Monte Zebio: l’intervento di Gian Paolo Brizzi sulla prima medaglia d’oro della Brigata Sassari
Voglio ricordare la figura di Guido Brunner, prima medaglia d’oro della Brigata Sassari, caduto in combattimento a Selletta Castelgomberto giusto un secolo fa (8 giugno 1916). Brunner era un irredento, uno dei 1041 irredenti triestini rifugiatisi in Italia, poca cosa in apparenza per una città che contava 240.000 abitanti, ma il valore simbolico del loro sentimento di italianità e l’uso propagandistico che se ne fece serviva a oscurare l’orientamento lealista assai diffuso nella città giuliana; Brunner era un disertore, fuggito con un espediente mentre era destinato a Lubiana per frequentare il corso di allievo ufficiale nell’esercito del Kaiser, una scelta estrema che lo iscriveva già nella lista dei condannati a morte; questa decisione poneva al giovane Brunner più di un caso di coscienza, poiché lo esponeva ad una guerra fratricida, giacché l’intero clan dei Brunner, una delle più ragguardevoli famiglie della città con interessi nei settori dell’industria della finanza e del commercio internazionale, era impegnato anche finanziariamente nel sostegno al governo asburgico e i cugini indossavano la divisa asburgica; inoltre come membro della comunità ebrea ben sapeva che i rabbini del Litorale austriaco erano tutti favorevoli al Kaiser. Per capire l’origine del suo gesto bisogna considerare che la madre Regina Segrè nutriva invece un forte spirito di italianità al pari del fratello Salvatore. I due cognati Rodolfo, padre di Guido, e Salvatore lo zio, rappresentavano emblematicamente le due anime politiche e culturali della città giuliana: Rodolfo apparteneva a quella élite economica che si legittimava nella tradizionale fedeltà all’impero. Salvatore Segré era su posizioni liberal-nazionali e dal precipitare degli eventi si avvicinò sempre più ai nazionalisti. Nei mesi che precedettero la dichiarazione di guerra si trasferì a Roma assumendo la presidenza dell’Associazione degli italiani irredenti che gli consentì di stabilire un rapporto diretto con esponenti del governo e delle forze armate, ruolo che gli giovò dopo il conflitto un seggio nel Senato del Regno e un titolo comitale. La storia del tenente Guido Brunner si inquadra in questa cornice familiare: la trasgressione alla volontà paterna, una piena condivisione con le opzioni estreme dell’irredentismo e il trasparente tentativo della madre e dello zio di mitigare le scelte più rischiose. Nel febbraio del 1915 attraversò clandestinamente il confine e raggiunse Venezia poi Bologna iscrivendosi alla facoltà di Giurisprudenza, qui richiamato dalla presenza del triestino Giacomo Venezian professore di Diritto, leader carismatico degli studenti interventisti, ed ebbe l’opportunità di partecipare all’addestramento paramilitare di un battaglione universitario organizzato dallo stesso Venezian; in rispetto al principio di fornire con una nuova identità uno schermo protettivo a quegli irredenti che chiedessero di arruolarsi da quel momento Brunner fu per tutti Giovanni Berti . All’indomani del 24 maggio, allo scopo di accelerare l’arruolamento, si trasferì a Roma ove poteva contare sull’aiuto dello zio Salvatore Segré, grazie al quale fu subito inquadrato in un reggimento di cavalleggeri destinato in zona di guerra a Palmanova. Brunner non tardò ad accorgersi che la scelta dello zio era stata guidata da un intento protettivo: la cavalleria non era coinvolta nei duri scontri che si succedevano sull’Isonzo e oltrettutto Palmanova si trovava ad una manciata di chilometri da Cavenzano ove i Brunner possedevano una grande tenuta con un’elegante villa del XVII secolo ove la madre di Guido si era trasferita a vivere dopo la partenza del figlio. Fra i fanti che si battevano in quei mesi sull’Isonzo sopraffatti dalla capacità difensiva delle linee nemiche, ricorreva un adagio che per Brunner, ansioso di battersi in prima linea, suonava come una beffa: “l’artiglieria spara, lo stato maggiore fa carriera, la cavalleria fa l’amore, la fanteria muore”.
L’occasione per lui si presentò nell’ottobre del 1915 quando il comando della Brigata Sassari fu stabilito a Cavenzano e ospitato proprio nella grande villa dei Brunner. Quasta volta toccò alla madre di Guido perorare la causa del figlio al generale Gabriele Berardi che favorì il suo trasferimento nella Brigata come suo ufficiale d’ordinanza. L’ardente desiderio di comandare un plotone di fanti sul campo di battaglia fu ancora una volta vanificato dallo schermo protettivo della madre ma l’occasione della battaglia si sarebbe presentata subito nelle circostanze più drammatiche con la terza battaglia dell’Isonzo, con la conquista di trincee nemiche contro le quali si erano infranti tutti i tentativi precedenti, un battesimo del fuoco durante il quale il giovane ufficiale poté esprimere tutta la determinazione e l’ardimento contenuti per mesi.
