“Matteo Satta (1916-1988) 2. da operaio scrupoloso a nonno amabile” di Ange de Clermont
Addio alle armi
Matteo disse addio alle armi il 22 ottobre del 1945.
L’Italia aveva fatto le sue scelte, il fascismo era alla spalle, ma bisognava affrontare il nodo della forma di Stato e predisporre eventualmente una nuova Costituzione.
Nell’entusiasmo del momento egli partecipò alla costituzione della sezione comunista di Chiaramonti, promossa e coordinata da Nino Soddu, da Giovanni Soddu, da Francesco Cossu, da Adamo Denanni, da Battista Falchi (di Nulvi) e da altri.
Alle elezioni furono presentate due liste, della lista vincente fecero parte: il dott. Luigi Madau, indipendente (con 748 voti di prefernze) Sebastiano Puggioni (con 680), Tore Rottigni, indipendente, (con 704) Francesco Ruiu (con 673) Gavino Canopoli (con 656), Giovanni Agostino Canopoli (658), Andrea Urgias, indipendente (con 650), Gavino Murgia (con 635) Gavino Denanni (con 634), Giovanni Michele Scanu con (623) Salvatore Lezzeri (con 613) Salvatore Quadu (596), la minoranza conquistò tre seggi Nino Soddu comunista (con 274 voti), Giuseppe Bajardo, sardista, (con 242 voti) Andrea Accorrà, repubblicano (con 222 voti). Sindaco fu eletto Luigi Madau e assessori Sebastiano Puggioni e Gavino Canopoli.
Da allora Matteo non prese più parte all’attività del partito anche se lo votò sempre,
Il lavoro per la famiglia
Al di là della scelta partitica aveva davanti a sé una famiglia numerosa costituita dalla moglie Tarsilla e dalle figlie Teresa Domitilla e Francesca. Cinque bocche da sfamare: la giovane moglie, Tarsilla di 25 anni, la figlia Teresa di 4 anni, Domitilla e Francesca rispettivamente di 2 e 1 anno. Poteva, volendo, accettare le offerte del benestante parentado dei Falchi e dei Grixoni e dei Madau, ma non accettò deliberatamente il posto di fattore in una delle aziende dei suoi parenti, avendo scelto di combattere la borghesia, Le offerte della nobiltà e della borghesia parentelare non gl’interessavano e così scelse di diventare operaio dell’industria edilizia.
Nel 1946 ebbero inizio i lavori della rete idrica e fognaria del paese a mezzo dell’Impresa Fantasia di Ozieri, che si protrassero per un certo tempo e che permise alla famigliola di andare avanti. Nel frattempo il nuovo governo formato da uomini della Resistenza, vista la fuga di Vittorio Emanuele III da Roma, gettò tutto il fango possibile sulla monarchia e s’indisse il referendum per la scelta tra questa e la repubblica. Ricordo che da bambino, in quell’anno vivevo il mio ottavo anno, mio zio Nino Soddu, cugino di mia madre, fondatore della sezione comunista, m’insegnò questa canzone:
“Sulla punta di questo stile
c’era scritto tre volte vile
vile, vile Vittorio Emanuele.
Evviva la Repubblica abbasso abbasso il re.
E su e giù e su e giù che il treno va
evviva la libertà!
Su vigliacchi scendete dal trono
deponete le vostre corone!
Avanti popolo, rivoluzione!
Il comunismo trionferà!
il comunismo trionferà!
Io così cantando me ne andavo per il borgo senza capire forse queste parole che all’orecchio suonavano bene. Portavo con me una verghetta d’olivo, la battevo sulla gamba e cantavo.
La canzonetta dice molto sul clima che si stava creando tra gli ex combattenti che erano diventati comunisti e gli altri.
