Appunti per una storia degli asili in Sardegna

Premessa

images-41Questi appunti, datati, avevano lo scopo di offrire alcuni riferimenti essenziali non solo sulla storia degli asili in Italia, ma anche in Sardegna a coloro che vogliono soddisfare la curiosità di conoscere la storia dell’infanzia in Sardegna, oggi meglio chiarita dal saggio di A.Tedde e V. Onida edito a cura dell’Associazione Alcide De Gasperi di Sassari (Vedi Pubblicazioni nel curriculum di Angelino Tedde in questo medesimo sito)

L’isola, data la sua perifericità rispetto ai più noti ed efficienti centri universitari della penisola, è poco studiata in questi suoi aspetti e, in genere, nei più svariati incontri di studio (congressi, convegni, seminari che si svolgono in continente e hanno per oggetto l’Italia) o non se ne parla o figura tra le cenerentole regioni del Sud che una storiografia incentrata sulle più ricche regioni del Nord sovente ignora. Da ciò la difficoltà per i nostri studenti di apprendere alcuni settori disciplinari nei testi in commercio per cui, a queste obiettive difficoltà di studio per ora si cerca di dare risposta attraverso questi appunti.

Essi mirano a descrivere il pensiero pedagogico-didattico dell’Aporti, fondatore degli asili infantili; le difficoltà incontrate dallo stesso nell’istituzione di questa struttura educativa per l’infanzia; la situazione degli asili nel Regno di Sardegna del periodo subalpino (1848-1861) in quello del Regno d’Italia (1861-1947), e infine, in epoca Repubblicana e “autonomistica” (1948-1999).

I

FERRANTE APORTI: UNA RISPOSTA AI BISOGNI DELL’INFANZIA.

Al nome di Ferrante Aporti (1791-1858) è legata l’istituzione degli asili infantili in Italia.

Il primo asilo sorse a Rivarolo Canavese nel 1828, destinato ai bambini di famiglie agiate, mentre nel 1830 fu istituito quello per i bambini poveri.

Se nell’istituzione degli asili infantili l’Aporti ha avuto dei predecessori in Europa (Oberlin, Owen, Wilderspin), a lui rimane comunque il merito di aver creato un’istituzione prescolastica, gratuita, originale nei metodi e nell’impostazione negli Stati italiani: nessuno prima di lui aveva dato una così chiara impronta educativa alla scuola infantile.

Con la sua istituzione egli si propose di sottrarre i piccoli, abbandonati a causa del lavoro di entrambi i genitori, dai pericoli della strada e dalle misere “salette di custodia”; mosso anche dal sentimento nazionale di riscattare, cominciando dalla prima età, tutti i figli del popolo dalla duplice schiavitù dell’ignoranza e dall’abiezione morale.

Dal 1848 lascia il Lombardo Veneto per continuare la sua opera nel Regno Sardo, portando avanti il suo impegno a favore degli asili che si diffusero oltre che nel Lombardo-Veneto anche negli altri Sati italiani dove nel 1846 si enumerano ben 178 asili che ospitano circa 18.030 bambini.

Mentre negli Stati di Terraferma del Regno di Sardegna gli asili nel quadriennio 1846-1853 passeranno da 61 a 99 e i bambini frequentanti da 8.479 a 13.956, nell’isola furono istituiti, tra il 1848 e il 1896 circa 14 asili che potremmo definire aportiani; i rimanenti, dal 1900 al 1968, ne furono istituiti circa 300 da vari operatori religiosi e furono gestiti dalle educatrici d’infanzia di varie congregazioni religiose femminili

Nonostante l’affermazione, rintracciabile in tutta la letteratura pedagogica, che il processo educativo intenzionale per risultare efficace deve iniziare fin dalla nascita, in quanto i primi anni di vita sono più plastici e ricettivi, la creazione di istituzioni educative in Europa si ha solo a partire dal XIX° secolo. Unica eccezione Platone che nelle “Leggi”, sostiene che i bambini di entrambi i sessi trascorrano i primi anni di vita in una specie di giardino d’infanzia dove la loro attività principale sia il gioco alternato all’ascolto di fiabe opportunamente scelte .

Il primo a parlare di scuola materna, già all’inizio dell’età moderna fu il grande Comenio che nella sua opera Didactica Magna indicò la necessità di educare il bambino dalla nascita all’età della scuola. L’educazione per Comenio deve realizzarsi nell’ambiente familiare in la madre svolge il ruolo di insegnante trasmettendo al bambino le basi dell’insegnamento morale e intellettuale non disgiunto da quello etico-religioso .

La creazione di vere istituzioni infantili in Europa d’altro canto era impedita da vari fattori: lo scarso interesse per la formazione spirituale e culturale dell’infanzia degli strati sociali più poveri, il preconcetto pedagogico di non educabilità dei bambini in tenera età, lo scarso intervento statale dovuto al rispetto dei diritti dei genitori. Tali preconcetti furono anche causa dell’esclusione della scuola materna dal piano scolastico preparato dai teorici e dai rappresentanti della rivoluzione francese che nel “Rapporto all’assemblea nazionale” del 1791 sostennero che l’educazione dei bambini dovesse essere affidata esclusivamente alla madre .

Frattanto, con il sorgere delle industrie e quindi dell’opportunità di lavoro sia per i padri sia per le madri, il problema dell’educazione prescolastica apparve in tutta la sua gravità.

I fanciulli degli strati sociali meno abbienti trascorrevano gran parte della giornata nelle strade, lasciati completamente in balia di se stessi con l’acquisizione di abitudini igieniche, intellettuali, morali discutibili e ai limiti della microcriminalità. Filantropi, operatori religiosi,e in particolare le aristocratiche vincenziane Dame di Carità si preoccuparono di ciò e cominciarono a istituire sale di custodia e istituzioni assistenziali con lo scopo di riunire questi piccoli salvaguardandoli dai pericoli della strada e spesso anche dal precoce avviamento ad attività lavorative.

Così alla fine del secolo XVIII° e al principio del XIX° si avvertì maggiormente in Europa l’esigenza di potenziare questa istituzione passando così dalle sale di custodia alle istituzioni prescolastiche.

Fra i pionieri di questo rinnovamento ricordiamo G. F. Oberlin che nel 1770 istituì nella parrocchia protestante di Waldersbach, in Inghilterra, salles d’asiles che furono vere e proprie scuole materne.

L’insegnamentosi basava completamente sui giochi; i fanciulli erano piuttosto indipendenti, le conduttrici si limitavano a dirigerli e a guidarli nella costruzione di piccoli oggetti di carta. In quest’asilo imparavano i primi atti di cortesia, le regole morali e la lingua nazionale.

Anche l’industriale e filantropo inglese R. Owen considerò l’educazione dei bambini come punto di partenza per rinnovare la società degli adulti. Nel 1816 aprì un “Istituto per la formazione razionale del carattere giovanile”, una scuola ampia, con aule per 400 bambini, cortili e giardini immensi dove i fanciulli potevano muoversi in piena libertà.

Il canto, le esecuzioni ritmiche, le esercitazioni erano le basilari attività in cui i bimbi venivano educati all’autodisciplina, alla collaborazione, allo scambievole controllo e alla reciproca solidarietà.

In questi “asili” non era compreso l’insegnamento lreligioso.

A. Piscatory de Pastoret fu la prima in Francia ad affrontare le nuove esigenze poste alle famiglie dai nuovi metodi di lavoro. Fondò a Parigi nel 1801, in casa propria, una modesta sala d’asilo, accogliendo 12 fanciulli, sala che purtroppo non durò a lungo per mancanza di mezzi; più tardi, nel 1826, riuscì a fondare un Comitato di fautrici dell’assistenza infantile.

S. Wilderspin istituì nel 1820 a Londra una scuola infantile destinata ad avere grande successo sia per la propaganda fatta dal fondatore mediante libri ed articoli sia per il fatto che essa rispondeva ai bisogni delle famiglie coinvolte nella cosiddetta rivoluzione industriale. Non a caso l’iniziativa trovò seguaci in America e Francia. Erano maturi quindi i tempi perché anche in Italia si provvedesse all’educazione dell’infanzia.

L’istituzione di asili infantili fu dunque inizialmente promossa in Italia da Ferrante Aporti, nato a S. Martino dell’Argine nel 1791; entrato in seminario verso i quindici anni vi compì gli studi filosofici e teologici. Ordinato sacerdote nel 1815, fu prescelto l’anno seguente a specializzarsi nello studio della Sacra Scrittura e delle Lingue dell’Oriente Biblico; inviato al Theresianum di Vienna in tre anni venne abilitato all’insegnamento di quelle discipline. Tornato in patria nel 1819, fu nominato professore di Storia della Chiesa e di Esegesi Biblica, presso il seminario di Cremona.

Quando il governo Austriaco, applicando gradualmente la riforma degli studi del 1818 al Lombardo Veneto, fondò a Cremona nel 1821 le scuole elementari maggiori di quattro classi, ne affidò la direzione all’Aporti.

Dal 1826 gli venne affidato pure l’insegnamento della metodica per gli aspiranti maestri elementari: questo compito lo spinse ad occuparsi dei bambini dai due ai sei anni, per sottrarli ai pericoli della strada e alle inadeguate scolette di custodia.

Nacque così l’istituzione alla quale è legato il suo nome: la scuola infantile. La prima fondazione fu istitutita a pagamento e destinata ai bambini di famiglie agiate. Aperta a Cremona nel 1828, approvata dal governo austriaco il 24 gennaio 1829, l’Aporti incoraggiato anche dai buoni risultati di questa iniziativa, si preoccupò subito dei bambini poveri istituendo nel 1830, con il benestare governativo e con il concorso di aristocratici cremonesi, il primo asilo di carità per bambini. Con l’aiuto di altri generosi concittadini istituì nel 1832 il primo asilo di carità per bambine e nel 1834 ne creò un altro, gratuito, misto per bambini d’entrambi i sessi..

Nel 1834 pubblicò il Manuale di educazione ed ammaestramento per le scuole infantili; nel 1836 la Guida per le scuole infantili di carità. Nel 1838 pubblicò il Metodo per adoperare l’Abbecedario e il Sillabario ad uso per l’infanzia e nel 1847 gli Elementi di pedagogia ossia della ragionevole educazione dei fanciulli.

Quando nel 1834 partecipò al Congresso degli Scienziati a Lucca in cui tra l’altro si discusse per la prima dell’idea patriottica dell’educazione dell’infanzia, l’Aporti si rese conto che esisteva un problema nazionale da risolvere quanto prima. Non si poteva rimanere sordi di fronte alle sofferenze, frutto di secoli di servitù, che pesavano sulle spalle degli italiani.

Nel ’48 l’esito negativo della prima guerra d’indipendenza, dopo l’amara sconfitta di Custoza, costrinse l’Aporti a lasciare Cremona e a rifugiarsi a Torino temendo ritorsioni da parte del governo austriaco che gli tolse le benemerenze più volte ricevute per i meriti riconosciutigli in campo educativo.

Il Piemonte lo accolse con vivo senso di ospitalità e gli fu largo di onori. Fu nominato prima senatore, e successivamente ricoprì la carica di Presidente del Consiglio Universitario di Torino e della Commissione Permanente per le Scuole Secondarie. Purtroppo tale nomina gli valse l’esclusione dall’amnistia austriaca e la cancellazione dall’ordine della Corona Ferrea al quale era stato aggregato nel 1838.

Dopo aver svolto un’intensa attività istituzionale nel settore dell’istruzione e particolrmente degli asili infantili, fu lui sicuramente ad ispirare le iniziative del ’38 in Torino del futuro ministro dell’istruzione pubblica Carlo Boncompagni, delle suole dimetodo e degli stessi articoli del regolamento della Legge Boncompagni del 1853, si spense a Torino nel ’58

Nella situazione storica della società italiana dell’Ottocento si respira un clima di restaurazione; si assiste a una lotta fra la borghesia e gli ordini dell’antico regime per la ripresa del predominio assolutistico, legittimista nobiliare e alto ecclesiastico. I più progressisti tra gli aristocratici si uniscono alla borghesia abbracciando il liberalismo e inserendosi nel mondo economico delle trasformazioni agrarie e della nascente industria manifatturiera e meccanica.

Ma era un movimento ed una lotta fra classi ricche e colte, tra élites, come si proclamavano.

La maggior parte del terzo stato era escluso dalla ricchezza e dalla cultura, non solo dalla direzione politica e sociale, ma addirittura da ogni partecipazione alla vita politica. Mentre aristocrazia e borghesia erano intente a conservare o a strapparsi il ruolo di classe dominante, si preparava con l’avvio del processo di industrializzazione, la classe popolare dei proletari, quella che stava per trovare la sua più avanzata espressione nel manifesto marxista del 1848.

Era a questa classe che occorreva portare senza ulteriori indugi l’educazione. La rivoluzione francese aveva predicato la libertà, l’uguaglianza e la fraternità; la borghesia, sua erede, era impegnata a contendere il primato politico ed economico all’aristocrazia, e a sostituirsi a questa per realizzare il suo programma politico e sociale anche se ancorato al paternalismo a favore della crescita degli strati sociali più diseredati.

In Italia gli artefici del Risorgimento, espressione della borghesia affaristica e militare, perseguendo gli ideali di libertà, di indipendenza e di unità della nazione, non affrontarono direttamente il problema dei ceti popolari, ad eccezione del Mazzini, il quale intravide nel fervore educativo del suo tempo un sintomo precursore della democrazia.

Ciò perché si riteneva che il popolo non fosse “maturo”, né preparato all’azione che avrebbe condotto in seguito all’unità e all’indipendenza.

La soluzione del grave problema dell’unità, date le grosse difficoltà connesse, faceva passare in secondo piano il problema sociale. Occorreva giungere all’unità d’Italia, preparare la nuova classe dirigente che a sua volta avrebbe pensato a “fare gl’italiani”.

In questo quadro per coloro che si trovavano nell’indigenza materiale e culturale, meglio si comprende il merito e l’importanza di F. Aporti, promotore di un “Risorgimento” più nascosto e difficile, ma più importante: quello che si fonda sull’educazione tempestiva e integrale delle nuove generazioni.

L’Aporti intuiva chiaramente che il problema dell’educazione si inseriva nel quadro dell’elevazione spirituale del popolo cristiano e nella prospettiva di una politica sociale, aperta ai valori della giustizia e della comune dignità umana. Questa azione educativa iniziava dall’infanzia riscattandola dalla miseria e dall’ignoranza. Portare la scuola nel quadro di una politica sociale aperta era la grande prospettiva aportiana.

Egli come direttore delle scuole elementari (istituite dal governo austriaco nel 1821), poteva constatare personalmente i vantaggi di queste istituzioni educative; i fanciulli si abituavano alla disciplina, alla virtù, al rispetto e alla solidarietà.

Eppure i frutti non erano proporzionati all’impegno dei maestri, alle esigenze degli alunni e alle attese della società. La causa principale della scarsa fecondità della scuola elementare consisteva nel fatto che vi accedevano fanciulli già rovinati nelle abitudini e nella mentalità ed era più arduo plasmarli ed orientarli nella creazione di nuovi e più civili habitus.

La scuola infantile era dunque necessaria sia per motivi sociali sia per motivi pedagogici. Se ai vecchi poteva bastare l’aiuto materiale, ai bambini occorreva fornire un’educazione fisica, intellettuale e morale

Poiché non è da tutti saper formare e istruire ragionevolmente il corpo, la mente e il cuore dell’uomo, né tutti potrebbero trovare il tempo per queste cure, come i lavoratori occupati tutto il giorno a procurarsi i mezzi per la sussistenza propria e per la famiglia, l’Aporti ebbe l’idea di fondare queste istituzioni educative. E quando ebbe personalmente modo di osservare che

“in moltissimi fanciulli poveri che in Cremona vagano tutto il dì mendicando per le strade, gli ostacoli ch’essi opponevano giunti all’età di sei anni a frequentare le pubbliche Scuole elementari, quei luoghi cioè ne’ quali è forza lo star ritirati e condurre una vita disciplinata, inoltre le guaste abitudini già contratte a quell’età fecero conoscere per esperienza il bisogno d’incominciare l’educazione comune dei fanciulli in una età minore di sei anni”

Fu mosso anche dal sentimento nazionale, col proposito di riscattare, cominciando, dalla prima età, tutti i figli del popolo dalla duplice schiavitù della ignoranza e dell’abiezione morale.

La sua idea venne in seguito incoraggiata dalla lettura della traduzione che Giuseppe Wertheimer aveva fatto dall’inglese al tedesco del libro di Samuele Wilderspin, Sull’educazione tempestiva dei fanciulli e sulle scuole dei piccoli fanciulli. L’Aporti stesso scriveva al Wertheimer:

“Aveva debito da molto tempo di ringraziarla pel dono inviatomi dell’auro libretto del signor Wilderspin da lei tradotto nell’idioma tedesco… ma dal momento in cui l’ottimo signor De Puteani ci rimise quell’opera, io concepii l’idea di farmi promotore di tali scuole… attendeva per ringraziarla il momento in cui potessi riferirle che una ne nacque anche fra noi”.

Poichè tutto ciò che era aria di novità incontrava ostacoli maggiori nella pubblica opinione, l’Aporti si propose la creazione di una scuola sui modelli del Wilderspin, presentandola come un miglioramento di antiche istituzioni e in particolare delle opere del Miani e del Calasanzio.

Si potrebbe quindi pensare che l’Aporti stesso sia debitore nei confronti dello scrittore inglese se gli riconosce di essere diventato l’ispiratore della diffusione degli asili in Italia.

Si nota subito che il nome delle due scuole è identico; Infant’s School per il Wilderspin e Scuola infantile per l’Aporti. Entrambi concordano inoltre nel porre a fondamento della prassi educativa la religione, anche se il Wilderspin, rispettoso delle molte confessioni cristiane del suo paese si limita ad impartire nozioni generali e comuni. L’Aporti invece, prelato cattolico, insegna le verità della fede cattolica e compenetra di spirito cattolico tutta la vita dell’asilo. Entrambi i due operatori d’infanzia concordano nel riconoscere spirito imitativo al fanciullo, presentato sempre con buoni esempi, nel ravvisare la capacità assimilativa, alla cui esigenza si offre un equilibrato esercizio giornaliero che giovi più che alla cultura della memoria, all’educazione delle attività dell’osservazione, della riflessione, del parlare.

