Categoria : storia

Dal Seminarietto al Senato. Vita politica di Nino Giagu De Martini di Francesco Obinu

Abbiamo provveduto a pubblicare i primi tre capitoli del saggio. Angelino Tedde, Francesco Obinu,  Gli esponenti della rivoluzione Bianca a Sassari. L’impegno politico di Nino Giagu De Martini (1956-1980), Associazione Alcide De Gasperi, Sassari 2005 pp. 328. Vista la pressione di alcuni studiosi e, resosi pressoché irreperibile il libro, offriamo ai nostri lettori, il cap. IV e quelli di seguito, autore Francesco Obinu.

La “rivoluzione bianca”. Gli esordi nella politica regionale (1956-1970)

Raccontare trent’anni e oltre di attività politica ai più alti livelli regionali, coronati dall’elezione fra i senatori della Repubblica e da incarichi nei governi nazionali, non è un compito che si possa svolgere in modo esauriente in un centinaio di cartelle.

Così, queste ‘note’ sulla figura politica di Nino Giagu De Martini – che entrano a far parte della collana dell’Associazione intitolata ad Alcide De Gasperi, fatta di pubblicazioni sempre ben documentate e curate ma mai voluminose –, si propongono di essere uno strumento di consultazione agile e in grado di dare, in una ricca sintesi, il quadro completo della carriera di uno dei massimi rappresentanti della classe dirigente sarda.

Si propongono di essere anche un primo passo, un ‘punto e a capo’ (diciamo così) dal quale partire per un lavoro più articolato, dettagliato, approfondito, che darebbe un contributo importante alla storia politica e sociale della Sardegna contemporanea.

Detto questo, l’attenzione maggiore è stata dedicata agli anni che vanno dal 1956, quando il giovane Giagu De Martini fu ‘iniziato’ alla politica che non guarda più soltanto al cortile di casa ma spazia con le sue prospettive ben oltre l’ambito regionale, al 1980, quando l’ormai affermato uomo politico concluse il suo ultimo impegno di governo in Sardegna, pronto alle nuove esperienze nazionali. La segreteria della Democrazia cristiana sassarese (1966-69), le tre presidenze della Regione (1970-73), i diversi incarichi assessoriali ricoperti tra il 1965 e il 1980, sono le tappe fondamentali di un cammino che vide Giagu costantemente ai vertici della scena politica regionale, sostenuto da un forte consenso elettorale che non gli fu negato nemmeno nei momenti più difficili, quando le avversità di governo parvero gettare ombre sulle capacità e persino sulla saldezza dei principi democratici del presidente. Gli elettori, a più riprese, mostrarono fiducia nell’impegno politico di un uomo che, come in molti gli riconoscono, sapeva stare vicino alla gente, sapeva coltivare i rapporti con le persone.

Un volo rapido, invece, è stato compiuto sugli anni Ottanta e Novanta, anche perché i fatti di quell’epoca sono ancora troppo ‘vivi’ per essere adeguatamente valutati da un punto di visto storico. Non c’è dubbio che l’attività di Giagu nelle commissioni senatoriali, come pure quella da sottosegretario, andrebbero (con disponibilità più larghe di tempo e risorse) portate alla luce. Così come sarebbe interessante, un domani, indagare meglio le tumultuose vicende che prepararono l’avvento della Seconda Repubblica e che cancellarono, a Sassari, la DC di Giagu ma non la centralità politica di Giagu, che si perpetuò a lungo nelle vicende del Partito popolare e, poi, della Margherita.

Queste ‘note’, questi veloci appunti, hanno il conforto di un’appendice documentaria. Sono tre, per meglio dire, le appendici: la prima riporta le dichiarazioni programmatiche delle giunte regionali presiedute da Giagu, la seconda dà spazio agli enunciati di alcune tra le leggi che egli elaborò come assessore, la terza riproduce, oltre alla prima intervista rilasciata da Giagu dopo la conclusione dell’esperienza presidenziale, anche il discorso che egli tenne nel 1984 in qualità di decano del Consiglio regionale: quel discorso colpisce perché esprime il dubbio proprio di ogni governante onesto, che, voltandosi a guardare l’opera compiuta, si chiede se essa corrisponda pienamente al dovere superiore di chi è stato eletto a guidare un’intera comunità, oppure sia rimasta inficiata dal ‘tradimento’ di quel dovere, cioè dal cedimento alla tentazione partigiana che spinge ad eludere l’imperativo di operare scelte che devono essere non per uno o per pochi, ma per tutti.

1. La “rivoluzione bianca”.

I “giovani turchi”. L’inizio della carriera politica di Antonio Giagu De Martini è legato a quella “rivoluzione bianca” che nel 1956 scosse la Democrazia cristiana sassarese e che ebbe come protagonisti alcuni giovani, i quali, divenuti subito celebri sotto l’appellativo di “giovani turchi”, lasciarono poi una forte traccia nella storia politica della Sardegna a cavallo tra gli anni Cinquanta e Settanta del Novecento. Chiunque pensò a quell’appellativo (ancora oggi non vi è certezza al riguardo) probabilmente voleva usare anche un po’ d’ironia, come pure è stato osservato da diverse parti, ma è pur vero che l’appellativo rendeva bene il ruolo di quei trentenni sassaresi: giovani e “rivoluzionari” come gli ufficiali turchi che nel 1908 costrinsero all’abdicazione il sultano Amid II e diedero avvio al processo di ammodernamento del loro paese .

Tra il 18 e il 20 marzo 1956 si tenne a Sassari, nel salone Pio IX del “Seminarietto”, il IX Congresso provinciale della Democrazia cristiana. L’apertura dei lavori avvenne in un clima del tutto disteso, poiché il gruppo dirigente in carica – che aveva al suo vertice l’avvocato Nino Campus, un ex “popolare”, cugino di Antonio Segni, presidente della Provincia e dominatore incontrastato nella DC sassarese fin dall’immediato dopoguerra – considerava quel congresso, che era stato indetto al solo scopo di rinnovare le cariche del comitato provinciale, un impegno di semplice routine. D’altra parte Campus, assolutamente sicuro dell’imprendibilità della sua roccaforte, era solito non dare credito ai segnali di guerra che provenivano ogni tanto dall’opposizione interna: a maggior ragione se, come in quella circostanza, i suoi oppositori non ricoprivano ruoli di particolare importanza nel partito .

I giovani oppositori di Campus, per ricordare soltanto quelli che si misero maggiormente in luce, erano Francesco Cossiga, Paolo e Francesco Dettori, Pietro Pala, Angelo Solinas, Pietro Soddu, Piero Are e, appunto, Nino Giagu De Martini. Essi si erano formati negli ambienti della FUCI di don Enea Selis e dell’Azione cattolica sassarese, e nei fondamenti ideologici si richiamavano al pensiero di Luigi Sturzo, Giorgio La Pira, a quello di alcuni dottrinari politici francesi, come Jacques Maritain e, soprattutto, a quello di Giuseppe Dossetti. Durante il loro percorso formativo avevano così sviluppato la concezione dell’attività politica come “servizio” ai cittadini e come strumento attraverso cui realizzare la “giustizia sociale”: in questo senso essi si riallacciavano anche alla corrente di pensiero che aveva avuto il suo “manifesto” nel celebre Torniamo alle origini di Giovanni Gronchi e che, nel corso degli anni Cinquanta, aveva costituito un riferimento ideologico per tutti i democristiani che non si riconoscevano nella politica di governo di Alcide De Gasperi .

“Tornare alle origini”, per uomini come Gronchi, La Pira, Dossetti e molti altri, significava recuperare al partito cattolico moderno gli orientamenti che erano stati propri del primo movimento democratico cristiano, quello che sul finire dell’Ottocento aveva preso ispirazione dalla dottrina sociale della Rerum novarum di Leone XIII ed era stato animato da don Romolo Murri. Murri aveva sostenuto una duplice necessità: combattere la tendenza della borghesia ad approfittare del ruolo di classe di governo per sviluppare i suoi interessi particolari, e nel contempo promuovere l’elevazione materiale e morale dei ceti più poveri. “Negli anni ’50 – ha ricordato qualche tempo fa Giagu – si andava così formando quella che sarà la futura classe dirigente della Democrazia cristiana, in molta parte legata a vincoli di educazione in organizzazioni religiose […] e il più delle volte nell’adesione al discorso di un mondo migliore in un futuro di giustizia sociale, portato avanti dai gruppi progressisti della Democrazia cristiana (dossettiani e gronchiani) e da quanti individuavano nella Dc il partito di centro che ‘si muove a sinistra’” .

Da questo punto di vista Giagu e compagni possono essere considerati i successori del gruppo, capeggiato da Pietro Fadda, Giuseppe Masia e Giovanni Filigheddu, che durante il primo decennio post bellico aveva rappresentato la sinistra del partito e aveva vanamente contrastato l’egemonia dello schieramento “popolare” di Segni. Gronchiani, così come la loro guida nazionale aveva dovuto infine arrendersi alla supremazia degasperiana, Fadda e i suoi amici dovettero cedere a quella del professore sassarese.

Sul substrato teorico dossettiano i giovani democristiani sassaresi innestarono il progetto politico di Amintore Fanfani. Dopo avere vinto il V Congresso nazionale (Napoli, 1954), mediando abilmente tra la posizione di De Gasperi e quella di Gronchi , Fanfani aveva riorganizzato la DC sul modello del partito di massa moderno, efficiente, fondato sul tesseramento , in grado di operare in collegamento con le organizzazioni cattoliche, con le organizzazioni sindacali e professionali e, in generale, con il mondo della cultura, della scienza e della tecnica. La nuova DC, inoltre, doveva essere in grado di conoscere direttamente le esigenze concrete dei cittadini, in modo particolare quelle dei cittadini delle “zone depresse”, per le quali furono istituiti appositi “uffici”. In questo modo Fanfani intendeva fare della DC una “organizzazione intesa a coagulare consensi intorno a programmi piuttosto che a sopravvivere come organizzazione protesa a invocare adesioni in nome di un progetto fatto di idee, cioè privo di concretezza e capace solo di rappresentare in modo metaforico e immaginario il futuro” .

Anche a Sassari sorse un ufficio “zone depresse”. Esso fu affidato a Soddu, Are e Francesco Dettori, che, giovani funzionari del partito, avevano frequentato i corsi di formazione voluti dal segretario nazionale. L’ufficio si dimostrò un efficace strumento di comunicazione e permise ai suoi responsabili di svolgere una vera e propria campagna di convincimento nei confronti dei delegati delle sezioni democristiane della provincia. Proprio quella “incetta di deleghe” (che Pietro Soddu preferisce definire “preparazione delle condizioni per ottenere una base di consenso più larga”) avrebbe consentito la clamorosa affermazione congressuale dei “giovani turchi”.

