18 Maggio 2011
Categoria : politologia
Europa e Stati Uniti, così lontani e così vicini di Mario del Pero
Tra le voghe intellettuali più popolari dell’ultimo decennio vi è stata anche quella di enfatizzare le profonde differenze politiche, culturali e finanche “di civiltà” che esisterebbero tra Europa e Stati Uniti e di predire, di conseguenza, l’ineluttabile crisi dell’Alleanza Atlantica. Gli americani vengono da Marte e gli europei da Venere, affermò il celebre opinionista statunitense Robert Kagan nel 2002, contrapponendo un’America virile, marziale e consapevole delle minacce presenti nel mondo a un’Europa femminea, debole e compiaciuta dei suoi successi. L’Europa, rispose di lì a poco il sociologo britannico Will Hutton, era invece un modello equo ed efficiente, fondato su un contratto sociale assente negli Stati Uniti e i cui fondamentali economici rimanevano superiori e più solidi. Quelli di Kagan e Hutton erano esempi tutto sommato colti di una controversia acuita, e per molti aspetti abbruttita, dagli attacchi terroristici dell’11 settembre. Che tra i tanti loro riverberi ebbero anche l’effetto di ampliare la frattura tra i due lati dell’Atlantico e di alimentare speculari presunzioni eccezionaliste: l’America delle libertà, sempre “pronta a combattere”, sostenne il Presidente George W. Bush, “per una pace che favorisca la libertà”; l’Europa potenza benevola e civile, un “attore globale” – si affermava nella dottrina di sicurezza della UE del 2003 – “pronto ad assumersi la sua parte di responsabilità per la sicurezza mondiale e nell’edificazione di un mondo migliore”. A un’America spaventata, unilaterale nelle sue modalità di risposta alla sfida terroristica e roboantemente nazionalista nel suo discorso pubblico si contrappose un’Europa certo poco sensibile alla ferita inferta agli Usa dagli attentati dell’11 settembre, ma anche maggiormente consapevole della natura della sfida terroristica e dei mezzi necessari per farvi fronte. Questa frattura nelle relazioni transatlantiche deflagrò in occasione dell’intervento in Iraq, ma rientrò progressivamente già durante il secondo mandato di Bush. Con Obama il processo parve completato. Il nuovo presidente riuscì a riattivare molti elementi del mito americano, come evidenziato dalla sua straordinaria popolarità in Europa. E, soprattutto, mise definitivamente nel cassetto la svolta nazionalista e unilaterale di Bush, tornando a far parlare agli Stati Uniti la lingua franca di un cosmopolitismo liberale e multilaterale che lo poneva in perfetta sintonia con gli europei: che ne faceva un “presidente europeo”, come affermarono in tono severo alcuni commentatori conservatori negli Stati Uniti. Si trattava di affermazioni frettolose e superficiali, come lo erano quelle di qualche anno prima sull’inevitabile scontro euro-americano: sulla fine di “Atlantica”. L’uccisione di Bin Laden, e le diverse reazioni che ha suscitato in Europa e negli Stati Uniti, è lì a mostrarcelo. Negli Stati Uniti l’operazione è stata celebrata con entusiasmo e, talora, sguaiataggine: con cori da stadio, davanti alla Casa Bianca e a Times Square. Pochi problemi sono stati posti in merito alla sua legittimità. E forse per la prima volta da quando è presidente Obama, nell’annunciare con scoperta soddisfazione il successo dell’operazione, ha finito per ricordare a molti europei chi lo ha preceduto alla Casa Bianca. Gran parte dell’Europa ha osservato, sorpresa se non sbigottita. L’arcivescovo di Canterbury, Rowan Williams, si è dichiarato “a disagio” per l’uccisione di un “uomo disarmato”: “non sembra”, ha affermato Williams, che “sia stata fatta davvero giustizia”. Sulla Süddeutsche Zeitung, il giornalista e giurista Heribert Prantl si è interrogato su quale “diritto” abbia permesso l’eliminazione di Bin Laden: “negli Stati Uniti”, ha affermato Prantl, “la legge richiede vi sia un processo prima che la sentenza sia eseguita. Le esecuzioni sono proibite in paesi basati sul primato del diritto”. “Di fronte alla morte di un uomo”, ha rimarcato il Vaticano, “un cristiano non si rallegra mai”. Per il famoso avvocato ed esperto di diritti umani Geoffrey Robertson, “la gioia è comprensibile, ma finisce per giustificare quel che appare … come un assassinio a sangue freddo da parte di un presidente che, in quanto ex professore di diritto, è consapevole dell’assurdità della sua affermazione secondo la quale ‘giustizia è stata fatta’” Sono un’America marziale e un’Europa venusiana quelle che si confrontano in questi giorni? È, quella di Obama, un’America consapevole di doversi confrontare con un mondo brutale e pre-moderno e quindi, laddove necessitata, capace di “entrare nel male” per potersi difendere? O questa controversia ci rivela invece l’acquisita superiorità etica e civile di un’Europa in grado di trarre dalla storia quelle lezioni che invece eludono il suo partner statunitense? Europa e Stati Uniti non sono né una né l’altra cosa. Gli stereotipi di Kagan e Hutton ci sono di poco aiuto in questa vicenda. Che mostra, queste sì, alcune rilevanti differenze tra Europa e Stati Uniti (e d’altronde non vi sarebbe ancora la pena capitale negli Usa se non esistessero queste differenze). Ma che rimanda sia all’11 settembre sia alla recente crisi economica più che a presunte divergenze essenziali tra gli Usa e l’Europa. Come già in passato, l’Europa fatica a comprendere appieno l’impatto degli attentati del 2001. La cicatrice profonda che essi hanno lasciato negli Stati Uniti: il senso di paura, vulnerabilità e precarietà. Quell’immagine di Bin Laden che a molti europei appariva ormai lontana e sfocata, lascito di un’epoca che fu, negli Stati Uniti era invece vivida e presente. Preservava intatta la sua forza simbolica estrema. Racchiudeva, quell’immagine, tutto il male inferto agli Stati Uniti. Uccidere Bin Laden e gettarne – con scelta invero infelice – il corpo in mare serviva per rimuovere ed esorcizzare questo male. Perché nessuna altra immagine del male, nessun simbolo, era forte quanto il volto di Bin Laden. Esorcizzare il male voleva però anche dire riaffermare la leadership e la grandezza degli Stati Uniti. L’operazione dei Navy Seals è stata celebrata con eccitazione anche per questo: perché è parsa riconferire entusiasmo e orgoglio a un paese in difficoltà, sul piano interno così come quello su quello internazionale. A un paese diviso e polarizzato che, assieme all’orgoglio, ha improvvisamente ritrovato unità e coesione. E si è raccolto attorno a un presidente che forse per la prima volta nel suo mandato è sembrato ai più un credibile comandante in capo: un vero presidente di tutti. Quello stesso presidente criticato fino ad oggi in quanto incapace di portare a termine la missione in Afghanistan o di rispondere coerentemente ai sommovimenti nordafricani. Anche per questo l’America ha celebrato la morte di Osama Bin Laden: per vincere le paure che l’11 settembre ha lasciato; per riaffermare la propria grandezza; per ritrovare l’unità perduta. Nel farlo, però, ha lasciato a dir poco perplesso il resto del mondo. Inclusa quell’Europa che le rimane alleata. E che le è più simile di quanto molti vogliano o sappiano credere.
Mario Del Pero
(Università di Bologna)