Entrambi attribuiscono il massimo valore all’educazione morale e ai giochi multiformi, ai racconti biblici, alle preghiere e al canto. Il programma di insegnamento è pressoché identico, abbraccia l’insegnamento del leggere sia delle lettere dell’alfabeto che dei caratteri a stampa e in corsivo, del conteggio e della lingua. Appare chiaro quindi che l’Aporti attinse molto dalla fonte Wilderspin-Wertheimer pur dandogli un carattere italiano.

Incoraggiato dai buoni risultati, l’Aporti provvide ai bambini poveri, aprendo, attraverso delle collette, il primo asilo di carità nel ’30 e ospitando 50 bambini.

Propose il piano al governo austriaco il quale lo accolse, approvandolo con il decreto del 31 agosto ’30.

Grazie al guadagno di una compagnia teatrale che vi devolse il ricavato di tre recite e in seguito al ricavato della tassa per la visita di cerimonia alle Magistrature, devolute sempre a beneficio delle scuole infantili, fu possibile aprire il primo asilo nel 1832 per le bambine e l’acquisto una casa da adattare agli usi della scuola, con aule, cucina e cortile, una stanza per ospitare la notte i bambini orfani o quei fanciulli che per ragioni morali si dovevano tenere separati dai genitori.

Sul finire del ’33 un ricco signore che volle tenere l’anonimato devolse la somma di 4400 lire affinché fosse comprata un’altra casa, non lontana dalla prima, donò le tavole per la costruzione dei banchi, si offrì di sostenere le spese per l’alimento dei fanciulli e lo stipendio del personale per un anno.

Grazie a questo dono fu possibile aprire un’altro asilo di carità per bambini di entrambi i sessi nel ’34.

Il governo imperiale approvò con successivi decreti il piano delle scuole e tutte le classi che mano a mano si aggiungevano. I genitori dei bambini ammessi all’asilo dovevano certificare loro povertà; chi non era povero doveva contribuire alla spesa con 1,50 lire al mese; in tutti i casi era richiesta la vaccinazione.

Per i poveri o gli orfani di campagna, non potendo essere assistiti in città, l’Aporti suggerì la creazione di brefotrofi dove i fanciulli verrebbero assistiti, educati e istruiti a un mestiere fino all’età di nove anni e affidati in seguito a una famiglia con saldi principi morali fino all’età di diciotto o vent’ anni.

Per quanto riguarda l’insegnamento i fanciulli erano divisi in sezioni o classi, secondo l’età e le capacità dei medesimi.

Alla prima sezione erano iscritti i fanciulli più teneri d’età: s’insegneva loro a pronunciare distintamente i suoni elementari e sillabici della lingua italiana, a ripetere esattamente il proprio nome e cognome, la numerazione fino a cento, i nomi propri delle principali parti del corpo, le prime idee intorno a Dio e le preci quotidiane.

Nella seconda sezione s’insegneva a riconoscere le lettere stampate e a rilevarle in sillabe, a numerare in serie crescente e decrescente, a distinguere le quantità delle cose, a conoscere le cifre arabiche fino a cento.

Le tabelle della nomenclatura e in particolare quelle delle vesti, della storia naturale, dei cibi, gli esercizi di memoria sui salmi, i dogmi fondamentali della Chiesa Cattolica, le preghiere e gli elementi della Storia Sacra sulle carte figurative.

Nella terza sezione s’insegneva a sillabare, gli elementi dello scrivere, le tabelle di nomenclatura sistemica, le quattro operazioni aritmetiche, si dava una maggiore spiegazione delle dottrine dogmatiche e morali del Cristianesimo e delle carte rappresentanti la Storia Sacra.

Nelle marce, nei canti e in tutti gli altri esercizi i fanciulli si riunivano tutti insieme e andavano soggetti alle stesse regole di disciplina sebbene distinti e separati in due file: maschi e femmine.

All’istruzione della mente le fanciulle univanoo l’ammaestramento della mano in quei lavori femminili che sono propri di quell’età.

I locali in cui i fanciulli erano tenuti erano composti da una stanza di 30 metri quadrati , sufficiente per 60 scolari, da una stanza di 25 metri quadrati, ad uso della cuoca che preparava la zuppa, per porvi piccoli armadi dentro i quali deporre i cesti della colazione dei fanciulli e per disporre in giro lungo i muri le asticelle larghe 10 centimetri con pioli distanti ciascuno 20 centimetri per appendere i cappelli, una stanza da usare sia come cucina che come refettorio, una stanza per l’alloggio dell’inserviente, una per l’alloggio dell’istruttore , una stanza da usare per la ricreazione e per fare la ginnastica d’inverno, e infine un cortile.

Gli arredi erano costituiti da 10 banchi, ciascuno lungo 2,25 metri disposti ad anfiteatro. Tre tavole di forma rettangolare, ciascuna delle quali è lunga metri 3,20, larga 54 centimetri , e due larghe 66 centimetri ed una sola 54 centimetri per i bambini più piccoli. Nel perimetro delle tavole vi sono venti fori circolari del diametro ciascuno di 13 centimetri, distanti da centro a centro 37 centimetri. Un tavolino per il maestro, una tavola nera, due armadi, due sedie, un mestolo di ferro e uno di legno, un secchio per l’acqua, un tagliere, una scodella di terra ed un cucchiaio d’ottone, un fornello capace di contenere le pentole.

Il personale è composto da nove addetti, che lavorano quasi tutti gratuitamente, paghi dell’onorevole compito di lavorare per il bene dell’umanità.

Un sorvegliante governativo, nominato dall’Imperiale Regio. Governo, vigila affinché vengano osservati gli orari e il regolamento dell’asilo, che tutto proceda con ordine. Tiene un registro dove annota le osservazioni sull’indole dei fanciulli e le esperienze sui mezzi e i modi per educare meglio i ragazzi. Alla fine dell’anno, scrive una relazione con l’organo degli Uffici scolastici alla Suprema Magistratura della provincia. Assiste alla compilazione dei conti di fine anno, ordina ed interviene agli esami semestrali.

Due direttori visitano la scuola tutti i giorni, verificano i titoli di ammissione dei fanciulli, indicano agli amministratori le occorrenze della scuola e controllano la disciplina.

Tre amministratori curano l’amministrazione della scuola, fanno il contratto d’affitto dei locali, compilano le fatture e liquidano i pagamenti da farsi dal deposito.

Un depositario dei fondi riceve dai collettori le somme dei contribuenti, rilascia loro le ricevute, tiene il registro dei contribuenti e compila il conto annuale insieme agli amministratori e ai collettori.

Due collettori curano l’esigenza delle obbligazioni fatte e si occupano di accrescere il numero dei contribuenti.

Due maestri nelle sole scuole maschili si alternano durante l’orario delle lezioni.

I bambini sono custoditi dalle otto del mattino fino all’Ave Maria della sera; mangiano nella scuola stessa consumando i pasti tre volte al giorno: alle dieci, all’una e alle quattro. Le refezioni delle dieci e delle quattro sono costituite da pane e polenta che i fanciulli portano da casa e che il maestro ripone in appositi scaffali, mentre per la refezione dell’una ricevono un’abbondante minestra.

L’Aporti è stato considerato spesso più un operatore che un teorico dell’educazione dell’infanzia. In effetti egli ha impostato in maniera pratica il problema dell’educazione infantile e quando ha dato vita alle sue scuole aveva molto chiare le finalità che voleva conseguire. Con le scuole infantili voleva infatti elevare la dignità dell’uomo fin dalla più tenera età, per evitare che si sviluppassero devianze derivate dall’ignoranza e dai cattivi esempi.

La scuola infantile ha lo scopo di raccogliere i fanciulli dai due ai sei anni, principalmente figli di vedove o artigiani carichi di figli che generalmente venivano abbandonati a sé stessi, privi di ogni educazione o per eccesso di miseria o per difetto di salute o per mancanza di tempo dei loro genitori nell’accudirli e istruirli.

Egli ospita tuittavia nelle sue scuole anche fanciulli di famiglie agiate, perché essi come gli altri avevano il diritto di essere istruiti e di socializzare con gli altri andando incontro ad un’esperienza di fraternità. Secondo lui il povero impara le buone maniere dal ricco e il ricco diventa più umile osservando il povero.

Oltre all’ammaestramento sui primi rudimenti della religione, del leggere, dell’aritmetica mentale e degli elementi dello scrivere, l’istituzione avrebbe dato la possibilità di procurare un sicuro ricovero ai figli dei lavoratori per tutto il tempo che i loro genitori erano occupati nei loro lavori. In tal modo si sarebbero evitati ai fanciulli i pericoli dell’ozio, delle cattive compagnie e dei pessimi esempi, offrendo loro il vantaggio di una buona educazione e di una progressiva abitudine all’amore per l’ordine e per la disciplina che avrebbero acquisito con gli esercizi scolastici.

Con la sua istituzione l’Aporti da buon operatore religioso mirava a esercitare con un solo atto la doppia misericordia corporale di nutrire gli affamati e spirituale di istruire gli ignoranti.

Se si pensa che nella sola Lombardia i bambini poveri costituivano il 18% della popolazione e gli orfanotrofi ricoveravano solo l’1 per cento dei bambini orfani fra i sette e i diciotto anni, si può concludzre che i rimanenti bambini restavano rinchiusi in casa o abbandonati nelle strade o costretti a mendicare e “si tace il rubare”.

A nulla sarebbe servito il rimedio di condurre i fanciulli appena questi avessero saputo camminare nelle “Scuole delle maestre”, chiamate anche “Scuole di custodia” o “Scaldatoi”. Queste istituzioni esistevano da tempo immemorabile se già nel settecento G. Gozzi descriveva così una contrada della sua città:

”Avvi anche una maestra di scolari, la quale, non sapendo in quale altra dottrina ammaestrarli, tirando orecchi, dando ceffate, e con le aperte palme culatelli percuotendo insegna loro a gridare e a stridere quanto esce loro dalla gola, tanto che talora si ode un coro di fanciulli che piangono, di donne che rinfacciano alla maestra e di maestra la quale fa la sua difesa. ”

La situazione non era migliore nelle sale di custodia dell’Ottocento se C. L. Morechini scriveva:

”Si vedono ammassati a volte in una sola stanza a pianterreno più fanciulli tenuti con pochissima nettezza; chi piange, chi strepita, questi è penzoloni a un muro da un nastro, questi giace nel lezzo, altri dorme sdraiato sulla piana terra; se si dicono preci usano una spiacevolissima cantilena”

Lo stesso Aporti scriveva:

”Fra noi esistono già da tempo immemorabile le scuole dei piccoli fanciulli, governate e dirette da donnicciole ignoranti che limitano le cure alla semplice custodia loro, reputando buona educazione fisica il tenerli tutte le ore di scuola seduti sopra seggiole perforate“.

e altrove:

”seduti, o piuttosto rinserrati, sopra seggiole perforate con vaso sottoposto che ne raccoglie gli escrementi i quali con le loro evaporazioni danneggiano il fisico dei bambini”; “reputando utile erudizione intellettuale apprendere loro le più sciocche cantilene delle quali non poche sono laide; e apice di educazione morale l’insegnar loro le preci in uno storpiato latino ”

Un giudizio negativo dunque, che va dall’inculcare ai fanciulli la vendetta, selvatichezza e timidezza, causata dall’isolamento in cui vivono: nessuna abitudine all’ordine, nessuna pratica religiosa o morale.

Per quanto riguarda poi l’insegnamento intellettuale: l’ammaestramento è ristretto solo a imprimere nella memoria ”sciocche e laide tantafere”, al racconto di storie di fate e streghe, atte solo a riempire il loro animo di vani terrori. Non vengono affatto sviluppate le facoltà intellettuali, anzi tutto il sistema delle cognizioni impartite in queste scuole sembra più atto a guastare le menti piuttosto che a svilupparle.

Innumerevoli sono inoltre gli inconvenienti per quanto riguarda il fisico: costretti a sedere per molte ore della giornata sopra seggiole perforate o abbandonati alla naturale vivacità sempre smodata i fanciulli conseguentemente si indeboliscono, con deformazioni che spesso li rendono infelici per tutta la vita, con storpiature e mutilazioni, che costituiscono in seguito un peso per la società.

Non giova neanche il rimedio, per l’Aporti, delle pubbliche scuole elementari, che ricevono i fanciulli all’età di sei anni, quando ormai sono già rovinati nell’inclinazione e nell’intelletto, nè il fatto di affidarli ai parroci i quali, pur svolgendo la missione di istruire i fanciulli a virtù e pietà cristiana, non sempre riescono ad arginare i mali, poiché i fanciulli sono raccolti sotto la loro sorveglianza solo per poche ore al giorno, rimanendo dispersi per tutto il tempo rimanente.

Poichè i poveri sono dispersi in tutta la città è difficile che la carità cristiana li possa raggiungere tutti, mentre raccolti negli asili questo compito diventa più agevole ed efficace.

L’Aporti sottolinea il fatto che nessuno deve temere queste istituzioni, poiché non esiste il pericolo di “sovrabbondanti elemosine”, che rendono il povero infingardo e vizioso e sempre povero. Educando cristianamente i fanciulli si otterrà che chi ruba non rubi più anzi piuttosto fatichi.

Poiché, continua l’Aporti, il povero non ha altro mezzo di sussistenza se non il frutto del suo lavoro, là dove i bisogni degli agiati non bastano a procurare lavoro a tutta la classe degli operai, è necessario che la pietà pubblica e privata lo fornisca, affinché il povero non sia costretto a rubare per necessità con grave danno e pericolo.

Poiché lo stato aumenta di forza e ricchezza in misura della popolazione e poiché l’aumento della popolazione si ha con i matrimoni, la società o carità deve provvedere affinché ognuno abbia i mezzi per mantenere e sostenere se stesso e la propria famiglia.

Considerate queste condizioni sociali l’Aporti sostiene che lo Stato deve mantenere il povero impotente, mentre qualsiasi altro deve essere aiutato a procurarsi un lavoro e ricavare quanto basta per i suoi bisogni.

Dalle scuole infantili non si devono temere i danni dei soccorsi gratuiti distribuiti indistintamente ai poveri invalidi e validi che invece di aiutare la società istigano alla pigrizia. Anzi, i fanciulli allevati cristianamente nell’ordine, educati alla morale, e avendo bene impressa nelle loro menti la massima che l’uomo fu creato da Dio alla fatica e non all’ozio, acquistano pudore e dignità tanto da non voler più mendicare il pane, ma piuttosto guadagnarselo.

L’Aporti trae queste massime della buona educazione dalle Sacre Scritture; all’educatore o al genitore consiglia di scegliere quelle che si riferiscono alla compagnia ”de’ tristi da evitarsi” e quella “de’ buoni da scegliere”, massime espresse nel precetto evangelico “Siate perfetti com’è perfetto il vostro Padre che è nei cieli; siate misericordiosi come vostro Padre è misericordioso; Io (Signore e maestro) vi diedi l’esempio acciocché come ho fatto io facciate voi”

L’Aporti non esita ad affermare che se i bimbi si trovano in questa misera situazione è perché ai loro padri mancano le cognizioni adatte a ben educare i figli, mancano le qualità morali, tali da servire da esempio vivo, il tempo libero e la buona volontà nel prestare le cure per l’educazione domestica dei figli. Questa classe di persone costituisce i tre quarti della popolazione.

II

IDEA E SCOPO DELL’EDUCAZIONE ED ISTRUZIONE

Fine supremo della vita e quindi dell’educazione per l’Aporti è la perfezione, intesa non come qualcosa di finito e di limitato, ma come ideale a cui tendere, che non si esaurisce mai, che si manifesta tanto nella specie che nell’individuo.

“L’uomo fu creato perfettibile, cioè fornito del potere di perfezionare le sue facoltà, ricevute dal Creatore. Ognuno può convincersi di ciò osservando la differenza che passa tra l’uomo sociale e l’uomo selvaggio, fra il villano ignorante e il cittadino istruito”.

Poiché l’uomo è sintesi di anima e corpo non è possibile educarlo se non si considerano tutti gli aspetti della sua persona.

Pertanto la vera educazione è quella armonica, per la quale “come cresce e si fa robusto nel corpo, così deve crescere e farsi robusto nell’anima educando la mente a verità e il cuore a virtù”.

L’Aporti opera una distinzione tra cultura formale o educazione di questa o quella facoltà, e tra cultura materiale o istruzione, intesa a comunicare cognizioni tali che permettano di poter agire da sé, con le proprie facoltà.

Poiché le facoltà dell’uomo sono di triplice natura, fisiche, intellettuali, morali, così pure di tre specie sarà l’educazione e l’istruzione.

L’educazione fisica sarà l’arte di sviluppare le facoltà fisiche dell’uomo e dirigerle alla possibile perfezione. Essa consiste nell’integrità, robustezza e agilità di tutti gli organi corporei.

L’educazione intellettuale avrà per scopo lo sviluppo di queste facoltà e il raggiungimento della perfezione, che consiste nel riconoscere con prontezza il vero dal falso.

L’educazione morale, oltre allo sviluppo di queste facoltà prevede anche che la perfezione sia ricercata nella conoscenza della virtù.

Mentre l’istruzione fisica sarà l’arte di comunicare alle facoltà fisiche dell’uomo certe abilità in modo tale che questi sappia farne uso da solo, come l’abilità della mano per scrivere e disegnare, dei piedi e delle gambe per camminare, l’istruzione intellettuale fornirà quelle abilità come il leggere, lo scrivere, il conteggiare.

L’istruzione morale fornirà la cognizione vera della virtù e la maniera di conformare i propri affetti, così che il fanciullo possa dirigerli all’opera del bene. L’Aporti opera una distinzione ma non una separazione affermando che “ogni educazione sarebbe perniciosa o almeno inefficace, ove non fosse insieme educativa”.

Nascono nell’Aporti due ordini di problemi e cioè se sia preferibile l’educazione pubblica o privata e se tale educazione e istruzione debba essere disciplinata dallo Stato. L’educazione e l’istruzione può essere impartita o a un solo individuo o a una moltitudine di persone; qui nasce la divisione tra educazione ed istruzione pubblica e privata che può riguardare tutti gli individui insieme, i quali senza nessuna distinzione richiedono la necessità di essere sani, ragionevoli e morali, oppure può interessare alcune classi soltanto, le quali chiedono un perfezionamento delle facoltà e quindi un maggiore accumulo di abilità.

