Categoria : memoria e storia

“Petru Giovacchini e il sogno sfumato” di Mauro Maxia

Mauro Maxia

Mauro Maxia

Ringrazio Paolo Brizzi per avermi fatto avere il documento, Antonio Maria Murgia da Pinerolo per aver trascritto su file il dattiloscritto e Mauro Mauro Maxia per averlo contestualizzato. (A.T.)

L’amico Angelino Tedde mi chiede un’opinione riguardo al dattiloscritto inedito intitolato “Usi e costumi di Corsica” e avente per sottotitolo “La festa nuziale”. Lo accontento volentieri anche perché l’oggetto del dattiloscritto riguarda una particolare tradizione attestata fino al secolo scorso in Corsica, isola della quale mi interesso da molti anni in relazione alle sue varietà linguistiche.

Lo scritto in questione costituisce una assai breve descrizione di alcune tradizioni relative agli usi nuziali presso le comunità dei villaggi corsi, probabilmente della stessa zona di cui il relativo autore era originario.

Il dattiloscritto occupa poco più di una pagina e mezzo ed è firmato da Petru Giovacchini, che tra parentesi si autodefinisce “corso” e, ancora tra parentesi, riporta la dicitura “IV° Grp.Art. 149/12”. Conviene partire proprio da questa enigmatica sigla per andare a inquadrare la persona cui si deve il breve scritto. Egli, di fatto, dice che fa parte del IV Gruppo di Artiglieria dell’esercito italiano durante il ventennio fascista e che tale gruppo aveva in dotazione gli obici da 149/12. Dunque, al momento in cui scrisse le sue scarne note sugli usi nuziali corsi, Giovacchini doveva essere inquadrato militarmente in uno specifico gruppo del corpo di artiglieria.

Ma chi era Giovacchini e perché si firmava col nome Petru anziché col corrispondente italiano Pietro? La variante corsa Petru, appunto, stava ad indicare la sua terra di origine, la Corsica, in nome della quale egli svolse sempre la propria attività politica filofascista. Costui era nato nel 1909 in Corsica, a Canale di Verde. Da qui nel 1930 si era trasferito a Pavia, dove si era laureato in medicina e chirurgia. Per motivi che non ci sono noti i suoi connazionali corsi lo avevano soprannominato u parrucu (“il parroco”)

Giovacchini, che partecipò alla guerra di Etiopia e fu anche camicia nera volontaria nella guerra civile di Spagna, di lì a pochi anni sarebbe diventato il principale esponente del movimento irredentista corso filofascista.

A Giovacchini si deve la creazione dei “Gruppi di cultura corsi” (GCC) che furono costituiti proprio a Pavia nel 1933.[1] Scopo dei GCC era, in origine, quello di inquadrare sotto un’unica sigla tutti i cittadini italiani d’origine corsa e i corsi fuoriusciti, allo scopo di promuovere l’italianità dell’isola sia dal punto di vista culturale che linguistico. Giovacchini, che frattanto si era trasferito a Milano, oltre ad occuparsi dell’organizzazione nazionale, supervisionava anche l’attività del gruppo costituito nella metropoli lombarda e la pubblicazione del corrispondente bollettino « Corsica ».

Nel settembre 1939 uno specifico ufficio diretto dal marchese Blasco Lanza d’Ajeta, segretario particolare e poi capo di gabinetto del ministro Galeazzo Ciano, attraverso un « Comitato per la Corsica » iniziò un monitoraggio sui 15 mila iscritti ai GCC (residenti soprattutto in Liguria, Toscana e Sardegna) per comprendere se vi erano le condizioni per trasformare, con un adeguato finanziamento da parte del famigerato Minculpop, l’iniziativa culturale dei Gruppi di Giovacchini nell’attiva propaganda irredentistica collegata con i movimenti clandestini sull’isola.

Le cose non andarono proprio in questo modo[2] e, del resto, questo aspetto appare secondario rispetto all’analisi del dattiloscritto che è quanto interessa in questa sede. Non sembra superfluo, tuttavia, osservare come nel 1940 il numero degli aderenti ai GCC fosse giunto addirittura a 22.000.

Tornando al breve testo di Giovacchini, esso si inquadra nel contesto della sua attività culturale volta a promuovere la conoscenza, presso la popolazione italiana, della cultura corsa nella prospettiva della sua auspicata integrazione nel più vasto alveo della cultura italiana, una volta che l’annessione della Corsica, auspicata dal regime fascista, fosse stata realizzata.

Oltre che medico, Giovacchini fu anche poeta e scrittore. Nel 1929 pubblicò la raccolta di poesie Musa Canalinca, nel 1930 le Rime notturne, nel 1936 Aurore, poesie corse. Successivamente apparvero i lavori Corsica Nostra  (1942) e Archiatri pontifici corsi (1951). Morì esule a Canterano (Roma) nel 1955 a soli 46 anni, dopo che la Corte di Giustizia di Bastia nel 1946 lo aveva condannato a morte per tradimento.

