Categoria : memoria e storia

La vita della comunità villaggio della Casa Divina Provvidenza di Sassari di Baingia Bellu

Fin da quando l’istituto fu aperto gestito dalle Figlie della Carità, la vita quotidiana fu regolata da precisi orari: l’orario del riposo e della sveglia, dell’igiene personale e della pulizia dei locali, della visita medica e della medicazione, dell’istruzione e della pratica religiosa, dei momenti ricreativi e delle visite dei parenti o delle Dame o Damine di Carità[1].

La vita delle anziane e più tardi degli anziani, delle orfane e degli orfani, non veniva regolata dal caso, ma da quello schema di orario che in genere i vincenziani imponevano alle loro case fin dalla loro fondazione nella prima metà del Seicento[2].

La levata e le prime pulizie personali erano fissate per le sei, alle sette suonava la campana per la messa che veniva solita­mente celebrata da un missionario vincenziano, fuorché nel periodo in cui officiò la celebrazione l’ormai anziano storico della Chiesa mons. Damiano Filia; alle 7,45 era fissata la cola­zione, seguivano alle 8,30 le pulizie dei locali, la visita medica, (per tanti anni tale compito fu assolto gratuitamente dal medico comunale), seguivano brevi conversazioni e momenti ricreativi guidati in genere dalla suora del reparto[3].

Alle 12 si pranzava e quindi fino alle 15.30 seguiva il silen­zio e il riposo pomeridiano.

Alle 15,30 si svolgevano momenti di istruzione e ricreativi, alle 17 il ricevimento delle Dame e dei parenti, alle 18 la cena e alle 19, recitate le preghiere della sera nello stesso reparto, si dava la buona notte .

Erano, come si può notare gli orari ospedalieri che, a secon­da delle stagioni, presentavano una certa elasticità.

Allorché furono accolti, subito dopo l’erezione in ente mora­le, i primi bambini e le prime bambine orfane, dai sei ai dodici tredici anni, gli orari, a seconda dei reparti, subivano variazioni fuorché nei momenti della preghiera, dei pasti e del riposo[4].

Per quanto riguarda gli orfani di entrambi i sessi, i più pic­coli, (quelli dai tre fino ai sei anni), dal momento che fin dall’erezione in ente morale fu annesso all’istituto un locale per l’asilo per accogliere i bambini del quartiere popolare delle Conce, venivano inseriti nell’asilo insieme agli esterni.

Quelli in età scolare venivano accompagnati alle scuole ele­mentari cittadine di San Giuseppe a piano terra, nel reparto dei bambini “tracomatosi” della città, ciò fino al 1949, allorché si aprì nello stesso istituto una sezione staccata della scuola Elementare di San Giuseppe che andava dalla prima alla quinta[5].

Per gli scolari, al pomeriggio, si teneva una specie di dopo scuola con compiti, sotto la guida della suora culturalmente più preparata.

Il sabato pomeriggio e la domenica i minori di entrambi i sessi dedicavano alcune ore allo studio del catechismo e all’ap­prendimento anche mnemonico di interi passi della Bibbia.

 Una pedagogia per gli anziani

 Le anziane autosufficienti venivano impegnate nella confezione di oggetti di celluloide da regalo, il lavoro all’uncinetto, il ricamo di tovaglie da vendere, il rammendo dei vestiario di adulti e ragazzi.

Nei momenti liberi preparavano i canti per le liturgie in cappellao canti ricreativi sia in italiano che in lingua sarda.

Inoltre un missionario si occupava delle confessioni e della catechesi.

Con queste attività si ravviva la socialità e soprattutto il fattore cognitivo e l’autostima, in quanto le buone suore premiavano i lavori meglio confezionati senza naturalmente sminuire gli altri[6].

 Altre contribuivano col personale di servizio all’igiene dei locali e degli arredi.

L’attività fisica era praticata passeggiando in lungo e in largo per il cortile e talvolta organizzando visite in città in occasioni di liturgie diocesane o di particolari  ricorrenze  civili.

D’altra parte non bisogna dimenticare che tra il ‘22 e il ’43 l’esercizio ginnico era propagandato dallo stesso regime.

 Gli anziani si dedicavano alla coltivazione di quasi un ettaro d’orto e frutteto,  ai lavori di falegnameria e di riparazioni di porte e finestre e ad altre attività manuali.

Tra loro c’erano quelli che amavano la lettura dei fumetti che tra gli anni Trenta e Cinquanta erano molto diffusi.

