Scuola e fascismo in Sardegna
Fabio Pruneri
La scuola durante il fascismo in Sardegna negli anni del consenso: cronache e osservazioni degli insegnati di Bono, Bosa, Mussolinia, Orune
“Se fossimo delle scrittrici valenti, se le nostre parole avessero carattere di vera letteratura, se queste pagine potessero in qualche modo giovare a qualche cosa, non nego che varrebbe la pena scrivere queste righe. Ma per noi non hanno proprio nessun valore. Gli alunni non le sospettano nemmeno e i nostri superiori non hanno tempo da perdere. Si fa perché si deve fare: ‘Obbedisco’ ”.
Il fascismo in Sardegna
Il prezzo pagato dalla Sardegna per la Prima Guerra Mondiale fu notevole: dei quasi 100.000 mobilitati tra il 1915 e il 1918, poco più dell’11% della popolazione complessiva, ben il 17% morì o risultò disperso . Nella Brigata Sassari passarono pressoché tutti i sardi aventi obblighi di leva, sicché si può dire che l’evento bellico toccò ogni villaggio dell’isola. Questa esperienza nelle diverse regioni d’Italia, ma in Sardegna, forse più che altrove, fece comprendere a contadini, pastori, artigiani e operai – cioè alle classi sociali più rappresentate nelle truppe – che era impossibile restare estranei a ciò che accadeva nel mondo. Per tale ragione l’evento bellico si configurò come un vero e proprio tornante nella storia sociale e politica della nazione e dell’isola.
La Sardegna nel censimento del 1921 contava 864.174 abitanti e oltre la metà delle famiglie basava il suo reddito su attività legate all’agricoltura. Le condizioni complessive della popolazioni erano di poco sopra la sussistenza, mentre il costo della vita, dopo l’evento bellico era cresciuto sensibilmente. L’isola non aveva goduto dei vantaggi derivanti dalle commesse militari poiché gli utili dell’industria mineraria non restarono nella regione e i prodotti agricoli erano acquistati secondo prezzi imposti. Stanti queste premesse, è chiaro come il problema dei reduci e dello sviluppo economico post-bellico fosse particolarmente avvertito. Coloro che avevano combattuto tornarono ai loro sperduti villaggi con una consapevolezza civile nuova e con una volontà di riscatto e di rivincita difficilmente contenibile all’interno delle forme di partecipazione politica sperimentate nella fase liberale.
“Nel martirio della guerra”, per dirla con le parole di una rivista di combattenti, la Sardegna passò dall’essere “una grande terra ma senza anima e senza voce” ad una “cosa vivente … una collettività”.
Le elezioni politiche del 1919, le prime dopo la conclusione del conflitto, portarono in alla grande affermazione dei combattenti, alla sostanziale tenuta dei partiti moderati e all’insuccesso dei socialisti, questi ultimi, in controtendenza rispetto ai risultati nazionali. Nell’isola, il movimento sorto al termine della Grande Guerra ottenne quasi un quarto del totale dei consensi, contro il 3,4% della penisola, segnando un tratto peculiare della vita politica sarda. I voti dati a questa nuova compagine vennero raccolti prevalentemente nei territori agro-pastorali, dove più incisivi erano stati i rapporti con il fronte e dove lo sforzo bellico venne maggiormente avvertito. Il successo derivò anche dal programma rivoluzionario messo in campo, centrato essenzialmente sulla richiesta di autonomia e sulla speranza di fare della Sardegna una terra indipendente e libera. I dirigenti del movimento: Lussu, Bellieni, De Lisi, Puggioni, Mastino, Oggiano, per citare i più rappresentativi, erano in prevalenza giovani che, pur rifacendosi ad un certo riformismo ispirato da Salvemini, da Labriola, dalle correnti marxiste e al sindacalismo del primo Novecento, seppero coniugare istanze di rinnovamento del proletariato alla questione sarda, facendo anzi di quest’ultimo aspetto un patrimonio di massa.
Gli scioperi del settore minerario, contenuti nel 1920 attraverso azioni violente di ristabilimento dell’ordine pubblico, avevano nel frattempo dato fiato alla componente massimalista e radicale del movimento socialista. L’impossibilità di conciliare le diverse anime presenti nella sinistra avrebbe portato, di lì a poco, a livello nazionale, alla crisi del socialismo e alla nascita – nel gennaio del 1921 – del Partito comunista d’Italia.
Nell’aprile dello stesso anno l’associazione combattenti decise di dar vita al Partito sardo d’Azione (Psd’A), sulla base di una piattaforma autonomistica di forte rivendicazione degli interessi locali (come attestato dal suo stesso nome) contro le pretese egemoniche dello Stato usurpatore. Ma il Psd’A, lungi dal centrare la sua prospettiva politica nell’ambito dei villaggi isolani aveva anche la pretesa di raccogliere attorno a sé, le istanze di rinnovamento della politica nazionale emerse in tanta parte del Meridione.
La nascita del fascismo in Sardegna si colloca in questa temperie sociale e viene fatta risalire all’emergere nella Gallura, zona di forti insediamenti operai per via di centri della lavorazione del sughero (Tempio), dell’area portuale (Terranova, attuale Olbia), della cantieristica navale (La Maddalena), e soprattutto nei bacini minerari dell’iglesiente di gruppi di giovani, spesso ex ufficiali, animati da sentimenti di ostilità alle pretese operaie e socialiste. Gli albori dell’esperienza fascista nell’isola si intrecciano quindi con i postumi della vicenda bellica e con la situazione di crisi che aveva colto molti settori produttivi alla fin degli anni Dieci del XX sec.
Potremmo dire, semplificando, che ad essere più sensibili alle istanze del movimento fascista furono i giovani, prevalentemente d’estrazione borghese, operativi nei centri urbani. Non pochi tra costoro erano professionisti, studenti e in qualche caso insegnanti. D’orientamento fascista, pur con genesi ed esiti diversi, furono anche i maggiori quotidiani: “L’Unione Sarda” e “La Nuova Sardegna”, rispettivamente rappresentativi dei dibattiti e degli interessi del Capo di sotto e del Capo di sopra dell’isola.
Allo stato attuale degli studi, pare assodato che al momento della “marcia su Roma” i fascisti in Sardegna fossero, comunque, un’esigua minoranza, che però poteva contare, qualche consenso in forza del richiamo ad alcuni temi, come quelli del combattentismo, cari al movimento sardista.
Il successo, benché appunto sostanzialmente modesto, del movimento fascista, nacque da una sorta di “fraintendimento”: per Mussolini si trattava di “normalizzare” la Sardegna inserendo l’intero Partito sardo d’azione nel giovane Partito nazionale fascista, mentre per i sardisti occorreva, appunto, “sardizzare” il fascismo rendendolo funzionale ai progetti e alle battaglie azioniste. Non è il caso di soffermarsi troppo su questo misunderstanding, è del resto noto come Emilio Lussu divenne rapidamente una delle voci più ferme nell’opposizione al regime, subendo, per questo, una dura repressione. Ciò che interessa, soprattutto per una lettura della politica scolastica del regime nell’isola, è considerare come, anche nella scuola la dittatura operò come un Giano bifronte nei confronti della Sardegna ossia fu ostile alle pretese autonomistiche, ma al tempo stesso avviò speciali interventi di sostegno e sviluppo locale. Per esempio, fu proprio su pressione di parte degli ex sardisti, ormai “accasati” nel fascista, che nel 1924 il Governo emanò la cosiddetta “legge del miliardo”: un provvedimento straordinario per lo sviluppo dell’isola.
Il fascismo ebbe quindi il volto autoritario e premuroso ad un tempo, capace di frenare ogni libera iniziativa, ma anche sollecito nel dar corso alla modernizzazione, con la realizzazione di importanti opere pubbliche: acquedotti, fognature, strade, porti, cimiteri e anche, ed è quello che più interessa in questo caso, scuole e istituzioni finalizzate all’educazione e all’assistenza.
La ricostruzione del ruolo del fascismo in Sardegna non può prescindere da alcune considerazioni sulla politica economica e agraria. L’impegno per la bonifica integrale alimentata da cospicui finanziamenti pubblici ebbe la massima realizzazione con l’edificazione nel 1928, sulla piana di Terralba, di un insediamento che diverrà comune nel 1930 con il nome di Mussolina (oggi Arborea). Ad esso seguiranno altre realizzazioni come, per esempio, a nord di Alghero la fondazione della cittadina di Fertilia. Nel 1938, l’intervento più vistoso, nel solco di un uso “spregiudicato” delle risorse del suolo sardo da parte del fascismo, vi fu la realizzazione di Carbonia, centro minerario sorto in brevissimo tempo per rispondere alle esigenze energetiche della penisola, ormai orientata ad un sistema economico protezionistico e autarchico.
E’ noto come un punto di forza del fascismo fu costituito dalla sua capacità di mobilitare le masse, attraverso forme di aggregazioni e politicizzazione (saggi, adunate, celebrazioni, feste) rivolte soprattutto ai giovani, ma in grado di coinvolgere tutta la popolazione. La scuola esercitò un’importante funzione all’interno dello Stato che non si limitava ad essere, secondo lo schema risorgimentale, la Patria unita in cui gli italiani potessero identificarsi, ma, gentilianamente, lo Spirito supremo, il Sommo educatore.
La presente indagine, svolta sulla scorta dell’analisi dei registri scolastici di quattro comuni del centro nord Sardegna: Bono, Bosa, Mussolinia, Orune, mira ad analizzare la solidità del consenso e ad approfondire quei sentimenti espressi più o meno platealmente sulla piazza. Da questo punto di vista le cronache degli insegnanti appaiono, se usate criticamente, un suggestivo strumento investigativo che consentono di avviare, secondo l’auspicio di Girolamo Sotgiu, analisi articolate dei diversi strati sociali, anche in riferimento alle varie fasi del fascismo e alle generazioni che nel Ventennio si sono venute succedendo.
I registri scolastici
Preliminarmente all’uso di queste fonti occorre riflettere proprio sulla compilazione dei giornali di classe e del registro, nelle diverse forme che questi documenti assunsero fin dall’Unità non solo come strumento burocratico, descrittivo della vita della classe e protocollo d’osservazione e valutazione degli alunni, ma anche come collegamento tra maestro e amministrazione comunale, prima, tra organismo periferico (l’insegnante, la classe, la singola scuola) e potere centrale (il direttore, il provveditore, il ministro), poi. Bisogna cioè tener presente che la relazione finale era utilizzata dalle classi dirigenti comunali per ottenere elementi di giudizio sull’operato dei suoi dipendenti (i maestri) e sulla condotta degli allievi e delle famiglie, soprattutto in ordine al rispetto degli obblighi di frequenza.
Il registro era, quindi, uno strumento di controllo in due direzioni: maestro à alunno, ma anche amministrazione à maestro. Tuttavia, oltre alla componente ufficiale e ad un certo schematismo, pienamente giustificato alla luce dello scopo per cui la documentazione fu prodotta, l’elemento autobiografico, soggettivo ed emotivo connota molte pagine delle relazioni finali e dei giornali degli insegnanti permettendo al lettore di cogliere le condizioni di lavoro dei maestri e in generale della vita della comunità in cui essi operavano.
E’ bene aggiungere che i registri cambiarono nel corso del tempo. Verso la fine dell’Ottocento, per esempio, si insistette molto non solo sull’uso didattico, ma anche su quello “morale” del registro. Scriveva in proposito l’autore di un manuale per gli alunni delle scuole normali:
“Un buon mezzo educativo e disciplinare che, però è quasi sempre trascurato nelle scuole è l’uso del registro. Questo benedetto fascicolo è, in generale, una cosa ignota agli scolari; il maestro vi segna di tanto in tanto i punti di merito, ma lo tiene gelosamente custodito nel cassetto come so fosse il libro di qualche sibilla. Il suo uso dove essere non solo segretariesco, ma anche, e soprattutto, psicologico. Bisogna che, il registro prenda vita sotto il gioco didattico del maestro, che sia sempre aperto agli alunni, che diventi il termometro della loro moralità, se ha da avere qualche effetto buono sulla disciplina. Il maestro deve saper avvezzare gli alunni a sentire il compiacimento di aver meritato un dieci o una nota di lode sul registro e la vergogna d’una nota di biasimo o d’un cinque. E il registro dovrebbe avere in fine una pagina d’onore, nella quale si scriverebbe il nome degli alunni che man mano se ne rendessero meritevoli, restando agli atti nella scuola come documento del loro merito”.