In casa, mio padre, reduce dalla guerra di Spagna e dalla guerra contro gli Alleati, sempre sotto le armi, non prendeva posizione aperta, forse avendo visto come i rojos si batterono in Spagna, ma anche perché di carattere chiuso, per nulla espansivo e impegnato a gettare con l’Erlas il DDT insieme ad Antonio Luigi Villa nelle paludi e nelle piscine naturali dei torrenti e dei fiumi. Ricordo che mia madre, tornata dalle votazioni disse a mio padre:
-Ho dato un voto a mio cuigino Nino,-
Mio padre tacque: il voto era segreto e i bambini non dovevano sapere.
Molti reduci tornavano ai campi per coltivare il frumento necessario per le famiglie, in paese, in genere grano duro.
Il I governo De Gasperi, indisse il referendum per il 2 e 3 giugno, i muri del paese si coprirono di scritte per la Repubblica o per la Monarchia, vinsero in Italia i fautori della Repubblica e si votò contemporaneamente per la nomina dei membri della Costituente e per le elezioni comunali-
Personalmente ricordo che in via Garibaldi continuavamo a giocare, il pane non mancava e la zuppa contadina nemmeno,
La fame cittadina non era affar nostro, ma per chi non coltivava i campi e non possedava un forno era un fatto più serio: bisognava comprare il grano, macinarlo, panificare e poi cercare un forno per la cottura. Per nostra fortuna tutte queste cose noi le avevamo a casa.
Lavoratore cristiano e comunista
Matteo e Tarsilla, 25 anni lei e 29 lui, si dettero da fare e non fecero mancare alle tre piccole il sostentamento.
Subito dopo la guerra il paese fu governato da Pietrino Pirina, sindaco espresso dal CLN, dal Giugno 1944 all’Agosto 1945 e Antonio Luigi Cossu, sindaco espresso dal CLN, dall’Agosto 1945 all’Aprile 1946. Successivamente fu eletto sindaco, con le elezioni del 1946, Gigi Madau che entrò in carica nel luglio del 1946.
Matteo lavorò in paese fino al 195o quando, entrato a lavorare con l’Impresa Crovetti, si trasferì con la famiglia ad Osilo dove fu caposquadra operaio nella costruzione della strada Santa Vittoria-Osilo.
Il ricordo della memoria storica familiare sul periodo trascorso a Osilo è di una certa agiatezza. Crovetti pagava bene il caposquadra e gli operai e bisogna dire che quella strada ancora oggi resiste al tempo senza le falle delle nuove strade. Si costruiva una buona massicciata con pietre dure e raramente si aprivano buche. Matteo guidava gli operai lavorando scrupolosamente e non faceva sconti. Quando ci si batteva per il salario era duro, ma anche il lavoro doveva essere fatto a regola d’arte. Non si dovevano lasciare buche nella massicciata né su doveva lavorare con leggerezza con la scusa di rivendicazioni. Le strade erano per il popolo.
Nel frattempo Tarsilla aveva venduto alla sorella Clelia la sua porzione di casa Mannu in Carrela Longa e con i risparmi di Osilo acquistarono un lotto nel pendio del Monte de Cheja dalle sorelle Murruzzulu dove la Giunta Fumera dopo il 1952 avrebbe aperto la sterrata di quella che sarebbe diventata Via San Giovanni.
I due coniugi, stipulato il compromesso privato, per il lotto di area fabbricabile, prima di lasciare Osilo, ogni sera si mettevano a disegnare la nuova casa con discussioni vivaci finché il disegnatore-che era Matteo- non “edificava” sulla carta la casa che era di gradimento della consorte: facciata verso est, retro casa con giardino verso ovest nel pendio del Monte San Matteo, piano terra con cucina, negozio e garage, nel piano sopra elevato bagno, anzi due, e quattro belle grandi camere da letto da 25 a 30 metri quadri. Del resto la prole, prima di recarsi ad Osilo era cresciuta di due figli: Marino e Fausto.
Materiale; pietre per i muri, cemento misto a sabbia di fiume.