Spesso, nel cortile, venivano avvicinati dai ragazzi e allora si divertivano a raccontare ai piccoli storie di vita ai limiti del fantastico. Divenne famoso un certo sig. Sole che raccontava di essere stato in Sud America e di essere andato incontro a tante avventure. I ragazzi lo ascoltavano incuriositi e facevano domande e ottenevano risposte.

Il loro cortile era particolarmente ampio e quindi avevano la possibilità di passeggiare e di scambiare storie di esperienze fra loro.

 La sistemazione urbanistica dell’istituto, fin dalla sua fonda­zione, includeva un ampio cortile, luogo di incontro per tutti gli ospiti della Casa. Anziane e anziani, ragazzi e ragazze, portatori di handi­cap, pensionanti, essendo i reparti contigui ed essendo lo stesso cortile un passaggio obbligato per tutti, offriva opportunità di dialogo e di relazioni di vario genere tra generazioni diverse[7].

 D’altra parte, per gli anziani autosufficienti, per i ragazzi e per gli stessi pensionati, quasi tutti di elevato ceto sociale, i momenti comunitari d’incontro erano costituiti dalla messa quotidiana, dalle feste religiose più importanti, dalle recite e dai canti, in particolari festività legate al ciclo del tempo alla tradizione vincenziana o alle ricorrenze e anniversari delle suore e delle presidenti.

Per trent’anni quel cortile si trasformò quasi in una piazzetta paesana in cui tutti gli ospiti potevano comunicare e fraterniz­zare, sotto lo sguardo e il controllo delle Figlie della Carità che non tutte e sempre accettavano di buon grado quella promi­scuità spontanea

E’ indubbio che le suore sarde erano spesso quelle più rigide sulla separazione dei ragazzi dalle ragazze, dei vecchi dalle vec­chie e a volte esasperavano la situazione.

Tuttavia questo modo di fare, veniva spesso moderato dalle suore di origine continentale, quali furono quasi tutte le supe­riore, le suore dei ragazzi e delle ragazze e talvolta le suore degli anziani e delle anziane.

Ciò che destava meraviglia era il normale inserimento dei bambini e delle bambine portatori di handicap (spastici, ritar­dati mentali con altre varie menomazioni) tra i ragazzi e le ragazze normali.

Senza un’attenzione particolare, all’infuori dei momenti di terapia e cura o di insegnamento individuale di sostegno, data la difficoltà dell’apprendimento, questi ragazzi vivevano a contatto dei loro coetanei sottoposti alle stesse regole, sicuramente più curati dal punto di vista affettivo.

Gli anziani nella Casa avevano trovato chi li curasse venti­quattro ore su ventiquattro: questo, d’altronde era il motivo fondamentale dell’istituzione della Casa, dal momento che sovente le cronache cittadine segnalavano di anziani abbando­nati a se stessi e talvolta vittime di incidenti domestici di ogni genere.

Le anziane erano sistemate nei piani sopraelevati di viale San Pietro in enormi cameroni di tipo ospedaliero, quando volevano riposare, e in verande con vetrate quando volevano occuparsi di varie attività .

I servizi igienici erano  sufficienti anche se sicura­mente migliori rispetto a quelli di cui erano soliti usufruire, quando li avevano, nei tuguri da cui provenivano.

Col tempo migliorarono, ma sicuramente negli anni che vanno dalla prima alla seconda guerra mondiale (1915-1945) non ci furono docce, vasche, riscaldamento[8].

La pulizia della biancheria era affidata ad alcune donne ricoverate in condizioni di lavorare, che usufruivano di lavan­derie nel sottopiano di fronte al cortile.

Accanto alla lavanderia era situata la lingeria dove la stira­tura e il rammendo erano effettuati da una suora responsabile e, di tempo in tempo, da ricoverate valide al lavoro Il cambio della biancheria si effettuava, in genere, settima­nalmente e la biancheria e gli abiti, decorosi, ma nei periodi di guerra rattoppati.

Dal ’50 in poi la situazione andò sempre più migliorando e abiti  e le scarpe ab­bondarono a dismisura grazie ad un vicino grossista fornitore.

L’educazione dei minori.

 Per le ragazze che avevano ultimato le scuole fu predisposto un laboratorio di maglieria, la cui produzione e rendita andava a beneficio della Casa .

Per i ragazzi più grandicelli, eseguiti i compiti, nel pome­riggio, c’era l’apprendistato presso qualche laboratorio di fab­bro o di falegname.

Non mancavano per tutti i ricoverati le visite settimanali dei parenti.

Qui occorre premettere qualche dato sull’origine dei ricove­rati: molti anziani di entrambi i sessi provenivano da situazioni di disagio familiare o di completo abbandono sia che fossero sassaresi sia che provenissero dai centri rurali.