Il Registro annuale dei primi del ’900, abbastanza facilmente reperibile nelle scuole, contiene importanti informazioni sul docente: percorso professionale, dati anagrafici, aspetti inerenti alla patente magistrale e ai servizi prestati nei diversi comuni, cenni sulla data di nomina e indicazione dello stipendio percepito. In esso troviamo un prospetto statistico della classe con orario e libri di testo adottati. Di ogni alunno possiamo conoscere gli elementi relativi al profitto scolastico: valutazioni in tutte le materie, scritte, orali e pratiche (lavori donneschi ed educazione fisica), frequenza, stato di salute; ma anche altre preziose informazioni anagrafiche relative ai genitori, alla loro attività professionale, e alla loro condizione economica, comprese eventuali forme assistenziali (libri e refezione gratuiti, ecc.). Si tratta di indicazioni importanti per un’analisi quantitativa, ma anche qualitativa della scuola (pensiamo all’incrocio tra fattori economici e riuscita negli studi). Tali dati vanno poi integrati con quelli del Registro degli scrutini e soprattutto del Registro – Relazione annuale.
Nel corso del tempo la relazione finale dell’insegnante si è standardizzata, tanto che, in alcuni casi, essa era addirittura pre-stampata e ai maestri restava il compito d’inserire e completare i dati mancanti. In ogni caso, nonostante il consolidarsi di alcuni stereotipi redazionali, la relazione conclusiva è un efficace quadro di sintesi del lavoro didattico.
Solo con il fascismo abbiamo uno strumento unico (Diario di classe poi Giornale di classe) in cui sono previste le seguenti articolazioni: Notizie statistiche (Elenco alunni, iscrizione, assenze); Programma didattico per gruppo di lezioni da svolgersi nell’anno; Attività mese per mese; Registro delle qualifiche degli alunni; Cronache ed osservazioni dell’insegnante sulla vita della scuola; Registro degli scrutini e esami. La sezione Cronaca ed osservazioni dell’insegnante agevola notevolmente lo studio delle pratiche didattiche e consente anche, come vedremo, di conoscere l’attività scolastica in rapporto agli eventi che toccano la vita della comunità in cui a scuola è inserita. Anche rispetto alla valutazione si introdussero due nuovi elementi: le Note di carattere: Condotta, volontà e carattere dimostrati nella ginnastica e nei giochi, rispetto per l’igiene e pulizia personale a cui seguiva l’elenco tradizionale delle discipline. Le materie furono distribuite secondo uno schema che poneva al primo posto, secondo i dettami delle riforme del 1923, la Religione a cui seguivano gli Insegnamenti artistici: Canto, Disegno e Bella scrittura, Lettura espressiva e recitazione, quindi Lingua italiana (ortografia e lettura), Aritmetica, Geografia, Storia, Scienze fisiche e matematiche, Nozioni di diritto ed economia domestica, Lavori donneschi e manuali. Nelle annotazioni venivano indicate anche le “osservazioni sulla collaborazione della famiglia, sui premi e sui castighi avuti durante l’anno”.
Con l’istituzione dell’Opera Nazionale Balilla (1926) e con l’avvio del processo di fascistizzazione (verso la fine degli anni Trenta) nei registri, ora stampati centralmente a Roma e non più localmente, sono contenute indicazioni non solo sullo svolgimento dei programmi didattici, ma anche osservazioni su “obbligatorietà, cultura fascista, numero d’iscritti all’ONB e andamento della Giornata balilla e della festa del balilla”.
Negli anni della guerra a fare le spese delle minori risorse a disposizione del Ministero dell’Educazione Nazionale fu anche la regolare fornitura dei Giornali di classe, così che i maestri dovettero trascrivere a posteriori il diario delle attività in precedenza annotato su quaderni e fogli sparsi. Questi elementi inducono a maneggiare con attenzione una fonte storica così abbondante, capillare come quella prodotta dagli insegnanti durante il Ventennio. In ogni caso la cronaca analitica della vita della scuola, merita d’essere impiegata almeno in una duplice direzione: la cognizione di ciò che accade nelle singole realtà scolastiche e la comprensione di come si andò costruendo in periferia l’immaginario ideologico-nazionale (mito di Roma, fede nel duce, culto del littorio) così largamente impiegato dal fascismo.
L’indagine sui registri dei comuni del nord Sardegna
Le ricerche condotte sui registri nel Ventennio dalla cattedra di Storia della scuola e delle istituzioni educative dell’Università degli Studi di Sassari, mi inducono a suggerire metodologicamente alcune accortezze che sarebbe opportuno tener presente in ricerche di questo tipo.
La prima avvertenza è quella di prendere in esame un campione il più possibile ampio di cronache, così da “stemperare” l’inevitabile carico di soggettività che potrebbe portare ad ingenue generalizzazioni. I redattori delle note, cioè i maestri, mostrano infatti sensibilità diverse e un grado variabile di “affezione” al regime.
Inoltre occorre considerare la periodizzazione: il fascismo ebbe dal 1922 al 1943 una sua dinamica evolutiva ed è impensabile che ciò non abbia prodotto influenze su un mondo, come quello scolastico, sempre molto allineato alle decisioni dei vertici e attento alle direttive intellettuali e culturali.
Infine, sarebbe opportuno tentare una lettura dei registri in senso diacronico seguendo l’avventura professionale dei singoli maestri nel corso del tempo. Se lo studio in parallelo delle relazioni degli insegnanti consente di cogliere in termini di contemporaneità le differenze di giudizio dei singoli sui medesimi eventi, una migliore valutazione degli atteggiamenti della classe magistrale nei confronti del regime si ha anche tenendo d’occhio un campione di maestri nel volgere degli anni.
Non è certamente questa la sede per una ricerca esaustiva del fascismo e della scuola in Sardegna, ho qui preferito lavorare su un numero limitato di comuni utilizzando i registri all’incirca del decennio 1928-1938. In tale periodo il regime si consolidò, mobilitò un ampio apparato di propaganda e ottenne – almeno fino al 1936, secondo la classica periodizzazione di Renzo De Felice – un consenso diffuso. Bono, Bosa, Orune e Mussolina sono paesi molto diversi tra loro, ma pur nella loro tipicità rappresentano contesti in qualche modo emblematici per valutare la penetrazione del fascismo in centri che potremmo considerare “minori” sia rispetto ai grandi agglomerati urbani dell’isola, sia in rapporto ai ben più produttivi paesi rurali dell’Italia continentale.
Bono è un piccolo comune al centro della Sardegna, in provincia di Sassari in una zona denominata Goceano. L’aria “finissima” e l’acqua “fresca” costituirono le principali ricchezze di un borgo che, pur con un numero modesto di abitanti, all’incirca 5.000 era punto di riferimento dell’intera valle del Tirso. La salubrità dei due elementi potrebbe apparire poca cosa, ma così non era se si considera da un lato la vocazione agro-pastorale di Bono e dall’altro che la malaria e la difficoltà di reperimento dell’acqua costituivano negli anni Trenta una costante per molti paesi dell’isola.
Bosa, collocata nella costa nord-ovest della Sardegna, è capoluogo della Planargia. La felice posizione geografica, alla foce del fiume Temo, le diverse attività economiche e culturali dei secoli passati ne fecero uno dei centri più vivaci anche durante il primo dopoguerra e il Ventennio.
Mussolina costituisce un caso a sé, trattandosi di una città di fondazione. Essa sorse nel 1928 nella piana di Terralba, presso Oristano; il paese diventò il fiore all’occhiello della politica ruralista avviata dal fascismo e attorno ai primi anni Trenta accolse oltre 160 famiglie di mezzadri, in massima parte provenienti dalla provincia di Rovigo (Polesine), Cremona, Vicenza, Forlì, Venezia, Udine, Mantova, Agrigento e Cagliari.
Orune, paese posto nella Barbagia di Nuoro, è situato su un ripiano montano-collinoso a 750 m. sul livello del mare, circondato da profonde valli. Il suo territorio è occupato da boschi di querce e lecci, i pascoli sono poco fertili, la siccità e la forza dei venti rendono particolarmente difficoltoso lo sfruttamento agricolo dei terreni. Nel periodo fascista la cittadina, complice la politica demografica del regime, giunse a contare oltre 5.000 abitanti contro i 3027 del censimento del 2001.
Bono
La scuola a Bono faticò ad affermarsi come necessità ed obbligo. Le strutture fatiscenti e insalubri nei quali si svolse l’attività scolastica per tutto il periodo preso in esame attestano, direi quasi fisicamente, la difficoltà di conciliare bisogni primari di sussistenza e doveri formativi di alfabetizzazione. La maestra Maria Pilo, appena giunta a Bono, senza risparmiare nulla all’immaginazione, descrive così il suo luogo di lavoro:
“Eccomi a Bono, mia nuova residenza. […]. La prima impressione ricevuta è stata buona. Mi reco subito dal maestro coadiutore il quale mi fa conoscere l’aula scolastica a me destinata.
Appena entrata ho sentito uno stringimento tale al cuore da farmi rabbrividire alquanto tanto brutta a me s’è presentata l’aula ove io vi dovrò trascorrere tante e poi tante ore. La stanza è buia, con una piccola finestra esposta a mezzanotte e per di più prospiciente ad un mondezzaio, una porta mezzo sgangherata, provvista di tante fessure, nelle quali vi penetra il vento che impetuosamente ulula facendo tremare per il freddo i poveri piccini”.
Forse peggiore è l’aula descritta da un’altra insegnante, che probabilmente non del tutto digiuna del dibattito pedagogico in corso a quel tempo, si chiedeva come si potessero applicare metodi didattici innovativi in un contesto così dimesso:
“L’aula […] presenta qualche inconveniente, più che a locale scolastico vorrebbe adibita a magazzino. È molto larga e poco lunga, e per metà priva di luce, inoltre avendo il soffitto di tavole si sentono i rumori e le chiacchiere di coloro che abitano il piano superiore. L’igiene poi è completamente bandita, si respira polvere molto spesso, o perché il vento apre la porta d’entrata, che cede alla più lieve spinta, e stabilisce la corrente, sollevando la polvere e portando dentro le immondizie della strada, oppure perché gl’inquilini del primo piano spazzano il tavolato quasi sempre durante l’orario scolastico.
Io spero che la polvere che entra nella mia aula sia asettica, altrimenti in poche mesi di scuola si diventerebbe tubercolotici.
La disposizione delle alunne nei banchi è in contrasto con le più elementari norme igieniche; in ogni banco vi sono non meno di sette bambine ed in alcuni ve ne sono otto e nove, mentre non ve ne dovrebbero essere più di cinque. E ciò costituisce anche un ostacolo alla disciplina poiché spesso accade che qualche bambina che si vuole comoda spinge le compagne e fa cadere dal banco quella che è seduta in cima, suscitando risate, grida e lamenti.
Altro che scuola attiva! Si può chiamare passiva la mia se si pensa che invece di offrire i mezzi necessari per render la vita scolastica una continuazione della vita familiare, impedisce alle alunne il minimo movimento. Ed è facile capire quale sacrificio sia per le alunne che data la loro età si vorrebbero libere di muoversi a loro piacere”.
L’incuria e l’assenza di un immobile deputato specificatamente all’uso scolastico dimostrano come, a Bono la politica del regime, tesa ad offrire servizi pubblici a tutti i comuni dell’isola, si sia dimostrata, alla prova dei fatti, fallimentare. Ancora nell’anno scolastico 1938-39 ad oltre quindici anni dal primo governo Mussolini, un’insegnante denuncia l’assenza nell’aula di banchi, dell’attaccapanni e persino del crocifisso.
Una collega, a proposito della carenza di arredi, sarcasticamente scrive:
“Non c’è da sperare in un provvedimento delle autorità, perché sono solite promettere e non mantenere. Io non so a quale espediente possa ricorrere l’insegnante in un caso simile. Ve ne è uno solo: far prendere alle alunne durante la scrittura la stessa posizione che prendeva Giotto, quando conduceva le pecore al pascolo, per disegnare. Io non so se le mie alunne avranno la stessa abilità del pittore fiorentino e riusciranno a scrivere bene; ne dubito molto mentre non dubito che i superiori mi chiederanno conto della brutta scrittura delle alunne”Leggi tutto,
E’ una nota che sorprende per la schiettezza, ma è comprensibile di fronte all’esasperazione della classe docente locale. Al contrario dell’arredo, fatiscente o del tutto assente, sporcizia e polvere saranno sempre abbondanti nelle aule del piccolo centro del Goceano:
“La mia aula è una delle più grandi; […] L’ingresso, che consiste in una piazzetta aperta al pubblico, è molto sudicio, perché se ne servono come cesso, quelli del vicinato”, e ancora “Oggi l’aula è invasa dalle mosche che disturbano i bambini. Ciò non sorprende perché di fronte vi è il mondezzaio pubblico”.
La popolazione sembra resistente ai cambiamenti e percepisce la frequenza a scuola come un intralcio al normale dispiegarsi della vita del villaggio basata su magri bilanci costruiti su un largo impiego di mano d’opera minorile. I piccoli vengono usati per la vendemmia, raccolta di legna e erbe, accadimento degli animali, nel caso dei maschi, cura domestica e assistenza a fratelli più piccoli, nel caso delle femmine. L’economia stentata accompagna tutto il Ventennio e a nulla paiono servire gli stimoli all’innovazione, soprattutto in campo agricolo, provenienti dalla propaganda fascista.