Da ciò nasce la seconda divisione tra educazione ed istruzione universale o comune e particolare.

L’Aporti si schiera a favore dell’educazione pubblica e universale, per la maggiore efficacia sullo sviluppo delle facoltà dei fanciulli. Infatti frequentando le scuole pubbliche i fanciulli oltre a una maggiore estensione delle idee che vi acquistano, traggono profitto dagli errori dei compagni, fissano bene nella mente ciò che è vero e ciò che é falso intorno ad uno stesso oggetto, acquistano sicurezza nelle proprie cognizioni, l’arte e il coraggio di esprimerle con chiarezza e precisione, traggono dei profitti anche dal punto di vista morale, imparano a vivere e a trattare con gli altri, moderando la presunzione e la superbia, si misurano di merito con i compagni, riconoscendo maggiore o uguale capacità, apprendono fin dalla giovinezza a moderare l’invidia, vizio che deturpa ed avvilisce l’animo e danneggia la società. Infine hanno moltissime occasioni di esercitare la fraterna carità.

Per quanto riguarda la questione se l’istruzione debba essere disciplinata dallo Stato, l’Aporti si chiede:

“Potrebbe un governo abbandonare al caso, al capriccio dei privati, un interesse di così grave e fondamentale importanza per l’edificazione de’ pubblici costumi che preparano forza ed obbedienza alle leggi?“

Egli dice che il sovrano è il padre dei suoi sudditi e deve quindi tutelare la comune prosperità morale e il benessere comune, che dipende da una buona educazione ed istruzione.

Una volta disciplinata l’educazione e l’istruzione pubblica, tutte le classi vi troveranno quel grado di istruzione conveniente alla loro condizione e al lavoro che svolgono. L’ineducazione rende violento il potente, immorale il plebeo e distrugge l’armonia di pensieri ed affetti dai quali dipende la forza e l’energia dello Stato.

Educazione fisica

In un’epoca in cui l’igiene pubblica lasciava molto a desiderare e poco ci si curava dello sviluppo armonico del corpo era significativo che l’Aporti si occupasse anzitutto dell’educazione fisica.

Egli stesso ne spiega le ragioni: ”Gli uomini deboli e malaticci sono inutili allo stato e di peso a sé stessi, oltreché le facoltà loro intellettuali e morali riescono fiacche”

L’Aporti in primo luogo muove una severa critica agli errori che si commettono ai suoi tempi a danno della salute e robustezza fisica dei fanciulli. Enumera i fattori che ostacolano e quelli che giovano alla salute fisica dei piccoli alunni, senza dimenticare di dare ottimi consigli relativi all’edilizia scolastica e alle pratiche dell’igiene.

I fanciulli vengono spesso alimentati prima ancora di raggiungere l’età dei quattro anni con cibi carnosi che difficilmente digeriscono o zuccherosi che li riscaldano e li disgustano, disabituandoli alle pietanze più semplici. I genitori non si accorgono che li predispongono a diventare ghiotti oltre che deboli di stomaco.

Ad alcuni è permesso l’uso di vini e liquori, invece dell’acqua i quali facilitando la digestione rendono il sonno più tranquillo. Si usano fasciature o abiti troppo stretti, i quali comprimendo il petto rendono la respirazione più difficile; le scarpe troppo strette inoltre deformano il piede diminuendone i punti di appoggio; da ciò consegue l’impossibilità di restare a lungo in piedi e sostenere un lungo cammino.

Si tiene la testa dei fanciulli sempre coperta e questo è un danno; i popoli che coprono poco la testa hanno un cranio più duro, il cervello meglio difeso dalle ferite e reagiscono meglio alle intemperie.

Si concede al corpo dei fanciulli poco esercizio fisico, fondamentale alla loro età. Per i bambini più piccoli gli esercizi vanno eseguiti in un luogo dove non si corra il pericolo di contrarre contusioni e soprattutto all’aria aperta, così si abitueranno a sopportare il caldo e il freddo, il sole e la pioggia. Sia i genitori che gli istruttori dovrebbero astenersi dallo sgridare bruscamente i fanciulli quando questi abbiano contratto qualche lesione giocando; si deve evitare anche l’eccesso opposto, dimostrare cioè troppa sensibilità, soprattutto se il danno è leggero o di nessuna conseguenza.

Sarà utilissimo l’abituare i fanciulli all’uso di entrambe le mani, poiché in molte circostanze é vantaggioso il poter usare anche la sinistra. Questa col passare del tempo, se non usata, diventa debole. I fanciulli sono abituati a troppe mollezze: via il letto morbido, leggermente elevato da un cuscino, non riscaldato d’inverno, ma solamente asciutto.

Non bisogna permettere loro di parlare con balbuzienti, storpi e gobbi, poiché essendo predisposti in questa età all’imitazione contraggono gli stessi difetti o vizi. I genitori, inoltre, avranno cura di non intimorirli con grida, storie o favole ed altre cose simili; questi ridicoli racconti riempiono la testa dei fanciulli di idee false e stravaganti, oltre che danneggiare il loro sonno e il loro temperamento.

Si abituerà il ragazzo a dormire da solo e a camminare nelle tenebre, per vincere così l’irrazionale paura dell’oscurità

Per quanto riguarda le norme da rispettare riguardo l’educazione fisica nelle pubbliche scuole, l’Aporti si riferisce in modo particolare ai locali e ai doveri del maestro.

Le stanze destinate all’istruzione devono essere chiare, asciutte, spaziose e ben ventilate, le finestre devono diffondere la luce sui banchi scolastici dalla sinistra alla destra.

I bagni sufficientemente stretti per un solo bambino, devono essere situati lontano dalla scuola e con ingressi ben visibili.

Se nello stesso locale esistono altre scuole, ciascuno dovrà avere il proprio ingresso.

Affinché la salute degli scolari si conservi robusta il maestro deve avere cura che siano rispettate queste norme: si dovrà preoccupare scrupolosamente che l’aria respirata dagli alunni sia pura e sana, eliminando le cause di qualsiasi esalazione.

Non permetterà che entrino a scuola i fanciulli affetti da qualche malattia, con i vestiti umidi, con le scarpe infangate, e non permetterà che si portino a scuola vivande.

Educazione intellettuale

Se nelle scuole infantili si dava una notevole importanza all’educazione fisica, un posto non meno importante veniva assegnato all’educazione intellettuale, preoccupato com’era l’Aporti di ovviare alla mancanza di un’istruzione in generale e di screditare il falso pregiudizio che i piccoli fanciulli sono incapaci di comprendere qualcosa di ragionevole a quell’età.

L’Aporti infatti afferma: ”I fanciulli sono atti a imparare tosto che sanno parlare…quanto viene insegnato in codesta età, mette profondissime radici che si estendono sino alla più tarda vecchiezza”.

Per convincersi di ciò basta osservarli nei loro piccoli giochi e sentirli parlare. Anche se la loro capacità di ragionamento è ancora debole, non c’è dubbio che questa si perfezioni tramite una buona educazione. Inoltre è inconfutabile per l’Aporti che si debba iniziare l’istruzione dall’educazione morale, che però non deve spingersi avanti a danno dell’intellettuale perché l’uomo non deve informare solo la mente a verità ma anche l’animo a virtù; consiglia quindi che si proceda di pari passo.

Poiché l’istruzione per l’Aporti non si limita all’apprendimento di cognizioni, ma consiste nello sviluppare le capacità di confrontare e valutare, critica l’ammaestramento che è circoscritto all’imprimere nella mente dei fanciulli “alcune sciocche laide tantafere, al raccontare loro storielle di fate e streghe, atte solo ad ingombrare il debolissimo animo con vani terrori” .

Nessuno sviluppo viene dato alle loro facoltà intellettuali e se si avviano alla lettura vengono istruiti sopra un libretto scritto in latino che non capiscono e che non serve alla loro istruzione.

Poichè l’applicazione allo studio dipende dalla volontà del fanciullo, si capirà quanto si sbaglia nell’obbligare gli allievi allo studio forzato, con la conseguenza di procurare il loro disinteresse per la cultura, le scienze, il sapere in generale, spesso per tutta la vita. E’ vero che la maggior parte dei ragazzi prova una naturale avversione per i lavori mentali; questo perché li si obbliga a stare sempre immobili e così facendo si affatica il loro spirito.

Tale fatica si vince rendendo piacevole in tutti i modi la loro istruzione: occupandoli per poco tempo, alternando lo studio con esercizi e movimento del corpo. Vantaggioso sarebbe, per l’Aporti, scoprire a quali oggetti sono più sensibili; si giungerà così, almeno in parte, a vincere la pigrizia e a renderli capaci di applicazione. Molti maestri e genitori hanno l’erronea abitudine di esercitare nella prima età solo la memoria dei fanciulli, trascurando la cultura morale e intellettuale. Accade così dice l’Aporti, come ha rivelato anche il Fleury, che:

”Se si separano gli studi è a temersi che i costumi si corrompano, ed è a temersi altresì che mentre si coltiva la sola memoria e ci si occupi solo della lingua, il raziocinio si smarrisca; e sarà troppo tardi il mutar metodo quando le cattive abitudini siano formate”.

Riguardo ai premi e ai castighi, l’Aporti raccomanda che questi ultimi non siano obbrobriosi perché scoraggiano e deprimono l’animo e che i premi non siano tali da indurre nel fanciullo false idee del bene.

Non si trascura il fatto che l’educazione deve essere impartita innanzitutto dai genitori, ma se questi non sono capaci o non ne hanno il tempo, è necessario che i ragazzi siano affidati ai precettori. Questi dovranno rivestirsi di sentimenti paterni; se non ne sono capaci non giungeranno mai ad educarli ragionevolmente. Conviene dunque ritornare fanciulli, impartire le lezioni con gioia e bontà, insegnando loro a distinguere il vero dal falso.

Affidare l’istruzione dei fanciulli a chi manca di queste qualità è, per l’Aporti, un gravissimo errore. Convinto del fatto che genitori e istruttori hanno un ruolo fondamentale nello sviluppo dell’intelletto dei fanciulli, fissa delle norme a cui bisogna attenersi per mettere in atto una buona azione educativa.

L’istruttore deve guadagnarsi l’amore, l’affetto e la confidenza degli allievi. Questo atteggiamento di dolcezza non deve essere confuso con la familiarità: si perderebbe così di autorità. Si eviterà di rendere la lezione pesante, poco chiara, ma dilettevole e interessante; si escluderanno tutte quelle variabili che possono in qualche modo diminuire il piacere di imparare.

Coll’osservazione del tempo necessario alla trattazione di un determinato oggetto, si stimolerà la competizione tra gli allievi e la soddisfazione per l’attenzione prestata. Ma soprattutto si fornirà loro l’occasione di operare e pensare da soli, conducendoli con appropriate interrogazioni dal conosciuto all’incognito.

Poichè le prime idee del fanciullo si sviluppano per mezzo di oggetti sensibili, l’istruttore o la madre dovranno fare riferimento nei loro insegnamenti alla realtà sensibile. Se questo compito è ben eseguito, si educa la mente del fanciullo all’osservazione, alla riflessione e al coordinamento.

Nell’atto di educare non si può trascurare l’ortoepia, cioè la netta pronuncia dei suoni. A tale proposito l’Aporti riferisce che nella scuola infantile spesso entrano alunni che a mala pena sanno balbettare alcune parole del proprio dialetto, pertanto occorre esercitarli a pronunciare chiaramente i suoni elementari e sillabici. Per questo esercizio di educazione linguistica l’Aporti raccomanda le tavole sinottiche di nomenclatura. Queste presentano una sintesi delle parole e idee che riguardano un medesimo oggetto e offrono il quadro delle parti poste in relazione con il tutto.

La prima tavola di nomenclatura riguarda il corpo e le sue parti, la seconda i principali indumenti, la terza gli animali, la quarta gli alberi e i fiori, la quinta i minerali, la sesta gli alimenti, la settima gli oggetti domestici. L’ottava è la più lunga e complessa, comprende gli elenchi di colori, odori, sapori, professioni e figure geometriche.

Per evitare che si apprendano le parole in modo puramente mnemonico l’Aporti consiglia che si proceda all’insegnamento della nomenclatura col metodo dimostrativo, evitando così la conoscenza di parole prive di senso.

Il maestro avrà cura di tenere in classe una raccolta di oggetti naturali come, terra, pietre, grani, sementi e tessuti, oltre che una carta geografica dell’Italia e dell’Europa.

Prima di ogni lezione si preoccuperà di fare un piccolo riassunto della lezione precedente.

Educazione morale

L’educazione morale per l’Aporti consiste

“nello sviluppo delle facoltà morali, nella loro possibile perfezione; risulta dalle cognizioni esatte dei nostri doveri verso Dio, verso sè stessi, verso i prossimi e verso l’umana società”.

Come per l’educazione fisica anche per quella morale, l’Aporti passa in rassegna i più gravi e comuni errori in cui cadono i genitori e gli insegnanti in questo campo.

I genitori consentono fin dall’infanzia ogni capriccio e desiderio, ogni vendetta per i più piccoli dispiaceri ricevuti: così facendo lasciano libero sviluppo all’invidia, all’ingordigia, all’ostinazione e alla vendetta.

L’esempio colpisce profondamente l’animo dei fanciulli; è perciò dovere dei genitori fornire loro solo buoni esempi. Se tutte quelle persone che i fanciulli avvicinano fin dalla più tenera età, fossero virtuose infonderebbero nel loro animo tale sentimento o almeno dovrebbero sforzarsi a mostrarlo.

I genitori dovrebbero astenersi dal parlare con discredito di qualsiasi persona, perchè i fanciulli apprenderebbero il disprezzo, dal parlare con inclemenza dei poveri, della ghiottoneria e dei furti altrui. I coniugi dovranno astenersi dal rimproverarsi vicendevolmente: questo distruggerebbe il rispetto dei figli.

Non bisogna trattarli senza contegno; occorre essere pazienti, imparziali e non adoperare l’astuzia per scoprire i loro danni e forzarli così alla confessione o assumere un aspetto severo, che attira la loro avversione. Non bisogna educare i figli con un sistema uniforme, senza tener conto dei diversi caratteri, concedere ai fanciulli giochi e divertimenti per troppo tempo, scambiare il passatempo per occupazione.

Dai divertimenti vanno inoltre esclusi i giochi di carte, dadi e spettacoli.

Circa le norme per condurre i fanciulli al bene, la prima consiste, per l’Aporti, in uno studio accurato dei vari caratteri; soltanto conoscendo le particolari inclinazioni di ciascun ragazzo si può conseguire un buon risultato. “Ciascun uomo é composto dei medesimi tratti comuni a tutti, ma la sua fisionomia é propria a lui solo, e quantunque si incontri rassomiglianza tra fisionomia e fisionomia, pure non é mai completa”.

Infatti alcuni sono docili e mansueti e conviene trattarli con dolcezza: la severità nuocerebbe. Altri sono rozzi e intrattabili; l’Aporti li paragona a cavalli focosi, che si addomesticano con carezze e dolcezza, guai se si usassero gli speroni!

In seguito l’istruttore infonderà nell’animo dei fanciulli le virtù e correggerà i vizi. Tra le virtù a cui dovranno abituarsi ricordiamo l’amore per la verità; questo é un sentimento naturale per i fanciulli: per rinforzarlo basterà premiarli ogni volta che diranno la verità e punirli quando mentono ostinatamente. Quando poi ammetteranno un danno, la ricompensa si limiterà a concedere il perdono, ma se l’errore diventa frequente, si punisca anche dietro confessione.

L’amore per il prossimo, fondamento di tutte le virtù, si farà conoscere, quando avranno la ragione un pò più sviluppata, col precetto divino “ amate il prossimo come voi stessi”.

L’amore della giustizia è anch’essa virtù naturale nell’uomo; per conservarla nell’animo dei fanciulli, l’Aporti consiglia di usare due precauzioni: non dare mai il pessimo esempio dell’ingiustizia e preservarli da ogni vizio e passione perché producono la cupidigia e questa l’ingiustizia.

La gratitudine consiste nell’essere grato dei benefici ricevuti e nel provare amore e riconoscenza verso i benefattori.

L’amore della vendetta più che il perdono crea un’immensità di ingiustizie e di liti; la moderazione, consiste nel porre freno alle passioni; la costanza fa l’uomo perseverante nel bene, respingendo gli ostacoli incontrati per attuarla.

Come ornamento a queste virtù l’educatore abituerà i fanciulli al contegno che li rende amabili, alla pulizia, alla compiacenza, alla bontà e spensieratezza.

Per quanto riguarda i vizi l’Aporti scrive: “Se una pianticella si incurva e non viene tosto raddrizzata, non lo si potrà più quando principia accrescere in albero; si correrebbe rischio allora di romperla volendo raddrizzarla: altrettanto accade degli uomini” .

E’ dunque indispensabile che l’istruttore corregga questi difetti fin dall’infanzia.

I vizi e i difetti a cui sono inclini i fanciulli sono l’orgoglio che è il più nocivo dei vizi, l’invidia che ci fa sentire dolore del bene e compiacenza del male altrui, le ruberie, l’ostinazione che fa stare fermi contro ragione nel proprio sentimento, la timidezza, la paura e la distrazione.

L’abilità dell’educatore non sta tanto nel punire gli errori dei fanciulli quanto nel prevenirli. Nella scelta dei premi e dei castighi l’istruttore deve seguire queste due massime: “Non si accordino in premi giammai tali cose per le quali si corra il pericolo di rendere onorevoli nella mente dei fanciulli azioni che pieghino prestamente l’animo loro al vizio” e “Non si applicheranno mai castighi che avviliscano e degradino l’animo del fanciullo, ovvero che riescano nocivi sia al corpo come allo spirito: soprattutto non si adopreranno mai condiscepoli per l’applicazione del castigo stesso, a fine di non insinuare loro perniciosa idea che derivar si possa alcun onore e gloria dall’altrui avvilimento”.