I ragazzi e le ragazze, in parte provenivano da istituti che li avevano accolti e dai brefotrofi, in parte venivano da famiglie numerose con genitori sprovvisti di mezzi non solo materiale, altri erano figli di separati, altri ancora erano orfani di uno o di entrambi i genitori.

A causa della precarietà dei mezzi di comunicazione, ma anche dell’indigenza generalizzata, erano rare le visite per i ricoverati provenienti da centri rurali; più frequenti per i ricove­rati cittadini.

E’ indubbio che gli ospiti della Casa non erano molto ricer­cati. Il contatto con la città avveniva però frequentemente in occasione delle processioni e dei funerali.

Era d’uso, quasi fino agli anni sessanta, invitare ai funerali gli orfani e le orfane degli istituti cittadini in cambio di un’offerta concordata con l’istituto oppure delle benemerenze che il defunto o la defunta (Dame o Damine di Carità) aveva conse­guito nei confronti dell’istituzione.

In tal caso i ragazzi e le ragazze, rivestiti con apposite divise, partecipavano ai funerali il cui percorso consueto era: casa del defunto, corso Vittorio Emanuele, chiesa di Sant’Antonio.

L’educazione fisica oltre che ai giochi nel cortile, alla ginnastica scolastica, era affidata alle corse nei campi, alle pas­seggiate e a partire dal ’49, come si é già detto, oltre un mese e mezzo alla colonia marina estiva[9].

Ad Alghero, presso i locali del Lazzaretto, i ragazzi passa­vano la giornata alternando il riposo al nuoto, la ripetizione scolastica all’apprendimento del galateo.

Per dormire si rientrava nei locali della scuola elementare ubicata di fronte ai giardini della città catalana.

Terapia e cura per i più fragili, bagni e abbondante alimen­tazione per tutti. Disciplina e ordine nei limiti del possibile dato il clima rilassato che si respirava.

Gli anziani, invece, restavano nella Casa, fattasi più silenziosa, finché anche per loro, negli anni ’60, sorgerà al mare la “Casa Segni” di Fertilia[10].

L’educazione religiosa era affidata alle suore e ai missionari vincenziani. Erano presenti nell’istituto varie associazioni per le ragazze particolarmente le Figlie di Maria, mentre è assente, per tutto il periodo fascista qualunque associazione giovanile femminile o maschile, di matrice politica.

I missionari vincenziani curavano la direzione spirituale degli ospiti della Casa e periodicamente svolgevano conversa­zioni agli anziani e ai ragazzi di entrambi i sessi.

 Si effettuavano confessioni periodiche e manifestazioni particolarmente toccanti nelle maggiori festività dell’anno liturgico e particolarmente a Pasqua, a Natale e nelle festività vincenziane.

 Le suore educatrici

 Le prime tre figlie della Carità, la superiora suor Aresi, suor Marongiu e suor Benati giunsero alla Casa nel gennaio del 1918, immediatamente dopo la guerra; nel ’19 arrivò suor Besati, la prima quasi cinquantenne le ultime tre rispettivamente di 34, 24, 25 anni, quindi abbastanza giovani per caricarsi l’assistenza della Casa.

Tutte e quattro andranno via nel ’36, dopo una quindicina d’anni di permanenza nella Casa.

Ad esse va il merito di aver dato all’istituto una gestione regolare, vivendo a stretto contatto con le Dame e col p. Manzella.

Data la scarsa documentazione poco resta su di loro nell’Isti­tuto.

Nel 1928 parte la Superiora suor Aresi e giunge all’Istituto la Bresciana suor Biassoni, dopo essere stata a Oristano, a Cagliari e ad Iglesias tra i minatori.

 Resterà ai “Cronici” fino alla morte, dando ad esso una forte impronta caritativa e favorendo la formazione delle ventenni suor Brambilla, suor Fontana, suor Scarpa, suor Porricino che saranno per oltre quarant’anni le vere colonne portanti dell’isti­tuto essendo suor Brambilla la vera e propria segretaria della Casa e la suora dei ragazzi, suor Fontana la “suora delle ragaz­ze”, suor Porricino la creativa e generosa dispensatrice di cibo a tutti gli ospiti della casa nelle varie epoche, diventando la responsabile della cucina, suor Scarpa la responsabile delle anziane e delle handicappate nonché l’infermiera delle stesse.

Queste quattro suore, all’arrivo nella Casa, avevano rispetti­vamente 27 anni la bergamasca suor Brambilla, 21 la emiliana suor Fontana, 26 la carlofortina suor Porricino, 19 anni l’ossese suor Scarpa.