Il dattiloscritto di cui si argomenta, per il vero, è quasi privo di valore da qualunque ottica lo si voglia osservare. L’unico interesse è dato, sul piano culturale, dalla descrizione di un complesso cerimoniale che, per qualche verso, può essere confrontato con l’antica tradizione gallurese, nota come pricunta ‘richiesta (di fidanzamento col relativo rituale)’, la quale si svolgeva fino a qualche decina di anni fa secondo suggestivi schemi che coinvolgevano le famiglie e l’intero parentado dei promessi sposi. Occorre però distinguere tra i due cerimoniali, in quanto quello corso descritto da Giovacchini è relativo al matrimonio mentre quello gallurese riguarda propriamente il fidanzamento.[3]

Lo scritto di Giovacchini avrebbe potuto presentare maggiori elementi di interesse qualora i dialoghi, anziché essere tradotti in italiano, fossero stati trascritti nella lingua realmente usata dalla popolazione, cioè nella varietà di corso parlata nella zona in cui era attestata quella tradizione. E invece Giovacchini, coerente con gli ideali della cultura fascista che guardava ai dialetti soltanto in funzione della lingua nazionale, non riferisce neppure il nome tradizionale del cerimoniale di cui parla, che in corso era detto maritaghju[4] ‘maritaggio’ e corrisponde al gallurese cujugnu e al logudorese cojonzu, affidu, isposonzu. Invece Giovacchini, forse involontariamente, finisce quasi col negare l’evidenza ricordando “…la formula sacramentale detta in italiano: la lingua del paese”.[5] Non si può sottacere che i dialetti della zona di cui egli era originario siano quelli più vicini al toscano, ma da qui a dire che la lingua del paese (presumendo che si trattasse di Canale di Verde) fosse l’italiano il passo appare oggettivamente troppo lungo e dettato dalla retorica fascista più che da un’intima convinzione. D’altronde, è proprio l’ostentazione del nome corso Petru a dimostrare quanto egli tenesse ad affermare la propria specificità corsa.

La festa Nuziale

di Petru Giovacchini

 

Petru Giovacchini

Petru Giovacchini

Quando un giovane isolano ha adocchiato una ragazza a cui vuol donare la sua casa ed il suo nome, egli prende la sua chitarra tramandatagli dagli avi, a lui cara quanto il fucile, ed in una notte calma e di plenilunio – va sotto la finestra della donna amata.

Quel che egli dirà con il canto ancora non lo sa che ogni corso è poeta e si fida all’impeto dell’improvvisazione; abituato fin dall’infanzia a contemplare le onde or calme or furiose del mare nostro e ad ascoltare – le voci interne  di quest’altro mare profondo che l’anima corsa, il giovine innamorato, se anche analfabeta, troverà per la sua donna parole di sincero affetto e di soave malinconia.

Quando la prima strofa è la vena della poesia fluisce a grandi pole del suo cuore, un’ accordo lene di chitarra ed il giovane, la testa sull’istrumento, canta per lunghe ore, finché una finestra non si è aperta ed un fiore non è caduto sulla testa del solitario cantore.

Con questa serenata egli ha svelato il segreto del suo cuore; se è  stato corrisposto, sette giorni dopo, vestito dagli abiti tradizionali, stivaloni, giacca di velluto e berretto a cono, egli si reca a casa della ragazza a chiederle la mano che le verrà sempre concessa tanto

più se egli è abile a cavalcare ed a maneggiare le armi. –

Viene fissata la data del matrimonio. Il matrimonio è un’ avvenimento per i piccoli paesi dell’isola; la domenica prima delle nozze, i promessi sposi; seguiti da un codazzo di bimbi si recano a porgere gli inviti; nessuno è dimenticato neppure i nemici che non poche volte hanno ancora il pugnale lordo di sangue dei loro cari; è una vera tregua di Dio.

Venuto il giorno delle nozze, un pranzo pantagruelico, riunisce in casa della sposa tutti gli amici delle due famiglie. Dai primi arbori del giorno la casa è spenta è ben presto appare lo sposo, parato a festa a cavallo con la scorta di onore la quale in festa di giubilo spara fucilate e mortaretti a salve; si forma ben presto un corteo che gira tutte le strade del paese festeggiato dalla popolazione la quale getta grano e riso in segno di abbondanza. Una musica campestre a base di pifferi, ocarine e “ciambelle” viene dalla non lontana chiesa; il corteo rumoroso lentamente penetra nella chiesa la ed il prete pronuncia il matrimonio con la formula sacramentale detta in italiano: la lingua del paese.-