Quindi sia nelle ricompense che nei castighi si dovrà conservare la massima imparzialità. Quando l’istruttore ha minacciato castigo o ricompensa dovrà mantenere la sua parola.

Coi fanciulli piccoli, deboli e timidi dovrà avere molta pazienza ed essere indulgente, nel castigare terrà d’occhio le qualità dell’animo del fanciullo, l’età, la gravità dell’errore e la sua condotta in generale; ai castigati non si toglierà la speranza di riabilitarsi agli occhi dei compagni.

Ogni volta che sarà obbligato a castigare l’istruttore farà vedere come malvolentieri é indotto a farlo, si guarderà bene dal soffocare nei fanciulli il sentimento della vergogna e dell’onore.

La morale è inoltre strettamente legata alla religione, la quale per l’Aporti costituisce l’elemento più importante nella vita dell’uomo. “Si può essere felici senza essere sapienti, ma non si può essere veramente sapienti senza religione”. Tramite la religione la nostra anima conosce la vera pace e trionfa sulle passioni che sono le più temibili nemiche della nostra felicità.

I genitori e gli educatori faranno in modo di inculcare nell’animo dei fanciulli i fondamenti saldissimi della religione e di operare in modo che le idee religiose inculcate nella loro mente siano ricevute nell’animo con amore e trasformate in sentimento.

Ma poiché si commettono degli errori anche in materia religiosa sia come sentimento che come istruzione, l’Aporti ne indica i principali, al fine di apprendere il modo per evitarli.

S’insegnano ai fanciulli incomprensibili preghiere in latino, si evocano i santi come “facitori” di grazie, anzichè come semplici “intercessori”. Si raccontano ai bambini storie assurde di fate e streghe, al posto dei fatti riguardanti la Storia Sacra, mentre è importante sottolineare l’origine divina del Cristianesimo, dalla quale deriva poi la verità dei suoi insegnamenti, che verrà fatta conoscere attraverso scene figurative.

Il fanciullo non deve essere cattolico per rispetto della religione dei suoi padri, ma perchè ha solidissime convinzioni. Gli si fornirà, quindi, la conoscenza esatta dei fatti che dimostrino la rivelazione di Dio, dei libri ed altre fonti che la contengono. S’inizieranno a raccogliere tutte le prove storiche della divinità del Redentore, della missione data agli apostoli. Colpirà il fanciullo la considerazione della meschinità in cui era ridotto il mondo prima dell’avvento del Cristianesimo; non minore consolazione proverà alle dottrine delle preghiere e alla comunione dei Santi.

Materie e metodi d’insegnamento

Il metodo, secondo la definizione di Cicerone e usata poi dall’Aporti, è la serie degli argomenti e delle proposizioni o sentenze, connesse in modo tale che l’una s’intersechi con l’altra. Per conseguire ciò l’Aporti, si serve di due principali metodi, che derivano da un equilibrio tra l’indirizzo pedagogico di padre Girard, che nel suo sistema attribuisce attraverso l’insegnamento della lingua materna maggiore valore alla tradizione dei buoni esempi e allo sviluppo dei sentimenti, e quello del Pestalozzi , che nell’educazione infantile vuole l’insegnamento intuitivo oggettivo insieme con esercizi che in qualche maniera ci accostino all’esattezza geometrica: l’analitico e il sintetico. L’analitico consiste nel passare all’analisi delle cose composte alle più semplici, perciò si procede analiticamente, considerando le singole proprietà del corpo, per definirne quindi l’estensione, la gravità, la mobilità e ravvisare il nesso e la rispettiva proporzione delle parti.

Se si procede inversamente, cioè dalle proposizioni semplici alle composte, si istituisce allora una sintesi. Il metodo sintetico viene detto a buon diritto scientifico, perchè da esso traggono origine tutte le materie scientifiche. Le leggi sulle quali è basato sono semplici e immediatamente percepibili; a nulla servirebbe questo metodo senza uno studio profondo della materia e senza una lunga esercitazione.

Per usarlo correttamente l’Aporti raccomanda di tenere a mente ciò che diceva Cicerone: “Si deve por mente a non dir nulla di perturbato, nulla di contorto, a non passare all’altra cosa, a non ripigliare dall’ultimo, a non riuscire all’estremo, a nulla omettere di ciò che ha relazione con la cosa trattata”

Per meglio mettere in atto qualsiasi metodo educativo si deve osservare attentamente il fanciullo e si noterà che questo nella prima infanzia manca di idee e di parole; aiutato invece dalla paterna e materna autorità, tramite le parole acquista anche le idee e procede in tal modo dalle nozioni semplici alle composte e così via.

Fatte queste osservazioni, l’Aporti ritiene che il saggio educatore, a cui viene affidata l’educazione dei fanciulli, deve rispettare i canoni che il metodo richiede, cioè che sia sintetico, che guidi il fanciullo a sviluppare e a dilatare la sfera delle idee, le quali devono essere inculcate nella mente dei piccoli scolari secondo il loro mutuo nesso, così che l’intelletto sia educato all’ordine e alla connessione. Le parole siano chiare e note ai fanciulli o da intendersi facilmente.

Due sono le maniere consigliate dall’Aporti per comunicare cognizioni e dottrine alla mente altrui. Attraverso una concatenata e ordinata esposizione di idee, nella quale il discepolo sostiene la parte di uditore: questa forma viene chiamata con voce greca acroamatica, ossia auditoria. E per mezzo di una serie ben connessa di interrogazioni e risposte, una sorta di dialogo tra discepolo e maestro, con le quali si guida l’intelligenza dei fanciulli dal facile al difficile, dal semplice al composto. Questa forma viene detta dialogica o socratica.

La prima forma, quella auditoria, non è adatta per i fanciulli di tenera età Poichè richiede una conoscenza estesa della lingua, attenzione e capacità a formare un discorso. Conseguentemente deve preferirsi la forma dialogica o socratica, la quale è diretta a formare l’intelletto, esercitare il giudizio, formare il criterio e arricchire di molte parole e idee la memoria.

L’istruttore deve quindi arricchire il vocabolario dei fanciulli che, infatti, a questa età è assai povero e fuori dai paesi della Toscana, composto di parole grette e inesatte.

Il maestro stabilisce quindi la preposizione che vuole far apprendere, ne deduce la domanda che vuol proporre ed esige che gli alunni includano la domanda nella risposta. Gli errori commessi non verranno subito corretti, ma gli alunni saranno condotti a riconoscerli e a correggerli da soli.

Questo metodo deve usarsi per tutte le materie di insegnamento, dall’alfabeto alle cognizioni del sillabare e scrivere; alle preghiere, alle tavole di nomenclatura, all’aritmetica, alle lezioni di Storia Sacra.

Per le cognizioni dell’alfabeto, del compitare, sillabare e scrivere, l’Aporti, per l’esperienza avuta sia nelle scuole elementari che in quelle infantili, raccomanda prima di tutto che i ragazzi siano condotti alla esatta pronuncia delle parole, poiché tali imperfezioni, meglio di ogni altra scuola, possono essere evitate in quella infantile.

Per distinguere con arte meccanica le lettere isolate, combinate in sillabe e riunite poi ad esprimere le parole, l’Aporti consiglia di far pronunciare simultaneamente tutti i suoni elementari della nostra lingua, così come sono espressi nell’alfabeto, per poter abituare l’organo della voce e della lingua a modulare tutte quelle articolazioni. Vengano ripetuti quindi isolatamente dalle tre sezioni nel quale è diviso il corpo della scuola.

S’intende, però, che prima il maestro dovrà pronunciare per primo questi suoni, con voce alta e chiara, e poi farsi imitare dagli alunni. Esercitati così in sezioni, si farà poi ripetere banco per banco; istruiti nella esatta pronuncia, s’introdurranno alla conoscenza dei loro segni scritti o stampati.

Nell’insegnare questo, l’Aporti suggerisce il procedimento usato nelle scuole elementari, iniziando prima dalle vocali e poi dalle consonanti. L’apprendimento di tre lettere al giorno sarà sufficiente, ma a ogni nuova lezione il maestro faccia precedere un esercizio di riepilogo. Imparato l’alfabeto gli alunni saranno esercitati sulle combinazioni sillabiche, si ammetteranno alla lettura delle parole compitando e le rileggeranno poi sillabando.

Di regola si ammettono al leggere solo i fanciulli della terza sezione: uno compiterà ad alta voce, la terza sezione ripeterà insieme poi si farà ripetere a memoria dalla seconda sezione e infine dalla prima, aiutati da un ragazzo più grande. Questa regola serve per l’Aporti per destare l’attenzione di tutta la classe.

Una volta istruiti i bambini nelle lettura, il maestro spiegherà il significato e il valore delle parole, attraverso l’osservazione dell’oggetto significante la parola o con una fedele riproduzione di esso. Dopo questa osservazione pratica, si giungerà alla definizione della parola che l’istruttore farà ridire a tutto il corpo degli alunni. Ripetuta la definizione di due parole con diverso significato si faranno rilevare dagli alunni le varie differenze. Per discorrere direttamente e correttamente si baderà affinché le parole siano appropriate alle cose che significano, che siano concordate nel discorso e che non si confondano né i generi, né i numeri, né le persone e i tempi.

Le preghiere: è un vecchio detto anche per l’Aporti, che la memoria diminuisce se non viene esercitata e si accresce con l’assiduo esercizio, con l’arte e con l’industria. La migliore e più semplice maniera per coltivarla con frutto é quella di far apprendere ai fanciulli un certo numero di parole, fino ad arrivare a un numero tale che serva da misura giornaliera all’esercizio della memoria.

Per istruire i fanciulli all’esercizio simultaneo l’Aporti raccomanda di seguire le seguenti pratiche. Si faccia un circolo di otto o dieci fanciulli: il maestro dice una parola o una breve proposizione al primo fanciullo del circolo e questo la ripete. Il precettore correggerà ogni inesattezza di pronuncia e si procederà di seguito fino al decimo fanciullo. Poi farà ripetere all’unisono, correggendo ogni stonatura e disarmonia. In seguito si passa alla seconda parola o frase, osservando però che quest’esercizio come qualunque altro, non duri più di mezz’ora.

Tavole sinottiche di nomenclatura. L’Aporti nell’ordinare le tavole di nomenclatura volle che si iniziasse dalle parti riguardanti il corpo umano e le vesti, perchè con queste voci i bambini esprimono i loro bisogni e parlano di se stessi. Segue la tavola degli oggetti di storia naturale, distribuiti per classi, la tavola dei cibi tolti dal regno animale e vegetale, dei domicili, utensili domestici, arti e mestieri. Le tavole sono coordinate in modo da evidenziare la correlazione vicendevole con le tavole precedenti

Il maestro insegnerà la nomenclatura con il metodo dimostrativo, seguendo l’ordine stabilito dalle tavole. Mostrerà l’oggetto, lo farà osservare attentamente ai suoi alunni, poi ne dirà il nome e lo farà ripetere in circolo, come si è visto per gli esercizi di memoria; sottoporrà all’attenzione degli alunni altri oggetti proponendoli alternativamente e provocandoli a dirne il nome, a notare le differenze e le somiglianze.

Giunto alla tavola dei verbi mostrerà col fatto l’azione significata da ciascun verbo e la farà applicare all’oggetto; anche le preposizioni e gli avverbi, che significano qualità di luogo, potranno essere imparate dai fanciulli con la dimostrazione del loro significato.

I fanciulli si dovranno esercitare quasi ogni giorno alla numerazione crescente e decrescente sia nella scuola, sia nelle passeggiate che faranno fuori della scuola numerando i passi che faranno. Più frequenti saranno gli esercizi di pratica fatti con il pallottoliere o con semi di fagioli. Per i numeri ordinali il maestro farà prima comprendere che il loro valore si applica agli oggetti secondo il posto che occupano e che viene considerato come principio. Per dimostrare ciò si disporranno sei o sette oggetti in serie: il maestro inizierà la numerazione, primo, secondo, settimo sia da destra che da sinistra, facendo capire che tutto dipende dal posto occupato

Col metodo usato per l’alfabeto si può insegnare a conoscere le cifre arabiche e romane scritte. Si procederà dunque a esercitare gli alunni nelle quattro operazioni, applicando le medesime agli oggetti sensibili, alle cognizioni di pesi, misure e monete in uso, proponendo anche problemi pratici.

La Storia Sacra va invece insegnata con il sussidio delle carte figurative: il maestro mostrerà un quadro e se non viene destata la curiosità, allora dirà cosa o chi rappresenta formulando la domanda e dando anche la risposta, che poi farà ripetere dagli alunni.

Questa in sintesi la concezione pedagogica dell’Aporti per gli asili infantili.

III

La diffusione degli asili in Italia

La nascita del primo asilo cremonese e il favore con cui fu accolta questa iniziativa negli ambienti culturali italiani portò al sorgere di numerose associazioni sparse un pò ovunque nella penisola.

Queste associazione erano finalizzate alla fondazione di istituzioni infantili, alla cui testa si trovavano uomini di cultura animati da sincero patriottismo; favorevoli all’unità e all’indipendenza della nazione: nell’arco di un trentennio le scuole infantili si diffusero ovunque, costituendo un movimento di aggregazione politica e sociale.

Da Cremona, l’asilo aportiano si diffuse in tutto il Lombardo Veneto, grazie al favore accordato sia dall’autorità civile (il governo austriaco) sia da quella religiosa. Un’asilo sorse nel 1835 a Treviglio, ad opera del sacerdote Carlo Carcano, che per riuscire meglio nell’opera si mise in corrispondenza con l’Aporti. L’asilo ospitava 140 fanciulli; la fama che lo circondava attirò visitatori illustri come ad esempio il marchese R. D’Azeglio e lo stesso Aporti.

Nel 1836 sorse un asilo a Milano, dove in quell’anno fu istituita una Commissione direttrice degli asili per l’infanzia, che trovò il suo segretario in G. Sacchi. Dopo pochi anni, a Milano, gli asili aportiani erano diventati 8, di cui 7 di carità ospitanti 1100 ragazzi ed uno a pagamento con 107 fanciulli appartenenti a famiglie agiate. Sempre con l’approvazione del governo austriaco, che diffidava di altre istituzioni educative, gli asili sorsero a Brescia nel 1835 per iniziativa dell’avvocato G. Saleri, a Mantova nel 1847, dove l’Aporti coinvolse nel progetto l’arciprete L. Matrini, il conte Arrivabene e don E. Tarozzi.

Ancora uno ne sorse a Bergamo nel 1838 ad opera di don C. Botta, a Como, a Pavia e a Soresina in provincia di Cremona, che per l’occasione ebbe la fortuna di udire un discorso dello stesso Aporti. Dopo la Lombardia, non minori progressi vi furono nel Veneto. Ben 5 asili sorsero a Venezia fra il 1836 e il 1839, a Cremona e Vicenza nel 1837, a Treviso nel 1838 e nello stesso anno a Udine dove il numero dei fanciulli salì da 60 a 220. Fu necessario fondare un’altro asilo di carità, mentre se ne aprivano 4 a pagamento per figli di famiglie agiate. Al benefico influsso del Veneto non sfuggì la sponda adriatica; si fondò un asilo a Capo d’Istria nel 1840 in grado di ospitare 40 fanciulli che presto salirono a 60; né rimasero indifferenti il Tirolo, la Svizzera italiana, con fondazioni a Lugano, Locarno e Tesserete.

L’espansione degli asili si estese anche al Piemonte; a Torino nel 1830 erano state aperte nei rispettivi palazzi dai marchesi Tancredi Faletti di Barolo e dalla contessa Eufrasia Valperga di Masino delle sale d’asilo, ispirandoli al modello francese della Pastoret.

In realtà il primo asilo aportiano in Piemonte sorse a Rivarolo Canavese, grazie al sostegno di Maurizio Farina, sindaco del Comune. Ispiratore era lo stesso Aporti, con il quale il Farina era entrato in corrispondenza per meglio attuarne il piano. Il Farina provvide ad allestire la sede e fondò una società di azionisti. Approvato che fu il programma di fondazione, fece stendere il Regolamento per l’asilo dallo stesso Aporti, sancito nel 1839.

Intanto a Torino si costituiva nel 1838 capitananta a Carlo Boncompagni la Società delle scuole infantili, che aprì un primo asilo nel 1839 e un secondo nel 1841. Altri a Genova e a Mantova nel 1842, a Casale Monferrato e a Saluzzo, ad Alghero, Nuoro e Orani in Sardegna, tanto che nel 1846 gli asili nel Regno Sardo erano 47 con 4811 bambini frequentanti.

Ma fu nel Granducato di Toscana che l’asilo aportiano suscitò vastissimo interesse e diffusione, grazie al merito di R. Lambruschini. Fu a Pisa che si aprì il primo asilo nel 1831 a opera di Luigi Frassi, il quale non avendo la licenza necessaria per istituire la scuola l’aprì a casa propria, mentre nel 1833 ebbe il riconoscimento legale. In seguito sorsero a Prato e Siena nel 1837 e a Firenze. Nel Regno delle due Sicilie gli asili aportiani furono accolti con apatia e disinteresse, tanto che nel 1846 si contavano solo 3 asili a Napoli e uno all’ Aquila. Se ne progettò poi l’istituzione a Potenza e a Catania. Nello Stato Pontificio, la curia, e in particolare i Gesuiti, si mostrarono ostili, anzi un’intervento della Santa Inquisizione del 10 agosto del 1837 proibiva nel territorio dello Stato l’istituzione di asili. Solo nel 1840 fu consentito a D. Ricci di fondare un asilo a Macerata. Nel 1841 a Roma la principessa Adele Borghese ne apriva uno nel suo palazzo. Da un prospetto statistico degli asili infantili esistenti in Italia nel 1846 risultavano così distribuiti nelle varie regioni d’Italia:

La diffusione degli asili infantili nelle province meridionali

Sullo scorcio del XIX secolo, sotto la spinta delle ideologie liberali, anche nel Mezzogiorno, fu costituita una Società per gli asili che in breve tempo riuscì a fondare degli istituti che attirarono l’attenzione dell’Aporti del quale avevano adottato il metodo. Ben presto però, sospettati dalla polizia perché opera dei liberali e poco accetti al popolo più propenso ad affidare i bambini alle signore delle sale di custodia gli asili istituiti dalle associazioni furono chiusi, in seguito al decreto del 1860 emanato da Garibaldi, che disponeva il parziale carico degli asili allo Stato, gli asili passarono sotto la competenza del Ministro della Pubblica Istruzione.