Nel 1955, per iniziativa di Giagu, uscì il “numero unico” di “Cronache della Sardegna”, che voleva esprimere le motivazioni ideologiche della prossima “rivoluzione”. Al primo posto era l’analisi – fatta da Giagu, nella sua qualità di direttore responsabile, nell’articolo di fondo Premesse – dell’operato della classe dirigente sarda, apparsa incapace di fornire risposte certe alla domanda di progresso che veniva dai cittadini. Il motivo di quell’incapacità veniva individuato nell’interpretazione semplicemente “quantitativa” che i governanti sardi avevano dato al problema dello sviluppo dell’isola, mentre, dal punto di vista di “Cronache”, un vero sviluppo non poteva darsi se alla crescita economica non si accompagnava una crescita “morale”, la quale doveva avere la funzione di correggere i rapporti di disuguaglianza e di “sudditanza” esistenti fra le diverse attività produttive e, quindi, fra i diversi gruppi sociali.

Chiarito questo aspetto, “Cronache della Sardegna” affermava la necessità di rompere l’immobilismo politico della DC, cioè l’acquiescenza del partito verso “tutto un ambiente sardo di conservazione”, come premessa indispensabile per il superamento del dualismo tra sviluppo economico e rinascita morale. Infine, dimostrando il loro debito verso il pensiero di don Sturzo, i giovani democristiani sassaresi affrontavano il tema dell’autonomia: “Autonomia non è, non la vogliamo, non la concepiamo come un espediente di amministrazione, sia pure di buona amministrazione, ma come lo strumento di una crescita politica, sociale, morale e culturale, civile in una parola, del popolo sardo”; come lo strumento capace di “avvicinare i pubblici poteri al popolo e ai problemi essenziali della vita di esso, e di sollecitare il processo di formazione o di riqualificazione ed aggiornamento della classe dirigente sarda”; ancora, come lo strumento in grado di “impegnare il popolo sardo nei problemi della sua crescita” e di “renderlo corresponsabile in modo immediato del suo avvenire” .

Il grande lavoro di preparazione diede i frutti sperati, perché coloro che Nino Campus considerava soltanto una “simpatica accolita” di fucini vinsero il congresso del marzo 1956: anzi, vinsero in modo largo, conquistando 12 dei 17 posti del comitato sassarese.

Il consolidamento del gruppo. La questione della leadership del nuovo gruppo dirigente fu risolta rapidamente intorno al nome di Francesco Cossiga. Che fosse egli la guida “naturale” dei “giovani turchi” è il parere predominante fra coloro che, da diverse posizioni, vissero i fatti degli anni 1954-1956. D’altra parte, c’è anche chi ha sostenuto che il “capo” dei “giovani turchi” fosse Giagu . Il giovane thiesino, appena laureato, era entrato nella redazione del “Corriere dell’Isola”, il giornale della DC sassarese fondato da Nino Campus, e questa circostanza lo aveva portato ad una certa consuetudine con i vertici della DC sassarese, anche perché era chiamato spesso a seguire per il giornale le riunioni che la direzione del partito teneva nella sede di Piazza d’Italia. In più, poco tempo dopo Giagu era stato nominato capo dell’ufficio stampa dell’ETFAS , grazie ai buoni rapporti che intratteneva con il presidente dell’Ente, Enzo Pampaloni. Tutto questo aveva finito per collocarlo in una posizione di particolare rilievo nei confronti degli altri coetanei, ai quali nel frattempo si era avvicinato anche attraverso il rapporto di amicizia che lo legava a Cossiga fin dall’infanzia. È lecito pensare, pertanto, che Giagu (o anche Giagu) rivestisse un ruolo di primo piano nel gruppo.

Comunque, esistesse o meno un dualismo tra Cossiga e Giagu, Antonio Segni mise tutti d’accordo subito dopo la conclusione del congresso, come ha raccontato lo stesso Giagu: “Segni mi si avvicinò, mi prese da parte per dirmi: mi raccomando, fate Cossiga segretario” . La rapida soluzione della questione si rendeva necessaria anche perché urgeva la campagna per le elezioni amministrative di maggio, che offrivano ai “giovani turchi” l’occasione propizia per mettere in pratica un altro imperativo fanfaniano, quello del rinnovamento della classe dirigente del partito: ed infatti Campus e tutti i “suoi” uomini furono esclusi dalle liste democristiane per il Comune di Sassari e per la Provincia .

I “giovani turchi” utilizzarono lo stesso metodo anche alcuni anni più tardi, quando il consolidamento della loro egemonia sembrò segnare il passo a Sassari, dove in seguito alle elezioni amministrative del 1960 era stato eletto sindaco Giovanni Brianda, il quale aveva dato vita ad una giunta bicolore con il Partito socialdemocratico. Brianda era espressione dell’ala più tradizionalista della DC, e i “giovani turchi”, impegnati nell’ascesa al governo regionale, non intendevano lasciare l’Amministrazione sassarese sotto il controllo dei loro antagonisti. Il 9 febbraio 1964 si tenne il XIII Congresso della Democrazia cristiana sassarese: i “giovani turchi” vinsero con facilità, conquistando 25 seggi su 30 e lasciandone soltanto quattro ai moderati di “Centrismo popolare” e appena uno al gruppo di Brianda.

Prima delle votazioni aveva preso la parola Pietro Soddu. Dopo avere affermato (tra prolungati applausi) che il ruolo della DC doveva essere quello di un partito popolare e anti-conservatore, Soddu aveva lanciato l’attacco alla giunta comunale sassarese, accusandola di governare la città con “incapacità” e “insipienza”. Colpito anche dalla pesante sconfitta nelle elezioni congressuali, Brianda decise di rassegnare le dimissioni, non prima di avere definito le parole di Soddu una “offesa non solo al sindaco e a tutta l’Amministrazione civica, ma indirettamente al Consiglio comunale e alla cittadinanza”. Le dimissioni erano poi rientrate, perché una lettera ufficiale della segreteria provinciale democristiana aveva invitato il sindaco a ritornare “responsabilmente” sulla decisione presa, e perché il gruppo democristiano al Comune aveva votato un documento che esprimeva solidarietà alla giunta Brianda.

I “giovani turchi” sapevano che una nuova crisi comunale (la precedente era stata superata soltanto da quattro mesi) avrebbe incontrato il forte disappunto della cittadinanza, che chiedeva la stabilità politica necessaria per la soluzione dei problemi della città; fare rientrare le dimissioni della giunta comunale, pertanto, significava evitare che il malumore dei sassaresi finisse per penalizzare la DC nelle elezioni amministrative previste per novembre .

Del resto, l’obiettivo dei “giovani turchi” non era quello di fare dimettere anzitempo la giunta Brianda, ma di creare le condizioni per l’esclusione del sindaco e dei suoi uomini dalle candidature per le prossime elezioni. Due mesi prima del voto l’Amministrazione comunale subì un nuovo attacco, questa volta ad opera del commissario della sezione democristiana di Monte Rosello Basso, che accusò il governo cittadino di avere ignorato i gravi problemi di quel rione (rete idrica, edilizia scolastica). Secondo la “Nuova Sardegna” l’oscuro dirigente sezionale era semplicemente il tramite dell’attacco, la cui regia veniva fatta risalire invece ad un esponente di primo piano della DC sarda (il giornale faceva anche il nome di Paolo Dettori). Brianda, dal suo canto, definì “bassa avvisaglia elettorale” le accuse rivolte alla sua giunta e lasciò intendere che “elementi male intenzionati” miravano a screditarlo per avere poi mano libera nell’escluderlo dalla lista democristiana per il Comune .

Il 28 ottobre 1964 la DC sassarese presentò la lista dei quaranta candidati al Consiglio comunale: fra loro non figuravano né Brianda né alcuno dei venti consiglieri democristiani eletti nel 1960 .

2. I “giovani turchi” e il governo della Regione.

Mentre operavano per ribadire il loro ruolo d’influenza a Sassari, i “giovani turchi” perseguivano anche il progetto di arrivare al governo della Regione. Il progetto, che aveva avuto il suo prologo nel 1957 con l’elezione di Paolo Dettori nel Consiglio regionale, per essere completato richiedeva anch’esso (come già a suo tempo la “rivoluzione bianca”) un’adeguata preparazione mediatica: a questo scopo i “giovani turchi” avevano dato vita fino dal 1958 ad un nuovo giornale, “Il Democratico” (il “Corriere dell’Isola”, di cui non avevano mai cercato il controllo, era cessato nel dicembre 1957).

Perché, si chiedevano i “giovani turchi” dalle colonne del loro giornale, dopo dieci anni di autonomia la Sardegna era ancora una delle regioni più arretrate d’Italia? Perché i sardi mostravano sfiducia verso i loro governanti? Perché la classe dirigente regionale, spiegava Gerolamo Colavitti, era pesantemente condizionata dalle pressioni dei gruppi portatori di interessi particolari e restava legata ad una struttura “clientelare” del consenso politico, per cui alcuni “notabili”, ai quali stavano a cuore soltanto “le concessioni e i favori che possono essere carpiti per la propria organizzazione”, potevano controllare gli stanziamenti finanziari dello Stato e orientarne l’utilizzazione al di fuori dell’interesse pubblico .

La cristallizzazione dei rapporti tra il potere politico e quello notabilare era stata favorita anche dal fatto che, a parte il bennio 1949-1951, durante il quale Luigi Crespellani aveva governato con una giunta formata dalla DC e dal Partito sardo d’azione , dall’ottobre del 1951 il governo della Sardegna era stato gestito esclusivamente da giunte monocolori democristiane. Per tutto questo l’autonomia non aveva funzionato per l’elevazione materiale e morale dei ceti più svantaggiati (come a suo tempo aveva chiesto Sturzo), ma era stata soltanto il canale per fare arrivare nell’isola denaro pubblico “a favore di chi fa sentire più alta la sua voce, di chi più conta sul piano elettorale, di chi è disposto, anziché a crescere in libertà, a farsi ‘cliente’” .

Il 15 ottobre 1958 i “giovani turchi” passarono alla seconda fase della loro strategia, pubblicando un documento che nella sostanza condannava l’operato del governo regionale in carica, cioè la seconda giunta di Giuseppe Brotzu , e ne chiedeva, implicitamente, le dimissioni: “Il Comitato provinciale della Democrazia cristiana di Sassari, […] considerata l’assoluta necessità di rilanciare l’autonomia attraverso il più accentuato rinnovamento del sistema politico nella visione organica dei problemi economici, politici e sociali della Sardegna, udita la relazione del Segretario provinciale, la approva dando mandato alla Giunta esecutiva provinciale ed ai rappresentanti del Comitato provinciale presso il Comitato regionale del partito affinché prendano le opportune iniziative idonee a superare l’attuale momento dell’Istituto” .