Finita la cerimonia religiosa gli invitati con gli sposi in testa si recano alla casa della sposa dove gli attende sul ciglio della porta la madre la quale offre, quale simbolo del dolci ore del matrimonio, una grande tazza di miele alla quale tutti si faranno un dovere di assaggiare. Poi incominci il pranzo: le vivande più disparate si susseguono interrottamente, dallo spiedo del cinghiale all’arrosto del capretto, alle vittime del pollaio e della macchia il tutto innaffiato dai vini prelibati di patrimonio e del Capo corso. –

quando l’allegria ha raggiunto il culmine il comando della festa passa dal padrone di casa al poeta capo; x e questi un vecchio venerabile per età e per esperienza dalla lunga barba fluente che ha lasciato l’aratro per presenziare alle nozze; dopo di aver ripetutamente battuto sulle labbra della sposa con ramoscello di assenzio per ricordare che talvolta la vita è amara, egli incomincia ad improvvisare canzoni dialettali dove non poche volte l’ispirazione è profonda e sentita. Terminato il canto gli invitati scendono sulla piazza ove avrà luogo una battaglia; una battaglia senza brillar d’acciai, fra gli amici della sposa e gli amici dello sposo; gli uni vogliono trattenere l’amica della loro infanzia, gli altri la vogliono rapire per offrirla allo sposo; non poche volte, per l’eccesso del vino, il simulacro di battaglia degenera in una vera rissa. Intervengono allora i pacieri e calmano i furenti; consigliano la sposa di seguire l’uomo cui dono’ il suo cuore. La sposa allora balza a cavallo e parte a spron battuto sulla strada polverosa che la condurrà verso una nuova vita, verso la sua – nuova dimora. Seguono a cavallo tutti gli amici dello sposo.

Se un ruscello scorre fra i due paesi, fra la vecchia casa e la nuova, la carovana si ferma; il più giovane dell’invitati facendo sgabello con il suo dorso invita la sposa a scendere da cavallo ed a purificarsi.

Scende la sposa con le labbra atteggiate al sorriso, ferma nel concavo della mano l’acqua corrente e le rivolge una preghiera che potrebbe essere un canto: “o acqua, ella dice, tu che scendi dai nostri monti e disseti i nostri greggi, tu che ascolti il canto del bandito sperduto nelle nostre foreste, e scorri sulle mie gote  ancora serene di puerizia, – scaccia dalla mia vita passata quel che vi fu di male e rendimi sempre più degna del mio futuro -”. Finita la preghiera il corteo s’incammina verso il paese finché non trova la strada sbarrata da una aulente siepe di fiori.

Dai lati opposti di questa barricata s’inizia un dialogo sacro come le parole sacramentali:

  • chi è colei che si avanza! ritorni sui suoi passi; che cui nessuna porta le sarà aperta, nessuna casa le sarà ospitale. –
  • sono io una ragazza che ha sposato il più bel giovane del paese e che ha una madre che l’attende ed ha preparato tutta profumata di ginestra e di timo.

Pronunziate queste parole la siepe cade e la sposa si vede venire incontro i genitori dello sposo. Con una chiave che le viene offerta aprirà tutte le porte della nuova casa ove trascorrerà felice una nuova vita finché un trillo di bimbo non le dirà che è madre. Così si sposano le donne corse ed  incominciano la vita coniugale ben volute da tutti, stimate dallo sposo ed oltraggiate da nessuno; ciò  nonostante la penetrazione francese, di quei francesi che dissero: “En general les femmes cor es  aont dés veritables esclaves: elles iu pasent toute leur vie en compagnie de leure gosses et de leurs domestiques”.

Eh questa la schiavitù preferita dalla donna corsa, dalla donna Italiana la quale considera la vita come una missione.

Petru Giovacchini (Còrso)

(IV° Grp. Art. 149/12. – )

La foto è tratta dal sito http://it.wikipedia.org/wiki/File:Giovacchini_P..jpg


[1] La sede centrale dei Gruppi era proprio a Pavia, in via Alboino. L’emblema dell’organizzazione era un triangolo

bianco con la Testa del Moro bendata di rosso. Successivamente i Gruppi prenderanno il nome di Gruppi d’azione irredentista corsa,  poi  Movimento irredentista corso e infine Movimento d’azione irredentista corso.

[2] Per un approfondimento delle questioni legate alle attività politiche del Giovacchini può essere utile la lettura dell’articolo di Marco Cuzzi, La rivendicazione fascista della Corsica (1938-1943), pubblicato in “Recherches régionales”, Conseil Général des Alpes-Maritimes, Archives Départementales – Centre Administratif Départimental, Nizza, n. 187, 2007, pp. 58-71.

[3] Conservo ancora un personale e nitido ricordo del rituale de Sa Pregunta che si svolgeva a Perfugas ancora agli inizi degli anni Sessanta del secolo scorso. In Gallura vi è chi ritiene che il rituale si svolgesse il giorno prima delle nozze mentre, in realtà, il cerimoniale andava in scena durante la sera che precedeva il fidanzamento.

[4] Per una sommaria descrizione del maritaghju in alcune località e zone della Corsica vedi Franco Domenico Falcucci, Vocabolario dei dialetti, geografia e costumi della Corsica, a cura di Pier Enea Guarnerio, Arnaldo Forni Editore, Cagliari 1915, pagg. 230-231.

[5] Per notizie biografiche e altri dati su Petru Giovacchini si veda il sito  http://www.revestito.it/?id1= 93&idaux= 98& wiki=Petru_Giovacchini.

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