Finanziamento: i risparmi sul lavoro di Matteo e il mutuo regionale per le famiglie numerose, senza interessi. I figli guardavano estasiati e tutti se ne andavano a letto pensando al sogno da realizzare: una bella casa, con vista sul borgo e alle spalle il pendio del Monte. Il bello è che il pendio doveva essere scavato, la casa doveva appoggiarsi nel retro di un consistente vespaio per evitare l’umidità e sempre il pendio rimanente doveva essere appianato con un primo vasto ballatoio nel retro-casa e con due vasti gradoni, uno per i fiori e l’altro per frutteto. Il sogno era arduo, ma con un pò di buona volontà ce l’avrebbero fatta in capo a due tre anni.
Conclusi i lavori con l’Impresa Crovetti, ebbero l’offerta di gestire l’allora mensa universitaria in Sassari, ma le indagini preliminari di Tarsilla diedero esito negativo; la gestione della mensa universitaria era un fregatura.
Così il sogno della casa li riportò in paese dopo i 5 anni trascorsi ad Osilo.
Le ragazze avevano frequentato buona parte delle scuole elementari e i piccoli la scuola materna.
La realizzazione della casa: sei anni di duro lavoro e sacrifici.
Nel 1955 rientrarono in paese e vissero in casa d’affitto, prima presso le case dell’Impresario Coda e successivamente in quelle delle Murruzzulu. Matteo nei tempi liberi dal lavoro diede inizio agli scavi sul pendio che in quel tratto saliva ripido e nel frattempo lavorò con l’Impresa Zirattu in Chiaramonti che seguì anche a Sassari come capo cantiere e custode dell’edificando palazzo degl’impiegati dell’INPS in via Amendola.
Per circa tre anni visse a Sassari dove veniva visitato frequentemente dalla moglie. Le difficoltà dell’impresario si ripercuotevano sui lavoratori che venivano pagati con acconti e mai con lo stipendio intero. Il cruccio di Matteo fu quello di non poter lavorare direttamente per la costruzione della casa. D’altra parte, all’atto pubblico di acquisto del lotto, emersero enormi difficoltà con coeredi delle Murruzzulu che vivevano fuori Sardegna e con conseguenti altri pasticci, ma la battagliera, anzi la compagna Tarsilla, aveva grinta altrettanto forte e, sia pure con dispendio di tempo, riuscì a sbrogliare la matassa e a presentare la domanda di mutuo alla Regione Sarda.
Matteo, vista la negativa esperienza di Sassari, (dormiva e mangiava nella casetta del cantiere), rientrò in paese e lavorò dove poté, spesso viaggiando. In paese, con altra impresa, firmò l’allargamento e il rifacimento con tanto di massicciata sia della strada che da Punta de Mesanotte va a Santa Maria de Aidos, sia quella che dalla Croce porta a sa Traversa. Due strade ben riuscite e ancora oggi (2016) in ottimo stato. Usava dire:
-Quando il lavoro va fatto come si deve, l’opera dura in eterno!-
E si lamentava vedendo come col solo tuvenal senza massicciata e con poco bitume le nuove strade si riempissero in breve tempo di buche.
-Tribaglios de cocoi!- usava ripetere. Riferendosi poi al mondo operaio diceva:
-In mezzo si trova tanta marmaglia, poco seria, che non sente la dignità né di se stesso, né del lavoro che fa. Bisogna avere fiducia in sé, serietà nel lavoro -che va fatto a regola d’arte- e non boicottare da miserabili il lavoro su cui mangi e che serve alla società,-
Un giorno gli chiesi, perché parlasse così? Mi rispose che alcuni tentavano di bluffare sul lavoro e altri addirittura, non visti, erano capaci di gettare impasto nei gabinetti nuovi degli appartamenti, per danneggiare l’impresa, Non capivano però, secondo lui, che danneggiavano quei cittadini che avrebbero comprato quegli appartamenti come nuovi. Concludeva:
-Quando c’è da combattere per il salario si combatte, quando c’è da contestare, per le ore che non ti hanno segnate, devi duramente contestare, ma quando fai il lavoro, per la tua stessa dignità, devi farlo a regola d’arte!-
A Natale voleva sempre per regalo un’agendina dove giorno dopo giorno andava segnando le ore lavorate. Talvolta lasciava perdere per qualche ora in meno, ma se si superavano i limiti affrontava il capo cantiere e gli contestava il numero delle ore non segnate, con tanto di agendina e di ore giornaliere lavorate! Non gli davano torto e si scusavano, facendogliele recuperare negli acconti successivi.