La settimana seguente Brotzu rassegnò le dimissioni. Egli si era reso conto di non avere più con sé la maggioranza del partito: i “giovani turchi”, infatti, nei mesi precedenti avevano stretto alleanza con alcune figure emergenti della DC cagliaritana, in modo particolare con Efisio Corrias, lasciando in minoranza i sostenitori del presidente. Dopo una faticosa crisi proprio Corrias venne designato alla successione di Brotzu e in novembre ottenne la fiducia del Consiglio per la sua prima giunta (ne avrebbe guidate altre tre), che si caratterizzò per il ritorno degli assessori sardisti, così come chiedevano i “giovani turchi”, che intendevano dare un segnale chiaro della volontà di cambiamento che animava la loro azione politica. Inoltre, il gruppo sassarese assunse una diretta responsabilità nel governo regionale, ottenendo per Paolo Dettori l’assessorato al Lavoro e pubblica istruzione .

L’ascesa verso la guida della Regione era iniziata. Negli anni successivi sarebbe proseguita con l’inserimento di altri membri del gruppo negli organi istituzionali, a cominciare dall’elezione di Giagu nel Consiglio regionale.

3. Le elezioni del 1961 e l’ingresso di Giagu nel Consiglio regionale.

Il clima politico. Il 18 e il 19 giugno 1961 i sardi si recarono alle urne per eleggere il IV Consiglio regionale . I risultati di quel voto ebbero una risonanza straordinaria, che valicò i confini dell’isola: vinse la Democrazia cristiana, e fin qui niente di eccezionale, perché lo “Scudo crociato” era risultato il primo partito anche in tutte le precedenti elezioni; ma quell’anno – sfruttando anche il clima di favorevole attesa creatosi nell’isola intorno ai temi della rigenerazione politica e del rilancio autonomistico, che erano stati i cavalli di battaglia delle élites emergenti guidate dai “giovani turchi” –, la DC conseguì una vittoria nettissima, ottenendo il 46,3% dei voti e 37 seggi su 72, vale a dire la maggioranza assoluta in Consiglio, un risultato che nelle precedenti tre occasioni elettorali non aveva mai raggiunto . In provincia di Sassari (il teatro della “rivoluzione bianca”) il consenso dei cittadini verso la DC aveva raggiunto addirittura il 50% dei voti.

Il 21 luglio Efisio Corrias, confermato presidente della Regione, presentò la sua seconda giunta. Accanto ai sette assessori democristiani (Paolo Dettori, Agricoltura; Ignazio Serra, Enti locali; Nino Costa, Finanze; Giovanni Del Rio, Lavori pubblici; Alfredo Atzeni, Lavoro e Pubblica istruzione; Giacomo Covacivich, Trasporti e Turismo; Francesco Deriu, Rinascita e vicepresidenza) riproponeva due assessori sardisti (Anselmo Contu, Igiene e sanità; Pietro Melis, Industria e commercio), confermando la decisione delle nuove forze democristiane di porre fine alla consuetudine delle giunte monocolori.

All’indomani del voto gli organi direttivi nazionali del Partito comunista e del Partito socialista si riunirono per discutere anche (se non principalmente) del clamoroso risultato elettorale sardo, che a molti aveva fatto tornare in mente il 18 aprile . Nella sua breve relazione Palmiro Togliatti parlò di un “campanello d’allarme”, mentre Pietro Nenni si soffermò sul tema della diminuzione del consenso verso il PSI, che durava dalle elezioni amministrative del 1960 .

Tra i 37 consiglieri democristiani eletti nel 1961 c’era anche Nino Giagu De Martini. Egli aveva ricevuto 19 mila preferenze, che ne avevano fatto il candidato più votato dopo le figure eminenti di Nino Costa, Francesco Deriu e Giovanni Filigheddu, che erano stati già eletti nelle prime tre legislature regionali, e dopo Paolo Dettori, che era consigliere e assessore regionale uscente, ma davanti ad altri uomini di consolidata presenza nel partito e nel Consiglio regionale, come Giuseppe Masia, Salvatore Stara e Nicola Sassu.

Il centrosinistra. Il neo eletto Giagu non ebbe particolari occasioni per mettersi in evidenza durante i primi anni da consigliere regionale, ma nel 1963 non mancò di dare il suo contributo al dibattito sul tema più importante del momento. Nel novembre di quell’anno, infatti, mentre negli ambienti politici romani maturava il progetto di Aldo Moro di formare un governo con la partecipazione del Partito socialista , anche nella DC sarda si cominciò ad ipotizzare l’allargamento a sinistra della giunta.

L’occasione propizia per una discussione meno teorica fu offerta dalla crisi della seconda giunta Corrias. Il 13 novembre si era riunito il gruppo consiliare democristiano e durante i lavori i presenti avevano espresso un parere in merito alla possibilità di varare, anche in Sardegna, un esecutivo di governo che comprendesse il PSI. In quella circostanza Giagu tenne un discorso che, come egli stesso ebbe a dire, la stampa avrebbe poi interpretato in modo da farlo apparire troppo “avanzato”: perciò, con una lettera a “La Nuova Sardegna” precisò di non avere detto di giudicare possibile un “avvicinamento” al Partito socialista, aggiungendo, anzi, di ritenere “legittime le preoccupazioni […] avanzate da numerosi colleghi sull’inizio di un dialogo con i socialisti”, soprattutto perché il PSI non aveva ancora attuato una sufficiente “differenziazione” dai comunisti. Quelle pur valide preoccupazioni, però, non dovevano pregiudicare “l’inizio di un dialogo” che Giagu considerava necessario alla luce di una serie di considerazioni: “1) Viviamo in un paese di squilibri organici e gli squilibri non si correggono cristallizzando e conservando la situazione politica esistente; nei paesi assestati è legittima l’esigenza di partiti conservatori (vedi l’Inghilterra) ma nei paesi con forti squilibri il conservatorismo diventa reazione e privilegio […]. 2) Le elezioni, dal 1945 ad oggi, non hanno fatto altro che dare più voti all’estrema sinistra. Secondo alcuni noi ci troveremo tra breve con le sinistre legalmente al potere. In questa prospettiva affrettare il processo di rottura fra socialisti e comunisti vuol dire innalzare nuove barriere per la difesa della democrazia […]. 3) L’evolversi della situazione politica nazionale sta per portare i socialisti al governo. Sembra assurdo che con questa realtà ci si possa, in Sardegna, rifiutare di aprire un colloquio con i socialisti. 4) Il gruppo consiliare regionale della DC non può operare una rottura con gli organi del partito, i quali, attraverso i comitati provinciali e quello regionale, dicono che è giunto il momento di iniziare i contatti con il partito socialista […]. Per questi motivi, pur comprendendo le perplessità, non posso che pronunciarmi, in vista della risoluzione della crisi, per l’apertura di un dialogo con i socialisti, così come […] con i sardisti e i socialdemocratici” .

Nei primi anni Sessanta, dunque, Giagu si esprimeva per l’apertura a sinistra, ma in termini ancora assai prudenti. L’allargamento della giunta ai socialisti (in questo modo egli seguiva il pensiero di Moro) doveva avere come fine prioritario quello di impedire che il PSI, non trovando da parte democristiana una concreta disponibilità al confronto per una possibile collaborazione di governo, finisse per confluire definitivamente sulle posizioni estreme del PCI.

Qualche anno dopo, con il PSI ormai dentro al governo nazionale e dentro anche a quello regionale, le considerazioni di Giagu sul ruolo politico dei socialisti si sarebbero fatte più franche. Ma per il momento l’atmosfera politica sarda non permetteva di più: il 14 dicembre 1963 (due giorni dopo l’insediamento del governo Moro) Efisio Corrias varò la sua terza giunta con sei assessori democristiani, due sardisti e un socialdemocratico. La DC sarda, che in precedenza aveva governato da sola o insieme al Partito sardo d’azione, dimostrava di non essere ancora pronta per procedere con coraggio sulla strada dell’apertura a sinistra.

La resistenza conservatrice. L’ultima crisi regionale era stata sfruttata dai “giovani turchi” per consolidare ulteriormente la loro presenza sulla scena politica regionale: Pietro Soddu entrò nella nuova giunta come assessore alla Rinascita, mentre Dettori divenne capo del gruppo consiliare democristiano. Tutto questo, però, non era ancora sufficiente ad assicurare loro il pieno controllo del partito, come aveva dimostrato la resistenza di una parte della DC sarda all’ingresso dei socialisti nella giunta (mentre a Roma il PSI faceva già parte del governo) e come dimostrò un fatto che accadde alcuni mesi più tardi.

Il 19 giugno 1964 fu sottoposta al voto del Consiglio regionale una proposta di legge, sottoscritta da ventuno consiglieri democristiani, che prevedeva l’erogazione di un contributo previdenziale in favore dei coltivatori diretti. Il gruppo consiliare democristiano si era trovato d’accordo per dare voto favorevole alla proposta di legge. Nino Giagu, che aveva parlato nelle dichiarazioni di voto, aveva sostenuto il provvedimento in discussione, che era – disse – non “un atto demagogico”, ma “un atto di giustizia”: in Sardegna, come del resto in tutte le aree depresse, la copertura previdenziale fra i lavoratori agricoli era poco diffusa a causa dei modesti redditi che inducevano molti coltivatori ad evadere il contributo (e, spesso, ad abbandonare le campagne). Di fronte ad una simile situazione – affermava Giagu – “deve essere il potere pubblico ad assicurare i benefici previdenziali e assistenziali a coloro che da soli non sempre riescono ad assicurarseli” .

La proposta, però, fu respinta dall’aula (37 voti contrari, favorevoli 23). Per la sua approvazione sarebbe stato sufficiente il voto compatto dei consiglieri democristiani, ma la parte di loro che si riconosceva nell’ala conservatrice del partito aveva cambiato parere in seguito alle dichiarazioni di voto, che avevano messo in luce il consenso quasi unanime dei partiti di sinistra intorno al documento democristiano: a quel punto l’ala destra della DC aveva ritenuto di doversi differenziare rispetto ad una posizione alla quale, fra gli altri, erano approdati anche i comunisti.

L’esito della votazione del 19 giugno chiarì che la nuova giunta Corrias non poggiava su una base solida, poiché i problemi che minavano la sua stabilità, prima ancora che fra la DC e gli altri partiti, erano all’interno dello stesso partito di maggioranza. Insomma, l’elemento di conservazione si dimostrava ancora forte, al punto di indebolire o addirittura di ostacolare le intenzioni progressiste dei “giovani turchi” e dei loro alleati.