Del resto nello stesso Piemonte il regolamento attuativo della Legge Boncompagni emanato nel 1853 suggeriva in in vari articoli l’istituzione degli asili nei comuni.

Il passaggio di competenza non durò a lungo poiché gli asili ricaddero nelle competenze del Ministro degli Interni non avendo la legge Casati compreso tali istituzioni nelle legge organica, nonostante il grande interesse dimostrato.

Nonostante il silenzio della legge Casati, i ministri della Pubblica Istruzione non trascurarono mai di sollecitare le autorità scolastiche affinché facessero pressione sui sindaci e sui cittadini più autorevoli perché promuovessero le istituzioni degli asili.

Poiché le scuole elementari sono più profittevoli allorché sono precedute dagli asili, i bambini acquistano per tempo abitudini e una certa attenzione e curiosità per le cose insegnate; il secondo motivo riguarda la tradizionale funzione custodialistica degli asili istituiti anche per sottrarre i bambini dall’influsso dei cattivi esempi, o all’abbandono; vi é infine un motivo di ordine economico offerto dai programmi che al tempo si svolgevano negli asili a vantaggio di chi li frequentavano i quali potevano essere considerati già preparati e istruiti nei primi elementi.

E’ significativo il contenuto della relazione inviata al Ministro Matteucci nel 1866 dall’ispettore provinciale di Lecce, dove si chiarivano i termini della situazione e avanzava proposte miranti a creare i presupposti per l’istituzione degli asili: acquisizione dei locali disponibili, infine vista la difficoltà di reperire maestre dal Piemonte e dalla Toscana a formare in loco il personale necessario per l’insegnamento.

Soltanto con il regolamento del 1880 e con successive circolari fu dedicata una certa attenzione a tale istituzione, disponendo che in ogni scuola normale fosse istituito un giardino d’infanzia al fine, come chiariva il Ministro Coppino con la circolare 1885 di “addestrare i maestri a quegli esercizi di mano che occupano gradevolmente i bambini, destano per tempo la loro curiosità e il loro spirito di osservazione”.

Da questo si deduce che l’istituzione degli asili d’infanzia rimase per lungo tempo affidata alle iniziative degli amministratori comunali e alla generosità dei privati cittadini, sollecitati dai profeti ad interessarsi per questa opera patriottica che aveva il fine di dirozzare le menti dei bambini.

Tra tante difficoltà iniziano a sorgere asili anche nel Mezzogiorno.

Uno dei problemi più difficili da risolvere fu quello di far accettare al popolo l’idea di scolarizzazione dei bambini; a tal fine si cercò di dare un certo prestigio agli asili garantendo un servizio socio-sanitario, una minestra calda e fornendo gratuitamente la divisa agli orfani e ai poveri

Da alcuni regolamenti é possibile farci un’idea delle finalità e dei metodi adottati in questi asili in cui l’ammissione era regolata dai Comuni oppure dalle offerte dei privati.

L’orario adottato era quello delle 7,30 fino alle 17; appena entrati i bambini indossavano la divisa, uniforme per tutti. I bambini venivano sottoposti a una ispezione di nettezza; se troppo sporchi venivano rimandati a casa; subita l’ispezione, venivano divisi in sezioni a seconda dell’età.

Le lezioni avevano la durata di mezz’ora, non era permesso muoversi o parlare, gli esercizi erano alternati a marce e canti.

L’articolazione delle attività era abbastanza conforme alle indicazioni dell’Aporti, finalizzate allo sviluppo fisico, intellettuale e morale.

Un programma troppo ambizioso se si pensa che spesso i bambini si presentavano a scuola senza scarpe e affamati e i comuni molte volte non riuscivano a reperire neanche i fondi per l’istituzione della scuola dell’obbligo.

Da qui la statistica del 1872 che poté registrare nelle province meridionali solo 186 asili, mentre in Piemonte ve ne erano 246, 233 in Lombardia e 117 in Emilia .

Il dibattito sugli asili.

Nonostante l’intenzione dell’Aporti fosse nobilissima e fosse sostenuta da gran parte dell’opinione pubblica convinta che un popolo istruito, laborioso e morale possa essere inevitabilmente libero e capace di partecipare alla vita attiva del governo, non mancarono critiche astiose e ignobili ingiurie. Soprattutto da parte del colonnello Gabriele Pepe, da Monaldo Leopardi, padre del poeta Giacomo e da parte dei Gesuiti.

I detrattori dell’istituzione popolare temevano che la fondazione dell’Aporti rendesse troppo orgogliosa la mente umana e che consentisse ai ceti popolari di prendere coscienza attiva dello sfruttamento di cui era vittima.

Mentre si poteva constatare che i ragazzi educati secondo metodi adeguati, diventavano intelligenti, pii, devoti, invece che rozzi o violenti.

In particolare G. Pepe affermava che gli asili erano una minaccia per la compagine morale della famiglia, perchè allentavano e rischiavano di sciogliere i mutui vincoli tra madre e figli.

Erano un pericolo per l’economia dello Stato, perchè con il loro moltiplicarsi addossavano il carico della cura e dell’alimentazione sui cittadini. Gli asili costituivano un rimedio sproporzionato ai bisogni reali, poiché la cura dei bambini si risolveva in una cura puramente fisica, alla quale bastava “l’infima femminuccia“.

Affermava ancora che il loro ideale è il pregiudizio che il bambino di quattro o cinque anni sia corruttibile, mentre a parere del Pepe lo diventa solo intorno al decimo anno, e che già prima dei sette anni possegga intelligenza e memoria. In ultimo accusa gli italiani di essere affetti da “stranomania“, che li ammalia e li porta ad imitare ciecamente i ritrovati stranieri .

A detta del Pepe, il vero filantropo italiano dovrebbe conformarsi all’appello che lanciò il Romagnosi alla gioventù italiana: “Siate Italiani, nient’altro che Italiani”.

Questa accusa era formulata in modo tale da rincalzare le prevenzioni di certi governi e l’odio dei reazionari per la bella creazione.

Il Lambruschini, che degli asili in Toscana era ormai l’apostolo riconosciuto, dopo non poche esitazioni, temendo di nuocere con la sua risposta alla causa degli asili, manda le prime pagine della confutazione al Vieusseux che approvatele le pubblica nella “ Guida dell’Educatore ”.

Gli asili infantili non sono solo necessari nei casi frequenti di madri incapaci o di madri povere e bisognose, asserisce il Lambruschini, ma in ogni modo offrono a queste un aiuto prezioso per la buona educazione dei loro figli.

Ben poche sono le madri che sanno adempiere ai doveri della materna educazione. Private che siano dei loro piccoli per la maggior parte della giornata, esse acquistano una preziosa libertà e un indispensabile riposo che permette loro di accudire alle faccende domestiche e guadagnare qualche soldo per la famiglia. Intanto però la temporanea privazione rende più vivo il desiderio di stare insieme e madre e figli sono più teneri e affettuosi.

L’istruzione non è vana e inutile, è un avviamento all’educazione dell’uomo intero che inizia dalle fasce; i semi sparsi nell’età infantile poi germogliano nell’età adulta e difficilmente muoiono.

Dire inoltre che il bambino, continua il Lambruschini, di quattro o cinque anni non sia corruttibile e che al di sotto di sette anni sia nullo il suo potere di apprendimento, sono principi che contrastano con la realtà e con la psicologia infantile. Una elementare conoscenza dell’infanzia porta alla conclusione che si possono preparare i bambini al vizio, lasciando crescere in loro mille difetti. Inoltre le loro facoltà non rimangono assopite, ma crescono e si sviluppano velocemente, perciò hanno bisogno di essere guidati.

Resta da confutare l’accusa di “stranomania”. L’imputazione risente dello spirito di nazionalismo miope del tempo. Anche se storicamente gli asili nacquero in contemporanea con gli istituti stranieri, si deve riconoscere, come afferma il Lambruschini, che non sono un’albero esotico trapiantato in Italia, ma produzione nativa del nostro suolo. L’Aporti riplasmò l’asilo con un’altra veste, vi impresse un nuovo spirito e ne fece una cosa tutta italiana. Amare l’Italia non è privarla d’una caritatevole e utile iniziativa solo perchè prima di noi è stata pensata da altri: questo è odiare l’Italia, questo è chiudere tutti gli uomini in tanti spazi chiamati nazioni.

L’Aporti, insieme con gli altri ecclesiastici e gli altri promotori non potevano ignorare le accuse che giungevano da ogni parte, in quanto non potevano rimanere sordi alle sentenze del Santo Uffizio. Appena conosciuta la circolare l’Aporti scrisse al cardinale Odescalchi, inviandogli regolamenti, libri relativi alla propria istituzione, chiedendogli se le scuole così organizzate dispiacessero alla Santa Sede. Il cardinale lo tranquillizzò con una risposta nella quale lo confortava a proseguire l’opera iniziata. Infatti la sentenza proibitiva riguardava unicamente quelle scuole infantili che dopo l’agosto del 1837 erano state introdotte qua e là nello Stato della Chiesa e ribadì la ragione della condanna che consiste nel non essere informate a spirito veramente cattolico. L’Opera dell’Aporti non potè essere introdotta nello Stato della Chiesa per tutto il tempo in cui regnò Gregorio XVI. Ciò per una innegabile diffidenza presso la corte pontificia, per tutto quello che presentava ’aria di novità, anche se di per sè buona, ma passibile di essere rivolta ad altri fini da gente pronta a valersi di ogni mezzo, per spogliare la Chiesa di certe posizioni storiche che manteneva da tempo.

La sentenza proibitiva di Roma accese ancora di più gli animi degli avversari: uno di questi fu Monaldo Leopardi, sollecitato dal marchese Valerio Boschi, in occasione dell’istituzione degli asili a Bologna nel 1837 preoccupato della nuova piega delle cose pubbliche e spinto perciò a scrivere sull’argomento degli asili.

In poco tempo il marchese ricevette il manoscritto, e dopo un vano tentativo di farlo stampare a Modena, lo spedì a un editore di Lugano che lo pubblicò anonimo con il titolo “L’illusione della pubblica carità“.

All’ “anonimo“ autore, l’istituzione riuscì fortemente sospetta per le sue origini protestanti, per i sistemi praticati negli asili. Si lamentava che le preghiere fossero in volgare, considerava perdita di tempo il leggere, lo scrivere e il far di conto, poneva in ridicolo il metodo intuitivo e la nomenclatura; ridicolizzava infine gli esercizi fisici, detestando la nuova filantropia educativa per il suo fondamento ideale: l’uguaglianza.

Prese di mira il Manuale dell’Aporti, trovando appigli nelle frasi più innocenti, come nel passo in cui l’Aporti raccomandava di trattare i bambini con “eguale distinzione“ o dove diceva di evitare ogni violenza perchè “l’amore di indipendenza è naturale all’uomo“, per denunciare poi in tutto il libro un pericoloso indirizzo pedagogico.

Il Leopardi, ossessionato dal Sansimonismo, scorge un pò dappertutto la dottrina di Saint Simon, nell’affermare ad esempio che tutti gli uomini sono fratelli, nel modo in cui racconta la storia di Lot ed Abramo, sul capitolo della fondazione della Chiesa e sulla propagazione del Cristianesimo.

Non risparmia neppure il Catechismo pubblicato anonimo dall’Aporti con l’approvazione del Vescovo di Cremona, scritto secondo l’ordine delle idee e perciò contro l’ordine e il metodo dei soliti catechismi d’allora. Esso è dichiarato dal Leopardi inutile, essendovi nella diocesi quello imposto dall’Ordinario, un pasticcio, dove molte delle dottrine principali sono erronee ed inesatte e avverte gravissimi errori di omissione e lacune.

Non risparmia neanche il Lambruschini, si scaglia contro l’affermazione che i figli del popolo accumunati fin dai primi anni di vita formino una famiglia, obbietta che si debba gettare il seme dell’idea e che la sola sovranità sarà del popolo.

Rifiuta l’idea che i bimbi dell’asilo possano indirettamente influire sui costumi domestici, in particolare lo urta l’idea che negli asili si sviluppi quell’unione tra le diverse classi sociali, da cui risulterà una vera società.

Fiuta il Sansimonismo nell’opera “Della cooperazione delle donne ben nate all’istruzione del popolo“, dove si predica che la donna deve essere non solo custode e artefice dell’ordine domestico, ma anche in grado di esercitare una potente azione sociale.

La logica conclusione di tutto il libro del Leopardi è che si deve cessare di promuovere l’istituzione degli asili, poiché questi sono un tradimento, forse il peggiore e il più astuto di tutti e non rappresentano il dettato della carità e l’opera promossa dalla mano di Dio.

L’Aporti e il Lambruschini non si curarono minimamente di queste polemiche, continuarono la loro opera coscienti di portare un grosso aiuto a tutto il popolo italiano .

Altre accuse giunsero dai Gesuiti che furono i più acerrimi nemici dell’istituzione aportiana, tanto che la pia opera fu introdotta tardi e a stento in quelle città o Stati dove essi godevano di ampia libertà d’azione. Basti pensare a Modena, agli Stati Pontifici, al Regno delle due Sicilie, a Parma, Piacenza e perfino al Regno Sardo Piemontese.

Già il Gioberti nei suoi “Prolegomeni del Primato”, rimproverava i Gesuiti per le vili calunnie e ingiurie, lanciate dai pulpiti di Genova.

Essi ritenevano gli asili, semplici ricoveri di mendicità, li spacciavano per sospetti perchè nati in paesi protestanti, favoriti e promossi da persone irreligiose, tendenti a destare nuovi bisogni nella classe popolare. Proclamavano che se fossero state cose buone li avrebbero creati gli Apostoli.

I Gesuiti avevano forti alleati anche in Piemonte, contro il favore concesso dal Re agli asili: alcuni circoli di Corte e in particolare il conte Solaro della Margherita, continuano l’opera di persecuzione, impedendo la fondazione di istituzioni e censurando tutti gli articoli a favore degli asili,

La campagna contro gli asili si fece più accesa quando il Re chiamò l’Aporti a Torino nel 1844 a tenere il primo corso di metodica.

Il vescovo monsignor Franzoni vietò agli ecclesiastici di partecipare alle lezioni del sacerdote, anzi impedì allo stesso Aporti di dir messa nella cattedrale, con il pretesto che non aveva le carte in regola. A Torino venne vietata la ristampa del Manuale e a Roma negata la sua nomina ad Arcivescovo di Genova.

Il 10 agosto del 1837 la Santa Inquisizione proibiva negli Stati Pontefici l’apertura degli asili aportiani, mentre consentiva qualche sporadica iniziativa ad opera di privati a patto che non fossero di stampo aportiano.

Nel 1855 il padre Curci pubblicò sulla “Civiltà Cattolica“ tre articoli sugli asili, esprimendo il suo pensiero definitivo. La sua fonte costante era il libello del 1837 pubblicato a Lugano dal Leopardi.

Egli ribadì i sospetti nutriti contro l’istituzione a causa delle sue origini non ritenne giustificate le ragioni di questa importazione, anzi le modifiche non gli sembrarono meno degne di biasimo. Trovò innaturale la loro universalità, perchè strappavano i bambini dalle madri; così facendo, diceva, si offendono e si pregiudicano gli affetti e i doveri familiari.

Condannò l’istruzione in generale perchè ne deriverebbe un disamore e una scontentezza del proprio stato. Deplorò la precocità dell’apprendimento, mentre il bambino per il Curci iniziava ad apprendere verso i sette anni, denunziò l’assurdità della nomenclatura, anche se riconobbe necessario imparare i nomi più comuni, derise i giochi e gli esercizi fisici che vi erano in uso, si lamentò del fatto che all’istruzione religiosa venisse data un’importanza minore che all’educazione fisica ed intellettuale.

Insomma per il Curci gli asili rappresentavano un non lieve danno ed un maggiore pericolo per i bambini che vi erano accolti e rappresentavano una rovina per la società.

Il Leopardi aveva proposto che per accettare gli asili bisognava affidarli ai Gesuiti, il Curci però non gradisce questo dono. Egli ammette un’istituzione limitata ai soli casi di orfanezza naturale o artificiale, cioè solo nei casi in cui i bambini mancano moralmente dei genitori. Fissa l’ammissione ai cinque anni, tiene separati i maschi dalle femmine, abolisce l’uso della nomenclatura, della ginnastica, tollera le prime nozioni del leggere e scrivere e qualche avviamento ai lavori di cucito delle bambine.

Anche in questo caso l’Aporti e il Lambruschini non risposero alle provocazioni, lo fece un laico sacerdote dell’istituzione popolare e dell’educazione infantile: Giuseppe Sacchi .

E’ falso asserisce il Sacchi che si trascuri l’istruzione religiosa, come è falso che le nomenclature servano solo ad apprendere una tiritera di nomi posti in fila. Il Sacchi mette in evidenza l’ignoranza dell’avversario che dimostra di conoscere il Manuale dell’Aporti solo di seconda mano, cioè dalla lettura delle opposizioni del Leopardi; dimostra l’origine cattolica dell’asilo, autorizzata da governi cattolici e sorvegliata dai vescovi cattolici, critica l’eresia pedagogica che il bimbo prima dei sette anni sia incapace di apprendimento, giudica falso che i piccoli allievi siano occupati nell’eccessivo lavoro intellettuale che è descritto; a tutto ciò contrappone la psicologia infantile e la necessità educativa per cui fu creato l’asilo.

Eppure nonostante la lotta scatenata in tutta Italia, l’istituzione aportiana fa, per alcuni decenni, il suo cammino lento ma sicuro e perfino trionfante. Partecipano a questo movimento educatori di professione, sacerdoti animati da senso di carità cristiana e perfino l’aristocrazia consapevole dei suoi doveri e illuminata dagli ideali del secolo.

Quello che per alcuni è motivo di sospetto, era per altri motivo di orgoglio e di fede: un movimento che si espandeva sicuro e intenso perchè chiudeva in sè il problema centrale: cioè quello dell’educazione nazionale, perchè il popolo mirava in alto, alla civile e sociale rigenerazione della nostra patria.