Intanto la famiglia si era ampliata ed altri due figli: vennero al mondo, Marino e Fausto. Le sere, al rientro dal lavoro, correva al cantiere della casa per gli scavi e così faceva il sabato. La casa per la famiglia da quel momento fu l’obiettivo da raggiungere. Aprirono un negozietto di coloniali di cui s’interessò la moglie. Altre imprese lo assunsero, mentre la casa veniva edificata a ritmo serrato, quando Matteo lavorava, si arrestava nei mesi di disoccupazione. Le figlie crescevano e cominciavano a dare una mano in famiglia, chi stando nel negozietto e chi ricamando. I due maschietti frequentavano le scuole elementari. Finalmente tra il 1959-62 la casa fu completata e, con i mobili posseduti fu arredata e occupata. Arrivò, annunciato dall’on. Paolo Dettori, con una visita improvvisa, anche il tanto agognato mutuo regionale che servì ad effettuare gli ultimi pagamenti ai creditori.
La famigliola nel frattempo era ancora cresciuta della quarta figlia, Maria Antonietta. Quattro figlie e due figli, senza contare quelli prematuramente scomparsi: Benito, Cesarina, Mauro, vissuti qualche mese o qualche giorno.
Un anno dall’occupazione della casa nuova, a settembre, si sposò la figlia Domitilla e i due coniugi entro il 1964 divennero con loro grande giubilo nonni di un nipote a cui fu dato il nome del nonno. Ne vennero nel giro di sette anni altri quattro.
Matteo andava avvicinandosi alla pensione e ai sessant’anni di età. Da ultimo lavorò con l’Impresa Merella e successivamente per un anno con altra impresa viaggiando ogni giorno dal paese a Sassari. Nel frattempo le figlie e i figli erano cresciuti e si erano man mano sposati, eccetto il terzultimo e l’ultima figlia. Dei maschi due lavoravano alla SIR, delle ragazze due lavoravano in enti statali e l’ultima figlia in Banca.
Fu una grande soddisfazione per Matteo e la moglie nel vedere i figli sistemati.
I coniugi erano tornati quasi soli, tolto il terzultimo figlio che, viaggiando dal paese a Porto Torres, era rimasto con loro. Parlare dell’amore per i nipoti ci pare superfluo. Il nonno lavoratore li ammaliava, la nonna amante dei fiori li conquistava, le visite e le permanenze nel paese erano sempre gradite. Grandi riunioni familiari a Natale, a Pasqua e a Ferragosto erano i momenti solenni in cui sedevano a tavola tra figli e nipoti circa 15 convitati.
Nel 1986 i due coniugi festeggiarono le nozze d’oro e tutti i figli e nipoti fecero corona a questa gioiosa festa con regali e con la vicinanza. Gran banchetto nella casa ormai decorosamente arredata.
Matteo poteva dirsi appagato, ma invece non lo era, perché si rendeva conto che in paese c’erano dei giovani disoccupati che vivevano alle spalle dei genitori e dei nonni. La società andava sempre storta, il compagno comunista non era pago di vedere i suoi figli sistemati, la società borghese era basata ancora sullo sfruttamento dell’operaio. Le novità dalla Russia lo indignavano, ma la sua fede di comunista fervente non venne mai meno. Ci voleva giustizia sociale per tutti.