Così le elezioni amministrative per il Comune e per la Provincia di Sassari del novembre 1964 finirono per assumere un’importanza che altrimenti non avrebbero avuto. Sul finire di ottobre “La Nuova Sardegna” aveva dato risalto alla notizia che Francesco Cossiga e Nino Giagu sarebbero stati alla testa della lista democristiana per il Comune. Secondo il quotidiano sassarese, i due alti esponenti della DC non si candidavano soltanto per portare voti sicuri al partito e poi dimettersi, lasciando posto a figure di secondo piano, ma per restare e svolgere il mandato di amministratori che i cittadini gli avrebbero affidato .

In realtà, come dimostrarono i fatti, il vero obiettivo di Cossiga e Giagu era un altro. La giunta regionale, indebolita dalla mancanza di compattezza dentro la Democrazia cristiana, lasciava già intravedere la sua fine (che si verificò sette mesi dopo) e i “giovani turchi”, tramite quella vera e propria “prova di forza” nell’arena elettorale sassarese, si preparavano a gestire al meglio la prossima crisi politica regionale e a togliere altro spazio ai conservatori.

4. Il voto dei sardi nel 1964 e nel 1965 e il primato elettorale di Giagu.

Le elezioni amministrative del 22 e 23 novembre 1964 (che per la DC sassarese rappresentarono una vera debacle, dato che il partito scese rispetto al 1960 dal 47,9% al 37% nel voto comunale e dal 43,9% al 38,1% in quello provinciale) segnarono il successo personale di Cossiga, Giagu e Are, che furono i più votati fra i candidati democristiani al Consiglio comunale di Sassari; i primi due furono anche i più votati fra tutti i candidati in lizza (terzo fu il comunista Nino Manca). Invece Pietro Soddu, candidato per il Consiglio provinciale, non fu eletto, ma l’eclatante risultato ottenuto da Cossiga, Giagu e Are bastò per assicurare ai “giovani turchi” il raggiungimento del vero obiettivo della loro candidatura.

Si deve osservare, semmai, che l’esito di quel voto, determinando chiaramente il diverso peso elettorale di ciascuno dei “giovani turchi”, contribuì a fare maturare la discrepanza che negli anni seguenti avrebbe opposto Cossiga e Giagu a Dettori e Soddu, e che avrebbe portato alla rottura del 1969.

Dopo l’elezione di Cossiga al Parlamento nel 1958 Giagu aveva saputo lavorare abilmente nelle sezioni, con i singoli delegati e l’intera struttura di base del partito, riuscendo a subentrare nello spazio lasciato libero dall’amico d’infanzia. I risultati delle elezioni per il V Consiglio regionale (13 e 14 giugno 1965) confermarono nei fatti la posizione di forza che Giagu aveva ormai acquisito: la Democrazia cristiana non riuscì a ripetere il grande successo del 1961 , ma Giagu conseguì un risultato personale assai lusinghiero, vincendo in provincia di Sassari con 25.325 voti e scavando un ampio margine rispetto a Paolo Dettori (20.455 voti), Nino Costa (20.102), Piero Are (19.127), Pietro Soddu (18.493), Antonio Arru (15.663), Francesco Nuvoli (15.076), Giuseppe Masia (13.912), Nicola Sassu (13.838) e Sebastiano Asara (10.529).

Il successo elettorale di Giagu appare ancora più vistoso se si considera che in tutta l’isola egli fu superato da Efisio Corrias (che ebbe 51.684 preferenze), ma non da Agostino Cerioni, che oltre ad essere una figura storica della DC sarda era anche il presidente uscente del Consiglio regionale . Il consigliere di Thiesi, insomma, occupava ormai un posto di primo piano nella DC sarda e la Direzione del partito lo designò a ricoprire un incarico assessoriale nella nuova giunta (la quarta di Efisio Corrias).

La giunta fu presentata in Consiglio il 28 luglio, ma ottenne la fiducia soltanto il 26 agosto . Giagu, nella qualità di assessore agli Enti locali, affiancava Soddu, che era stato confermato alla Rinascita, mentre per la prima volta i socialisti entravano a fare parte del governo regionale (con Sergio Peralda alle Finanze e Giuseppe Tocco all’Industria): i “giovani turchi” potevano sostenere di avere portato a compimento con successo la manovra del loro ingresso nel governo regionale e, almeno per allora, di avere vinto la battaglia contro l’ala conservatrice del partito.

5. I sette mesi agli Enti locali.

L’impegno per il decentramento amministrativo. La prima esperienza diretta di Giagu nel governo della Regione ebbe luogo durante i sette mesi intercorsi tra l’agosto del 1965 e il marzo del 1966, quando l’ultima giunta Corrias terminò i suoi giorni a causa dell’ingovernabilità seguita (come si dirà meglio in seguito) ad un’improvvisa e grave frattura apertasi nel partito di maggioranza relativa. Quei sette mesi furono piuttosto proficui sotto l’aspetto del lavoro legislativo: Giagu, spalleggiato da Soddu, sosteneva la necessità di dare piena attuazione all’articolo 44 dello statuto regionale e, quindi, di avviare il concreto decentramento delle funzioni amministrative in favore delle Province e dei Comuni . Lo stesso presidente Corrias dimostrava di volersi muovere in questo senso, al punto che la “Nuova Sardegna”, riflettendo il forte interesse dell’opinione pubblica sassarese per una maggiore autonomia degli organi amministrativi locali rispetto a Cagliari, aveva definito il presidente della Regione (forse esagerando un po’) “alfiere del decentramento regionale” .

Dato il clima complessivamente favorevole, già nel gennaio del1966 Giagu poté presentare uno “Schema per la concessione di contributi a lunga scadenza in favore degli Enti locali”, che prevedeva ingenti stanziamenti regionali per la realizzazione di progetti come la municipalizzazione dei servizi pubblici, l’acquisizione di aree destinate all’edilizia popolare, interventi di urbanizzazione e altre opere pubbliche. Lo schema fu definito compiutamente nelle settimane successive e presentato in giunta il 26 gennaio sotto il titolo “Agevolazioni ai Comuni, alle Province e loro Consorzi per la pubblicizzazione di servizi di trasporto e per l’attuazione di complessi di opere pubbliche”. Ottenuta l’approvazione della giunta, la proposta di legge doveva essere sottoposta al voto del Consiglio il successivo 9 marzo, senonché la nuova crisi del governo regionale bloccò anche la discussione sui progetti di legge già calendarizzati.

La fine della giunta Corrias. Le forze politiche di opposizione avevano messo da tempo sotto accusa l’operato della giunta in merito all’attuazione del “Piano di rinascita della Sardegna”, del quale si stava discutendo in aula il “Piano quinquennale” per gli anni 1965-1969. Nel corso del dibattito (che era iniziato nel novembre del 1964 e che si sarebbe concluso il 26 maggio con l’approvazione di due “programmi esecutivi”: il terzo, per il biennio 1965-66, e il quarto, per il triennio 1967-69), la posizione più severamente critica fu quella del Partito comunista. Armando Congiu sostenne che la giunta si dibatteva, senza saperla risolvere, nella “potente contraddizione” di volere la rinascita senza avere le risorse sufficienti per realizzarla, dato che il governo regionale accettava passivamente gli stanziamenti inadeguati decisi a Roma. Mario Birardi, poi, ponendo l’accento sulle scelte per l’attuazione del piano, accusò il governo regionale di avere “programmato l’esodo” dalle “zone asciutte” di ventimila lavoratori del settore agro-pastorale per favorire lo sviluppo dell’agricoltura irrigua e del settore terziario, senza considerare che ciò avrebbe aggravato le già difficili condizioni del mondo contadino e pastorale e avrebbe provocato uno “sviluppo distorto”, caratterizzato cioè da forti squilibri territoriali.

Diverse perplessità erano sorte anche fra i partiti di governo. Se il PSI nutriva dubbi sulla capacità della pianificazione regionale di “elevare l’isola dall’arretratezza”, il PSDI lamentava la mancanza di un progetto che legasse lo sviluppo della Sardegna a quello del resto d’Italia, mentre i sardisti volevano che il Piano fosse uno strumento “flessibile”, plasmabile “alla luce dei fatti economici e sociali in movimento”, come spiegò Anselmo Contu. Soltanto la DC, nella persona dell’assessore alla Rinascita, Soddu, difese il Piano così com’era stato impostato e respinse le accuse comuniste sulla subalternità della giunta alle decisioni romane e sullo “sviluppo distorto” .

La posizione ufficiale della DC, però, non rispecchiava quella dell’intero partito. Le scelte della pianificazione destavano preoccupazione soprattutto nei territori della provincia di Nuoro, la cui economia era fondata, in modo maggiore che altrove, sulla pastorizia. La caduta della giunta Corrias prese avvio proprio dall’azione di una parte del comitato democristiano nuorese, anche se il malcontento nei confronti del governo regionale non era la sola causa di quell’azione, che traeva alimento anche dalla lotta tra le correnti per il controllo del comitato provinciale. Ariuccio Carta, il leader sardo della corrente di “Forze nuove” , si stava infatti preparando a vincere il congresso della DC di Nuoro del marzo 1966, e Giovanni Del Rio, assessore ai Lavori pubblici e uomo forte del partito barbaricino per l’antico legame che lo univa a Salvatore Mannironi , era il destinatario dell’attacco. Il 14 marzo, giornata conclusiva del congresso, Del Rio fu apertamente accusato dai forzanovisti di essere corresponsabile della trascuratezza nella quale, appunto in tema di “rinascita”, la giunta in carica aveva lasciato la provincia di Nuoro. I “giamburrasca”, così furono battezzati gli uomini del gruppo di Carta, vinsero il congresso sconfiggendo la lista di “Unità democristiana”, che raccoglieva le figure storiche del partito ed era capeggiata proprio da Mannironi e Del Rio.

Il giorno dopo, amareggiato, Del Rio si dimise dall’incarico assessoriale. Di fronte all’insanabile spaccatura subito apertasi tra il nuovo gruppo dirigente nuorese e la DC cagliaritana, che invece difendeva l’operato della giunta, il presidente Corrias comunicò a sua volta le dimissioni dell’esecutivo (dimissioni che restarono irrevocabili anche dopo l’intervento di Mariano Rumor, allora segretario della DC, che aveva cercato di farle rientrare).