Definizione degli asili aportiani

Con l’espressione “asili aportiani” siamo soliti definire tutte quelle iniziative educative cattoliche che presero avvio in Italia a partire dal secolo scorso e che si ispirano alla ideologia dell’Aporti.

Il movimento degli asili aportiani é abbastanza complesso, al punto che, pur rivendicando nel suo insieme un’interpretazione unitaria per i suoi esiti, le notivazioni che ne danno l’avvio e che ne impongono l’affermazione sono molteplici e diverse da contesto a contesto.

Il fenomeno degli asili prende indubbiamente le mosse dall’opera dell’Aporti, ma viene a poco a poco differenziandosi e maturando linee di tendenze che non sono certamente più aportiane anche se tutti i veri promotori di asili non si stanchino mai di ripetere che si rifanno in tutto e per tutto al grande “patriarca Cremonese”.

Forse l’Aporti stesso non prevedeva la diffusione in tutta Italia di questi istituti e la loro implicanza con il movimento politico liberale, ma sperava sicuramente di realizzare il primo cardine dell’istruzione nel Lombardo Veneto.

Se volessimo vedere gli asili aportiani come fenomeno monolitico e portato fuori dall’ideale educativo, dal sentimento nazionale, ci troveremo di fronte il problema di spiegare la sua grande diffusione soprattutto nel decennio 1830-1840, quando ancora il discorso educativo era in auge e l’ideale di unificazione nazionale non aveva ancora preso consistenza.

L’opera dell’Aporti occorre vederla come opera di colui che sa farsi interprete delle esigenze pressanti del tempo, esigenze di vera sopravvivenza.

Non è certo un caso, per esempio, che l’iniziativa per la fondazione degli asili prenda il via nel Lombardo Veneto, precisamente a Cremona e ad opera di un sacerdote mantovano. Lo rileva Cristina Sideri, quando sottolinea la ragione della scelta del territorio mantovano da parte del governo austriaco “quale provincia ove attuare in via sperimentale il nuovo regolamento per le sale di custodia, una versione annacquata degli asili”.

Una regione che risulta più di altre afflitta dalla piaga della povertà e dalla miseria.

Interessante é il quadro che la stessa ci fornisce riguardo la situazione per far meglio comprendere il perché della nascita del primo asilo a S. Martino dell’Argine: “Le truppe, gli sbandati, i disertori,i vagabondi, avevano rovinato tutto il territorio. Ma ciò che era più preoccupante era che il sottobosco di nullafacenti, attivissimi anche di notte costituiva ottima scuola per quei fanciulli liberi di scorrazzare senza vigilanza alcuna. Se si considera che il codice penale austriaco non prevedeva per donne e bambini pene gravi per piccoli furti, si può ben spiegare la petizione di alcuni cittadini perché non venisse soppressa la figura della guardia campestre”.

Ma la molla più efficace per l’apertura dello stesso asilo era di liberare i genitori nei periodi di maggior lavoro nei campi e preservare i bambini dai pericoli. Del resto é proprio in zone agricole come la pianura padana che gli asili vedranno una più intensa diffusione.

Per quanto riguarda il fatto che sia un sacerdote a prendere l’iniziativa é comprensibile proprio perché siamo nel Lombardo Veneto, dove tra l’altro il clero, almeno in quegli anni, ha un rapporto tutt’altro che conflittuale sia con il governo sia con l’alta borghesia laica e con l’aristocrazia. Appare chiaro che in un simile contesto, la circolare Odescalchi del 1837 non sia vista come un vero e proprio impedimento per la diffusione degli asili.

Gli asili nascono quindi con l’appoggio manifesto, ma differenziato del governo. Differenziato perché, per quanto riguarda la campagna, il motivo principale per cui è concesso è quello di favorire non tanto la fondazione di asili, ma di scolette, di sale di custodia.

L’avvio degli asili aportiani è dovuto a vari fattori, che non sempre agiscono in contemporanea. Asili aportiani vengono fondati in zone in cui trovano l’appoggio del governo, sia perchè li pensa, nelle campagne, come sale di custodia e, nelle città come sistema scolastico, che non poteva non cadere sotto il controllo dello Stato, sia perché li inquadra nel contesto antipauperistico di un più che necessario controllo del povero.

Il Lombardo Veneto é l’esempio più lampante di questo aspetto, anche se il regno Sardo Piemontese non é certo lontano sia pure con sfumature diverse, non fosse altro per una maggiore partecipazione come parte dirigente dell’alta borghesia e dell’aristocrazia.

Non é un caso che l’Aporti sia stato favorevole al controllo dello Stato delle scuole infantili o scuole in generale e continua a esserlo anche quando dal 1844 si troverà a vivere e operare nel Regno Sabaudo. Il controllo dello Stato non é invece auspicabile nelle altre zone della penisola come in Toscana o nel Ducato di Parma, dove peraltro l’appoggio del governo non manca anche se con motivazioni diverse dal Lombardo Veneto.

Vi sono asili che nascono perché voluti dalla comunità per risolvere i pressanti problemi di custodia dei figli durante le lunghe assenze lavorative che ricercano il patrocinio dei Comuni. Ve ne sono altri che sorgono per volontà della classe borghese e aristocratica, per sottolineare il loro impegno di classe portante a livello economico ed intellettuale e, quindi, improntati ad un ideale imprenditoriale, di carità finalizzata nel quale si inserisce l’ideale di riscatto nazionale. Gli asili della Toscana e quelli di Parma sembrano esempi di questo tipo.

Vi sono ancora asili che nascono laici e vogliono rimanere tali, come ed esempio quello di Pisa, oppure altri che nascono per iniziativa del clero in accordo con i laici, come gli asili del Bergamasco. Vi sono asili che nascono per i bambini poveri e altri per i ricchi , altri per ricchi e per poveri, come quello di San Martino dell’Argine.

E si potrebbe ancora continuare, ma si vuole puntualizzare la presenza di un movimento complesso che non diventa meno complesso solo con un’espressione che tende ad omogenizzarlo.

Uno degli altri aspetti che contribuì alla nascita degli asili fu certamente quello sanitario, sia dal punto di vista fisico che intellettuale. Non bisogna dimenticare che la nascita degli asili coincide con il fenomeno dell’impiego della manodopera femminile, sia con quello della diffusione del colera in tutta Europa. L’epidemia colpì in modo particolare gli strati popolari più deboli e indifesi sotto tutti i punti di vista e in modo particolare i bambini. Per quanto riguarda l’aspetto della salute come meta ideale da raggiungere come si proponevano molti asili anche in funzione di poter contare sulle forze sane del giovane lavoratore per il miglioramento della situazione economica, esso diviene più evidente laddove si passa ad una visione imprenditoriale della società in cui l’opera degli asili e delle istituzioni ad esso collegati avrebbero potuto decisamente contribuire.

Per questo motivo si inserì quello del riscatto nazionale. Non bisogna dimenticare che la nascita dell’asilo contribuì a debellare la piaga della mortalità infantile, mentre non si può dire la stessa cosa per l’analfabetismo, perché gli asili finirono per porsi come alternativa alla scolarizzazione vera e propria o si andava all’asilo o alla scuola elementare.

E’ certo che comunque gli asili aportiani nascono nel nostro paese con modalità e motivazioni diverse come, ad esempio, perfezionamento di iniziative sorte negli anni precedenti.

Ai primi degli anni quaranta gli asili aportiani e tutte le iniziative ad essi collegate si vanno uniformando agli ideali che sono molto più vicini a quelli imprenditoriali che non a quelli religiosi-educativi di F. Aporti. Ed é in questa direzione che gli asili aportiani vanno a rivestire un ruolo sempre più importante nelle vicende del Risorgimento, assumendo un’importanza politica, in quanto la borghesia avvertì che la redenzione civile e politica andava preparata negli animi cominciando a educarli fin dalla prima età.

Quando gli asili iniziarono la loro decadenza, non fu certo per le lacune metodologiche che certamente furono sempre presenti, quanto perché i liberali moderati cominciarono a dubitare dell’operatività di quei valori sociali e politici che essi avevano attribuito agli asili. La borghesia ne determina il crollo quando inizia a negare quel consenso finanziario fino ad allora elargito e rinunzia a puntare sull’educazione popolare come carta rivoluzionaria del riscatto nazionale

La sardegna sabauda

La Sardegna Subalpina (1848-1861)

Col trattato di Londra del 1718 la Sardegna passò definitivamente a Vittorio Amedeo II di Savoia che assunse il titolo di re di Sardegna, dopo aver ceduto la Sicilia all’imperatore d’Austria Carlo VI.

Il sovrano piemontese si impegnava a conservare tutti i privilegi, gli statuti e le leggi vigenti nell’isola dell’epoca spagnola. Questa “autonomia” che doveva consistere nella possibilità per la Sardegna di conservare modi di vita e abitudini ricevute dalla tradizione e governarsi con l’ausilio del suo Parlamento, finì in realtà per aggravare il ritardo dello sviluppo dell’isola nei confronti degli altri paesi europei, ritardo provocato dalla politica di sfruttamento portata avanti dalla Spagna

Dopo la pace di Aquisgrana nel 1748, si assiste ad un timido tentativo di applicare alla Sardegna le stesse riforme che le monarchie illuminate stavano realizzando in Europa.

Protagonista di queste riforme fu il conte G. Lorenzo Bogino, cui Carlo Emanuele III affidò il Ministero degli affari di Sardegna.

Il Bogino attuò la sua opera secondo un duplice scopo: non far pesare il bilancio negativo dell’isola sul Piemonte e soprattutto trasformare l’economia in modo che la sua aumentata produttività andasse a tutto vantaggio di questo.

Riordinò giustizia e amministrazione, favorì lo sviluppo dell’agricoltura; creò consigli elettivi per amministrare i comuni, ripopolò l’isola: nacquero così i centri di Carloforte, l’Asinara e Sant’Antioco.

Creò un primo elementare sistema scolastico sia per la reale necessità di diminuire l’analfabetismo sia per eliminare la lingua spagnola, che continuava anche dopo cinquant’anni di dominio sabaudo ad essere usata da tutti i ceti sociali e specialmente dalla nobiltà rimasta nostalgicamente legata alla Spagna. Furono riformati gli studi e inviati nell’isola insegnanti piemontesi, che provvidero a distribuire agli alunni più poveri delle scuole elementari libri in lingua italiana.

All’inizio del 1793 ci fu un tentativo da parte dei Francesi di conquistare l’isola, ma i Sardi avevano preso le armi e combattuto per se stessi non per i Piemontesi. Anzi il movimento dei Sardi si cementò inteso a ottenere una più diretta responsabilità nel governo della propria terra.

Nel 1794 una sommossa popolare nata a Cagliari, cacciò dall’isola i piemontesi, la rivolta divenne moto antifeudale e divampò in tutta l’isola. Durante gli anni della Rivoluzione e di Napoleone i Savoia avevano vissuto a Cagliari, dove si erano rifugiati cacciati da Torino dalla conquista francese.

La Sardegna però non guadagnò molto dal fatto che il suo re la vedesse per la prima volta dopo circa un secolo che la possedeva.

Ma sotto Carlo Felice che fu re dal 1821 al 1831 ed era stato vicerè nei primi anni del secolo e sotto Carlo Alberto, che gli succedette e fu re sino al 1849, l’isola mosse con passo spedito sulla via del progresso, anche perché perfino nel governo piemontese, s’era fatta strada l’idea che occorreva collocare la Sardegna nell’orbita di una economia integrata con la “terraferma”, cosa che tra l’altro chiedeva con insistenza anche la borghesia isolana.

Così nel cinquantennio compreso fra il 1820 e il 1870 l’isola registra una serie di interventi che l’avviano ad allinearsi con il resto d’Italia.

Il 24 giugno 1823 Carlo Felice emanò il primo editto di qualche portata sull’istruzione in Sardegna, allora esistevano solo le scuole di cultura media e le università di Sassari e Cagliari, egli dotò, sia pure imperfettamente, di scuole i comuni che ne erano privi.

L’art. 1 del decreto feliciano, per quanto riguarda l’istruzione, prevedeva che le scuole elementari fossero affidate alla nuova amministrazione scolastica provinciale. L’art.3 che l’ordinamento scolastico e i programmi fossero modificati dalla autorità scolastica provinciale a seconda dei bisogni dell’ambiente; infine l’art.6 prevedeva che gli asili infantili sorgessero e funzionassero razionalmente almeno nei centri popolosi, affinché la scuola primaria fosse sorretta da quella infantile.

Tre furono i provvedimenti che incisero più profondamente nella storia della Sardegna e non sempre positivamente perché imposti dall’alto, rispondenti ad un disegno di “piemontesizzazione” dell’isola: l’edito delle chiudende (1820), l’abolizione del feudalesimo (1836-1839) e l’abolizione degli ademprivi (1862-1865).

Ma il momento decisivo di questa progressiva integrazione della Sardegna col Piemonte e attraverso questo per un posto nell’economia europea, fu “la fusione” con il Piemonte, proclamata nel 1847 e promossa dalla borghesia isolana con i ministri di Carlo Alberto, attraverso cui la Sardegna rinunciava alla sua “autonomia” del Regnum Sardiniae e ai privilegi spagnoli accettandone tutte le leggi e le norme di vita e di amministrazione.

Alla fine del secolo la Sardegna entrò nel circolo dell’economia capitalistica italiana e straniera, in quanto “stranieri” furono i capi che negli ultimi decenni dell’800 avviarono iniziative industriali volte non tanto a promuoverne lo sviluppo quanto a utilizzarne le risorse.

Fu in seguito alla rottura dei rapporti commerciali con la Francia che la Sardegna rivelò un’inquietudine che si manifestò nelle sue espressioni più violente.

La diffusione degli asili nel Regno Sardo Subalpino (1848-1861)

Per quanto riguarda la propagazione degli asili nel Regno Sardo possediamo due statistiche redatte dallo stesso Aporti, che riguardano gli asili esistenti alla fine dell’anno 1849 e 1852/53.

La statistica degli asili e delle scuole d’infanzia esistenti negli Stati Sardi alla fine del 1849 fu redatta dall’Aporti stesso, grazie alle tavole che gli pervennero con dispaccio 9 ottobre 1849 n° 33 da Pier Dionigi Pinelli, Ministro degli Interni.

La statistica una volta compilata fu inviata al Cav. Avv. Filippo Galvano, succeduto al Pinelli per informarlo sui progressi del Regno “lungo le vie della sapiente carità” egli spera “di procurare così la consolazione dell’umanissimo animo del Re, Vittorio Emanuele, inoltre spera che ciò sia di conforto al suo governo, d’incoraggiamento ai benefattori dell’umanità e ai rappresentanti della nazione affinché proseguano l’opera iniziata.”

Dall’analisi delle tabelle risulta che gli asili sono 61 con un totale di 8548 alunni, che le rendite annuali corrispondono a L. 179246, che la Congregazione di Carità versa la somma di L.7215 e il Comune L. 8150, che il totale della dote ammonta a L. 370142.

I mezzi per propagare gli asili in Piemonte potevano derivare dalla carità privata o dalla pubblica o da quella prescritta negli istituti di beneficenza.

“I privati, se cristiani ispirati dalla carità si sentono in dovere di aiutare i meno abbienti, e i più bisognosi non solamente con opere caritatevoli ma anche col senno proteggendoli e guidandoli al bene operare”. Ai ricchi l’Aporti dirà: “La moralità del popolo è loro di grandissimo giovamento, essendo la migliore tutela degli interessi personali e reali, la migliore malleveria della pubblica tranquillità”

A nessuna comunità può tornare utile, anzi è pregiudizievole, avere una popolazione malsana, oziosa, indolente e bisognosa; in quanto getta nello Stato il germe pericoloso della corruzione che, sviluppato, minaccia il totale sgretolamento dei vincoli sociali.

Se il Comune sopperisse alle spese dell’edificio e dei mobili necessari, spesa che non è perenne ed annuale, dovrebbe far fronte solamente alla spesa della pensione dell’istitutrice, la quale fornita di alloggio nel locale stesso dell’istituto potrebbe costare lo stipendio annuo di L.500.

L’importo delle minestre che è di quattro centesimi per 50 bambini assolutamente poveri ammonterebbe a L.2 al giorno e a L.600 annue.

Si raccoglierebbero inoltre con facilità dei fondi specialmente con offerte in natura (legna, riso, legumi) che servirebbero alla pari del denaro denaro donato dalla carità dei privati.

Gli istituti elemosinieri o le congregazioni di carità possono e debbono contribuire alla carità educatrice facendo in modo di accudire o di curare soprattutto i bimbi poveri ed impotenti, che a differenza dei vecchi sono sforniti di ogni relazione sociale.

Ai vecchi basta il soccorso materiale, ai bambini occorre il soccorso morale e intellettuale.

Si applichi dunque la duplice elemosina corporale e spirituale e si faccia in modo che le scuole infantili uniscano all’educazione anche la custodia, l’alimento, la pulizia che preserva i fanciulli da molte infermità; questa duplice opera va esercitata con ugual dispendio di energie.

Il soccorso dato ai genitori con numerosa prole viene spesso sciupato dagli stessi per soddisfare i loro vizi.

L’aiuto ai genitori attraverso la custodia dei figli negli asili è di enorme riconoscimento in quanto essi ricevono la grande elemosina del tempo e l’inestimabile beneficio di avere dei figli formati e sviluppati progressivamente a valori e virtù.

Esistono poi – continua l’Aporti – disposizioni per l’elemosina dei poveri senza che ne sia prescritta l’età e il vero stato; mentre si potrebbero devolvere parti di questa all’opera educatrice propria degli asili e quindi a tutto vantaggio dell’infanzia.

Esistono anche dei fondi fissati dagli ospedali per la cura delle malattie cutanee (tigna, scabbia), che si sviluppano a causa della scarsa pulizia; si potrebbero erogare dei contributi a favore di quelle istituzioni che predispongano contro tale morbosità. Anche per altre malattie come il rachitismo, che colpisce un terzo dei bambini nelle maggiori città, l’Aporti trova il rimedio nel cibo e negli esercizi fisici regolari applicati all’infanzia nei suoi asili.

Non si può certo tacere sulle orrende piaghe morali di cui sono vittime i trovatelli e sul peggiore dei vizi: l’abbandono dei genitori.