Una volta andato in pensione (1976) portò a termine l’orticello giardino che aveva nel retro-casa, la casa col forno a mattoni refrattari e un minuscolo pollaio. Sembrava un uomo d’acciaio per la sua forza, ma in realtà dei mali oscuri minavano il suo corpo vigoroso su cui aveva gran fiducia e rarissimamente andava a sottoporsi ai medici. La moglie Tarsilla aveva un roseto con rose di fama internazionale, lui coltivò prima un orticello con pomodori cuore di bue che si mangiavano con gusto a fette e poi impiantò un piccolo frutteto. Passarono soltanto 12 anni dalla pensione(1976-1988).
L’Italia e il mondo tra crisi internazionali e riprese andava avanti, ma lui non vedeva mai bene la situazione del proletariato, sebbene si fosse indignato per i crimini di Stalin e le varie invasioni russe nei paesi dell’Est, la sua fede comunista non mutava: lo testimonia l’ultima tessera del 1985 con numero 1450086 con sul frontespizio un saluto di Enrico Berlinguer, scomparso, purtroppo, prematuramente, nel 1984.
La tessera nella prima pagina ci sono i dati di Matteo Satta, nella seconda pagina è riportato l’art. I dell Statuto approvato nel 15° Congresso del 30 marzo-3 aprile 1979: “Il partito comunista italiano organizza gli operai, i lavoratori, gli intellettuali, i cittadini che lottano, nel quadro della Costituzione repubblicana, per il consolidamento del regime democratico antifascista, per il rinnovamento socialista della società, per l’indipendenza dei popoli, per la distensione e la pace, per la cooperazione fra tutte le nazioni.”
Matteo Satta, che non aveva di certo abiurato alla propria fede e che fin dagl’inizi credeva fermamente su quanto detto sopra, non era interessato che a questi fini. Del resto nell’art. 2 del rinnovato Statuto del 1979 si dice tra l’altro che si può aderire al partito -indipendentemente dalla razza, dalle convinzioni filosofiche, dalla confessione religiosa- Berlinguer con la caduta dell’art. 14 del vecchio Statuto aveva preso le distanze dalle ideologie materialiste imposte nel I Statuto del Partito Comunista all’articolo 14 che aveva spinto la Congregazione della Dottrina della Fede a dichiarare incompatibile per un credente l’adesione ad un partito che professava il materialismo storico. Matteo però come tanti operai non si mettevano problemi filosofici, per lui non vi era contraddizione tra l’essre cristiani e l’essere comunisti.
Morte da combattente
Poiché soffriva di una permanente raucedine negli ultimi due anni e aveva il viso sofferente lo si convinse finalmente al ricovero in ospedale, per un check up. Era il giugno del 1988 e aveva accettato il ricovero con rassegnazione. Il compagno Matteo aveva capito che poteva ammalarsi anche lui. Al secondo giorno di ricovero, quasi ingoiò com’era solito fare al lavoro un pezzo di pane fresco che gli aprì le vene esofagee e in un baleno l’uomo fu costretto con sua grande contrarietà a mettere un sondino nello stomaco per bloccare l’emorragia. Si vide subito che la situazione era drammatica. I mali emersi erano almeno tre: gola, polmoni e fegato. Il cancro in silenzio aveva minato quel gigante d’acciao. Al secondo giorno si vide subito che l’uomo stava chiudendo la partita con la sua vita, disse alla moglie: – Tarsì, so morzende.- Alle 14 e 30 qualcosa come una scossa elettrica colpì il suo cervello. Non disse più nulla. Il cuore continuò a battere fino alla mezzanotte, quando improvvisamente emise l’ultimo battito. Ero da solo ad assisterlo, era l’ora del mio turno. Tutti ci eravamo resi conto che egli cerebralmente aveva cessato di vivere alle 14 e trenta, ma il cuore forte dell’uomo non voleva cedere. Fermatosi il cuore, il suo viso e tutto il corpo apparve nella sua calma e lucentezza. Non l’avevo mai visto così calmo. La morte gli aveva dato la pace di una vita sempre in tensione. Il compagno-cristiano Matteo era entrato nella pace eterna.
