Categoria : archeologia, filologia

I SARDI NURAGICI E LA SCRITTURA DI MASSIMO PITTAU

Mi sento in dovere di rispondere positivamente al pressante ma cordiale invito che l’egregio Maestro Franco Pilloni mi ha fatto a intervenire ancora sulla nota questione dei Sardi Nuragici o Protosardi rispetto alla “scrittura”. Una decina di giorni fa io ho ricordato che della questione in effetti mi sono interessato a fondo in due mie opere recenti, nelle quali ho presentato i risultati che ritengo di aver raggiunto in 60 anni di mio interesse alla questione: Storia dei Sardi Nuragici (Selargius CA 2007, Domus de Janas edit.) e Il Sardus Pater e i Guerrieri di Monte Prama (Sassari I ediz. 2008, II ediz. 2009, EDES).

Siccome è fastidioso e pesante per un Autore ritornare su una questione che egli ha trattato in precedenza, oggi mi limito a presentare le linee essenziali della mia ricerca e conclusione.

A) I Sardi Nuragici o Protosardi non hanno mai avuto una loro “scrittura nuragica nazionale”, del tutto differente dalle scritture allora in uso. Io ritengo che i Protosardi non si siano mai inventati una loro “scrittura nuragica nazionale” per la medesima ragione per la quale una “scrittura nazionale” non se la sono inventati neppure quei popoli di avanzatissima civiltà, che sono stati i Greci, gli Etruschi e i Romani. È cosa accertata infatti che i Greci hanno preso la scrittura o alfabeto dai Fenici, gli Etruschi l’hanno presa dai Greci e i Romani dagli Etruschi.

Quale mai ragione di fondo potevano avere i Nuragici a crearsi una loro “scrittura nazionale”, quando in effetti essi avevano a disposizione la scrittura fenicia, quella greca, quella etrusca e quella latina? Sarebbe stato come se, uno dei popoli del III Mondo, dopo la sua liberazione dai colonizzatori europei e per spirito di rivalsa, avesse deciso di ripudiare il “computer” dei colonizzatori e di costruirsi dal nulla un “computer” esclusivamente abissino o ugandese o somalo o indocinese, ecc.

B) I Nuragici invece sono anch’essi ricorsi alla “scrittura” che adoperavano altri popoli coi quali essi avevano rapporti più o meno stretti. E precisamente, per scrivere i loro messaggi, i Nuragici adoperarono prima la scrittura o alfabeto fenicio, dopo quello greco e infine quello latino.

Questo è quanto io ho acquisito ed esposto nelle mie citate opere, alle quali pertanto mi permetto di rimandare. Però, per venire incontro al cortese invito del Maestro Pilloni, ecco quanto mi sento di affermare ex novo su questo medesimo argomento, anche per effetto e in vista del pullulare di tanti scritti, alcuni dei quali mi sembra che non siano da rigettare o trascurare.

1) In epoca antica la Sardegna era un’isola frequentata da quasi tutta la navigazione che si svolgeva nel Mediterraneo centro-occidentale e per questo motivo non è inverosimile, anzi è probabile che in Sardegna siano arrivati anche oggetti con scritte tracciate con alfabeti differenti da quelli fenicio, greco, etrusco e latino. E saranno stati in primo e principale modo vasi e anfore e poi gioielli, armi, bronzetti, statuine sacre, amuleti.

Ebbene, in oggetti di questo genere – a condizione che siano autentici e non altrettanti “falsi” – per esatta metodologia epigrafica si ha l’obbligo di isolare eventuali “grafemi” o segni grafici o lettere di differenti alfabeti e di distinguerli bene l’uno dall’altro. Invece il mettere tutt’insieme grafemi egizi, sumerici, fenici, greci, etruschi, ecc. vuol dire effettuare nient’altro che grossi pasticci. Non è esistito infatti alcun alfabeto antico che sia stato una “macedonia” o un “minestrone” di alfabeti. Presentare poi questo “alfabeto-minestrone” come la “scrittura nuragica” è semplicemente una operazione da ragazzi. Esiste dunque l’obbligo metodologico di isolare e mettere assieme tutti quei grafemi o lettere che sembrano uguali o simili tra loro, in vista della eventuale scoperta di altrettanti differenti alfabeti.

