Padre Paolo Serra di Chiara Lovisi

11Paolo Serra è stato per quattro anni mio compagno presso il seminario turritano di Sassari (1951-1955). Insieme abbiamo frequentato due anni di scuola media e gli anni del ginnasio. Lui era di Mores ed io di Chiaramonti. Nel settembre del 1955 io partii per Aversa (Caserta) e ci separammo senza incontrarci se non una sola volta nella sacrestia della parrocchiale di Mores. Ebbi la sensazione che fosse del tutto cambiato. Forse non mi riconobbe o forse era amareggiato. Preferisco ricordarlo ragazzo, studente diligente e compagno sereno e fervoroso nella preghiera. Ha dato la vita per l’Africa, spero di rivederlo un giorno lassù, finalmente beato e orante per la sua Africa. (A. T. )

È morto venerdì in Uganda il religioso comboniano che raccomandava ai suoi volontari di non voler mai primeggiare ma di passarsi il testimone della carità

Per 32 anni ha svolto con amore, gioia e dedizione il proprio servizio in Uganda tra una popolazione sconvolta dalla povertà e dalla guerra. Era il 28 giugno 1964 quando padre Paolo Serra, nato a Mores (SS) nel 1937, partiva per il Continente nero. Appena due anni dopo aver pronunciato i voti nella famiglia comboniana. Venerdì scorso, complice un’emorragia interna, il missionario ha compiuto il suo ultimo viaggio verso quel Padre che in vita ha sempre servito con gioia e umiltà, assicurano i volontari dell’Acse (Associazione comboniana migranti e profughi) di cui è stato anche responsabile dal 1996, quando era rientrato dall’Africa, fino al 2005. In questo periodo si era occupato in modo particolare degli immigrati a Roma prima di ripartire per una nuova missione. All’inizio di quest’anno, con grande gioia aveva accolto la notizia della sua nuova destinazione missionaria: ancora in Uganda, nella capitale Kampala, per svolgere la sua missione tra i giovani, verso i quali ha sempre manifestato una simpatia e un affetto particolare. A salutarlo, durante la sua ultima celebrazione all’Acse, c’era una gran folla: rappresentanti di associazioni laiche e religiose, amici, confratelli, rappresentanti delle autorità politiche locali, perfino l’elemosiniere del Santo Padre, monsignor Oscar Rizzatto.

images-6Durante l’omelia, aveva passato il testimone al suo successore, il ruandese padre John Bosco, rallegrandosi che nella città di Roma si stesse in quel momento realizzando il sogno di Comboni: salvare l’Africa con l’Africa. Aveva poi rivolto ai volontari un appello accorato: «non dovete giocare al tiro alla fune, ma alla staffetta». In questo modo, raccomandava loro di non essere competitivi, di non cercare di «primeggiare», neanche nella bontà e nella carità, ma di porsi l’uno accanto all’altro, per portare insieme avanti un progetto comune, che ha bisogno della forza di tutti. Il 4 marzo 2005, padre Paolo era così atterrato in Uganda, per mettersi subito al servizio di quella gente, che non aveva mai smesso di sentire come la «sua» gente. Venerdì scorso la sua esistenza si è spenta.

images-8« Per i volontari, per gli immigrati, per quanti hanno avuto modo di incontrarlo e conoscerlo, padre Paolo è stato un padre, un amico, un sacerdote e molto altro ancora», scrivono i volontari dell’Acse, annunciando la sua morte. «Ci ha consegnato il suo testimone: credere che le cose possono essere migliorate, pure tra mille difficoltà. Con la buona volontà e molta semplicità è possibile realizzare insieme grandi imprese d’amore. Ed è questo che noi desideriamo testimoniare. La vita di padre Paolo continua. Continua con noi la sua missione, una missione di cui è difficile enumerare gli effetti, perché si moltiplica in ciascuno e in tutti».


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