Immediatamente accostati ai “giovani turchi” per l’impresa di aver rovesciato anch’essi (dieci anni dopo la “rivoluzione bianca”) il vecchio gruppo dirigente della DC locale, i “giamburrasca” divennero presto i principali antagonisti del gruppo sassarese. Il primo scontro si consumò proprio all’indomani dell’apertura della crisi regionale, quando Paolo Dettori, designato all’unanimità per la presidenza della Regione, rese pubblico il documento politico approvato a grande maggioranza dal comitato regionale democristiano, che si era riunito il 22 e 23 marzo per esaminare la situazione creatasi in seguito alle dimissioni di Corrias: “Il comitato ha dedicato particolare attenzione, esaminando i fatti che hanno determinato l’attuale crisi regionale, alla situazione del partito in provincia di Nuoro, ribadendo il principio per il quale non è consentito ai comitati provinciali esprimere pubblicamente valutazioni e giudizi sull’attività del governo regionale […]. Pertanto, il comitato regionale […] ha decisamente sconfessato tutti gli atteggiamenti contrastanti con il principio sopra riaffermato”. E, ad esprimere in modo ancora più chiaro il biasimo nei confronti dei “giamburrasca”, il documento aggiungeva: “Il comitato regionale ha espresso l’opinione che la rinascita, intesa come sforzo dell’intera comunità isolana, non è compatibile con il riproporsi, in forma talvolta aspra e, spesso, aprioristica ed acritica, di contrasti e contrapposizioni campanilistici” .

Dettori varò la sua giunta il 22 aprile. Essendo diventato presidente della Regione un suo esponente, la DC sassarese non poteva più occupare due assessorati, ma era obbligata a cederne uno ad un altro comitato provinciale. Data la grande importanza attribuita all’assessorato alla Rinascita (che era tenuto da Pietro Soddu), il sacrificio di lasciare l’incarico fu chiesto a Giagu. In quella circostanza il metodo della collegialità funzionò ancora bene e, con una lettera inviata a Dettori e resa pubblica a mezzo stampa, Giagu comunicò di rinunciare all’assessorato agli Enti locali (che fu affidato al cagliaritano Ignazio Serra) per favorire la rapida soluzione della crisi: “Caro Paolo, […] le difficoltà che la crisi prospetta mi impongono di mettere a tua disposizione il mandato di assessore […]. Nell’attuale momento ritengo sia mio preciso dovere […] fare una rinuncia che valga ad affermare la validità del piano quinquennale […]. Mi pare superfluo dirti che, come sempre, hai la mia più affettuosa solidarietà ed il mio appoggio incondizionato, necessario in questo più che in ogni altro momento, per uno sforzo concorde nell’interesse della Democrazia cristiana ma ancor più dell’intera Sardegna” .

6. Il partito secondo Giagu.

Pochi mesi dopo, in luglio, il comitato della DC di Sassari elesse Giagu segretario provinciale al posto dell’uscente Angelo Solinas (il quale a sua volta nel 1963 aveva preso il posto di Pietro Pala, che quell’anno era stato eletto alla Camera dei deputati).

Un discorso (forse quello di insediamento) che il neo segretario rivolse al comitato provinciale consente di conoscere la forma politico-organizzativa che Giagu aveva in mente per il partito. Essa si reggeva su tre capisaldi: massima efficienza degli organi interni, rispetto assoluto delle norme statutarie, azione politica progressista, popolare e “contestativa”.

Partendo dalla constatazione che il Piano di rinascita stentava “ad imporsi come fatto determinante di una nuova realtà economica” – vuoi per colpa di una certa inefficienza dello strumento burocratico regionale, che aveva causato “ritardi ed incertezze” che finivano per svuotare “di contenuto innovativo gli interventi del Piano”, vuoi in ragione delle “indubbie incertezze del Governo sia per quanto riguarda gli interventi delle Partecipazioni statali, sia per quanto riguarda la volontà di dare contenuto concreto all’aggiuntività [finanziaria] e al coordinamento”, causa a loro volta della insufficienza degli stanziamenti previsti dalla legge 588 –, Giagu chiamava il partito a “raddoppiare il suo impegno” perché la Democrazia cristiana era da ritenersi “responsabile per il 90 per cento del fallimento o della riuscita del Piano: […] per le responsabilità al livello di programmazione […], al livello di componenti i comitati zonali, al livello di assessori regionali, al livello di enti locali, di enti pubblici nazionali e regionali, di consorzi di bonifica, di istituzioni varie, ovunque gli uomini della DC sono presenti e determinanti”.

In Giagu, che pure non aveva avuto un’apposita formazione “fanfaniana” (al contrario dei vari Soddu, Are e F. Dettori, che negli anni Cinquanta avevano frequentato le “scuole di partito” istituite dalla segreteria Fanfani), era tuttavia ben ferma la convinzione che il partito dovesse essere un perfetto organismo di collegamento tra la società ed il governo (ad ogni livello). Il partito, diceva Giagu, non poteva restare “ad osservare dal balcone fatti ed azioni senza dire una sua parola”, ma doveva “porsi al centro degli avvenimenti, come naturale strumento di guida, di impulso, di coordinamento, di sostegno” e intervenire “quando le cose non funzionano, quando gli adempimenti non si portano a termine, quando le situazioni ristagnano”, attivando tutte le sue forze, dal segretario di sezione al dirigente provinciale, secondo una precisa “attribuzione di compiti”.

Così si può affermare che Giagu avesse fatto profondamente sua l’esperienza di “Iniziativa democratica”, al punto da poterla armonizzare senza incertezze con l’esperienza della “politica contestativa”, che, per impulso di Paolo Dettori, stava maturando nel gruppo dei “giovani turchi”. Ecco, dunque, che il partito doveva partecipare “alla formazione del Piano con spirito responsabile ed obiettivo”, avendo cura di individuare con scrupolo le esigenze delle realtà locali mediante l’impegno, nei comitati zonali, dei suoi consiglieri comunali, dei suoi “esperti” e dei suoi rappresentanti di categoria, sotto il coordinamento dei suoi organi provinciali; ma doveva anche “muoversi parallelamente all’azione ‘contestativa’ della Giunta Regionale nei confronti del Governo Centrale […] con la Direzione e con la Segreteria Nazionale del Partito”, perché proprio ai vertici della Democrazia cristiana si doveva chiedere il naturale aiuto affinché una Legge dello Stato trovi applicazione”.

Non poteva mancare, poi, il richiamo al tema dell’alleanza con il Partito socialista, ovvero con il costituendo Partito socialista unitario: Giagu attribuiva grande importanza all’intesa con i socialisti, perché (come aveva già detto nel 1963) essa avrebbe contribuito ad isolare il Partito comunista e accresciuto le “guarentigie di un regime di libertà e di democrazia”; inoltre essa avrebbe determinato un “sempre maggiore impegno di giustizia economica” e avrebbe aiutato la DC a conservare il ruolo di “partito guida” che il paese le aveva affidato.

Giagu approfondiva in modo particolare quest’ultimo aspetto, sostenendo che il primato politico non poteva essere mantenuto sulla base del semplice legame di “potere” con l’elettorato. Infatti “il potere esercitato per molto tempo in maniera esclusiva o quasi esclusiva” dalla DC aveva finito per indebolire la credibilità del partito: “La forza data dagli strumenti di potere, la coscienza di questa forza, ha fatto in modo che sembrasse a molti superfluo far funzionare il Partito, affidarne le fortune ad un’azione organizzativa fatta di proselitismo, di diffusione di idee, di presenza, di battaglie per l’affermazione e la difesa di interessi comuni. È apparso molto spesso più facile raggiungere l’elettore e tenere la gente legata al partito per vincoli di dipendenza” personale, vincoli che erano creati e mantenuti dalla convinzione che la DC, con i suoi uomini inseriti nelle posizioni di comando delle istituzioni pubbliche, poteva garantire “benefici e vantaggi di carattere personale quali altre forze e altri partiti non potevano assicurare”.

In questo modo i dirigenti avevano visto aumentare a dismisura il loro potere, mentre gli adempimenti statutari in materia di rinnovo delle cariche e di tesseramento venivano elusi o attuati in modo non chiaro: “La vita delle sezioni – proseguiva Giagu – è apparsa così fortemente condizionata da preoccupazioni personali e si è slegata sempre di più dalle esigenze reali degli iscritti e dell’ambiente. Dirigenti e gruppi di dirigenti, rimanendo artatamente al timone delle sezioni pur non rappresentando ormai che se stessi, hanno in molti casi costretto le sezioni ad una vita asfittica e puramente simbolica. […] Ancora in forza di quella logica, i parlamentari, i grossi uomini della DC posti in posizione di preminenza, hanno in molte circostanze sostituito gli organi provinciali del Partito come amministratori e dispensatori di ciò che il potere consente, frantumando il centro decisionale naturalmente costituito dal Partito. Così, rispetto agli iscritti, rispetto al mondo esterno, si è venuta spesso a perdere quella garanzia di obiettività di organi al di sopra di tutti, per affidarsi alla scelta, condizionata dal proprio stato, di deputati, senatori, assessori, consiglieri regionali ecc.”.

Proprio per recuperare quella credibilità perduta, la collaborazione con il Partito socialista, cioè con un partito che si caratterizzava come una grande forza popolare lontana dagli estremismi di un tempo, diventava molto importante: “Noi siamo perfettamente consci – scriveva Giagu – che alla forza di ogni partito il potere contribuisce in maniera rilevante, e sappiamo anche che oggi la collaborazione socialista impone un forte restringimento del potere della DC. Dobbiamo però anche convincerci che a lungo andare il solo legame di potere è destinato a spezzarsi e che ciò che conta è la forza di persuasione che soltanto può venire dall’essere espressione di necessità popolari”. Il partito, insomma, doveva tornare ad essere “l’interprete più pronto e più efficace delle aspirazioni dei suoi iscritti, dei suoi contadini, dei suoi operai, dei suoi artigiani, dei suoi impiegati, di tutti quegli strati effettivamente popolari che danno il voto alla DC”.

Ma, per quanto importante, l’alleanza con il PSI non poteva bastare da sola a raggiungere lo scopo. La Democrazia cristiana doveva anche operare profondamente al suo interno, al fine di liberarsi dalle “ipoteche” (di carattere privato o pubblico, di tipo economico o politico) che l’avevano allontanata dai suoi iscritti: “In questo senso l’applicazione più piena dello Statuto del Partito appare la cosa più importante e più urgente: il rispetto delle scadenze per i rinnovi dei direttivi sezionali, l’elezione puntuale dei delegati dei movimenti, il rispetto delle competenze tra i vari organi […], il rispetto delle incompatibilità, l’applicazione delle norme per il tesseramento” avrebbero assicurato “ aria veramente democratica” alla vita interna della DC. “Un dirigente stimato – aggiungeva il segretario provinciale –, un dirigente che non è solo se stesso […] deve essere valorizzato e potenziato perché in lui viene immedesimato il Partito e, pertanto, in buona misura da lui dipendono le fortune politiche e la espansione elettorale del Partito”.