2) In fatto di “scritture antiche” gli abbagli sono molto frequenti anche fra gli specialisti; ed io pure ne ho avuto più d’uno. Per questo motivo si deve essere disponibili a lasciar perdere le “iscrizioni” che iscrizioni non sono; ad es. la supposta iscrizione della targhetta di Tzricottu, nella quale a piena vista non si vede altro che “segni ornamentali”. E a maggior ragione si debbono lasciar perdere le successive targhette, di cui sono stati mostrati i disegni, ma mai i relativi oggetti. E sorvolo sul fatto che queste supposte “iscrizioni” non hanno nulla, proprio nulla a che fare con altre scritte che compaiono in altri reperti.

3) A proposito di “falsi”, archeologici ed epigrafici: ormai essi stanno circolando ampiamente in Sardegna, promossi anche da un malinteso “spirito nazionalistico” con un fondo di sardità esasperata. Io ne ho scoperto uno proprio in questi giorni: la cosiddetta “rotella” rinvenuta nel villaggio di Palmavera di Alghero ed esposta nel Museo di Sassari, innanzi tutto è una semplice fusarola e inoltre contiene alcuni accenni di una misteriosa scrittura, appena graffiati e nient’affatto incisi. A me è sembrata nient’altro che un tentativo di falsificazione effettuato di recente.

“Falsi archeologici ed epigrafici” di questo tipo sono entrati numerosi in un noto blog, come effetto del suo essere dominato anch’esso da un malinteso “spirito nazionalistico sardo”.

4) Dall’autorevole linguista Giacomo Devoto io ho appreso questa importante norma di epigrafia: il primo approccio interpretativo a una iscrizione si fa considerando la esatta natura del supporto materiale in cui essa risulta scritta. Ad es., in una stele funeraria dobbiamo cercare in primo luogo il nome del defunto e dei genitori, poi la sua età, il suo curriculum, ecc. In un vaso di pregio e in un gioiello si deve cercare il nome del donatore e quello del donatario; in una statuina di divinità si deve cercare il suo nome, quello del fedele donatore e la eventuale grazia richiesta da lui; ecc.

Contro questa fondamentale norma di metodologia epigrafica, ho visto messo in giro una specie di salsicciotto di creta, nel quale sarebbe scritto, in una scrittura sconosciuta, il vocabolo “nuraghe”. Ma quale senso mai avrebbe una simile scritta in un simile supporto? Si tratta invece di un evidente “falso archeologico” che contiene una ugualmente “falsa iscrizione”. In maniera analoga, quale mai senso avrebbe una iscrizione nella citata fusarola di Palmavera? Detto in altre parole, in una stele funeraria si cerchi un necrologio, in un unguentario si cerchi un omaggio a una donna, ma in un salsicciotto di creta e in una fusarola non si cerchi alcuna iscrizione.

5) In linea generale i “grafemi o segni grafici” o lettere di alfabeto non sono “simboli” e inversamente i simboli non sono lettere di alfabeto. Pertanto le elucubrazioni fatte sui simboli non sono affatto dissertazioni linguistiche; anche perché sui simboli si può dire tutto e anche il contrario di tutto.

6) Di tutte le scienze, perfino di quelle più difficili, si può parlare con parole semplici e chiare. E allora perché adoperare sempre e soltanto il “linguaggio ermetico” degli specialisti? Ne deriva l’impressione che l’ermetismo linguistico adoperato non sia altro che un tentativo di fare presa sugli ascoltatori o lettori inesperti. E poi bisogna finirla con conferenze che durano due ore, con innumerevoli e interminabili interventi fatti negli ospitali blog. Si ha l’ovvia impressione che si vogliano conquistare gli ascoltatori e i lettori “prendendoli per stanchezza”.

7) In ultimo, ai fini di un sensato e proficuo studio di eventuali segni di scrittura in reperti sardi, non si facciano entrare anche i medici e i biologi: questi saranno anche bravissimi nel loro campo di specializzazione, ma in fatto di linguistica e di epigrafia i loro interventi non possono ottenere altro effetto quello di creare ulteriori confusioni.

Massimo Pittau

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