L’indigenza e la sofferenza fisica della popolazione produce inevitabili ricadute sull’attività produttiva del paese e anche su quella didattica. La frequenza è perennemente osteggiata da varie malattie: oltre a morbillo, otiti e influenze, erano molto diffusi, a causa delle condizioni igieniche precarie, il tifo, la scarlattina, il tracoma, la congiuntivite, la tigna, gli eczemi e varie malattie al cuoio capelluto.
Di fronte a questo contesto la scuola assolve più che compiti didattici opera d’incivilimento. Un’assidua battaglia contrappone i maestri alla famiglia rispetto all’acquisizione di normali abitudini igieniche. Scrive preoccupata una maestra:
“Si è tutti i giorni da capo per la pulizia. Nonostante le continue mie insistenze molti si presentano ancora sudici, nelle orecchie e nelle unghie e moltissimi negli abiti. Ciò, non dubito, dipende dall’abitudine già acquistata in famiglia e dalla noncuranza delle mamme”.
La questione dell’igiene è assillante, ma a nulla valgono i richiami, tanto che spesso gli insegnanti decidono che è meglio far affidamento sulla buona volontà degli scolari e sull’educazione alla pulizia in aula che delegarla alle cure domestiche:
“Il Signor Direttore aveva trovato molta poca pulizia negli scolari. Continuerò a far lavare i più sporchi a scuola giacché il mandarli a casa è inutile in quanto o non tornano o tornano più sporchi di prima”.
E ancora nel 1933:
“Non tutti hanno preso l’abitudine di venir puliti. Passati i primi giorni le mamme hanno trascurato, pare, questo loro dovere e i bambini non sanno da soli adempiere a ciò bene. Insisto molto a tal riguardo e presento alla loro osservazione un bambino pulito e uno sudicio e faccio notare com’è più bello il pulito e con quanto piacere si tiene vicino a differenza dell’altro. Do le prime norme per far la pulizia quotidiana: pulizia del viso, del collo, delle orecchie, della testa, delle unghie e dei piedi, poiché la maggior parte sono scalzi”.
Infine, l’anno successivo:
“Effettivamente anche se noi li rimandiamo indietro [si riferisce agli scolari] per 2 o 3 volte ci ritornano ugualmente mal lavati perché le mamme di nulla si curano. Ma quello che maggiormente impressiona è il vedere le condizioni degli abitini, luridi e disordinati. E le mamme trovano mille scuse: che non hanno sapone, non hanno filo, non hanno pezze per i rattoppi. C’è tanta miseria è vero, ma c’è anche tanta incuria!”.
In questo contesto è inevitabile che l’opera di fascistizzazione proceda a rilento, nonostante il generoso impegno della classe magistrale.
Lo zelo di una maestra è tale che la commemorazione in classe della Marcia su Roma avviene “parlando in dialetto per essere da tutta bene capita”, contro i regolamenti che impongono l’uso esclusivo della lingua nazionale. Attraverso l’idioma locale l’insegnante cerca “di commemorare il grande avvenimento”, parla “del Duce che ha dedicato tutta la sua opera illuminata per l’elevazione della Patria Nostra e ricorda “tutti i provvedimenti da Lui presi in favore dell’Isola”.
Esplicativa, in proposito, è la testimonianza dell’insegnante Pirino nel novembre del 1933:
“Ecco venuto il periodo più temuto dalle maestre: quello del tesseramento. È una cosa molto difficile ottenere che quasi tutte paghino la tessera, come desiderano i nostri superiori e come noi vorremmo”.
In poche battute la docente da un lato prende le distanze dal desiderio vivissimo, soprattutto delle autorità, d’un tesseramento totalitario degli alunni, dall’altro spezza una lancia a favore delle famiglie, che, già allo stremo delle loro disponibilità finanziarie, non possono concedersi alcuna spesa straordinaria:
“Nonostante la nostra propaganda, fatta a volte con buone maniere a volte coi mezzi persuasivi che sono a nostra disposizione, non riusciamo ad ottenere il risultato desiderato. Parecchie mamme vengono ad esporci le condizioni finanziarie delle loro famiglie che non permettono in alcun modo di sopportare la spesa, per loro non indifferente, della tessera; se poi si considera che vi sono famiglie che hanno anche tre figli a scuola e che dovrebbero andare incontro ad una spesa di 18 lire, tra tessera e pagella, manca il coraggio d’insistere. Ho raccomandato il pagamento rateale a quelle che non possono pagare la tessera completa, fatto anche in natura con uova, carbone e simili; chissà che riesca ad ottenere qualche cosa”.
A premere per il completo tesseramento erano soprattutto i superiori, che, forse perché ignari delle reali condizioni del territorio, avanzavano proposte considerate inaccettabili dalle insegnanti, le quali, a differenza dei primi, potevano vantare una straordinaria conoscenza del sistema produttivo e delle reali possibilità economiche delle famiglie.
Emblematica mi pare questa testimonianza:
“Mi dimenticai di annottare ciò che il Direttore ci disse a tutto il corpo insegnante riunito il 17 a sera, cioè di curare molto il tesseramento dei Balilla e delle Piccole Italiane, anche degli scolari poveri ai quali si può consigliare, per riuscire al pagamento della tessera, di portare legna, asparagi o altre erbe della campagna nei giorni di vacanza. Io avrei voluto far osservare al Superiore che i bambini poveri lo fanno già di portare legna, asparagi o altro, ma lo fanno per gli altri bisogni impellenti della famiglia. Non ebbi il coraggio di parlare. Chissà che qualche bambino possa farlo. Io ho le femminuccie quindi non potrò neppure parlare di questo ripiego. Intanto 4 o 5 delle povere della mia classe si sono tesserate in vista della divisa loro promessa gratis e consegnata, infatti, il giorno 10 marzo quando distribuirono pure generi alimentari a gran parte dei poveri del paese”.
E’ evidente come la maestra non solo giustifichi l’atteggiamento “resistente” delle famiglie, mettendo l’iscrizione alle organizzazioni giovanili fasciste tra le spese secondarie rispetto ad altri “bisogni impellenti”, ma quasi “legittimi” il tesseramento alla luce dei vantaggi materiali che produce: “4 o 5 delle povere della mia classe si sono tesserate in vista della divisa loro promessa gratis”.
L’iscrizione alle organizzazioni giovanili fasciste coinvolge in prima persona gli insegnanti che, in cambio dell’adesione, promettono benefici e provvidenze. Ma ben presto il regime si mostrò incapace di fare fronte a quanto assicurato, così nacquero lamentele. Si prenda, ad esempio, il seguente caso:
“Si era promesso che ai poveri che avrebbero pagato la tessera, si sarebbe dato il libro ed in varie classi il maestro è dovuto venir meno alla parola data, perché i libri non sono stati sufficienti. Quindi, lamenti degli alunni, giuste quelle dei genitori, che mi hanno fatto prendere la determinazione di sbarazzarmi della carica di segretaria, poiché comprendo che le mamme hanno tutte le ragioni di questo mondo per parlare come parlano e che si potrebbe venire un po’ in aiuto alla estrema indigenza di tante famiglie di parecchi scolari col provvedere ciò che è necessario per la scuola perché i soldi ci sono, e non si può farlo perché le disposizioni dei superiori lo vietano”.
Provveditore, ispettore e direttore nelle loro visite, per altro molto rare qui, rispetto a Bosa e Mussolinia, paiono molto preoccupati del successo dell’opera di animazione politica dei giovani e per questo insistono sulle maestre perché a loro volta trovino il modo di convincere le famiglie. Nel 1928 una maestra scrive, in tutta sincerità, che “per ordine superiore si invitano le alunne piccole italiane ad assicurarsi”, dove è evidente una certa distanza tra insegnante e autorità. Otto anni dopo un’altra maestra scrive:
“Quest’anno per poter riuscire ad ottenere il tesseramento totalitario in tutte le classi, si è deciso di chiedere il pagamento della tessera e della pagella sin dal momento dell’iscrizione, si è ottenuto qualche cosa specialmente in alcune classi, ma nelle prime ben poco. Ne ho parecchie complete, spero fra qualche settimana di poterne ordinare una ventina, altre hanno cominciato a pagare ratealmente, ma molte mamme mi pregano di attendere ancora e promettono di pagarla appena potranno, anche a costo di qualche sacrificio. E bisogna pure aver pazienza ed attendere, poiché quando si legge sui volti delle mamme e dei bambini la miseria e la privazione del necessario, quando si vedono le piccole venire a scuola nei giorni freddi e piovosi scalze e coperte da un vestito logoro, non si trova più il coraggio di insistere perché paghino al più presto la tessera, e se si potesse si darebbe loro anche qualche piccolo aiuto”.
L’impresa del tesseramento totalitario non era agevole:
“Ho avuto comunicazione della circolare del R. Provveditore agli studi per la ‘Festa del reclutamento’ a favore dell’O. N. B. ho riparlato agli alunni del tesseramento perché tutti i non iscritti ne riparlino alla mamma e al babbo e li convincano a pagar loro la tessera o meglio si facciano da uno di essi accompagnare a scuola e ne parlerò loro io direttamente”
Nel corso degli anni qualcosa cambiò, le azioni coloniali diedero vigore alla propaganda: la rituale narrazione del gesto del primo Balilla si caricò, nel 1935-36, di connotati bellici e la notizia della “vittoria sugli abissini” accese speranze nella popolazione e “giubilo negli alunni”. Particolare successo ottenne in questi anni la campagna per l’offerta alla patria. I bambini si prodigarono nella raccolta di rottami di ferro, che deve servire “per fare un grosso cannone che deve uccidere tutti gli abissini”, per dirla con le parole di uno scolaro, orgogliosamente riportate nelle cronache. Punte di razzismo traspaiono dalla frase di un bimbo, anch’esse riprodotte fedelmente e con un certo compiacimento dalla maestra:
“Un altro scolaro invece, con gran serietà, mi ha consegnato stamane le canne di un fucile che servirà ‘per uccidere il Negus che è nero come il cane, così non mangerà più i cristiani bianchi’”.
Quale migliore occasione della commemorazione del 4 novembre per ricordare ai maestri i loro doveri patriottici? La circostanza non è sprecata, come si legge in una cronaca del 1938:
“Il Signor Direttore, giunto oggi con la prima corsa, ci ha riunito prima della funzione religiosa di commemorazione dei caduti di guerra, per darci le avvertenze necessarie per tutto l’anno. Si è compiaciuto del nostro accordo fra colleghi, della nostra salute, del nostro equilibrio morale, dell’essere riusciti ad ottenere che tutti gli alunni siano in divisa perché questo è segno di ordine, di disciplina ed invita maggiormente ad esse ed alla pulizia e rispetto verso la scuola. Ci ha incoraggiato e dato norme per come ottenere il tesseramento dei Balilla e delle Piccole Italiane”.
L’obbedienza dei maestri non è in discussione e soprattutto negli anni dell’Italia imperiale la propaganda diviene pressante, complice anche l’inserimento della nuova materia Educazione fascista:
“Con una circolare il Sig. Direttore raccomanda affinché il tesseramento nelle scuole sia totalitario. Questo è pure desiderio di ciascun insegnante. Su 52 frequentanti, i tesserati sono già 30 e parecchi altri hanno cominciato il pagamento. Continuerò ad insistere perché completino e si abbia il maggior numero possibile di tesserati”.
E’ significativo analizzare quantitativamente i dati e riflettere come, sul lungo periodo, complice le normative sempre più stringenti e la riorganizzazione dell’Opera Nazionale Balilla sostituita dalla Gioventù Italiana del Littorio, si sia giunti ad una iscrizione quasi totalitaria dei bambini. La tabella, per quanto limitata al solo campione degli alunni delle prime classi, evidenzia la curva delle iscrizioni alle organizzazioni giovanili fasciste e mostra, con evidenza, l’impennata corrispondente al periodo 1936-42.
Si nota anche una maggior efficacia nel tesseramento maschile, rispetto a quello femminile, salvo negli anni dell’iscrizione totalitaria.
E’ ovviamente presto per desumere considerazioni generali, certo l’esempio conferma la maggiore efficacia della propaganda degli insegnanti sulle famiglie dei bambini, rispetto a quella delle bambine. Altro dato molto curioso, che a mio giudizio comprova un’adesione di facciata e “opportunistica” alle organizzazioni giovanili fasciste è il fatto che per molti anni i tesserati risultarono più numerosi dei frequentanti. Questo prova che gli insegnanti, le famiglie e gli stessi aderenti alle organizzazione consideravano la tessera del tutto svincolata dalla frequenza alle aule scolastiche.