Il generale Berardi che sarebbe caduto in combattimento dopo qualche giorno gli volle assegnare una medaglia al valore. La Brigata Sassari aveva oramai acquistato agli occhi dei Comandi militari le stigmate di chi poteva risolvere le situazioni impossibili e impossibile parve ben presto il tentativo di arginare la strafexpedition del maresciallo Conrad sull’altopiano di Asiago. Brunner aveva finalmente ottenuto il comando di un plotone e con i suoi uomini si trovò a fronteggiare uno dei momenti più insidiosi, gli scontri che si succedettero rabbiosi nei giorni 6, 7 e 8 giugno. La resistenza degli uomini della Brigata fu particolarmente ostinata nella zona Malga Lora e Selletta Castelgomberto e il racconto dei sopravvissuti ci consente di riviverlo: “Abbiamo di fronte truppe scelte, bosniaci, kaiserjäger, gente testarda e valorosa. Respinti, tornano all’assalto; respinti ancora ritentano la prova; respinti, scossi, decimati, rinserrano le file e, sorretti da truppe fresche, risalgono a testa bassa a cozzare contro il nostro fuoco, con degli ‘hurrà’ formidabili e rauchi che mettono paura”. La situazione è disperata: ancora una volta Brunner assiste alla morte del suo comandate , il colonnello Lombardo; deve affrontare il nemico contando su soldati che spesso hanno perso il proprio ufficiale. A Selletta Castelgomberto verso le sette del mattino dell’8 luglio, dopo oltre 12 ore di combattimento incessante, cade colpito a morte. La testimonianza delle circostanze della morte è narrata con prosa secca e immediata da Alfredo Graziani giunto poco dopo con i rinforzi: ”Qua mi dicono è morto Brunner, si era lanciato verso la trincea nemica urlando ai suoi uomini ‘Ammazzateli tutti! Ammazzateli’ ed è caduto forato come uno scolabrodo, colpito da cento colpi”. Ai nostri occhi la sua morte appare come suggello di un destino che egli stesso aveva disegnato, che richiama l’affermazione perentoria che il professor Venezian amava ripetere “Trieste si prende col sangue”, ma anche le parole di un altro irredento triestino Giani Stuparich che si era arruolato a Roma insieme a Brunner e che combatteva in quegli stessi giorni sull’Altopiano con i Granatieri di Sardegna “Penso con calma che bisognerà morire”. Spettò allo zio Salvatore Segré celebrare il lutto del suo “adorato e valoroso nipote” con modalità frutto non solo della pietà ma di un preciso intento politico: come incaricato di segnalare ai comandi militari i nomi degli irredenti meritevoli di benemerenze, fu probabilmente lui ad accelerare l’assegnazione della medaglia d’oro che, non solo era la prima assegnata ad un membro della Brigata Sassari, ma anche la seconda conferita ad un triestino, la prima era toccata proprio al suo professore, a Giacomo Venezian, caduto anch’esso mesi prima in battaglia. Il caso del nipote ben si prestava a certificare, ma anche a rafforzare il tasso di italianità dei triestini, esigenza tanto più necessaria dopo la fine della guerra, quando si dovette favorire la fusione delle élites della città giuliana con quelle del Regno. La famiglia pubblicò un elegante fascicolo in sua memoria, cui seguirono, dopo il 1918 profili biografici di vari autori con un evidente intento agiografico che trasfigurarono via via la vicenda umana di Guido Brunner in un’icona che riassumeva alcuni di quei caratteri che ben si prestavano ad essere veicolati dalla propaganda nazionalista. I nuovi resoconti si ispirarono alla retorica celebrativa dell’eroe, un modello ricorrente in quegli anni che attingeva all’epica risorgimentale. L’urlo selvaggio rivolto ai suoi uomini “Ammazzateli, ammazzateli tutti”, assunse l’espressione di un incitamento in perfetto stile garibaldino “Savoia! Qui si vince o si muore, viva l’Italia”; i cento colpi celle mitragliatrici che avevano fermato la sua corsa verso la trincea nemica si ridussero a un solo colpo diretto al cuore e il giovane ufficiale spirò subito invocando la madre. Dopo Brunner il pantheon degli eroi triestini o istriani, dei martiri dell’italianità, si arricchì di nuove figure: da Nazario Sauro a Fabio Filzi, dai fratelli Stuparich a Scipio Slataper per ricordarne alcuni. I loro nomi, celebrati in monumenti ed epigrafi, servirono per ridenominare la toponomastica cittadina, per intitolare scuole, caserme, istituti pubblici con il deliberato intento di rafforzare l’italianità dei triestini.