Gli afflitti infatti crescono ignoti a se stessi, ingiustamente avviliti e rifiutati dalla società senza vincoli di parentela od amicizia.

Queste considerazioni dell’Aporti mirano alla sola conclusione che i fanciulli non avendo famiglia, la quale serve a destare senso morale, vengano raccolti nell’asilo, da questo passino poi alle scuole elementari e indirizzati ad apprendere un mestiere sotto il controllo di un pio patronato.

Per quanto riguarda la statistica degli asili nel Regno Sardo alla fine del 1852/53 la tabella mostra l’esistenza di 99 asili in totale, di cui 89 appartenenti al Piemonte, 2 alla Savoia, 8 a Genova e al Genovesato, 3 alla Sardegna.

Raffrontando le cifre con gli asili esistenti nel 1849, si ha nel 1852/53 un aumento degli asili in Piemonte di 57, nel Genovesato di 4, nessun aumento nella Savoia e nella Sardegna.

L’Aporti rende noto che non meno proporzionato al progredire della santa carità religiosa e civile sarà il prossimo 1854; in quanto vedrà l’istituzione di asili a Revello, Bricherasio, Carignano, Azeglio, Strambino, Orbessano, Solaro, Spezia, Voghera, Moretta, l’asilo Monticelli di Genova, S. Germano, Candelo, Cagliari, Sassari.

I prospetti riassuntivi ci offrono 13.015 bambini frequentanti tra maschi e femmine, tra i quali si contano 199 infermi, 602 sani, 11916 dotati di buon ingegno, formati a sano criterio e istruiti 4725; per quanto riguarda l’indole 8495 risultano classificati come buoni, i residui 8665 vengono qualificati di mediocre ingegno ed 1741 indocili, inoltre 1472 caratterizzati come apatici. A questi si lascia sempre la speranza che sentano più tardi i benefici effetti dell’educazione intellettuale e morale e passino ad accrescere la cifra dei ragionevoli e dei buoni.

Dall’esame delle singole relazioni che fornirono le varie Direzioni degli asili si deducono i seguenti effetti prodotti dall’educazione impartita sui bambini, effetti che l’Aporti classifica in igienici, morali e intellettuali.

Come benefici effetti igienici si annotano l’abitudine comunicata ai fanciulli per la pulizia della testa, del corpo e degli abiti, con la quale si evitano tante malattie cutanee; quella di alimentarsi a sufficienza ma non disordinatamente e senza misura di cibo sano; la regolare esercitazione delle forze fisiche, senza l’eccesso d’impeto naturale dell’età. Il piccolo numero d’infermi e il minimo numero dei morti basta a rendersi conto della la bontà ed efficacia del sistema di vita ordinato, avvicendato dall’esercizio morale e intellettuale.

Non si può certo negare, dice l’Aporti, che negli asili si guida la mente al giusto pensare e scrivere come si guidano i primi passi al camminare. Per comunicare con queste piccole menti è però necessario adoperare parole che siano per loro di facile comprensione. Ma quali comprenderanno se è loro sconosciuta la lingua nazionale? I bimbi dell’asilo sanno a mala pena balbettare poche parole del loro dialetto municipale e col dialetto si insinuano e si stampano nell’animo i più grossi errori e pregiudizi, che traviano la mente e il cuore. Era necessario per l’Aporti risolvere le difficoltà e trovare il metodo di sviluppare nei bambini le idee dirigendone l’attenzione sugli oggetti visibili e sensibili e insegnare le parole in un linguaggio che è comune a tutta l’Italia.

All’Aporti parve il mezzo giusto per iniziare “la sostituzione del popolo crescente e futuro della lingua comune d’Italia all’uso dei dialetti, la quale a somiglianza dei comuni pesi e misure che abolirono e tolsero le confusioni e gli inganni derivanti dalle differenze loro usate ad ogni piccola distanza, tolga essa pure quella disarmonia di concetti e di massime la quale rende gli animi discordi, e ci fa parere stranieri gli uni agli altri”.

Abituati fin da piccoli all’uso della lingua nazionale, meglio comprenderanno i primi rudimenti della Storia Sacra e del catechismo e prima si avvieranno alla comprensione dei testi.

Se si considera poi che l’uomo in ogni età, specialmente nell’infanzia, vive sotto lo stimolo dell’esempio e delle abitudini sociali, si capirà quanto sia fondamentale il tenerli lontani da ciò che ne può traviare il giudizio, alterare gli affetti e produrre pessime abitudini. Questo è un altro grosso beneficio dell’asilo insieme all’abitudine dello stimolo ad essere miti ed affettuosi. Abituati a vivere ordinati, attivi, rispettosi, i poveri acquistano pudore e riverenza nei confronti dei benefattori, si astengono dalla roba altrui e viene così introdotto nel loro animo il sentimento di umana dignità.

Ciò reca una grande consolazione alla famiglia che trae giovamento dai curatori e dall’educazione stessa dei figli.

Fra i 768 curatori e le 889 visitatrici è ammirabile l’accordo nell’esercizio della carità non solo di soccorsi monetari, ma anche di opere e cure che sono più preziose del denaro, perchè si pratica il grado più elevato della carità: amare i fratelli più di noi stessi

V

Il movimento degli asili aportiani in Sardegna

La Sardegna, separata dal mare dagli Stati di terraferma, fruente di una propria autonomia amministrativa si integra come già detto gradualmente col Piemonte e con le prime regioni che formarono in nuce il primo nucleo del Regno d’Italia.

E’, soprattutto col 1848 che la legislazione isolana decade per lasciare il posto a quella propriamente piemontese inserendosi nel processo di unificazione italiana.

Nella relazione dello stesso Aporti vengono menzionati alcuni asili sardi sorti nell’epoca del massimo dispiegamento dei “suoi” asili. Di essi, purtroppo, nonostante accurate ricerche non è stato possibile rintracciare documentazione, tuttavia c’è da rilevare che il movimento degli asili sul modello di quelli propugnati dall’Aporti anche in Sardegna sia pure più tardi si sviluppano vigorosamente a partire  dalla metà dell’Ottocento fino al 1958 anno in cui con la “444” viene istituita la Scuola Materna Statale.

Promotori di questi asili sono soprattutto operatori religiosi maschili e femminili, organizzati laicamente o religiosamente.

In prima linea appare la famiglia Vicenziana costituita dai preti della missione, dalle figlie della Carità, dalle dame e damine della Carità, operanti in Sardegna dalla metà dell’Ottocento, successivamente, per alcune zone dell’Isola, altri operatori religiosi, seguaci o imitatori del modello di operatività vicenziana, quale ad esempio, per la Gallura è il prete Salvatore Vico che, sull’esempio del Vicenziano cremonese Giovanni Battista Manzella dava grande rilievo all’istituzione degli asili in Gallura e in altre sottoregioni della Sardegna.

Dal lavoro di ricerca svolto emerge chiaramente l’ispirazione aportiana di questi asili soprattutto se si tiene presente che la famiglia Vicenziana Sarda appartiene alla provincia religiosa di Torino, che lo stesso Manzella oltre che appartenente a detta provincia è oriundo di Cremona e sicuramente aveva piena conoscenza dell’opera dell’Aporti.

Tanto che lo cita nel suo bollettino e che le sue idee sugli asili collimano sostanzialmente con quelle dell’Aporti.

Infine il canonico Salvatore Vico di Tempio oltre che di formazione vicenziana fu fedele seguace e imitatore del Manzella da cui attività sociale è stataa  messa in luce da recenti monografie.

Asili propriamente Aportiani

L’Aporti menziona sulla sua relazione l’esistenza di tre asili sardi di sicura ispirazione aportiana: uno ad Alghero, uno a Nuoro, un’altro a Cagliari.

In seguito però, esattamente nel 1873 se ne annoverarono 4, frequentati da un totale di 470 bambini, nell’anno scolastico 1895-96 il loro numero salì a sei di cui:

2 a Sassari con 230 bambini

1 a Alghero ” 120 “

1 a Nuoro ” 92 “

1 a Ozieri ” 97 “

1 a Tempio ” 132 “

per un totale di 671 bambini

Poco tempo dopo se ne aprì un altro ad Alghero.

IL numero degli asili fu di 7 e i frequentanti 1164 nell’anno scolastico 1897-98

Un dato certo sia pure induttivo lo si ricava dal fatto che, prima dell’attività in questa direzione delle Figlie della Carità e del Manzella, in Sardegna figurano i seguenti asili (cartina 1) che sicuramente dato il periodo della loro fondazione e della non attribuibilità alle figlie della Carità e al Manzella possiamo dire di larga appartenenza al movimento aportiano.

Dalla tabella n°1 e dalla seguente cartina possiamo attribuire al movimento aportiano i seguenti asili e nelle seguenti località: Sassari, Sorso, Tempio, Alghero, Ozieri, Bonorva, Nuoro, Oristano, Buggerru, Iglesias, Cagliari.

Si tratta di 11 asili per una popolazione di circa 900 mila abitanti la cui popolazione infantile bisognosa, sulla base di calcoli approssimativi fatti dallo stesso Aporti, avrebbe dovuto raggiungere le 150 mila.

E’ indubbio che alla fine dell’Ottocento 11 asili in tutta l’isola erano pochissimi e di certo non erano capaci di raccogliere sotto la propria tutela quella numerosa schiera di bambini malarici, tracomatosi, malnutriti e spesso abbandonati nelle strade di cui gli oltre 300 Comuni isolani erano popolati.

Con l’unità d’Italia lo stato liberaldemocratico si curava unicamente di combattere l’accattonaggio e di far frequentare ai bambini dai sei ai nove anni di scuola primaria di cui solo i primi due anni obbligatori e ciò a carico dei comuni; troppo poco per far fronte ai mali che attanagliava l’infanzia in Sardegna in quel tormentato periodo storico.

A porre riparo a tanta miseria e indigenza pensarono le Figlie della Carità, il Manzella e le sue suore, Salvatore Vico e le sue suore nonché altre congregazioni religiose alle quali accenneremo brevemente

Gli asili delle Figlie della Carità

Le Figlie della Carità cominciarono ad operare nell’Isola nella seconda metà dell’Ottocento, provenienti dalla provincia religiosa di Torino come i missionari. Sono piemontesi, lombarde, venete e liguri nel primissimo periodo; successivamente faranno moltissimi proseliti tra le giovani sarde al punto che molte verranno scoraggiate dall’entrare in quella congregazione e si orienteranno verso congregazioni che man mano, nel primo cinquantennio del Novecento, sorgeranno nelle varie diocesi sarde.

Negli anni Settanta, dato il numero di Figlie della Carità residenti in Sardegna, oltre settecento, sorgerà una provincia religiosa autonoma della Sardegna delle Figlie della Carità sia pure sotto la direzione spirituale dei preti della missione della provincia di Torino.

Queste suore arrivano spesso nei centri dell’isola chiamate o dai missionari vicenziani o dalle dame della Carità o da patronesse che offrono locali o mezzi per l’istituzione di un’asilo infantile.

Dal 1900 al 1958 esse istituirono circa 29 asili in vari centri dell’Isola. La loro attività si sviluppa da La Maddalena a Carloforte, da Porto Torres a Quartu Sant’Elena, da Luras ad Arborea, da Aritzo ad Olbia, in pratica da un capo all’altro dell’isola. Spesso aprono asili presso fondazioni in cui prestano la loro opera: orfanotrofi maschili e femminili; educandati femminili; istituti per ragazzi e ragazze tracomatosi; case di accoglienza per anziani e istituzioni di assistenza di vario genere.

La cartina 2 e la tabella n° illustrano chiaramente il dispiegarsi della loro attività a favore dell’infanzia indigente della Sardegna per farla crescere fisicamente sana, intellettualmente sveglia e religiosamente orientata in locali ampi e salubri, con sale da giochi e teatrini, con l’oppurtunità di pregare in cappella devozionalmente arredate e coreograficamente curate: si veda, ad esempio, la cappella dell’orfanotrofio-educandato di Sassari.

Le insegnanti, scarsamente preparate agli inizi, curarono la loro preparazione accuratamente in tempi successivi conseguendo patenti o diplomi man mano che si formarono le prime scuole magistrali.

Un discorso a parte per la compiutezza dell’attività svolta a favore degli asili merita il Manzella affine per tanti versi all’Aporti dal punto di vista pedagogico e operativo.

L’Aporti sardo: Giovanni Battista Manzella

G. B. Manzella nacque a Soncino in provincia di Cremona il 21 Gennaio 1855. Dal 1861 al 1870 frequentò le scuole elementari e tecniche e aiutò i genitori nell’umile mestiere di materassai.

Ultimate le scuole tecniche di avviamento al lavoro si trasferì con la famiglia a Castello sopra Lecco, dove iniziò a lavorare come commesso nel negozio di ferramenta del signor Bernardo Cima. Dopo aver svolto l’attività di commesso per sei, anni a Castello si trasferì a Cremona presso il negozio della signora Linda Vignolo Spreafico, dove anche qui svolse l’attività di commesso con perizia e scrupolo meritandosi la stima della titolare.

A ventinove anni abbandonava la sua attività di commesso ed entrava nell’istituto Villoresi di Monza per vocazioni sacerdotali adulte.

Nel 1887 dopo aver trascorso qualche anno a Monza, entrò tra i preti della Congregazione della Missione di Torino e conclusi gli studi teologici, viene ordinato sacerdote dando così inizio alla sua attività di missionario Vicenziano.

Dopo una breve esperienza di direttore presso il seminario minore di Scarnafigi (Cuneo), dove venivano formati i futuri sacerdoti passo a Chieri con l’incarico della formazione spirituale dei novizi vicenziani, svolgendo anche un’attività pastorale con predicazioni al popolo e al clero.

Nel 1898 inizia la sua esperienza delle missioni al popolo a Como, esperienza che durò solo un anno, fu infatti destinato nel 1899 a diventare direttore dei chierici nel seminario diocesano di Castel Monferrato. Tale esperienza fu nuovamente interrotta nel novembre 1900, la destinazione: in Sardegna

Quando il Manzella giunse in Sardegna, 14 novembre 1900, aveva 45 anni vi giungeva nel momento più drammatico della vita isolana.

Sui giornali del continente la Sardegna veniva presentata a tinte fosche come la terra delle vendette e del banditismo; della malaria e del tracoma; della mancanza di strade e di mezzi di comunicazione.

Di povera gente che tirava avanti come poteva, spesso in condizioni precarie di indigenza inaudibili

La popolazione era in genere costituita da agricoltori e pastori piccoli e medi proprietari, che erano coadiuvati da cosiddetti servi pastori, pagati in denaro o compartecipi in vario modo agli utili. Non raramente esercitavano contemporaneamente l’agricoltura e la pastorizia o alternavano queste attività con le cure dell’oliveto o del vigneto.

Dovunque dominava l’analfabetismo, male comune a tutta l’Italia meridionale che la legge Coppino (1877) sull’istruzione obbligatoria aveva solo attenuato.

Il socialismo si diffondeva nelle poche zone industriali dell’isola: Iglesiente, Tempiese e zone urbane. La massoneria creava le proprie roccaforti nelle principali città dell’isola attirando molti intellettuali e borghesi dei centri rurali. Nelle parrocchie di campagna e città la predicazione era del tutto assente. Basti dire che negli “stazzi” c’erano delle popolazioni che non vedevano da anni un sacerdote.

La Congregazione dei preti della missione aveva un duplice scopo: la catechesi al popolo e la cura per la formazione del clero.

Al suo arrivo nell’isola, il Manzella ne constatò l’arretratezza rispetto ai centri del continente e non diversamente del resto di tanti operatori religiosi.

Si dedicò a quella che oggi viene chiamata promozione umana.

Arrivato a Sassari il primo ufficio a cui fu chiamato fu la direzione spirituale del seminario arcivescovile.

Dal 1903 al 1905 diresse il Convito Ecclesiastico per chierici poveri, da lui fondato nella Casa della Missione.

Nel 1808 collaborò all’istituzione del Rifugio Gesù Bambino per accogliervi bambine abbandonate, orfane o di famiglia numerosa.

Nel suo apostolato coinvolse sempre più le donne aristocratiche e borghesi delle città e dei piccoli centri rurali organizzandole nella compagnie delle dame della Carità.

Nel 1910 diede vita al settimanale “Libertà” grazie anche all’aiuto di personalità laiche e del mondo cattolico.

Nello stesso anno collaborò attivamente alla fondazione della Casa per Cronici e Derelitti dove venne accolta ogni genere di miseria.

Nel 1912 cedette la Casa della Missione ai promotori dell’orfanatrofio femminile, favorendo anche l’apertura dell’istituto per ciechi e sordomuti. Da lungo tempo coltivava l’idea di fondare una Congregazione religiosa femminile per rispondere con una catechesi permanente alle esigenze della Chiesa sarda nel campo dell’evangelizzazione ed educazione delle adolescenti e delle giovani, fondando l’istituto delle suore del Getsemani. Nel 1923 diede vita al mensile “La Carità”, organo diretto a stimolare le dame di Carità al soccorso ai poveri e alla creazione degli asili.

In questo campo l’opera del Manzella fu feconda egli stesso riuscì a fondare ben 25 asili.

Contemporaneamente inizia le missioni al popolo; intento più a fare che a dire.

Girò in lungo e in largo tutta l’isola, dalla Barbagia alla Gallura, al Campidano: sono veramente pochi i paesi che non udirono la sua voce. La sua parola era semplice, ma a tutti sembrava ornata del fascino della santità, il suo operare rivolto ai poveri di tutte le età, sempre pronto a portare aiuti materiali e conforto spirituale a tutti, coadiuvato dalle Dame di Carità.

Durante la sue missioni promosse l’istituzione degli orfanatrofi di Bonorva, Tempio e Terranova. Morì a Sassari il 23 ottobre 1937, venerato quasi come un Santo.

Gli asili infantili Manzelliani

Possiamo affermare che nessun ceto sociale bisognosa d’aiuto è stata dimenticato dal P.Manzella, ma quella che egli metteva in primo piano erano gli asili infantili.

Di essi P. Manzella parlava in modo particolare nel bollettino “La Carità”. Si richiamava al metodo espositivo di San Vincenzo de Paoli, trattava l’argomento iniziando dal far conoscere che cosa sia l’asilo, indicandone i vantaggi e i mezzi pratici per l’istituzione.