Attorno alla metà degli anni Trenta, gli echi dei successi delle campagne belliche in Africa giunsero anche a Bono e portarono una ventata di inatteso ottimismo. L’ “apatica” popolazione bonese, (per utilizzare l’aggettivo preso dalle cronache), troppo gelosa delle proprie tradizioni per poter cedere ai cambiamenti e alle proposte di modernizzazione di cui il regime si era fatto carico, accettò, questa volta, di sentirsi pienamente italiana e partecipò agli splendori della famiglia reale. Era un clima di festosità che raramente compare nelle cronache e che fa apparire quasi come carnevalesca la seguente nota:
“Anche la scuola ha partecipato con grande entusiasmo al lieto evento di ‘Casa Savoia’, la nascita del Principe Imperiale d’Italia. Il nipote del Re e Imperatore Vittorioso vede la luce mentre l’Italia ha raggiunta la sua perfetta unità materiale e spirituale, e con essa la potenza e la grandezza. Roma esulta e con essa tutta l’Italia. Da ogni città, da ogni casa italiana si leva un gioioso canto di fede nei destini della Dinastia, della Nazione e dell’Impero. Per il lieto evento la Nazione sarà imbandierata per tre giorni consecutivi”.
Bosa
Mentre a Bono il fascismo è vissuto e, per certi versi, quasi sopportato da una popolazione sfinita per le ristrettezze economiche, la situazione a Bosa appare diversa.
La cittadina della Planargia era notevolmente più florida: la fortunata collocazione geografica, in prossimità del mare e lungo un fiume navigabile, la presenza di vigneti e uliveti, la vicinanza di un vasto altipiano adatto alla pastorizia e lo sfruttamento di alcuni giacimenti metallurgici, avevano contribuito a fare di quel centro un punto di richiamo anche della vita economica, politica, religiosa e culturale di una porzione significativa di territorio a sud di Alghero.
Vari interventi architettonici anche nel ’900 avevano dotato la città di moderni edifici pubblici; meritano d’essere citati: il mercato civico, la sistemazione della foce del fiume Temo e, verso la fine del Ventennio, la realizzazione della scuola elementare.
Per ciò che attiene alla penetrazione del fascismo possiamo dire che la classe magistrale appare ligia alle indicazioni delle autorità scolastiche che si dimostrano estremamente accondiscendenti alle direttive provenienti dalla capitale. Così la circolare del direttore didattico di Macomer del gennaio 1928, che raccomanda di attenersi, per ciò che riguarda le organizzazioni giovanili, alla regola: “tanti iscritti, tanti Balilla”, viene accolta benevolmente dai docenti, subito disponibili a organizzare feste da ballo, recite, vendite di panini, lotterie con il pieno sostegno degli amministratori locali. Il segnale di un atteggiamento condiscendente dei maestri nei confronti delle assillanti sollecitazioni dei superiori si ha per esempio in occasione della richiesta di sostenere, con un finanziamento di 5 lire, gli orfani degli insegnanti elementari della provincia. Il “nobile intento umanitario” è appoggiato senza esitazione dai colleghi di Bosa, mentre a Bono, una maestra, contrariata, scrive:
“Mi è stata chiesta la quota di £. 3 per gli orfani dei maestri, che non ho versato perché a me, rimasta orfana d’un maestro a soli tre mesi non mi fu dato nessun aiuto e perché si verifica tutt’ora [sic] che gode alcuni benefizi sono sempre gli orfani dei maestri di città mentre quelli dei paesi sono quasi sempre dimenticati”.
Gli atteggiamenti di accondiscendenza si sprecano. In occasione delle visite di importanti personalità provenienti dal continente il provveditore, il prefetto e il direttore insistevano perché i docenti si preoccupassero di far indossare a tutti i balilla la divisa. E’ proprio l’insegnante, cuore di un sistema a cerchi concentrici, a non dar pace alle famiglie. L’uniforme, con il suo importante effetto coreografico, avrebbe infatti dato un’immediata immagine del grado di fascistizzazione del territorio e della capacità di mobilitazione politica degli educatori. Questi ultimi, fin dalla fine degli anni Venti, furono chiamati a prestarsi all’opera di propaganda con ogni mezzo, per esempio attraverso la diffusione e il commento anche in classe del giornale “Il Balilla”.
Eppure i motivi per qualche malcontento non dovevano mancare. La costruzione dell’edificio scolastico attraverso l’impiego dei fondi provenienti dalla legge del miliardo, già deliberata dal Commissario prefettizio il 19 maggio del 1927, faticò a vedere la luce, così che gli insegnanti furono costretti a svolgere le lezioni nello stabile annesso alla Chiesa del Carmine e in altra aule acquisite da privati fino al 1941.
La frequenza degli alunni era tutt’altro che assidua, complice, certo, l’incuria dei genitori, le malattie (morbillo, malaria, tricofizia) e l’impiego dei bambini nei lavori agricoli, ma anche la latitanza delle autorità nel far rispettare il principio dell’obbligo, almeno a dar retta alla seguente cronaca e alle altre simili:
“Dopo 15 giorni dacché siamo a scuola le iscrizioni procedono ancora molto lentamente. Le alunne si presentano alla spicciolata e sole o accompagnate dalle proprie mamme le quali si scusano del ritardo col pretesto che ignoravano la data della riapertura.
Questa, ormai, è consuetudine di tutti gli anni appunto perché non si è mai seriamente pensato, o per questa o per quella ragione più o meno giustificata, di far rispettare dalla nostra popolazione l’obbligo scolastico applicando all’uopo le sanzioni prescritte dalle presenti leggi”.
Il patronato scolastico, come si è già visto, era assolutamente inefficace nel far fronte alle richieste delle famiglie più povere: libri, quaderni e altri oggetti scolastici giungevano a destinazione con notevolissimo ritardo e spesso in numero insufficiente. E anche su questo fronte non mancano i commenti, spesso aspri e risentiti, come in questo caso :
“ Fiato alle trombe! Ecco, ecco i famosi quaderni del patronato! Allegre, bambine, non più ignoranza, non più letture tralasciate, compitini inseguiti, cascaggini e noia…ma tutto un rifiorire di menti e di cuori, tutto un rigoglio di volontà fattiva e di virtù da farci marciare impavide con la speranza della vittoria…
Un’altra come questa e voi siete perdute……”.
Soprattutto la distribuzione dei libri di testo, qui come negli altri comuni presi in considerazione nella mia ricerca, avviene così in ritardo da suggerire maggior cautela nel considerare la politica editoriale in campo scolastico come uno degli strumenti più efficaci per la costruzione del consenso. Intendo dire che l’impiego del testo unico, lungi dal garantire unitarietà nella didattica e un rigido rispetto delle direttive si tradusse, almeno a dar conto del campione da me preso in considerazione, in un sostanziale fallimento almeno per tre ordini di motivi.
Il primo è che i libri non raggiunsero mai la totalità degli alunni. Come ben sintetizzato in questa breve cronaca:
“Visita del Provveditore agli studi. Mi chiese se tutte le alunne hanno il libro. Ahimè! Questa è la bestia nera delle nostre scuole. Il patronato scolastico, facile nel promettere è poi molto lungo nel mantenere. Intanto il tempo passa e le alunne si disamorano della scuola e dello studio perché prive del necessario corredo scolastico”.
Molte famiglie, infatti, non disponendo del denaro necessario all’acquisto si affidavano al patronato, il quale però non era in grado di soddisfare l’enorme domanda dei ceti più poveri. I libri arrivavano nei comuni della Sardegna con un enorme ritardo, spesso ad anno scolastico inoltrato. E’ evidente il danno prodotto dall’assenza di sussidi, in particolare nelle prime classi.
“E i libri? – scrive nella sua relazione finale un’insegnante- Ah i libri!…essi non vennero mai e dovetti tirarmi avanti la classe con 11 libri acquistati dalle alunne più abbienti. Altri 5 li procurai (dell’edizione vecchia però) dalle scolare passate in seconda questo anno e questi li feci girare a turno fra le bambine più assidue e volenterose fino ad anno finito. Figurarsi che profitto!!”.
Da ultimo la compilazione dei volumi non sempre otteneva il consenso dei maestri.
Nel caso della scuola di Bosa, forse la più fascistizzata delle quattro prese in esame, si nota come mentre nelle cronache della fine degli anni Venti l’ispirazione idealistica di Lombardo Radice fosse palpabile, negli anni successivi questa scompariva.
Si considerino comparativamente la seguente cronaca del 1928:
“Lezioni di canto ed esercizi di educazione fisica sono i capisaldi su cui mirano le sue direttive per l’educazione della nostra popolazione scolastica. Non possiamo che obbedire. Quando si lavora con animo sereno il lavoro riesce meno duro e noioso. Adattiamoci dunque tranquillamente alle esigenze dei tempi nuovi e respiriamo anche noi a pieni polmoni questa onda di aria rinnovatrice”.
E questa nota del 4 febbraio 1935:
“L’Ispettore Corona e l’ispettore delle due province, Sassari e Nuoro, visita la scolaresca e ci propone il programma da seguire durante l’anno scolastico dimostrandoci la finalità da conseguire che l’Italia è fatta e noi educatori dobbiamo fare gli italiani in modo che non abbino vergogna di appartenere all’Italia e siano educati ugualmente tutti gli alunni delle scuole delle due province ad osservare rigidamente la disciplina della rivoluzione fascista che è la disciplina italiana, dando ai giovani il senso della virilità, della potenza e della conquista”.
Un tema tanto caro al pedagogista siciliano come la riscoperta del folklore, del canto, dello spirito popolare e, perfino del dialetto, è contenuta per esempio nella seguente cronaca:
“Lavoriamo ancora attorno al Folklore Sardo del quale noi assumemmo lo svolgimento di questo tema: Poesia. Finora ne facemmo una piccola raccolta, ma con grande soddisfazione perché – specialmente di canti amorosi- ve ne sono veramente belli, scritti da gente che sa, e il verso scorre agile, fluido, leggero e fa veramente piacere questo risveglio di poesia sarda, la quale, purtroppo, da noi è già scomparsa. Ora non si canta più”.
Ma si tratta di argomenti che svaniscono sotto una pesante cappa di conformismo. Al taglio giocoso e attivo che traspare per esempio nella festa del libro, con i bambini intenti a sfogliare liberamente i volumi della biblioteca scolastica e quelli portati dall’insegnante si sostituiranno presto le parate e le manifestazioni di piazza.
E’ proprio su queste adunate popolari che dilatavano il tempo e lo spazio dell’attività didattica che vorrei fissare la mia attenzione. L’opera degli insegnanti infatti, si estendeva oltre l’orario delle lezioni e al di fuori dei confini dell’aula. Le uscite erano molto frequenti e si svolgevano in occasioni delle festività del “calendario liturgico” fascista: 28 ottobre (Marcia su Roma), 4 novembre (commemorazione della festa della vittoria), 4 dicembre (celebrazione del gesto eroico di Balilla), prima settimana di gennaio (Befana fascista), 23 marzo (anniversario della fondazione dei fasci), 21 aprile (natale di Roma, leva fascista). Alle occasioni ordinarie si aggiunsero: le celebrazioni religiose d’inizio anno e quelle in ricorrenza della firma dei patti lateranensi (11 febbraio); le numerosissime esibizioni pubbliche per l’arrivo in città di gerarchi e autorità, i saggi e i ritrovi all’aperto per ascoltare i discorsi del duce. Il teatro Cadoni, la chiesa, la piazza del municipio e soprattutto la piazza del Carmine diventarono il naturale prolungamento dell’aula. Lo spazio pubblico antistante alla scuola venne, su suggerimento dell’ispettore, diviso e assegnato a ciascuna classe.
La spiegazione di questa coreografica adesione, che però fa supporre ampi margini di consenso nella classe docente, credo vada ritrovata nella capacità del fascismo di coinvolgere i maestri e la città assegnandole un ruolo importante all’interno della neonata provincia di Nuoro. I legami con il “giovane” capoluogo vennero consolidati da visite, gite e scambi culturali. Memorabile fu quello del 21 novembre 1928:
“Per invito del Signor Ispettore nostro il corpo insegnante si trova in Piazza Municipio per recarsi a Nuoro per festeggiare il Gerarca Sacconi.
Dopo 2 ore di viaggio si arriva alla capitale della Provincia. Quanta gente e quanta allegria!
Si vede che anche il popolo ha cambiato mentalità e prende parte ai grandi avvenimenti della Patria.
Scendiamo a Nuoro e ci vengono incontro gli insegnanti di Macomer e della Planargia e con essi si arriva innanzi al Duomo ove si trovano tutte le Autorità scolastiche e civili attorno al Gerarca Sacconi.
Io penso: Queste riunioni provinciali avvicinano gli animi della famiglia scolastica, ne migliorano gli intendimenti comuni e ci incamminano nella via e della civiltà e del progresso. […]
Ricevimenti veramente entusiastici ha fatto a Nuoro al Comm. Sacconi e al R° Provveditore agli Studi comm. Pera all’inaugurazione della Casa del Maestro e delle altre opere pubbliche compiute dal Regime per l’attrezzamento di questo Capoluogo di Provincia”.