Qui Giagu tornava a mettere in primo piano l’efficienza organizzativa, tanto in fatto di reclutamento quanto in fatto di formazione dei dirigenti. La DC doveva riuscire a portare a sé i giovani migliori, cercandoli nelle scuole superiori e nelle università come pure “fra le elite lavoratrici” e lasciando da parte gli “anacronistici veti” e le paure verso quelle posizioni che “toccano i limiti dell’ideologia”. Allo stesso modo si doveva procedere per allargare la base degli iscritti e per mantenere il partito in sintonia con la società, anche se l’allargamento non doveva essere indiscriminato ma doveva avvenire “in quelle direzioni che sono connaturali alla Democrazia cristiana”.

L’aspetto formativo si poneva come fondamentale. I dirigenti, presenti o futuri, dovevano essere fortificati sotto l’aspetto morale, resi consci del fatto che la loro milizia politica non poteva rimanere chiusa nei limiti personali, non poteva fermarsi alle situazioni contingenti o agli interessi locali e di fazione, ma, legata com’era al superiore principio del dovere civico, doveva “allargare gli orizzonti in una visione d’insieme”. Queste ultime considerazioni permettevano a Giagu di richiamarsi al tema dell’interclassismo : “La DC è un partito popolare che respinge interessi particolari e di gruppi ristretti e persegue interessi generali: in questo quadro si pone come forza di crescita, di correzione di dislivelli, disuguaglianze che la situazione attuale presenta”.

In chiusura, il segretario poneva in risalto ancora una volta le parole d’ordine della sua filosofia politica: impegno di “tutti ed a tutti i livelli in un lavoro concorde e continuo” e pieno sostegno del comitato provinciale di Sassari al difficile lavoro che la DC, con tutta la giunta regionale, si trovava a svolgere .

7. La legge per il decentramento amministrativo.

Poco prima di diventare segretario provinciale, Giagu aveva avuto la soddisfazione di vedere riprendere l’iter consiliare del suo progetto di legge sulle “Agevolazioni ai Comuni, alle Province e loro Consorzi per la pubblicizzazione di servizi di trasporto e per l’attuazione di complessi di opere pubbliche”, che la crisi regionale aveva interrotto.

Il documento si articolava in dodici punti e garantiva agli Enti interessati un intervento contributivo, da erogarsi in modo costante nell’arco di vent’anni, destinato a coprire il 90 per cento delle spese che le amministrazioni locali avrebbero sostenuto per il conseguimento degli obiettivi previsti dalla legge. Gli stanziamenti in favore dei Comuni ammontavano a 35 miliardi di lire, quelli per le Province a 21 miliardi; era previsto, inoltre, lo stanziamento di altri 700 milioni di lire per la copertura del disavanzo gestionale registrato dalla “Società Tranvie della Sardegna”al termine dell’ultimo esercizio finanziario: l’importo complessivo di cui la Regione si sarebbe fatta carico, dunque, sfiorava i 57 miliardi di lire. Il progetto di legge aveva l’ambizione di garantire alle amministrazioni locali un’autonomia finanziaria prolungata nel tempo (in fase progettuale Giagu aveva pensato addirittura ad un periodo di erogazione contributiva di 35 anni), grazie alla quale gli enti locali avrebbero potuto pianificare in modo autonomo le opere e gli interventi di pubblica utilità.

Il dibattito in aula si svolse tra l’8 e il 15 luglio 1966. Gli interventi dei consiglieri furono orientati ad ottenere la revisione dei limiti demografici entro i quali i Comuni potevano accedere ai contributi regionali, e l’aggiornamento del progetto alle condizioni generali in atto. In particolare, il comunista Andrea Raggio (relatore di minoranza) intervenne sull’aspetto della municipalizzazione dei servizi pubblici per la città di Cagliari e, facendo notare che il piano di attuazione si basava su uno studio preliminare ormai vecchio di sette anni, chiese che fossero tenuti nella debita considerazione la crescita demografica, l’espansione urbanistica e l’aumento del traffico e della pendolarità verificatisi nel frattempo.

Il rappresentante del Movimento sociale Alfredo Pazzaglia, dal canto suo, affermò che il progetto di legge, stabilendo come soglie per l’accesso ai contributi il limite dei 12 mila abitanti per i centri delle province di Cagliari e Sassari e dei 7 mila abitanti per quelli della provincia di Nuoro, avrebbe finito per favorire lo sviluppo dei pochi centri maggiori, penalizzando la gran parte del territorio sardo.

Giovanni Occhioni, consigliere del Partito liberale, concordò con Pazzaglia sulla necessità di abbassare i limiti riferiti alla popolazione residente nei territori comunali. Inoltre, l’esponente del PLI giudicò “controproducente” il previsto impegno finanziario della Regione per la copertura del disavanzo gestionale della “Società Tranvie della Sardegna”, perché il disavanzo (a suo dire) sarebbe “vertiginosamente” aumentato dopo il passaggio dell’azienda alla gestione pubblica diretta.

Il progetto fu infine approvato con due modifiche rispetto al testo che Giagu, in gennaio, aveva presentato all’esame della giunta: 1) i limiti demografici utili per avere diritto al contributo regionale furono ridotti da “oltre 12 mila” a “oltre 10 mila” abitanti per i comuni delle province di Cagliari e Sassari, e da “oltre 7 mila” a “7 mila” abitanti per i comuni della provincia di Nuoro; 2) l’intervento per la copertura del disavanzo gestionale delle “Tranvie della Sardegna” fu limitato al solo periodo di amministrazione straordinaria (iniziato “a far tempo dal 1° aprile 1965” e destinato a concludersi “entro il 180° giorno dalla data di entrata in vigore della presente legge”).

La legge fu promulgata il 29 agosto 1966 .

8. L’assessorato al Lavoro e alla Pubblica istruzione.

Il ritorno in giunta. Il 24 gennaio 1967 la giunta presieduta da Paolo Dettori cadde (le dimissioni furono ufficializzate il 1° febbraio) a causa delle tensioni tra PSDAZ e PSI. I sardisti chiedevano con insistenza un assessorato in più, e i socialisti non erano disposti a rinunciare ad alcuno dei loro tre.

Dettori, preso atto dell’indisponibilità dei sardisti a proseguire nella collaborazione di governo, preferì non accettare il reincarico che gli era stato prontamente offerto (più tardi, nel luglio 1968, sarebbe stato eletto presidente del Consiglio regionale). Ebbe termine così la giunta che aveva inaugurato la “politica contestativa” verso lo Stato, una politica che doveva mettere la Regione nelle condizioni di “rappresentare integralmente i diritti dei sardi, anche a costo di assumere posizioni conflittuali e contestative nei confronti del governo centrale e del Parlamento, quando ciò risulti necessario per esercitare con pienezza di poteri e di responsabilità i compiti di governo della società sarda” .

Il compito di dare vita al nuovo governo regionale fu affidato a Giovanni Del Rio: i “giovani turchi” dimostravano di non volere lasciare il minimo spazio ai forzanovisti nuoresi. Con Del Rio tornò in giunta Nino Giagu, il quale fu designato per l’assessorato che accorpava Lavoro e Pubblica istruzione e che egli avrebbe tenuto per tre anni e mezzo.

L’11 marzo, senza i sardisti, la prima giunta Del Rio cominciò il suo lavoro. Il neo eletto presidente dichiarò subito di volere proseguire sulla strada tracciata da Paolo Dettori, una decisione che il notista politico della “Nuova Sardegna” commentava così: “La nuova giunta non si nasconde che la Regione è entrata in fase di collasso proprio nel momento in cui avrebbe dovuto più funzionare, per attuare il Piano di rinascita […]. La nuova giunta, come conseguenza dell’‘apertura’ verso le amministrazioni e le organizzazioni locali, insisterà nella politica contestativa […] come espressione dell’esigenza di coordinare tutti gli sforzi e interventi della Regione e dello Stato che ricadono nell’ambito della programmazione regionale” .

L’assessorato al Lavoro. La linea della “politica contestativa” influì in modo considerevole anche sull’attività dell’assessorato al Lavoro. Il 28 dicembre 1967, ricevendo una delegazione di lavoratori sardi emigrati in Svizzera, Giagu diede assicurazioni sulla volontà della Regione di sostenere finanziariamente l’attività culturale e ricreativa dei circoli che i lavoratori sardi stavano costituendo all’estero, così come già avveniva per i circoli dei sardi a Milano, Roma, Torino e Genova; assicurò, inoltre, il suo personale impegno affinché la Regione potenziasse il “fondo sociale” e sostenesse con un sussidio di disoccupazione o con un contributo di “prima sistemazione” gli emigrati e le loro famiglie. Un comunicato della rappresentanza sarda in Svizzera, emesso tramite la sezione “emigrazione” del PCI sardo, dichiarò parziale soddisfazione . Il successivo 10 maggio, di ritorno da un viaggio in Belgio, Olanda, Germania Federale e Svizzera, compiuto allo scopo di conoscere da vicino i problemi dei lavoratori sardi immigrati in quei paesi, Giagu presentò una relazione al Consiglio e propose gli interventi che la Regione avrebbe dovuto attuare per essere di supporto ai sardi residenti all’estero, laddove lo Stato italiano non faceva abbastanza.

In primo luogo la Regione avrebbe dovuto studiare la “situazione occupativa” degli emigrati e intervenire con contributi assistenziali in favore dei lavoratori che non godevano ancora della copertura assicurativa; poi, avrebbe dovuto organizzare nei diversi Paesi uno “strumento culturale e di incontro” che fungesse da collegamento tra la Sardegna e i suoi emigrati, anche allo scopo di evitare che i figli dei sardi nati all’estero smarrissero il senso del “rapporto linguistico e culturale con l’isola” (in quest’ottica rientrava anche la proposta di istituire colonie e viaggi premio in Sardegna); infine, la Regione avrebbe dovuto fornire agli emigrati “strumenti di assistenza e patronato”. Giagu non dimenticava, inoltre, le famiglie degli emigrati rimaste in Sardegna e proponeva, tra l’altro, che la Regione le aiutasse garantendo l’istruzione e la formazione professionale dei membri più giovani .

Successivamente, l’attenzione di Giagu si spostò su coloro che, avendo concluso la loro vita lavorativa, non godevano di un trattamento pensionistico. Il 4 giugno 1967 il Consiglio regionale approvò una legge presentata dall’assessore al Lavoro, con la quale si modificava un precedente testo del 1965 che disciplinava la “concessione di un assegno mensile ai vecchi lavoratori senza pensione”. La nuova legge, che l’articolo 7 definiva “urgente”, introduceva diverse variazioni di natura tecnico-contabile, ma l’aspetto più interessante stava nella sostituzione del primo comma dell’articolo 1 della vecchia legge con un altro che, rendendo conto in modo esplicito della fermezza con la quale l’esecutivo intendeva proseguire sulla via “contestativa”, esordiva così: “Fino a quando lo Stato non avrà provveduto con apposita legge contenente analoghe provvidenze, l’Amministrazione regionale è autorizzata a concedere […] un assegno mensile […] ai vecchi lavoratori di tutte le categorie […]” .