Dopo le esequie religiose molto affollate, nella piazza antistante il cimitero, il compagno Filippo Ruiu, a nome di tutti i compagni. gli diede l’ultimo saluto:
_”Caro compagno Matteo, una vita dedicata alla famiglia, al lavoro e alla tua casa. Una vita di duro sacrificio e spesso di umiliazione. Ma tu eri orgoglioso e tenace. Doti queste che ti hanno permesso di raggiungere dei risultati impossibile a quei tempi.
Il lavoro lo hai rincorso ovunque fosse oggi in un cantiere, domani in un altro. Le tue ore di lavoro erano nove e dieci e spesso dodici. La paga, che percepivi per quelle ore che lavoravi. inadeguata. Ma tu non ti arrendevi. Chiedevi di poter lavorare.
Il tuo obiettivo era la casa e la realizzazione di questo sogno, sapevi bene che aveva un costo. Mi dicevi con orgoglio;-Vedi lo scavo di questa casa è grande vero?Bene quanti centimetri cubici ci sono di scavo, li ho fatti io, col picco e con la pala!.- Vero! Caro compagno Matteo, rubando il tempo al tuo riposo e al tuo svago. Lo hai fatto tu lavorando giorno e notte. La tua casa è stata fatta col risparmio del tuo sudato lavoro. E così. anno dopo anno. Ma tanti anni sono passati, prima di vedere realizzato il tuo sogno. Non bisogna negare una cosa: in questo cammino di lavoro e sacrifici la famiglia ti ha sempre sorretto, circondato, di premure e di affetto. E questo ti convinceva sempre di più che il sacrificio che tu andavi facendo non era vano. Compagno Matteo, un’altra cosa mi preme ricrdare. Hai vissuto da cristiano, eri un credente, con me, che credente non sono, hai avuto modo di dibattere queste tue convinzioni. E mi dicevi: -Bada bene, non confonderti, io sono sempre stato un comunista, ho preso la tessera a Rimini nel ’43 e da quel giorno non ho mai smesso di essere un compagno, ho sempre votato comunista, ma allo stesso tempo sono un credente, Caro Filippo, credere in Dio con la politica non c’entra. Io credo nelle lotte sociali per liberare l’uomo dal sudditismo e questo mi spinge e mi ha spinto a militare nel nostro partito.-
Ora che la casa è finita e i figli sono diventati grandi e autonomi, che finalmente potevi goderti un pò di riposo e di pace insieme alla tua sposa, nell’intimità della tua casa, coi muri delle stanze tappezzate di quadri, opere dei tuoi figli, amate particolarmente da te e da tua moglie, e sempre curate con grande affetto come anche i fiori che riempiono i corridoi i balconi e le stanze, insomma, una casa sempre vestita a festa, ora che era il momento di goderti di tutto questo, ora che speravi di vivere ancora a lungo e in santa pace quelle forze che sempre ti hanno sorretto, quell’orgoglio che mai ti è mancato, l’affetto dei tuoi figli, l’amore della tua sposa, nulla hanno potuto. Il male è stato più forte e tu a lui ti sei piegato. Oggi quei fiori che con tua moglie, con tanto amore, hai coltivato, ti adornano la bara, per il tuo ultimo viaggio.
Grazie, compagno Matteo, per questa testimonianza che ci lasci, di grande lavoratore, di onesto cittadino, di padre amorevole e amato sposo, di cristiano, ma soprattutto di grande compagno. Addio! “
Tante altre cose avrei potuto scrivere su “mio suocer0” a cent’anni dalla nascita, ma preferisco fermarmi qui. Se la vita e la salute mi permetteranno di scrivere, forse scriverò una biografia, perché non solo gli uomini di grande ingegno politico, scientifico, militare sono degni d’essere ricordati, ma anche i “piccoli-grandi-uomini”, che, come quelli, hanno contribuito a fare la storia democratica del nostro paese.