Il fascismo seppe farsi vicino ai maestri e la scuola di Bosa si sentì “italiana” anche grazie alla visita a Roma organizzata nel maggio del 1929 dall’Associazione Nazionale Insegnanti Fascisti. Ben quattrocento furono i maestri coinvolti. La cronaca della docente Francesca Sanna, al di là del comprensibile entusiasmo per aver vissuto un’avventura che nel volgere di pochi giorni la porta dalle rive del Temo a quelle de Tevere, dalle riunioni di partito nella cittadina isolana all’incontro con il duce e le maggiori autorità del partito, è un interessante resoconto di un “pellegrinaggio” fascista. Il percorso prevedeva l’omaggio alla tomba del milite ignoto e all’ara dei caduti fascisti in Campidoglio, la visita al Parlamento, al palazzo del Littorio e ovviamente l’incontro con il capo del governo. Ma la gioia deriva anche dal “fraternizzare” con i colleghi della capitale, dal ritrovare ex scolari divenuti personalità di prestigio (il prof. Antonio Cossu e il maresciallo Deriu), dall’essere ricevuti da gerarchi, ispettori scolastici, uomini di scuola come Sacconi, Oggiano e Padellaro, dal far conoscenza dei molti sardi residenti a Roma. Si tratta di un’esperienza istruttiva e frastornante al punto che la maestra bosana, scrive: “La sera stessa rividi la mia Bosa che mi parve più bella e più carina del solito”.
I segni di adesione convinta e incondizionata al credo fascista non mancano. Il segretario federale, giunto tra due ali di folla il 3 aprile del 1932 in città pronuncia un sermone che, riportato in sintesi nelle cronache di un’insegnante, ci appare al tempo stesso apologetico e concretissimo nel cassare qualsiasi ottimistica previsione di un miglioramento delle condizioni occupazionali locali:
“Nel pomeriggio altro discorso per i lavoratori (dai balconi del Municipio), altra opera di persuasione alla costanza, alla pertinacia nel lavoro, nella fatica, nell’obbedienza ai voleri del Duce che, a capo di 40 milioni di abitanti stretti, avvinti a Lui, devono marciare in testa alle nazioni.
Non fa vane promesse. Dice che un po’ di lavoro verrà dato pel nuovo acquedotto, ma non potendo essere sufficiente per tutti, il lavoro verrà dato a turno. E bisognerà chinare il capo e tacere”.
Eppure, anche in questo caso, non manca il tripudio e l’ovazione generale. Si rifletta, per esempio, anche a questa ricostruzione della “rivoluzione fascista”, scritta in occasione della celebrazione della marcia su Roma. Erano passato undici lunghi anni da quella data, eppure l’“innamoramento” tra Mussolini e il popolo non mostrava cedimenti:
“Undici anni! Sono un attimo nel corso dei secoli; ed infatti sembra che un attimo solo sia trascorso dal giorno del grande avvenimento. Ma in tale attimo si sono compiuti dei veri miracoli.
Da undici anni tutta l’Italia è un sonante cantiere: dal giorno in cui il Duce lo comandò, l’operaio è tornato innamorato alle macchine che avevan corso rischio di essere distrutte; il contadino è tornato veramente alla terra generosa; l’artiere ha riportato la gioia nella sua bottega; cantano le sirene degli opifici: Iddio è tornato nelle case, ove si inneggia alla pace serena del lavoro e alla speranza di sempre più liete ore. In tale attimo si è combattuta la battaglia del grano, si sono moltiplicate strade e ferrovie, si sono bonificate immense plaghe di terreno, si sono costruite a migliaia salubri case, si sono centuplicate le scuole, si sono rifatte le nostre città.
E’ questo un attimo che lascia un’orma profonda nella storia del nostro popolo. Quando pareva che un vento di follia scatenatosi dalle Alpi al mare, dovesse sommergere il Nostro Paese e annientare i frutti della Vittoria, ecco sorgere una voce imperiosa che grida: “ O si vince per l’Italia o per l’Italia si muore!” quel grido fu accolto da migliaia e migliaia di giovani, i quali seguendo il Duce amatissimo, intrapresero la Marcia su Roma al canto degli inni di Vittorio Veneto. Il Fascismo liberò l’Italia, le diede il volto nuovo ed il 28 ottobre 1922 si iniziò per essa una nuova storia”.
La partecipazione cittadina alle vicende italiane, complice l’avvento della radio e l’efficace propaganda raggiunse, negli anni delle conquiste coloniali toni altissimi. Si andava dalla plateale solidarietà popolare ad un giovane bosano eroicamente ferito per essersi opposto ad una dimostrazione antifascista a Tempio al tripudio del 2 ottobre 1935 per il discorso di Starace e del duce che annunciavano le aspirazioni espansionistiche italiane. Lo stato d’agitazione sembra placarsi con la conclusione delle ostilità in Africa, nel maggio del 1936, ma di lì a poco riprenderanno i festeggiamenti. Per ordine del ministro dell’educazione nazionale l’8, 9, 10 maggio del 1937 saranno giorni di vacanza, così da celebrare degnamente il primo anno trascorso dalla proclamazione dell’impero fascista.
Qualche segno di stanchezza traspare, dalle ormai ingiallite pagine dei registri scolastici, solo verso la fine degli anni Trenta. La “fascistissima” maestra Mariantonia Dettori lamenta “l’indolenza” e “l’apatia” del popolo che non avverte il bisogno dell’istruzione, ed appare sempre più ficco. È lo stesso Giuseppe Bottai, giunto in visita il 4 ottobre a Bosa, a pronunciare parole piene di incoraggiamento:
“Arrivo di S.E. Bottai.
Gran movimento di tutta l’organizzazione Fascista compresi beninteso gli insegnanti e le scolaresche schierate superbamente lungo il Corso per ricevere S.E. il Ministro dell’Educazione Nazionale. […] il Ministro, imponente, rigido, diritto passa in rivista tutti gli Organizzati diretto subito alle nostre scuole addobbate a festa per riceverlo, dopo la visita delle quali, si indirizza al Municipio. Parlò da uno di quei balconi.
Ci disse in breve come dal suo viaggio attraverso le nostre campagne avesse rilevato che il nostro è un popolo lavoratore. Aggiunse che il Regime molte opere ha attivato ma…molte ancora restano a farsi. Ci esortò a proseguire nella via dell’ascesa senza stancarci”.
Le cronache degli anni ’37-’40 tornano a dare spazio alla didattica, ma è, come ho anticipato, un fare lezione molto diverso da quello dei primi anni Venti. Il “convegno magistrale” del 22 novembre del 1937 ci offre una chiara cognizione del cambiamento:
“Erano presenti il Signor R. Primo Ispettore Scolastico della provincia, il nostro R. Direttore Didattico e quasi tutti gli insegnanti del Circolo.
Il nostro Direttore ci parlò a lungo con competenza tutta sua delle direttive che dobbiamo seguire […] e che il R. Primo Ispettore confermò pienamente. Insegnamento Religioso: Cognizione del bambino di un Dio Grande e Onnipotente che regge e governa il mondo […], ma che guarda con maggiore compiacenza e speciale benevolenza a questa nostra adorata Italia. Dio e Patria adunque senza disgiungere mai il primo dalla seconda.
Portare tutto l’insegnamento sul piano dell’Impero:
Benissimo! È cosa che abbiamo iniziato a fare fin quando iniziò la guerra in Africa parlando ai nostri piccini di tutte le fatiche, i disagi, i pericoli e le strabilianti e strepitose vittorie riportate dai nostri eroici e invincibili soldati. E dopo la vittoria, e sempre in seguito, parlammo loro del conquistato Impero Etiopico, del nuovo titolo acquisito dal Re e da tutta la famiglia reale, dall’immenso beneficio che ne deriverà a tutta la Nazione, dei preziosi prodotti dell’Abissinia.
Orario e disciplina:
I due principali fattori perché l’insegnamento dia quei buoni risultati che la scuola si propone.
E qui tutta una viva e pressante raccomandazione agli insegnanti affinché osservino scrupolosamente essi per i primi e facciano osservare dai propri alunni l’orario fissato per l’ingresso e l’uscita dalle lezioni, badando a che i bambini nel lasciare la scuola non si disperdano rumorosamente e disordinatamente imbrattando le pareti del caseggiato scolastico e schiamazzando lungo la via.
Anche in questo vogliamo obbedire ciecamente ai desideri di chi ci sta a capo e ci adopereremo con tutti i nostri sforzi per riuscire a dargli la soddisfazione da parte nostra del dovere compiuto”.
Tesseramento totalitario, acquisizione di un’immagine “limpida, definita e perfetta” della patria, “illuminata dalla consapevolezza dei doveri e dello spirito di sacrificio”, sperimentazioni nel campicello scolastico ed avviamento al lavoro, in omaggio alla “Carta della Scuola”, connoteranno le attività dell’istruzione primaria a Bosa negli anni immediatamente precedenti alla seconda guerra mondiale. A compimento della politica scolastica fascista giungerà, dono quasi insperato, nei primi anni Quaranta, la costruzione del nuovo edificio scolastico.
Mussolinia
Il caso di Mussolinia ha un carattere del tutto originale rispetto agli altri tre comuni presi ad esempio. La città era una “vetrina” per il regime, vi accorsero numerose personalità: il re, il duce, molti ministri e autorità. Ma il rapporto delle maestre sarde con nuovo insediamento risulta assai meno idilliaco di quanto ci si potrebbe attendere. Esse considerano la città come un corpo estraneo: “Non è certo un ambiente sardo ma continentale”, annotava l’insegnante Pietrina Demontis, che non nascondeva il suo “disorientamento” nel trovarsi di fronte a fanciulli provenienti da ogni parte d’Italia.
Troviamo conferma di ciò in una nota venata di malinconia scritta da una maestra appena giunta a prestare il suo servizio nella “città nuova”:
“Mi avevano parlato di Mussolinia come di qualcosa di diverso nella nostra isola, come un lembo del continente portato a fertilizzare quest’angolo incolto della Sardegna […]. La giornata piovosa ha però ristretto l’orizzonte ed ha reso un po’ triste l’arrivo. Il Villaggio giace […] nel fango e la pioggia scrosciando spruzza di tristezza le mie speranze”.
Lo sconforto della maestra Rosa Salvietti deriva dal doversi rapportare a bambini particolari:
“Sono scoraggiata! È già una settimana cha sto coi miei nuovi alunni e ancora non riesco a capire se questi piccoli mi amano e ascoltano con piacere la mia parola. Sono così taciturni, così apatici che neanche la mia affettuosità e l’amorevolezza dei compagni Sardi li fa rallegrare e sollevare. Eppure penso che solo la mia infaticabile opera può trasformarli e render meno triste il loro soggiorno quassù; solo io devo comprendere le cause di questa ostinata apatia devo saper aprire questi misteriosi cassettini…ma ho paura che la chiave si spezzi!”
Anche dalla vicina frazione di Luri una maestra è costretta a registrare l’ostilità verso gli isolani, da parte dei nuovi arrivati:
“Questa popolazione mista di veneti, polesani, romagnoli, toscani ecc. vive in un ambiente nel quale il pettegolezzo e l’invidia e la maldicenza per i sardi, si fanno strada in modo sorprendente con conseguenti bisticci e malumori”.
Le cronache asciutte, senza richiami alla grandezza del duce e ai fasti del regime possono sorprendere il lettore, ma si giustificano alla luce dell’oggettiva tipicità della scuola e dal problema di stabilire quei termini essenziali che avrebbero consentito l’azione didattica: così la difficoltà di comunicare, tra estranei, rese secondaria ogni preoccupazione ideologica, almeno nei primi anni d’attività. La comunità scolastica era un “centro d’immigrazione” e non era facile far parlare tra loro veneti, lombardi, toscani e sardi. Anche il dialogo tra docente e discente era difficoltoso:
“Pochi sanno declinare bene le loro generalità, e vi son di quelli che mi guardano sgomentati quando chiedo il nome del loro papà”,
in alcuni casi si ricorse ad interpreti “improvvisati”:
“Oggi un grande avvenimento: sono arrivati, ben accolti, tre siciliani, due femmine e un maschio. […] parlano un dialetto siciliano strettissimo e incomprensibile, e si aiutano con dei gesti e dei versi…poco identificabili […] non sono riuscita a capire il loro nome, se non quando mi ha fatto da interprete, una bambina siciliana anch’essa nuova arrivata che ho chiesto alla maestra di terza”.
Si potrebbero citare svariati episodi che attestano una certa freddezza nel sostenere propagandisticamente il regime almeno fino alla metà degli anni Trenta.
Parate, avvenimenti di piazza, celebrazioni e visite sono liquidati con brevi commenti, che lasciano trapelare quasi un senso di fastidio per il tempo occupato in cerimonie esteriori. Per esmpio, a proposito della venuta di Vittorio Emanuele III …
“Verrà il Re! Quando se ne parla, tutti i discorsi vanno a finire lì! Che attesa impaziente; anche la vita nella scuola ne risente! Si prepara un’aula e si trasforma in sala da pranzo reale. Il via vai degli operai e impiegati è incessante, la vita nella scuola, così calma ne è scossa; non è possibile fare una lezione senza interromperla due, tre, e anche quattro volte”.