Nel corso del 1968 l’assessorato che faceva capo a Giagu promosse altre iniziative, in modo particolare nel campo del lavoro artigiano. L’artigianato sardo stava vivendo un periodo di involuzione caratterizzato dalla perdita progressiva, quanto inesorabile, della posizione centrale che esso aveva occupato nel sistema economico isolano fino alla soglia degli anni Quaranta. Attività complementare e integrativa rispetto all’agricoltura – sia per la produzione degli utensili, degli arredi, degli attrezzi e degli strumenti di lavoro che il mondo contadino richiedeva, sia per il fatto che i suoi addetti, molto spesso, erano anche contadini –, l’artigianato, in parallelo con il declino del settore agro-pastorale negli anni Sessanta (gli anni dello sviluppo dei grandi poli industriali e dell’inurbamento), aveva subito la diminuzione degli addetti e la perdita di diverse figure professionali. I lavoratori superstiti, sempre più spesso, non erano più protagonisti del ciclo produttivo e dovevano rassegnarsi a svolgere prevalentemente operazioni di riparazione e di manutenzione.

Tutto questo aveva reso più difficile la vita di numerose famiglie. La Regione era intervenuta cercando di creare le condizioni per l’aumento del reddito degli artigiani attraverso lo sviluppo tecnico e il potenziamento economico del settore, il suo ammodernamento e la razionalizzazione delle sue attività. Questo obiettivo era stato perseguito sia con l’istituzione di un apposito ente, l’ISOLA , sia poi con i finanziamenti del Piano di rinascita. I benefici sperati, tuttavia, tardavano a manifestarsi: perciò si rendevano ormai necessari interventi assistenziali di efficacia immediata.

Il 9 gennaio il Consiglio regionale cominciò a discutere un disegno di legge, del quale era relatrice la democristiana Elodia Macis, per la “concessione degli assegni familiari agli artigiani”. Intervenendo il giorno seguente a chiudere il dibattito, l’assessore al Lavoro poté rilevare con soddisfazione che la proposta non aveva incontrato alcuna opposizione, un fatto che secondo Giagu aveva la sua spiegazione nel convincimento diffuso che interventi come quello appena discusso fossero utili ad avviare la ripresa dei vari settori dell’economia sarda, perché, aiutando concretamente le persone nei loro bisogni primari, essi ponevano basi reali per un futuro processo di espansione economica.

Il giorno 11 il disegno di legge, che prevedeva l’erogazione di 40 mila lire per ogni familiare a carico (per una spesa annua pari a 1.800 milioni) fu approvato a larghissima maggioranza (55 voti favorevoli e 5 contrari). Parlando alla stampa, Giagu ricordò che la legge era tra le prime del suo genere in Italia, e pertanto, poneva la Sardegna “all’avanguardia nel cammino per il raggiungimento di un sistema di sicurezza sociale. Per altro aspetto – proseguiva l’assessore – […] il provvedimento odierno si innesta nella situazione e nel momento che la Sardegna attraversa, nell’atmosfera delle crisi ricorrenti della pastorizia, delle calamità naturali […], in un certo clima che si è ritenuto di insicurezza economica. L’intervento finanziario, certamente di grosso rilievo come lo prevede la legge, aggiunto all’intervento anch’esso massiccio in favore dei vecchi senza pensione […], aggiunto ancora al prossimo intervento per integrare gli assegni familiari ai coltivatori diretti, può costituire certamente motivo di tonificazione generale tale da far scomparire, o allontanare perlomeno, il clima di insicurezza del quale parlavamo” . La legge, negli intendimenti della Regione, doveva avere effetto dal 1° gennaio 1968, ma un “parere di illegittimità” espresso dalla Corte costituzionale obbligò la Regione a introdurre alcune modifiche al testo e a rinviarne la promulgazione, che poté avvenire soltanto due anni più tardi .

Altre due leggi di natura previdenziale furono approvate e promulgate nei mesi seguenti: in agosto quella che riguardava il “ricovero dei lavoratori vecchi ed invalidi e la riabilitazione professionale dei lavoratori” , che modificava ed integrava una legge del 1953; e in dicembre quella che prevedeva l’erogazione di “contributi per favorire le attività di studio e di ricerca da parte delle Organizzazioni dei Lavoratori”, le quali erano anche chiamate, sulla scorta di una legge regionale del 1962, “a partecipare alla predisposizione del Piano di rinascita” .

Le leggi per l’università e per la scuola. L’impegno per le tematiche del lavoro e della previdenza fu centrale nell’attività assessoriale di Giagu De Martini, il quale tuttavia non dedicò meno impegno alle aspettative del mondo dell’università e della scuola sarde, non dimenticandosi che la sua responsabilità investiva anche il campo dell’istruzione pubblica.

Un tema particolarmente caro all’assessore era quello che riguardava l’istituzione della facoltà di Magistero presso l’Università di Sassari: “Se ci si dovesse accontentare delle possibilità offerte dalle facoltà di Lettere e di Magistero di Cagliari – aveva detto durante un intervento in Consiglio regionale, nel marzo 1968 – occorrerebbero non meno di venti anni per coprire il fabbisogno di insegnanti laureati nella scuola media”. Inoltre Giagu era convinto che il nuovo istituto universitario, “come portatore di cultura”, avrebbe contribuito a “determinare positivamente il processo civile” della provincia di Sassari. Egli riteneva anche che per dare vita al Magistero nel capoluogo turritano non fosse necessario attendere la riforma universitaria prevista dal governo centrale, e per la istituzione in tempi brevi della facoltà ipotizzava la strada di una convenzione con lo Stato, oppure la creazione di un istituto “regionale”; escludeva, invece, che si potesse fare ricorso ad un accordo con l’Università Cattolica, come alcune voci riferivano .

Le considerazioni di Giagu intorno al fabbisogno di insegnanti della scuola sarda trovavano riscontro nelle cifre rese note, attraverso la pubblicazione di un “libro bianco”, da un gruppo di rappresentanti della categoria magistrale sassarese. Secondo quelle cifre, nel quadriennio compreso tra gli anni accademici 1961-62 e 1965-66 la facoltà di Magistero dell’Università di Cagliari aveva laureato un numero di studenti pari, in media annua, ad appena il 2% degli iscritti; dati poco confortanti venivano anche dalla facoltà cagliaritana di Lettere e Filosofia, dove, nello stesso quadriennio, i laureati erano stati, in media, il 5% degli iscritti. La cruda realtà dei numeri, secondo gli autori del “libro bianco”, indicava chiaramente che le sole facoltà umanistiche cagliaritane non potevano soddisfare la richiesta di insegnanti che, sempre crescente, proveniva da tutta l’isola. Dunque non era possibile ritardare ancora l’apertura di una facoltà di Magistero a Sassari, anche perché, continuavano gli insegnanti, dopo il consenso espresso dall’Amministrazione comunale del capoluogo (20 marzo 1968) e la piena disponibilità manifestata dall’assessore alla Pubblica istruzione, si era venuto a creare “un nuovo clima”, all’interno del quale la richiesta della classe magistrale faceva tutt’uno con la “generale richiesta di attuazione del principio del diritto allo studio” .

La facoltà di Magistero dell’Università di Sassari sarebbe diventata una realtà il 28 dicembre 1969, quando il ministro della Pubblica istruzione, Mario Ferrari Aggradi, firmò il decreto istitutivo.

Nella stessa direzione della piena attuazione del “diritto allo studio” (un impegno che sarebbe stato sviluppato e perfezionato negli anni seguenti, in modo particolare con il varo della legge n. 26 del 1971 ad opera di Paolo Dettori, che quell’anno, con Giagu alla presidenza della Regione, tornò alla guida dell’assessorato alla Pubblica istruzione) si mossero diverse iniziative di legge riguardanti l’università (si vedano i testi in Appendice II) e la scuola.

Per la scuola, in particolare, Giagu si preoccupò di dare maggiore sostanza a due leggi già in vigore, ampliandone la portata finanziaria e il campo degli obiettivi. L’8 giugno 1968 la giunta diede parere favorevole ad un disegno di legge che prevedeva l’estensione dell’assistenza finanziaria per gli studenti indigenti anche ai giovani delle scuole medie superiori; fino allora, infatti, l’assistenza era stata garantita agli alunni delle scuole elementari e (in modo parziale) a quelli delle scuole medie inferiori e della scuola di avviamento. I patronati e gli istituti scolastici sarebbero stati dotati dei fondi necessari, e dunque messi nelle condizioni di provvedere direttamente alle nuove esigenze. La proposta diventò legge nel mese di gennaio dell’anno entrante .

L’amore per la cultura in tutte le sue forme espressive, dalla letteratura alla pittura, dal cinema alla musica, maturato durante gli anni fecondi della FUCI, costituì certo uno stimolo in più per l’impegno di Giagu a favore delle diverse istituzioni scolastiche e della loro funzione educativa e formativa. Il 24 gennaio 1969 passò il vaglio preliminare della giunta un altro progetto di legge dell’assessore, che era inteso a favorire il migliore funzionamento e la statizzazione del Conservatorio musicale di Sassari: la Regione si impegnava a versare all’Istituto un contributo annuo di 40 milioni di lire, da erogarsi fino al subentro della piena gestione statale, e un contributo straordinario di 35 milioni per l’integrazione dei bilanci degli ultimi tre esercizi finanziari .

9. La separazione dei “giovani turchi” e il bipolarismo Giagu-Soddu.

Il 1969 fu l’anno che registrò la fine dei “giovani turchi” come gruppo coeso e la definitiva affermazione, all’interno della Democrazia cristiana sassarese, di due poli: uno si formò intorno alla figura di Nino Giagu De Martini, che era appoggiato da Francesco Cossiga, l’altro intorno a quella di Pietro Soddu, che poteva contare sull’alleanza di Paolo Dettori. Data poi la posizione di preminenza che gli uomini del “Seminarietto” avevano raggiunto in ambito regionale, attorno ai due poli sassaresi presero a gravitare anche alcuni esponenti dei comitati provinciali democristiani di Cagliari e di Nuoro.