Il P. Manzella supponeva di dover rispondere alle obiezioni delle Dame di Carità, le quali ritenevano che l’istituzione degli asili fosse un compito estraneo alla loro associazione. A questa probabile obiezione il Manzella rispondeva che nessuna opera buona doveva essere estranea ad essa, d’altra parte, la fondazione degli asili non era forse elencata nel manuale pratico che egli aveva predisposto per le Dame stesse?

Si scusava per non aver sviluppato l’argomento su quel manuale, cercando di porvi rimedio parlandone sul bollettino.

Per il Manzella l’asilo infantile era una scuola che accoglieva i bambini dai 3 ai 6 anni, dove s’insegnavano “tutti gli atti di educazione civile, morale e religiosa adatti alla loro età, v’imparano poesie, complimenti, canti e più di tutto le preghiere e i principi fondamentali della nostra santa religione”

Ai bambini s’insegnavano i principi della morale, si faceva conoscere ciò che è bene e ciò che è male e si dava la preparazione necessaria per le scuole elementari.

I bambini che arrivavano alla scuola elementare dall’asilo avevano già sviluppata l’intelligenza e la memoria, sapevano già far silenzio a tempo e luogo, ma soprattutto la maestra non perdeva due o tre mesi prima di iniziare la lezione. La vita egli affermava è breve e un anno di vita di più è un grande tesoro: ecco quindi che con l’asilo il bambino imparava le cose al momento giusto e si liberava dei limiti della sua età.

I genitori in questo modo, spesso analfabeti, potevano servirsi dell’aiuto dei loro figli, istruiti nel leggere, scrivere e far di conto. Senza l’asilo, a dieci anni il bambino talvolta non aveva ancora iniziato le scuole, correndo il rischio di rimanere sempre ignorante, senza la possibilità di riuscire a trovare un lavoro: ”Se in commercio, sempre fra i facchini; se soldato, non diventerà mai nemmanco caporale; se operaio difficilmente emergerà tra i suoi compagni”

L’asilo costituiva un aiuto anche per le madri, le quali dovendo accudire a due o tre bambini non avevano il tempo per sbrigare le faccende domestiche. Portando invece i bambini all’asilo, questi imparavano “tante belle cose” e in più, osservava il Manzella, l’asilo suppliva la madre che spesso non era consapevole dei propri doveri verso i figli.

Per la mamma il bambino era sempre incapace di apprendere qualcosa: “Ho trovato di frequente delle mamme che non insegnavano manco il segno di croce ai loro figli e dicono, è piccolino! Non sapevano che dai 3 ai 6 anni il bambino è capace di molte cose. Se ad esempio s’insegnava il Padre Nostro ad un bambino di 4 anni questo era capace di imparare prima”.

Le mamme purtroppo, ignoravano queste cose o anche sapendole non trovavano il tempo da dedicare all’insegnamento.

Di raro le mamme si occupavano di insegnare il catechismo ai propri figli sia perchè erano incapaci sia perchè non lo conoscevano neanche loro.

Il Manzella osservava che in molti villaggi e città esistevano già gli asili, ma le Dame di Carità dovevano incaricarsi di fondare queste istituzioni dove mancavano, e mandavano i bambini poveri dove già questi esistevano.

Nelle visite ai poveri le Dame dovevano preoccuparsi di controllare se c’erano bambini e se questi frequentassero l’asilo, in caso contrario dovevano preoccuparsi di pagare loro la retta e di mandarli vestiti decentemente.

Nel dare le indicazioni alle Dame il Manzella coglieva l’occasione per spiegare il modo di fondare un asilo infantile.

Occorrevano: un locale, un comitato esecutivo, una maestra o suore incaricate, i mezzi finanziari per sostenerle.

Per quanto riguarda il locale non si poteva pretendere subito un locale ideale; bastava che questo fosse situato in un luogo salubre, dotato di una piazzetta o di un cortile; si potevano cercare due camere attigue e dalle due se ne poteva ricavare una sola.

In seguito si poteva trovare o costruire un altro locale in modo che le finestre fossero più ampie e in caso contrario, un muratore avrebbe provveduto ad allargarle. Si poteva anche usare il pubblico oratorio, dopo aver chiuso il presbiterio con un tendone, in modo da usare la chiesa anche per officiare la messa, allineare i banchi lungo i muri, i quali potevano essere usati la domenica dal popolo. Così si era provveduto ad Orani, Bitti, Mamoiada.

Qualora l’asilo venisse costruito ex novo si doveva assegnare al salone il luogo principale. Si doveva provvedere anche a un laboratorio dove le ragazze più grandi imparavano il cucito e il ricamo e i lavori femminili in generale.

Il locale doveva essere dotato di un atrio dove i bambini deponevano i loro grembiuli e i cestini, un locale per l’alloggio e la ricreazione delle suore.

Per dirigere l’asilo occorreva anche un Comitato esecutivo, che poteva essere composto o da uomini o donne o insieme.

In genere il comitato doveva essere composto da signore appartenenti alla Società di Carità; si sceglievano 5 o 6 di queste signore, quindi 2 o 3 signore estranee alla società. Quando queste accettavano l’incarico si eleggeva una presidente, una segretaria e una cassiera.

La presidente doveva essere una persona attiva e perciò non doveva essere presidente di altre istituzioni, libera da obblighi familiari, che sapesse leggere e scrivere, in caso contrario dotata di buon senso.

Per quanto riguarda la segretaria e la cassiera dovevano essere capaci di leggere e scrivere e atte a disimpegnarsi nelle loro mansioni.

Qualora invece il comitato fosse stato misto si sceglieva una rappresentante della Conferenza alla quale si univano alcuni distinti signori del paese. Il comitato doveva essere formato da un numero dispari di rappresentanti, poco numeroso e con la presenza di un legale per avere eventuali consigli. Un comitato di soli uomini sembrava al Manzella meno ragionevole Poichè essi sapevano amministrare meglio i soldi, ma purtroppo non sapevano trovarli, mentre le donne se necessario andavano di porta in porta a riscuoterli. Il Manzella consigliava un comitato misto.

Ma il vero problema per il Manzella consisteva nella formazione dei bambini.

E’ certo che le menti grossolane non sentivano il bisogno di colmare le lacune dell’educazione domestica, alle quali “basta che il bambino si svegli quando è chiamato durante il sonno; si lavi quando ne abbia voglia; sappia prendere il pane in mano e passi la giornata per la strada con le galline e con esse restarvi tutto il giorno”

Coloro che pensavano ad un’educazione quale quella che si impartiva negli asili o scuole materne, (come le aveva chiamate il Ministro Lombardo Radice, il quale le riconosceva indispensabili come scuole di grado preparatorio), erano di animo nobile, in quanto pensavano all’utilità dell’educazione negli asili, ed erano consapevoli che il bambino non era solo materia, ma un complesso di forze che si esplicavano.

E non bisognava dire che ciò che il bambino apprendeva a quella età si perdeva in questa, perchè l’animo del bambino sente e non basta una vita per cancellare tutti i suoi ricordi. “Egli prende per sè quanto può, sia bene o male, come la spugna assorbe con indifferenza il liquido con il quale viene a contatto sia esso nettare o veleno, ne se ne libera se una mano agisce in vece sua”.

Da qui l’importanza di far vivere i bambini in ambienti moralmente sani, stimolanti l’allegria, il moto, l’operosità, dove un’anima che sentiva la responsabilità educatrice vegli su di lui, per spremere con la sua mano la spugna già imbevuta di sostanze nocive.

Il Manzella sottolineava l’urgenza di provvedere ai bambini piccoli con l’opera per la protezione della maternità e dell’infanzia, esortando le donne e le dame sarde a mettersi a capo di quest’opera. Sebbene in Italia esistessero 5902 asili di cui 4147 dipendevano da Associazioni o Congregazioni di Carità, soltanto 744 di origine aportiana, mentre i restanti 1011 erano sorti per iniziativa dei comuni .

Il Manzella non si accontentava di dare orientamenti alle dame sulla istituzione degli asili ma provvedeva egli stesso a predisporre le planimetrie degli stessi. Tra i suoi appunti è stato possibile ritrovare non soltanto le planimetrie degli asili nei quali vi era la suddivisione degli ambienti come ad esempio per lo schizzo dell’asilo di Luras; un cortile di 160 metri quadrati, un’aula di 5 per 11, un ambiente per lo spogliatoio, uno per l’ingresso e il corridoio di passaggio, una saletta per il ricevimento, un’altra per la cucina e per il refettorio e un’ambiente per il dormitorio; l’altezza degli ambienti erano di 4 metri.

Oltre a questo il Manzella predispone degli schizzi planimetrici dei banchi (in particolare si tratta dei banchi dell’asilo di Orani) che in altro passo suggerisce quando non vi fossero locali idonei, di utilizzare la chiesa parrocchiale dopo aver provveduto a chiudere con un tendone il presbiterio.

Da quanto scrive il Manzella vi è da supporre che conoscesse il Manuale dell’Aporti o quanto meno la realtà degli asili aportiani. Nel suo bollettino ci fornisce la notizia della festa del centenario della nascita dell’Aporti sebbene al di là di quanto si riporta egli non dica.

Nonostante le ricerche effettuate sia nella Casa della Missione sia nel Seminario sia presso le suore Manzelliane non sono stati rinvenuti tra i suoi libri – del resto dispersi alla sua morte- le opere dell’Aporti, tuttavia dall’esame filologico del suo discorso sugli asili sono evidenti le analogie con il suo conterraneo.

C’é da sottolineare, infatti, che il Manzella cremonese come l’Aporti, educato a Soncino e vissuto fino a quasi 30 anni a Cremona; impegnato nel caritatismo vicenziano e spesso in contato col fratello prete dal quale spesso chiedeva informazioni sui macchinari per promuovere l’artigianato femminile in Sardegna non ignorasse né il pensiero pedagogico né l’operatività dell’Aporti.

Da tutto ciò il costante assillo del Manzella per l’istituzione degli asili. Dalle lettere, dagli schizzi e dalle notizie ricavabili dalle relazioni che i missionari erano soliti fare al ritorno dalla missione risulta che egli personalmente – oltre tutto una sua affermazione – che egli abbia fondato gli asili di cui alla cartina n°3.

Le sue stesse suore ebbero oltre lo stimolo a curare l’elevazione spirituale delle madri di famiglia continuarono a istituire in Sardegna anche dopo la morte del Manzella altri asili vedi la cartina n°4 e aprirono successivamente la scuola Magistrale per la formazione delle maestre d’asilo.

Mons. Salvatore Vico e le sue Missionarie Figlie di Gesù Crocifisso

Salvatore Vico, fondatore della Congregazione Missionaria delle Figlie di Gesù Crocifisso, nacque a La Maddalena nel 1896.

Compì gli studi a Sassari, nel seminario provinciale retto dai padri Lazzaristi (Vicenziani), nel quale subì il fascino.

Appena licenziato in teologia il Vescovo Mons. G. M. Sanna lo chiamò a Tempio per aprire nel 1818 il Seminario diocesano, di cui si occupò fino al 1922.

Nel 1919 venne ordinato sacerdote, le sua sensibilità verso i poveri lo portarono a cercare delle risposte ai bisogni spirituali e materiali della città e della diocesi, segnate dall’esperienza della guerra e dalla martellante propaganda massonica e socialista.

Si fece strada allora nella sua mente la convinzione che occorresse scuotere la società tempiese rispondendo ai bisogni degli strati sociali più poveri.

Era parroco da poco tempo, quando si presentò l’urgente necessità di dare un tetto e una famiglia a quattro piccoli orfani. Incoraggiato dal Padre Manzella e con la collaborazione delle Dame di Carità, fondò egli stesso l’istituto per orfani. Nella primavera del 1923, fondò una Congregazione religiosa femminile detta Pia Associazione delle Figlie di Gesù Crocifisso. Nel 1926 queste iniziano l’opera di promozione umana presso i poveri abitanti degli stazzi di Gallura e dei piccoli e grandi centri.

Oltre gli istituti per miserie di ogni genere egli curò come il suo modello G. B. Manzella l’istituzione di numerosi asili, considerando che curando l’educazione dei piccoli avrebbe migliorato la società del futuro.

Egli aprì con le sue suore dal 1928 al 1957 ben 24 asili di cui alla cartina N°5

Data la sua recente scomparsa (1900) non è stato possibile esaminare le sue carte e il suo pensiero sugli asili che, del resto, ad imitazione del Manzella, egli riteneva essenziali per l’educazione dei bambini in tenera età. Dai registri d’archivio delle sue fondazioni è stato possibile ricavare i dati riferiti sulla cartina di cui sopra.

La diffusione degli asili in Sardegna

Se è vero che l’Aporti aveva attitudini e dimostrava interesse per problemi metodologici, più che la ricerca teoretica pura, in lui urgeva pure il bisogno dell’azione educativa piuttosto che l’aspirazione al pensiero pedagogico, ma sarebbe riduttivo non riconoscere nei suoi scritti buon senso, concretezza e aderenza alla realtà del bambino e alle condizioni sociali dell’Italia di quel periodo.

Il suo pensiero pedagogico può essere colto facilmente: l’educazione é la radice di qualsiasi progresso umano.

L’educazione e l’istruzione che per l’Aporti marciano indissolubilmente unite non sono solo strumenti per procurare maggiori beni per vincere la povertà e l’arretratezza, ma condizione ed espressione di una maggiore dignità morale e umana.

Altrettanto chiara é l’idea dell’universalità dell’educazione, un’educazione di base, comune ed universale é un bene dovuto a tutti, ricchi e poveri, non solo per esigenze di diritto naturale, ma anche come postulato della fede e della carità cristiana.

Esplicita è anche l’idea dell’integralità qualitativa dell’educazione, non porzioni di cultura per le diverse classi sociali ma necessità di sviluppare l’intera umanità fin dagli inizi.

In polemica con i detrattori dell’infanzia egli ammette una larga disponibilità educativa che può essere forse un pò forzata, visto il vasto programma educativo da lui proposto, ma giustificata dalla mancata o scarsa frequenza delle scuole elementari, che si ponevano come alternativa all’asilo infantile.

Ritroviamo anche nella sua pedagogia il principio di individualità, anche se limitato all’educazione morale (trattare i fanciulli con metodi diversi rispettando la loro indole).Si è lontani dal principio attivistico dell’individualizzazione non solo di metodi, ma anche di contenuto. Le mete sono uguali per tutti, individuali sono solo le vie e i processi.

Un’altra idea dominante é quella dell’ambiente, che garantisce insieme alla pulizia, all’igiene fisico e mentale e all’ordine esterno, un clima familiare e scolastico pieno di affettività che favorisca l’intrecciarsi dei rapporti interpersonali.

Per quanto riguarda la didattica l’Aporti preferisce il metodo intuitivo, oggettivo-dimostrativo, adempiendo la funzione psicologica e metodologica di “graduare sviluppo della mente e del cuore”, dove si vuole che gli studi siano concepiti come divertimento e gioco.

Purtroppo la stretta connessione tra scuole infantili ed elementari e il desiderio di assicurare un minimo di istruzione portarono alla contaminazione dei due gradi di istruzione.

E’ facile rilevare che per quanto sia stato rispondente alle tendenze naturali del fanciullo il programma di istruzione fu troppo vasto; proprio qui si riscontra il più grande difetto del sistema educativo dell’Aporti, che contribuì a determinarne il crollo, difetto che andò aggravandosi fino a traboccare in eccessi intollerabili nelle pratiche di sprovvedute istitutrici, che si attenevano puntigliosamente al Manuale.

Oltrettuto la borghesia iniziava a negare agli asili quell’appoggio finanziario fino allora elargito; si rinunziava a puntare sull’educazione popolare come carta risolutiva del riscatto nazionale.

Individuare gli asili del movimento aportiano nella Sardegna del Novecento non é stato semplice: si tratta di un movimento complesso, che spesso segue linee che non sono propriamente aportiane anche se nei veri promotori di asili non mancarono riferimenti aportiani.

Le Figlie della Carità, il Manzella e le Manzelliane, don Salvatore Vico sono i promotori dell’istituzione degli asili in Sardegna dai primi del 900 fino al 1968 anno dell’istituzione della scuola materna statale.

La cartina N°6 indica chiaramente la matrice degli asili e la tabella cronologica dell’istituzione degli asili rivela la costante diffusione di questa istituzione nell’isola.

Non è stato possibile purtroppo rilevare gli asili ai quali sicuramente diedero vita sia Mons. Virgilio vescovo d’ogliastra, sia le Ancelle della Sacra Famiglia fondate da Mon. Piovella a Cagliari, sia le Figlie di San Giuseppe istituite dal Padre Prinetti ugualmente a Cagliari, sia da altre numerose congregazioni femminili religiose istituite in Sardegna e dedite all’educazione dell’infanzia.

Basti pensare che ancora oggi su 2500 religiose residenti e operanti in Sardegna ben 1000 sono maestre di scuola materna.

Per concludere bisogna precisare che sebbene pochi o poco conosciuti figurano gli asili aportiani nell’isola, tuttavia l’intero movimento degli asili successivamente istituiti è debitore all’Aporti sacerdote, educatore e studioso.

Con la fusione dell’isola nel 1848 con gli stati di terraferma il movimento degli asili prese piede grazie alla presenza dell’intera famiglia vicenziana legata inscindibilmente alla provincia religiosa Torinese che inviò costantemente in Sardegna personale piemontese, lombardo e veneto sia maschile che femminile e quando si trattò di operatori religiosi nati in Sardegna questi furono inviati per la loro formazione a Torino e ivi non potevano che conoscere e apprezzare le forme caritative più recenti a favore dell’infanzia.

E’ evidente Poichè il cremonese Padre Manzella divenne un promotore instancabile di queste istituzioni in Sardegna, ancora sottosviluppata sia dal punto di vista sociale ed economico.

Il medesimo fu consigliere e modello del Padre Vico di Tempio in favore dalla promozione non solo dell’infanzia in tutta la Gallura.

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Documenti d’archivio:

Archivio Casa della Missione Sassari

Archivio Suore Missionarie Gesù Crocefisso Tempio

Archivio Casa Provinciale Figlie della Carità Cagliari

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