C’è un bisogno di ordinarietà che, evidentemente, non poteva essere garantito un una comunità “esemplare” come quella della città di fondazione.
“Stamani con i bambini vestiti da Balilla e da Piccole Italiane abbiamo assistito alla cerimonia che si è svolta in piazza di Mussolina per l’elezione del Podestà Comm. Portelli”, scrive in una cronaca senza fronzoli la maestra Marina Lunardi. La stessa insegnante, a proposito della distribuzione delle tessere ai Balilla e alle Piccole Italiane, si limita a questo commento: “La festa si è svolta benino, i nostri ragazzi hanno cantato gli inni del Fascio”.
Frequenti sono anche le critiche su singoli aspetti didattici; la maestra Matilde Saba non rinunciò, per esempio a criticare apertamente il libro di Stato per le scuole rurali e a preferire altre letture a quelle ufficiali. Sulla stessa linea una collega che esprime il disagio nel dover commemorare, per richiesta del direttore, le opere di Cesare Augusto in una classe di bambini di sette anni. Altrettanto impropria si dimostra la lezione di storia attraverso la lettura del libro La casa Savoia e i destini d’Italia.
Mentre a Bono, Bosa e Orune la questione del tesseramento totalitario è assillante qui l’argomento è posto in secondo piano, forse perché scontato. I problemi sono soprattutto quelli di amalgamare il gruppo degli alunni e di favorirne la frequenza. In linea di massima le condizioni sanitarie degli alunni sono buone, e addirittura ottima è quella dei locali scolastici ben arieggiati e arredati, provvisti di acqua, docce e servizi igienici: un vero lusso in molti paesi dell’isola.
In alcuni casi è evidente la sensibilità diversa delle maestre: qualcuna era propense a concepire la propria missione magistrale secondo il modello patriottico ottocentesco, altre concedono di più alla “mistica” fascista e ai suoi riti. Si valuti il dissimile approccio alla medesima celebrazione: il natale di Roma, da parte della maestra Marina Lunardi e Santina Nateri. Nel primo caso la narrazione è rievocativa del solo mito della fondazione della capitale:
Domani – scriveva la Lunardi nel 1931 – è primavera e il natale di Roma; colgo l’occasione per fare oggi una doppia lezione (diciamo così) spiegando come nel lontano 21 Aprile quando l’aria era tiepida e profumata e sbocciavano i fiori, nacque Roma, la grande, la madre dei popoli.
Nel secondo si accosta al mito la figura di Mussolini, ma ancora senza eccedere nella esaltazione:
Parlo ai miei alunni della fondazione di Roma, di questa data memorabile che ricorda i due gemelli destinati a dare il nome e la storia alla città eterna. Roma dominatrice e signora del mondo, anche quando i barbari, riuscirono ad assoggettarla. In questo giorno, faccio notare ai miei alunni, che si riuniscono in festa gli uomini dei campi, delle officine, gli operai e gli studiosi, perché il Duce ha voluto che il giorno del di Roma fosse per gli italiani la festa del lavoro, che fatto con amore è ricchezza e grandezza d’Italia.
Decisamente più schierata la maestra Elena Garbato, di Luri, frazione di Mussolinia, che nelle sue cronache non rinuncia ad estasiate narrazioni:
“Allora la Lupa diede la luce a Romolo, oggi Benito Mussolini dà la luce e la vita alla grande Italia, forte, libera, potente.
Oggi tutti gli italiani son guidati verso una nuova meta che si avanza a passi sicuri.. la grandezza imperiale d’Italia”.
Era la medesima insegnante che nella relazione finale dell’a.s. 1931-32 così descriveva la sua missione d’educatrice:
“Nulla v’è di più bello nell’opera della maestra che quella di saper formare coscienze nuove ricostruire le vecchie armonizzandole col bello e col buono. Nessuna opera è più grandiosa e completa di quella di saper creare, di saper modellare con finezza d’arte e purezza di stile l’italiano d’oggi. L’italiano buono, virtuoso, studioso, l’italiano che imbracci il fucile con romana fierezza e sopporti le fatiche e i pericoli, e sia sublime nelle ore di periglio e stoico nelle ore di tempesta , l’italiano che versi sin l’ultima stilla del suo sangue per la Patria. Così intrecciato a questo ardente sentimento d’amor per la patrio, io seguo come nel passato il programma di educazione ai fanciulli di Sardegna”.
Siamo però di fronte a casi abbastanza isolati. Certo, negli anni delle imprese coloniali i suggerimenti per la fascistizzazione sono pressanti e non mancano, tra gli insegnanti, i seguaci delle epiche imprese del fascio, come nel caso del maestro Giovanni Porta che nel 1937 scrive: “il Signor Direttore ha parlato dell’importanza massima che assume oggi la scuola, e della necessità di creare una scuola politica, che viva così ed operi nel nuovo” Stato imperiale. Sono orientamenti assunti poco dopo la visita a Mussolinia del ministro dell’educazione nazionale Bottai, in occasione dell’avvio dell’anno scolastico 1937-38. Tuttavia, anche un maestro schierato e obbediente come Porta non rinuncia ad esporre alcune osservazioni critiche, per esempio rispetto all’efficacia di alcuni sussidi prodotti dal regime a sostegno dell’attività didattica (non sempre apprezzati dagli alunni) o rispetto all’incessante richiesta di contributi alle famiglie (“Noto solamente che troppe volte, per troppe cose, si devono chiedere dei soldi agli alunni”).
Un altro aspetto interessante è quello relativo alla funzione della scuola nel contesto della Piana di Terralba. Mentre negli altri comuni presi in considerazione l’istruzione era pensata non solo per rispondere alle esigenze formative del popolo (leggere e far di conto), ma anche per esaudire scopi patriottici e civili, nelle città di fondazione, l’identità era in qualche modo intrinseca alla loro vocazione produttiva: la bonifica a Mussolinia e l’attività mineraria a Carbonia.
La scuola nel primo caso, altro non serviva che a sostenere l’imponente sforzo di conquista del suolo. Il motto “resurgo” che compariva sul campanile dell’abitato, ad indicare la resurrezione del territorio e quella delle anime, era la vera peculiarità e ispirazione del luogo e dei suoi residenti. Per questo vi era una certa tolleranza nei confronti degli scolari assenti:
“il bambino di qui fa troppo se affronta il viaggio per venire a scuola la sera partendo da qui alle 5/2 [sic] arrivano a casa molto tardi e il primo pensiero è il mangiare la polentina fumante, torre i buoi come dicono loro in Veneto, portare la legna attingere l’acqua ecc.. […] Di questo ne ho parlato anche al Comm. Piacentini e mi disse che tutto in queste scuole doveva essere adattato alle esigenze del posto e del lavoro”.
Più che il fascismo era, quindi, predominante, almeno fino al 1933, la presenza paternalistica della classe dirigente, di fatto ridotta al Comm. Piacentini (dell’Associazione Nazionale per gli Interessi del Mezzogiorno d’Italia) e al Comm. Dolcetta (amministratore delegato ella Società Bonifiche Sarde) e alle loro famiglie. Le maestre e i bambini attendevano con trepidazione l’arrivo di questi benefattori che, non diversamente dai grandi capitalisti della prima rivoluzione industriale, si mostrarono altruisti e, nel medesimo tempo, caritatevoli, offrendo alle istituzioni educative arredi e agli alunni doni in occasione di festività. La preoccupazione del successo della bonifica veniva prima dell’esaltazione del regime, o meglio, l’esaltazione del fascio avveniva quanto migliore fosse risultata la produttività del suolo strappato alle paludi. Del resto, sul versante della “fascistizzazione” non occorreva fare molto, era la stessa urbanistica a parlare: la razionalità degli spazi, l’efficienza dei servizi, l’uso pubblico della piazza, le visite delle autorità costituivano elementi di una pedagogia civile unica in Sardegna. E’ comprensibile che qui la scuola, a differenza di altri luoghi, avesse un significato meno pregnante sul piano ideologico e fosse più concentrata, con le eccezioni di cui si è detto, a costruire identità, senso di appartenenza e radicamento fra una popolazione eterogenea.
Orune
Il comune di Orune, come altri della Sardegna, aveva concesso a Mussolini nel maggio del 1924 la cittadinanza onoraria. Le motivazioni della delibera, pur sotto l’inevitabile dose di retorica, esprimevano bene le speranze e la riconoscenza che molti centri dell’isola riponevano nel presidente del consiglio. Il duce era visto non solo come “il Salvatore dell’Italia dalla follia bolscevica”, “il Valorizzatore della nostra vittoria”, “il Restauratore della nostra vita politica ed economica”, “l’Assertore dell’Italia in confronto del mondo”, cioè come una sorta di santo patrono della patria, ma anche come il “padre” “affettuoso e generoso” per la Sardegna. A lui si riconosceva infatti il merito d’aver portato “l’oscuro e misconosciuto” nome dell’isola “alla luce e alla gloria della Nazione”.
La consegna della cittadinanza conteneva anche la speranza che nel futuro “ogni più piccolo paese” sarebbe stato “finalmente avviato a quella prosperità che uomini e cose hanno finora fatalmente conteso”. Quindi anche in questo caso il fascismo in Sardegna intrecciava interesse nazionale e particolarismo locale.
Il paese barbaricino non era certo facile: l’ordine pubblico era perennemente messo in pericolo da faide, banditismo, abigeato. La stessa divisione delle terre comunali, ben 6.000 ettari, poco meno della metà dell’estensione complessiva del suolo municipale, avviata all’inizio del XX sec., anziché portare prosperità aveva creato conflitti e rivalità tra le diverse famiglie, tanto che nel 1937, per interessamento dello stesso Mussolini, si decise di annullare la lottizzazione.
Nel corso del Ventennio si assistette ad un peggioramento della condizione della pastorizia, complice la politica rurale del fascismo, alla quale si accompagnò il decadimento complessivo del comune, che proprio sull’allevamento ovino aveva la principale fonte di reddito.
Il ruolo degli insegnanti nel periodo fascista è molto importante: attraverso di essi, in quanto “funzionari pubblici”, passa il tentativo di persuasione delle famiglie. Il fascismo è qui avvertito come un processo di modernizzazione e di svecchiamento delle tradizioni, per la sua affermazione occorre quindi ingaggiare una lotta impegnativa con le consuetudini particolarmente radicate in un comune isolato. Si veda per esempio con quanta difficoltà si tenta di estirpare l’abitudine alla festa di carnevale, soppressa d’autorità, ma ugualmente caparbiamente celebrata da bimbi orunesi e dalle loro famiglie.
I maestri nelle cronache registrano fedelmente i successi, ma anche le resistenze del popolo e i ritardi nel processo di omologazione alle direttive nazionali. Una testimonianza relativa all’anno scolastico 1934-35, chiarisce molto bene il compito dell’insegnante nella concezione fascista dello Stato:
“Quanto alle tessere, poi, di cui non si riconosce né l’utilità né l’importanza, le risposte ed i lamenti sono invariabilmente gli stessi: ‘Non possiamo, non possiamo! Siamo poveri!’. Il compito del maestro, dunque, è quanto mai vasto e il compito della sua attività si allarga, oltre la cerchia della scuola, alle famiglie e al popolo. Poiché, infatti, i bimbi si persuadono facilmente, non resta altro che rivolgere tutta l’attenzione e tutte le cure alle famiglie per dare anche ad esse un tipo di educazione, l’educazione civile e politica. Tale è la missione del maestro fascista che non è più l’educatore dei soli bimbi, ma altresì l’educatore del popolo e, per così dire, l’Ufficiale dello Stato”.
Il problema della sopravvivenza nei paesi di montagna (Bono e Orune si trovano rispettivamente a 536 e 745 mt.) è drammaticamente descritto nelle pagine delle cronache che in taluni casi riportano in luce le voci stessi bambini. Come nella cronaca della maestra Murgia:
“Ho proposto ai miei piccoli alunni il tema: Se potessi parlare al Duce cosa gli diresti?. S’intende che abbiamo svolto oralmente il tema, e dalla discussione… moderata, ma sincera discussione, ne è venuto fuori un dibattito. Avrebbero fatto assai pena allo stesso Duce, le risposte o meglio i desideri dei piccoli alunni di questo paesetto sperduto fra i monti. In maggior parte chiederebbero al Duce scarpe, blusette, giacchette. Per il Duce che ama le opere di misericordia sarebbe lieto di vestire, gli ignudi. Moreddu che è in lotta con la mamma che non vuole tesserarla, chiederebbe la tessera di Piccola Italiana. Monni… povera piccola, si ci vorrebbe tanto poco a contentarla… chiederebbe al Duce un po’ di zucchero…”
L’iscrizione alle organizzazioni fasciste diviene totalitaria, a costo di enormi sacrifici, solamente quando, verso la fine degli anni Trenta, questa si associa a evidenti vantaggi di tipo assistenziale. E’ soprattutto la refezione scolastica, con la distribuzione di minestre calde, particolarmente gradite non solo alle famiglie più bisognose, ma in generale a tutti gli alunni, a riconciliare le famiglie con le assillanti richieste pecuniarie dei maestri. Il patronato e l’ONB intervennero tardivamente a soddisfare i reali bisogni della popolazione, ma l’iniziativa piacque e il plauso fu unanime, come leggiamo nella seguente cronaca:
“Alla presenza delle autorità locali ha avuto inizio la refezione scolastica. Si sono distribuiti circa 250 razioni di minestra. Faceva piacere vedere quelle faccine sorridere di contentezza mentre divoravano la razione fumante. Tale istituzione è veramente provvidenziale perché gli ammessi godono realmente e gli insegnanti ottengono la frequenza regolare e il tesseramento al completo”.