Si è già detto che uno dei motivi della scissione del gruppo era legato all’instaurarsi tra i “giovani turchi” di una “scala gerarchica”, determinata dagli esiti elettorali, in virtù della quale Giagu aveva assunto, come si è visto, una posizione dominante in seno al comitato democristiano di Sassari. Nell’aprile del 1969, dovendosi eleggere il nuovo segretario provinciale del partito, Soddu decise di opporre al candidato sostenuto da Giagu, che era Sebastiano Cabitza, un uomo formatosi alla sua scuola, cioè l’emergente Giuseppe Pisanu . Il tentativo di bilanciare il potere di Giagu non ebbe però successo, perché il comitato elesse Cabitza.

A questo bisogna aggiungere che i democristiani sassaresi, finita l’esperienza di “Iniziativa democratica”, avevano scelto orientamenti nazionali differenti. Inizialmente uniti (dietro ad Antonio Segni) nel sodalizio di Santa Dorotea, nel 1963, quando Moro decise di rendersi autonomo da quella corrente, Soddu e Dettori lo seguirono. Nel corso del 1969, poi, i dorotei si divisero: da una parte il gruppo di Rumor e Piccoli, che mantenne la denominazione originaria, dall’altra quello di Andreotti e Colombo, che prese il nome di “Impegno democratico”, al quale aderirono Cossiga e Giagu. La corrente andreottiana durò però pochi mesi (si sciolse quasi contemporaneamente al gruppo dei “giovani turchi”, in ottobre); Cossiga e Giagu, dopo un certo periodo di tempo trascorso in una posizione che si potrebbe definire “indipendente”, subito dopo il congresso regionale del 1970 decisero di associarsi alla corrente della “Sinistra di base” .

Le elezioni regionali del giugno 1969 confermarono i rapporti di forza in atto nella DC sarda. Giagu, con quasi 37 mila preferenze, fu ancora una volta il candidato più votato in Sardegna; i nuovi nomi forti della DC cagliaritana, Felice Contu e Lucio Abis, dovettero accontentarsi di 34 mila e 31 mila voti circa, mentre Dettori raccolse 30 mila preferenze e Soddu circa 29 mila.

Il 9 luglio il gruppo di Giagu, maggioritario a Sassari, strinse alleanza con il gruppo di Felice Contu, prevalente nel comitato di Cagliari; l’operazione, che rispondeva alla volontà della maggioranza giaghiana di aumentare la sua influenza nel comitato regionale, si incontrava con la determinazione della DC cagliaritana di ottenere la presidenza del Consiglio regionale, con l’elezione dello stesso Contu, a scapito del sassarese Dettori. Il fatto aggravò la spaccatura nel comitato sassarese; Soddu e i forzanovisti nuoresi, anch’essi scontenti perché esclusi dalla concertazione sul nome del nuovo presidente, disertarono il voto e fecero pervenire in aula un duro comunicato di protesta, con il quale denunciavano “la confluenza della destra liberale, monarchica e fascista” sul nome del neo eletto , in favore del quale avevano votato tutti i partiti di destra (oltre alla maggioranza democristiana e ai socialdemocratici, mentre socialisti e repubblicani avevano espresso schede bianche, e i sardisti si erano astenuti). L’indomani Contu, che si era trovato d’accordo con il segretario Piccoli (subito intervenuto a sedare le polemiche) sulla opportunità di “rifiutare” i voti della destra, si dimise, ma il giorno 15 una nuova votazione del Consiglio regionale lo rielesse. Soddu e “Forze nuove” (astenutisi insieme ai sardisti) ribadirono la loro ferma contrarietà ad avallare l’elezione di un presidente “gradito alle destre” e il moroteo sassarese annunciò che non avrebbe accettato incarichi nella costituenda seconda giunta Del Rio. Dettori, che non aveva preso parte alla votazione del 15, giustificò la sua assenza qualche giorno dopo con una breve lettera al presidente del gruppo consiliare democristiano, Masia: in essa sosteneva di avere voluto così protestare per la mancata convocazione del gruppo stesso, che invece, sosteneva, sarebbe stata necessaria in seguito alle evidenti divergenze apertesi nel partito.

Quella che era sembrata una “sterzata” a destra della Direzione regionale democristiana attirò su Giagu lo scontento dei gruppi giovanili del partito: “Le posso assicurare, infine – gli scrisse Andrea Frulio in una lettera aperta –, che comunque i giovani sono diversi da come lei li vorrebbe e che guardano con interesse e speranza alla nuova frontiera che […] uomini del nostro partito hanno aperto nella nostra provincia e nella regione tutta” .

In queste condizioni si arrivò al 18 ottobre 1969, il giorno della celebrazione del XV Congresso provinciale della DC di Sassari, la cui funzione fu semplicemente quella di sanzionare uno stato di cose che, come sembrò ai commentatori politici di allora, nessuno era veramente interessato a correggere. Tredici anni dopo la “rivoluzione bianca” il gruppo dei “giovani turchi” si era ufficialmente sciolto.

10. Il primo congresso della DC sarda.

Il clima di tensione creatosi all’interno della DC sarda rese difficile la vita della giunta regionale, che ben presto entrò in crisi a causa dell’azione dei “franchi tiratori”: il 10 dicembre l’aula bocciò il documento sul bilancio di previsione per il 1970, e il giorno dopo Del Rio rassegnò le dimissioni.

Un’indagine condotta dagli organi disciplinari del partito individuò tra i “franchi tiratori” Pietro Soddu e il forzanovista Angelo Rojch, per i quali fu proposta la sospensione dal gruppo consiliare democristiano . La sospensione fu resa effettiva il 30 dicembre, poco prima della votazione con la quale il Consiglio conferì il reincarico a Del Rio. Per protestare contro la sospensione di Soddu e Rojch, Dettori e gli esponenti di “Forze nuove” Stefano Giosuè Ligios, Gonario Gianoglio e Severino Floris abbandonarono l’aula senza votare.

Il nuovo tentativo di Del Rio naufragò venti giorni dopo di fronte all’aggravarsi della litigiosità nel partito di maggioranza relativa: in seguito al raffreddamento dei rapporti tra Cossiga e Giagu ed Efisio Corrias, infatti, era finita anche l’alleanza tra i gruppi maggioritari dei comitati di Cagliari e Sassari. Dopo un tentativo, fallito, di impegnare nella soluzione della crisi di governo la prestigiosa figura di Giuseppe Masia, il difficile compito fu affidato a Lucio Abis. Questi riuscì a varare la sua giunta il 21 febbraio 1970, dopo avere costruito un delicato equilibrio che poggiava sul coinvolgimento di Soddu, al quale fu affidato l’assessorato alle Finanze, e di Ligios, che divenne assessore agli Enti locali.

L’armistizio fra le opposte fazioni era più che mai opportuno, perché arrivava alla vigilia del I Congresso della DC sarda, che si tenne nei giorni 26 e 27 aprile. I congressi straordinari dei tre comitati provinciali avevano frattanto votato i loro rappresentanti: Cagliari aveva eletto18 delegati di “Autonomia per la rinascita”, guidati da Felice Contu, 13 della “Sinistra unitaria” di Efisio Corrias, 11 della lista “Sardegna domani” di Lucio Abis, 10 della “Iniziativa di base” di Paolo Fadda e 9 di “Rinnovamento democristiano”, la lista dell’anziano Giacomo Covacivich e dei parlamentari Maria Cocco e Neri Marraccini; Nuoro, invece, aveva eletto 18 delegati di “Forze nuove” e 11 della lista di Mannironi e Del Rio; il comitato di Sassari, infine, aveva scelto 19 delegati della lista di Cossiga e Giagu, 13 della lista “Nuova autonomia” di Dettori e Soddu, 3 di “Forze nuove” e 2 della “Sinistra di base” di Benito Saba.

Il 1° maggio le elezioni del comitato regionale portarono in posizione di preminenza i morotei e i forzanovisti: la loro lista unitaria ottenne 11 posti su 40, mentre alla lista di Giagu e Cossiga andarono 7 seggi, a quella di Contu 5 seggi e a quelle di Corrias e Abis 4 seggi a testa (gli altri 9 posti andarono alle liste minori). Giagu, insieme a Cossiga, Corrias, Contu, Cocco, Floris, Carta e Abis, fu eletto per rappresentare la DC sarda nel Consiglio nazionale del partito.

Il 16 maggio, infine, il comitato democristiano sardo elesse Paolo Dettori segretario regionale: attorno al suo nome i morotei e i forzanovisti erano riusciti a raccogliere ben 33 adesioni. I soli a non condividere la scelta di Dettori furono i sette rappresentanti del gruppo di Cossiga e Giagu, i quali disertarono il voto per protestare , come dissero, contro il comportamento della nuova maggioranza del comitato regionale, che aveva respinto la loro richiesta di rinviare l’elezione del segretarioper chiarire il quadro delle alleanze interne, e aveva agito in modo discriminatorio nei confronti del loro gruppo.

La tregua nella DC sarda era durata soltanto tre mesi. A nulla erano servite le dichiarazioni di unità e concordia contenute nelle mozioni presentate dai gruppi di Giagu e Soddu in occasione del precongresso provinciale, e (possiamo dire oggi) le parole fiduciose pronunciate dal presidente Abis nel suo intervento al congresso regionale (“lo spirito unitario del partito in fondo non è venuto meno”) nascevano già vecchie. La mancanza di coesione provocò lo slittamento dell’elezione della direzione regionale, che infine fu insediata il 14 luglio: essa era composta da sei esponenti dell’alleanza moroteo-forzanovista (Salvatore Carta, Gianoglio, Panio, Albino Pisano, Rojch e Antonio Peralta) e quattro del gruppo Cossiga-Giagu (Piero Are e Salvatore Bazzoni, oltre ai due leaders), da quattro fanfaniani (tre erano di Cagliari e uno di Nuoro), da due uomini di Abis, due di Corrias e, infine, da Fadda e Covacivich. Il gruppo di Giagu, ancora maggioritario nel comitato sassarese, non lo era più nel comitato regionale ma i suoi ex alleati cagliaritani, al di là delle alleanze di circostanza, non intendevano formare una nuova maggioranza con i morotei di Soddu e con i forzanovisti. Soltanto il 3 ottobre, poi, il comitato regionale poté eleggere la segreteria regionale: ad essa aderivano tutte le correnti, tranne il gruppo di Cossiga e Giagu, che restava fermo sulle posizioni del 16 maggio.

In questo quadro, il tentativo di Dettori per ripristinare un minimo di coesione nel partito, tentativo che Cossiga in una dichiarazione alla stampa aveva liquidato come “inutilmente unanimista”, non poteva che cadere nel vuoto . Il 27 ottobre, minata anche dalle discordie fra i partiti di governo, la giunta Abis si dimise, ufficialmente per protestare contro il cosiddetto “decretone bis” varato dal governo .

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