sempre secondo quelle pagine, combatterono la propria guerra. Il libretto è suddiviso in quattro capitoli: Scopo e caratteri dei lavori nell’offensiva, Scopo e caratteri dei lavori nella difensiva, Scopo e caratteri dei lavori nelle operazioni della cavalleria e dei ciclisti, Esame e descrizione dei lavori del campo di battaglia. Riporto ora alcuni estratti del libricino, perchè, come in ogni altro manuale di guerra, possano rendere la dimensione del campo di battaglia, le strategie e le tecniche utilizzate da chi quella guerra la combattè veramente fra il 1915 e il 1918.

 

“82 Si distruggeranno i magazzini nemici e le derrate e il materiale che essi contengono ricorrendo, possibilmente, al mezzo più efficace e rapido, cioè all’incendio. Per sventare la possibilità di estinzione da parte del nemico si deve mirare a rendere l’incendio improvviso e violento, adoperando, se del caso, speciali materie incendiarie, come, ad esempio, il petrolio che è molto indicato.

91 Gli appostamenti per ripari e fucileria si ricavano adattando opportunamente le accidentalità del terreno che rispondono alle esigenze tattiche del caso concreto. Ove quelle manchino si costruiscono ripari interamente artificiali. Gli appostamenti debbono concedere al tiratore anzitutto una posizione comoda per il tiro poi una conveniente protezione dal fuoco nemico durante l’esecuzione del proprio, e durante il periodo d’attesa. Le dette condizioni si debbono conciliare con le esigenze della poca visibilità la quale si ottiene sia dando le dimensioni minime ai ripari, sia mascherandoli opportunamente. Le siepi, le boscaglie, i filari d’alberi, ecc., che a tale scopo si prestano, non debbono quindi essere manomessi, compatibilmente con le esigenze imposte dalla facile esecuzione del tiro.

92 Nell’azione offensiva, quando l’efficacia del fuoco nemico diviene tale da costringere i riparti di fanteria ad arrestarsi per preparare col fuoco l’ulteriore avanzata, ogni tiratore, dopo essersi appostato, cerca, valendosi dello strumento portatile, di accrescere o creare avanti a sè la protezione e di procurare un comodo appoggio per la propria arma, costruendosi un appostamento individuale. Nelle terre ordinarie pochi colpi di vanghetta sono in genere sufficienti per trasformare in un ottimo riparo per il tiro a terra lievi irregolarità del suolo, mucchi di terra e di ghiaia, grosse pietre, solchi dei campi, piccoli fossi asciutti, cespugli, siepi, tronchi d’albero abbattuti, ecc.

94 In terreno scoperto il tiratore, presa la posizione di a terra, cercherà dapprima col proprio strumento di ammucchiare davanti a sè una quantità di terra sufficiente per procurare un buon appoggio all’arme, poi allungherà e approfondirà lo scavo in modo da potervisi adagiare comodamente e da ottenere un rilievo da 20 a 30 cm di altezza e un metro di grossezza.

104 I recinti murari riparano efficacemente contro il tiro di fucileria, anche prolungato, purchè abbiano sufficiente grossezza (m. 0.40 se di mattoni). Contro i tiri d’artiglieria sono scermi insufficienti poichè i proiettili penetrano nel muro e scoppiano nell’attraversarlo.

105 La forma delle feritoie deve essere simile a quella indicata nella figura 15 con muri di grossezza inferiore a m. 0.60; con muri di grossezza superiore sarà più opportuna una forma differente.

124 Con l’utilizzo di artiglieria campale scudata e con l’uso di posizoni defilate la vulnerabilità tanto del personale quanto del materiale è grandemente diminuita. Ma poichè gli scudi, non giungendo fino a terra, non danno protezione completa contro il tiro radente, è conveniente colmare il vuoto risultante con opportuni rialzi di terra.

140 Le comunicazioni telegrafiche, telefoniche, radiotelegrafiche ed ottiche e quelle con telegrafia a segnali, occorrenti nelle operazioni campali, dovranno essere impiantate dai riparti competenti al più presto possibile per assicurare rapidi collegamenti fra i vari comandi e tra questi e le truppe.

209 Nelle esercitazioni, mancando l’elemento essenziale del combattimento, cioè il fuoco, è facile che gli uomini (compresi gli ufficiali) tengano durante il lavoro posizioni non compatibili colle esigenze del caso vero. È necessario pertanto che gli ufficiali prescrivano ai lavoratori e prendano personalmente le posizioni più opportune.”

Michele Montesu, era nato il 15 Marzo 1892 da Giovanni Antonio Montesu e Caterina Fois nella casa sita in Carruzu Longu n. 41 a Chiaramonti. Di professione falegname, fu chiamato alle armi in mobilitazione, con la classe di leva 1896, il 22 Novembre 1915 e fu inquadrato prima nella 23esima, poi nella 60esima compagnia del Primo Reggimento Genio Zappatori. Prestò servizio sul fronte per ben sei mesi e poi venne trasferito in Albania. Fu Congedato con onore il 4 Settembre del 1919. Rientrato a Chiaramonti, fu affetto da infermità  di nona categoria, contratta in guerra e ricevette, impossibilitato a lavorare a pieno ritmo, una pensione di guerra di lire duecentosettantotto dal 1 Agosto 1922 fino al 31 luglio 1925.
Nel 1921 si sposò con Antonica Franchini (13/09/1897 – 31/12/1986), con la quale ebbe tre figli: Adelaide nel 1923, Michelino nel 1926 e Antonica nel 1937. Sempre nel 1926 si trasferì di casa con la famiglia, acquistandone una più capiente in Via Vittorio Emanuele n. 19.  (detta in sardo Carrela Longa), Ricevette nel 1920 la medaglia commemorativa della guerra italo-austriaca, nel 1921 la medaglia Interalleata, nel 1926 la Croce al Merito di Guerra e, infine, nel 1971, fu  nominato Cavaliere dell’Ordine di Vittorio Veneto. Continuò a praticare il mestiere di falegname fino agli anni Sessanta del Novecento, quando si ritirò. Su questa sua attività si rileva dal Registro delle Delibere di Giunta l’attività intensa svolta nel quadriennio del sindacato di Armando Fumera (1952-1956).
Morì il 20 Agosto 1989, per un’emorragia interna dovuta alla frattura del femore, a novantasette anni di età.
Un libretto che forse mi avrebbe lasciato indifferente se non fosse appartenuto al mio bisnonno.

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