Per quanto Orune si trovi solo ad una ventina di chilometri da Nuoro, il senso di isolamento e una certa “tipicità” incomprensibile ai forestieri pervade molte delle cronache.
“Si è chiuso il tesseramento con poca soddisfazione da parte mia, – scrive una maestra nel marzo del 1933 – credo anche da parte di tutti i colleghi. Il lavoro di che si è fatto meritava un miglior successo ma per avere un’idea chiara del lavoro che si fa qui, è necessario viverci. Forse in tutta la provincia non c’è un paese come il nostro almeno questa è la mia opinione”.
Gli ordini dall’alto, le “semplificazioni” del regime non sortiscono grandi effetti. I maestri certo se ne dispiacciono, ma al tempo stesso comprendono, meglio delle autorità, i bisogni del luogo. Così la denuncia di lassismo a causa della chiusura straordinaria delle aule da parte dei maestri in occasione di un’improvvisa e inattesa nevicata provoca una risentita lamentela da parte dei docenti, convinti di aver operato per il bene della scuola.
“Oggi è una giornata triste, dopo 29 anni di insegnamento un vile, con la maschera del cittadino a cui stanno a cuore le Scuole e gli insegnanti, accusa vilmente il corpo insegnante al Sig. Direttore, perché non si osserva l’orario. La fine del mondo!! Ci si rende tristi per la vile aggressione ma fortunatamente, la coscienza tranquilla resiste all’attacco e si ripete, con la dolcezza che viene dal dovere compiuto: perdonate ad essi perché non sanno quel che ci fanno! Il fulgido candore della neve, ormai contaminato dai piedini scalzi ci allieta e siamo qui, e discorriamo e ci tratteniamo e si ride e si scherza, ed i piccoli sanno che i maestri di Orune amano profondamente la Scuola, e che in base ed in nome di questo amore, sanno anche perdonare. Ciò che più ci accora, mio buon Direttore è il pensiero che nel mondo ci siano ancora, troppi vili ed è per questo che l’umile Maestra che si è invecchiata nella Scuola e per la Scuola prega il Sig. Direttore perché venga smascherato il vile”.
Allo stesso modo i libri di testo, che pure vengono attesi come “manna dal cielo”, per via del perenne ritardo con cui giungono sui banchi della scuola, risultano quasi sempre insoddisfacenti e lontani dai bisogni culturali degli alunni della Barbagia. Scrive in proposito la maestra Maria Murgia:
“più d’una volta in alcune discussioni, nella scuola e fuori dalla scuola ho espresso il mio modesto parere circa i libri di testo. Il libro di testo unico per tutte le scuole del Regno io non l’ho mai ammesso, in quanto esistono, delle enormi differenze tra la scuola della città e quella dei piccoli paesi. La vita scolastica si svolge, a seconda degli usi, dei costumi, dello stato morale ed economico della città o del paese in cui la Scuola vive, assai diversamente da luogo a luogo. Mi pare quindi che pur non volendo ritornare ad una divisione fra i libri per maschietti e libri per fanciulle, sarebbe più logico ‘pensare ad una distinzione fra libro per le Scuole urbane e libro per le Scuole rurali’. Come vi è differenza fra il bambino alunno, di città, e quello del modesto paese, in quanto lo spirito di osservazione si sviluppa nell’uno e nell’altro, a seconda dell’ambiente in cui vive così pure ci dovrebbe essere differenza da libro a libro”
Calata dall’alto sembra anche la decisione di adottare a scuola il lavoro manuale. Il maestro Onorato Zizi, compiaciuto, considerava come una dimostrazione di virilità rivolta al popolo tale disciplina. Molto importante era stato coinvolgere, zappe sulle spalle, i bambini in divisa di IV e di V. Ma si trattava di un fuoco di paglia dovuto all’entusiastica adesione alla riforma Bottai che presto si scontrò con la durezza di quegli anni, come conferma la cronaca di un collega:
“Sebbene iniziato non posso continuare le lezioni di lavoro agricolo per assoluta mancanza di attrezzi necessari. Il Podestà nonostante le mie ripetute richieste non me li ha ancora forniti. Non posso disporre di quelli di proprietà degli alunni perché occorrono ai genitori nei propri lavori agricoli, specie in questa stagione. Hanno ragione se si considera la scarsità del materiale di ferro in questo tempo di guerra e il prezzo alto”.
Persino l’organizzazione dell’orario decisa d’autorità è alcune volte criticate al punto che l’invito di prolungare le vacanze natalizie per consentire il risparmio di combustibile in un inverno di ristrettezze come fu quello bellico del 1942, pare una vera e propria presa in giro dato che le aule, da sempre, a Orune mancavano di “qualsiasi mezzo di riscaldamento anche se preistorico”.
Conclusioni
“…La cronaca. Ahi la cronaca, questo bel regalo del Ministro Gentile (poteva essere più sgarbato di così?), questo lavoro improbo, noioso, tedioso, che non giova a nulla e a nessuno, che deve essere di peso a tutti i maestri d’Italia…Che roba! Che roba! Eppure bisogna farlo! che ruba tanto tempo al bene della scuola o della famiglia, che mette tanta acredine nel bilancio fisiologico dell’organismo…eppure bisogna farla! Che nessuno ha mai accettato con piacere…eppure…andate a dirne ai nostri superiori soltanto per questo ci obbligano a farla…facciamola quindi e non se ne parli più!”
Ho aperto la mia indagine con una riflessione disincantata di un’insegnante sulla pratica della compilazione del registro. In sede conclusiva riporto una seconda nota di tenore simile. Da entrambe traspare il peso che la burocratica compilazione del giornale di classe aveva per gli insegnanti. Tuttavia, come ho cercato di dimostrare con il modesto campione qui preso in esame, la voce dei maestri, per quanto controllata e sorvegliata, è a volte sorprendentemente libera.
Antonio Gibelli nel suo volume Il popolo bambino ricorda, sulla base di una messe ampia di documentazione, come Mussolini fosse un maestro “autorevole e temuto, ma anche carico di carisma e di fascino”, particolarmente apprezzato da un “popolo di scolaretti” quale era quello italiano. Il caso della Sardegna, pur nei limiti del campione, mostra un certo “smarcamento” dell’isola da questa metafora. I maestri da me presi in esame appartennero essi stessi a questo “popolo di scolaretti da educare”, ma non furono i migliori alunni nella grande aula della patria. Mancò loro, per essere davvero giudiziosi, la possibilità di identificarsi totalmente nel modello di modernizzazione portato avanti dal regime. Erano troppo legati alle consuetudini delle “famiglie” da cui provenivano, per lasciarsi totalmente ammaliare dalla lezione del loro “educatore”. Il duce era sicuramente seducente, ma era un modello lontano e diverso. Non intendo dire che il fascismo non ebbe nell’isola il volto del totalitarismo, con gli inevitabili segni di conformismo e appiattimento alle direttive nazionali che ben conosciamo. Mi preme però far notare come la vicinanza della classe docente alle problematiche dei cittadini dei vari paesi rese gli insegnanti allo stesso tempo “persecutori” dell’infanzia, nel tentativo, più o meno risuscito di omologazione, ma anche “complici” delle resistenze e delle fatiche dei famigliari. Così l’apatia sempre rinfacciata dai maestri agli alunni, ai genitori e ai concittadini appare un tratto tipico del carattere di molti centri agro-pastorali, ma anche un singolare strumento di difesa dagli eccessi del regime.
Cronaca ed osservazioni dell’insegnante sulla vita della scuola (d’ora in poi Cronache…) Antonietta Marongiu, classe II femminile (d’ora in poi f.), 14 febbraio 1931 (Bosa).
Cfr. G. Sotgiu, Storia della Sardegna dalla Grande Guerra al fascismo, Laterza, Roma-Bari 1990, p. 10. Per un rapido inquadramento delle problematiche relative alla Sardegna, nel periodo qui preso in esame si vedano anche i seguenti testi: L. Marrocu, Il ventennio fascista (1923-1924), in L. Berlinguer, A. Mattone (a cura di), La Sardegna, Einaudi, Torino 1998; L. M. Plaisant, La Sardegna nel regime fascista, CUEC, Cagliari 2000; S. Sechi, Dopoguerra e fascismo in Sardegna, il movimento autonomistico nella crsisi dello stato liberale (19181926), Fondazione Einaudi, Torino 1969; G. Sotgiu, Storia della Sardegna durante il fascismo, Laterza, Roma-Bari 1995.
E’ interessante notare che la popolazione dedita all’agricoltura era, rispetto al decennio precedente, cresciuta (dal 59 % del 1911 al 60,6%), mentre viceversa era calata quella impiegata nell’industria (dal 25,3% al 22,8%). Cfr. G. Sotgiu, Storia della Sardegna dalla Grande Guerra al fascismo, cit., p. 84.
Cfr. Per la Sardegna, in «La voce dei Combattenti, Giornale dei Mutilati ed Invalidi Combattenti, a. I, n. 1, 16 marzo 1919, riprodotto in G. Sotgiu, Storia della Sardegna dalla Grande Guerra al fascismo, cit., pp. 60-61.
Cfr. L. Marrocu, Il ventennio fascista (1923-1924), in L. Berlinguer, A. Mattone (a cura di), La Sardegna, cit., p. 633.
Cfr. in proposito, relativamente alla città di Sassari, M. Brigaglia, La classe dirigente a sassari da Giolitti a Mussolini, Edizioni della Torre, Cagliari 1979. Secondo L Marrocu non poco del successo dell’affermazione del fascismo in Sardegna derivò dall’azione dei prefetti. Cfr. L. Marrocu, Il ventennio fascista (1923-1924), cit., pp. 633-634.
Si consideri che la nascita degli asili consentì non solo di far giungere a scuola alunni meglio preparati, ma anche di diminuire le assenze delle bambine più grandi, spesso costrette a restare a casa per badare ai fratellini, mentre i genitori erano impegnati in campagna. Analogo discorso va fatto per la refezione scolastica e altre forme di assistenza.
Per un inquadramento complessivo e sintetico del tema mi limito a segnalare le opere di E. Gentile e in particolare, Il culto del littorio. La sacralizzazione della politica nell’Italia fascista, Laterza, Roma-Bari 1993 e, relativamente agli aspetti educativo-pedagogico e scolastico, i voll. di: C. , L’Opera Nazionale Balilla e l’educazione fascista, La Nuova Italia, Firenze 1984; J. Charnitzky, Fascismo e scuola: La politica scolastica del regime (1922-1943), La Nuova Italia, Firenze 1996; A. Gibelli, Il popolo bambino. Infanzia e nazione dalla Grande Guerra a Salò, Einaudi, Torino 2005; M. Ostanc, La scuola italiana durante il fascismo, Laterza, Roma-Bari 1980; L. Pazzaglia, La formazione dell’uomo nuovo nella strategia pedagogica del fascismo, in Id. (a cura di), Chiesa, cultura e educazione in Italia tra le due guerre, La Scuola, Brescia 2003, pp. 105-146;
Su questi aspetti rimando al mio articolo Documentare i percorsi educativi: perché, nel vol. curato da F. Telleri, Professioni educative. Esperienze e prospettive, Guerini Scientifica, Milano 2004, pp. 207-226.
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Esplicativa, in proposito, è la testimonianza dell’insegnante Pirino nel novembre del 1933:
“Ecco venuto il periodo più temuto dalle maestre: quello del tesseramento. È una cosa molto difficile ottenere che quasi tutte paghino la tessera, come desiderano i nostri superiori e come noi vorremmo”.
In poche battute la docente da un lato prende le distanze dal desiderio vivissimo, soprattutto delle autorità, d’un tesseramento totalitario degli alunni, dall’altro spezza una lancia a favore delle famiglie, che, già allo stremo delle loro disponibilità finanziarie, non possono concedersi alcuna spesa straordinaria:
“Nonostante la nostra propaganda, fatta a volte con buone maniere a volte coi mezzi persuasivi che sono a nostra disposizione, non riusciamo ad ottenere il risultato desiderato. Parecchie mamme vengono ad esporci le condizioni finanziarie delle loro famiglie che non permettono in alcun modo di sopportare la spesa, per loro non indifferente, della tessera; se poi si considera che vi sono famiglie che hanno anche tre figli a scuola e che dovrebbero andare incontro ad una spesa di 18 lire, tra tessera e pagella, manca il coraggio d’insistere. Ho raccomandato il pagamento rateale a quelle che non possono pagare la tessera completa, fatto anche in natura con uova, carbone e simili; chissà che riesca ad ottenere qualche cosa”.