Nel 1936 le suore presenti raggiunsero il numero di dodici, e salvo brevi periodi, questo numero si mantenne costante nel tempo.

Dal 1918 al 1967 hanno operato nell’istituto 60 suore delle quali otto continentali e le rimanenti sarde, prevalentemente originarie della provincia di Sassari.

Non si hanno dati sui titoli di studio, tuttavia, a parte poche eccezioni, la quasi totalità era fornita della sola licenza elemen­tare o al massimo della licenza media.

In genere tutte avevano frequentato un anno di formazione a Torino e talvolta avevano svolto attività di assistenza in altre Case gestite dalle suore[11].

Erano le suore che tenevano la cassa, anche se formalmente era la presidente a riscuotere e il consiglio di amministrazione a deliberare in merito alle decisioni da prendere sulla gestione della casa- villaggio.

 [1] A. TEDDE, L’attività sociale delle Dame, cit. p 113

[2] La ricreazione fa parte dei sistemi educativi del ‘600. Lo stesso Rabelais si lamenta che il gioco e la ricreazione non facevano parte dell’istruzione. Cfr. F. Leonarduzzi, F. Rabelaise la sua prospettiva peda­gogica, Trieste 1966.

[3] A. TEDDE, L’attività delle Dame, cit. p.122

[4] Archivio Casa Divina Provvidenza, (ACDP), Reparto Tracomatosi 1931-1941, Fasc. I

[5]  Intervista a Suor Porricino della Casa Divina Provvidenza in Archivio Privato

[6] Intervista a Suor Scarpa In Archivio Privato

[7] A. TEDDE, Cattolici per l’infanzia in Sardegna tra Otto e Novecento, Il Torchietto, Ozieri, 1997 pp. 218.

[8] A Tedde,  Cattolici per l’infanzia, cit. p. 230.

[9] ACDP, Colonia marina, Fasc. I.

[10] ACDP, Coloni a Marina per anziani, Fas. VII.

[11] ACDP,  Convenzione Figlie della Carità, Fasc. 8

Commenti

  1. Notizie scarne per un’istituto che ha compiuto piu’ di cento anni.
    E non capisco perche’ citare le suore col cognome.Suor Pia Biassoni
    La sua successore suor Redenta che non avete citato.
    Suor Luisa Brambilla
    Suor Caterina Fontana
    Suor Gabriella Porricino
    La non nominata Suor Vincenza che si occupava dell’asilo e che suonava il pianoforte in chiesa.
    Suor Agnese da Alghero che si occupava dei vecchi.
    Almeno,questi sono i miei ricordi che vanno da fine dicembre 1948 a settembre 1958

    Oreste alias Gavino
    Novembre 6th, 2012
  2. Ha ragione caro sig. Carboni, in effetti, la Bellu ha teso a mettere in rilievo il discorso pedagogico più che quello storico.
    Le notizie che lei ci dà può rintracciarle in Casa Divina Provvidenza di A. Tedde.
    La ringrazio comunque della segnalazione e mi auguro che la sua memoria di ferro corrisponda alla sua buona salute. Auguri e spero di sentirla su schype.
    Angelino Tedde

    Angelino Tedde
    Novembre 6th, 2012
  3. Mi sembra strano che,della vita che ha visto crescere molte situazioni,nessuno e in nessuno degli articoli che ho letto,si faccia menzione di un fatto “eclettico”che ha dell’incredibile,successo nella Casa della Divina Provvidenza di Sassari.
    Allora ero bambino(quasi 3 anni),e fin d’allora ricordo la sempre sorridente Signorina Antonietta,immobile su un letto per una grave caduta da cavallo(cosi’ dissero i piu’ grandi)
    Ogni mattina riceveva la S.Comunione,prima da Mons Filia e dopo la sua morte,dai vari Capellani succedutigli.
    Da Padre Villot(il cinesino) a Padre Salvi e il tenero claudicante Padre Sategna(da fare Santo)
    Ebbene,fui il primo che L’Antonietta abbraccio’ correndo scendendo la scalinata,dopo il suo ritorno da Lourdes
    Eppure,tutta Sassari e l’intera Sardegna parlarono abbondantemente di quel Miracolo che avvenne in tal Casa.
    Saluti da Hong Kong da un nostalgico di quei tempi.

    Oreste alias Gavino
    Dicembre 4th, 2012
  4. Volevo aggiungere che la guarigione miracolosa a Lourdes di Antonietta avvenne nel 1958,ben vove anni dopo che la vidi per la prima volta su quel letto accanto al cortile dei maschi dove giocavamo. Lei pazientemente e sempre sorridente ci sopportava.

    Oreste alias Gavino
    Dicembre 4th, 2012
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