A premere per il completo tesseramento erano soprattutto i superiori, che, forse perché ignari delle reali condizioni del territorio, avanzavano proposte considerate inaccettabili dalle insegnanti, le quali, a differenza dei primi, potevano vantare una straordinaria conoscenza del sistema produttivo e delle reali possibilità economiche delle famiglie.
Emblematica mi pare questa testimonianza:
“Mi dimenticai di annottare ciò che il Direttore ci disse a tutto il corpo insegnante riunito il 17 a sera, cioè di curare molto il tesseramento dei Balilla e delle Piccole Italiane, anche degli scolari poveri ai quali si può consigliare, per riuscire al pagamento della tessera, di portare legna, asparagi o altre erbe della campagna nei giorni di vacanza. Io avrei voluto far osservare al Superiore che i bambini poveri lo fanno già di portare legna, asparagi o altro, ma lo fanno per gli altri bisogni impellenti della famiglia. Non ebbi il coraggio di parlare. Chissà che qualche bambino possa farlo. Io ho le femminuccie quindi non potrò neppure parlare di questo ripiego. Intanto 4 o 5 delle povere della mia classe si sono tesserate in vista della divisa loro promessa gratis e consegnata, infatti, il giorno 10 marzo quando distribuirono pure generi alimentari a gran parte dei poveri del paese”.
E’ evidente come la maestra non solo giustifichi l’atteggiamento “resistente” delle famiglie, mettendo l’iscrizione alle organizzazioni giovanili fasciste tra le spese secondarie rispetto ad altri “bisogni impellenti”, ma quasi “legittimi” il tesseramento alla luce dei vantaggi materiali che produce: “4 o 5 delle povere della mia classe si sono tesserate in vista della divisa loro promessa gratis”.
L’iscrizione alle organizzazioni giovanili fasciste coinvolge in prima persona gli insegnanti che, in cambio dell’adesione, promettono benefici e provvidenze. Ma ben presto il regime si mostrò incapace di fare fronte a quanto assicurato, così nacquero lamentele. Si prenda, ad esempio, il seguente caso:
“Si era promesso che ai poveri che avrebbero pagato la tessera, si sarebbe dato il libro ed in varie classi il maestro è dovuto venir meno alla parola data, perché i libri non sono stati sufficienti. Quindi, lamenti degli alunni, giuste quelle dei genitori, che mi hanno fatto prendere la determinazione di sbarazzarmi della carica di segretaria, poiché comprendo che le mamme hanno tutte le ragioni di questo mondo per parlare come parlano e che si potrebbe venire un po’ in aiuto alla estrema indigenza di tante famiglie di parecchi scolari col provvedere ciò che è necessario per la scuola perché i soldi ci sono, e non si può farlo perché le disposizioni dei superiori lo vietano”.
Provveditore, ispettore e direttore nelle loro visite, per altro molto rare qui, rispetto a Bosa e Mussolinia, paiono molto preoccupati del successo dell’opera di animazione politica dei giovani e per questo insistono sulle maestre perché a loro volta trovino il modo di convincere le famiglie. Nel 1928 una maestra scrive, in tutta sincerità, che “per ordine superiore si invitano le alunne piccole italiane ad assicurarsi”, dove è evidente una certa distanza tra insegnante e autorità. Otto anni dopo un’altra maestra scrive:
“Quest’anno per poter riuscire ad ottenere il tesseramento totalitario in tutte le classi, si è deciso di chiedere il pagamento della tessera e della pagella sin dal momento dell’iscrizione, si è ottenuto qualche cosa specialmente in alcune classi, ma nelle prime ben poco. Ne ho parecchie complete, spero fra qualche settimana di poterne ordinare una ventina, altre hanno cominciato a pagare ratealmente, ma molte mamme mi pregano di attendere ancora e promettono di pagarla appena potranno, anche a costo di qualche sacrificio. E bisogna pure aver pazienza ed attendere, poiché quando si legge sui volti delle mamme e dei bambini la miseria e la privazione del necessario, quando si vedono le piccole venire a scuola nei giorni freddi e piovosi scalze e coperte da un vestito logoro, non si trova più il coraggio di insistere perché paghino al più presto la tessera, e se si potesse si darebbe loro anche qualche piccolo aiuto”.
L’impresa del tesseramento totalitario non era agevole:
“Ho avuto comunicazione della circolare del R. Provveditore agli studi per la ‘Festa del reclutamento’ a favore dell’O. N. B. ho riparlato agli alunni del tesseramento perché tutti i non iscritti ne riparlino alla mamma e al babbo e li convincano a pagar loro la tessera o meglio si facciano da uno di essi accompagnare a scuola e ne parlerò loro io direttamente”
Nel corso degli anni qualcosa cambiò, le azioni coloniali diedero vigore alla propaganda: la rituale narrazione del gesto del primo Balilla si caricò, nel 1935-36, di connotati bellici e la notizia della “vittoria sugli abissini” accese speranze nella popolazione e “giubilo negli alunni”. Particolare successo ottenne in questi anni la campagna per l’offerta alla patria. I bambini si prodigarono nella raccolta di rottami di ferro, che deve servire “per fare un grosso cannone che deve uccidere tutti gli abissini”, per dirla con le parole di uno scolaro, orgogliosamente riportate nelle cronache. Punte di razzismo traspaiono dalla frase di un bimbo, anch’esse riprodotte fedelmente e con un certo compiacimento dalla maestra:
“Un altro scolaro invece, con gran serietà, mi ha consegnato stamane le canne di un fucile che servirà ‘per uccidere il Negus che è nero come il cane, così non mangerà più i cristiani bianchi’”.
Quale migliore occasione della commemorazione del 4 novembre per ricordare ai maestri i loro doveri patriottici? La circostanza non è sprecata, come si legge in una cronaca del 1938:
“Il Signor Direttore, giunto oggi con la prima corsa, ci ha riunito prima della funzione religiosa di commemorazione dei caduti di guerra, per darci le avvertenze necessarie per tutto l’anno. Si è compiaciuto del nostro accordo fra colleghi, della nostra salute, del nostro equilibrio morale, dell’essere riusciti ad ottenere che tutti gli alunni siano in divisa perché questo è segno di ordine, di disciplina ed invita maggiormente ad esse ed alla pulizia e rispetto verso la scuola. Ci ha incoraggiato e dato norme per come ottenere il tesseramento dei Balilla e delle Piccole Italiane”.
L’obbedienza dei maestri non è in discussione e soprattutto negli anni dell’Italia imperiale la propaganda diviene pressante, complice anche l’inserimento della nuova materia Educazione fascista:
“Con una circolare il Sig. Direttore raccomanda affinché il tesseramento nelle scuole sia totalitario. Questo è pure desiderio di ciascun insegnante. Su 52 frequentanti, i tesserati sono già 30 e parecchi altri hanno cominciato il pagamento. Continuerò ad insistere perché completino e si abbia il maggior numero possibile di tesserati”.
E’ significativo analizzare quantitativamente i dati e riflettere come, sul lungo periodo, complice le normative sempre più stringenti e la riorganizzazione dell’Opera Nazionale Balilla sostituita dalla Gioventù Italiana del Littorio, si sia giunti ad una iscrizione quasi totalitaria dei bambini. La tabella, per quanto limitata al solo campione degli alunni delle prime classi, evidenzia la curva delle iscrizioni alle organizzazioni giovanili fasciste e mostra, con evidenza, l’impennata corrispondente al periodo 1936-42.
Si nota anche una maggior efficacia nel tesseramento maschile, rispetto a quello femminile, salvo negli anni dell’iscrizione totalitaria.
E’ ovviamente presto per desumere considerazioni generali, certo l’esempio conferma la maggiore efficacia della propaganda degli insegnanti sulle famiglie dei bambini, rispetto a quella delle bambine. Altro dato molto curioso, che a mio giudizio comprova un’adesione di facciata e “opportunistica” alle organizzazioni giovanili fasciste è il fatto che per molti anni i tesserati risultarono più numerosi dei frequentanti. Questo prova che gli insegnanti, le famiglie e gli stessi aderenti alle organizzazione consideravano la tessera del tutto svincolata dalla frequenza alle aule scolastiche.
Attorno alla metà degli anni Trenta, gli echi dei successi delle campagne belliche in Africa giunsero anche a Bono e portarono una ventata di inatteso ottimismo. L’ “apatica” popolazione bonese, (per utilizzare l’aggettivo preso dalle cronache), troppo gelosa delle proprie tradizioni per poter cedere ai cambiamenti e alle proposte di modernizzazione di cui il regime si era fatto carico, accettò, questa volta, di sentirsi pienamente italiana e partecipò agli splendori della famiglia reale. Era un clima di festosità che raramente compare nelle cronache e che fa apparire quasi come carnevalesca la seguente nota:
“Anche la scuola ha partecipato con grande entusiasmo al lieto evento di ‘Casa Savoia’, la nascita del Principe Imperiale d’Italia. Il nipote del Re e Imperatore Vittorioso vede la luce mentre l’Italia ha raggiunta la sua perfetta unità materiale e spirituale, e con essa la potenza e la grandezza. Roma esulta e con essa tutta l’Italia. Da ogni città, da ogni casa italiana si leva un gioioso canto di fede nei destini della Dinastia, della Nazione e dell’Impero. Per il lieto evento la Nazione sarà imbandierata per tre giorni consecutivi”.
Bosa
Mentre a Bono il fascismo è vissuto e, per certi versi, quasi sopportato da una popolazione sfinita per le ristrettezze economiche, la situazione a Bosa appare diversa.
La cittadina della Planargia era notevolmente più florida: la fortunata collocazione geografica, in prossimità del mare e lungo un fiume navigabile, la presenza di vigneti e uliveti, la vicinanza di un vasto altipiano adatto alla pastorizia e lo sfruttamento di alcuni giacimenti metallurgici, avevano contribuito a fare di quel centro un punto di richiamo anche della vita economica, politica, religiosa e culturale di una porzione significativa di territorio a sud di Alghero.
Vari interventi architettonici anche nel ’900 avevano dotato la città di moderni edifici pubblici; meritano d’essere citati: il mercato civico, la sistemazione della foce del fiume Temo e, verso la fine del Ventennio, la realizzazione della scuola elementare.
Per ciò che attiene alla penetrazione del fascismo possiamo dire che la classe magistrale appare ligia alle indicazioni delle autorità scolastiche che si dimostrano estremamente accondiscendenti alle direttive provenienti dalla capitale. Così la circolare del direttore didattico di Macomer del gennaio 1928, che raccomanda di attenersi, per ciò che riguarda le organizzazioni giovanili, alla regola: “tanti iscritti, tanti Balilla”, viene accolta benevolmente dai docenti, subito disponibili a organizzare feste da ballo, recite, vendite di panini, lotterie con il pieno sostegno degli amministratori locali. Il segnale di un atteggiamento condiscendente dei maestri nei confronti delle assillanti sollecitazioni dei superiori si ha per esempio in occasione della richiesta di sostenere, con un finanziamento di 5 lire, gli orfani degli insegnanti elementari della provincia. Il “nobile intento umanitario” è appoggiato senza esitazione dai colleghi di Bosa, mentre a Bono, una maestra, contrariata, scrive:
“Mi è stata chiesta la quota di £. 3 per gli orfani dei maestri, che non ho versato perché a me, rimasta orfana d’un maestro a soli tre mesi non mi fu dato nessun aiuto e perché si verifica tutt’ora [sic] che gode alcuni benefizi sono sempre gli orfani dei maestri di città mentre quelli dei paesi sono quasi sempre dimenticati”.
Gli atteggiamenti di accondiscendenza si sprecano. In occasione delle visite di importanti personalità provenienti dal continente il provveditore, il prefetto e il direttore insistevano perché i docenti si preoccupassero di far indossare a tutti i balilla la divisa. E’ proprio l’insegnante, cuore di un sistema a cerchi concentrici, a non dar pace alle famiglie. L’uniforme, con il suo importante effetto coreografico, avrebbe infatti dato un’immediata immagine del grado di fascistizzazione del territorio e della capacità di mobilitazione politica degli educatori. Questi ultimi, fin dalla fine degli anni Venti, furono chiamati a prestarsi all’opera di propaganda con ogni mezzo, per esempio attraverso la diffusione e il commento anche in classe del giornale “Il Balilla”.
Eppure i motivi per qualche malcontento non dovevano mancare. La costruzione dell’edificio scolastico attraverso l’impiego dei fondi provenienti dalla legge del miliardo, già deliberata dal Commissario prefettizio il 19 maggio del 1927, faticò a vedere la luce, così che gli insegnanti furono costretti a svolgere le lezioni nello stabile annesso alla Chiesa del Carmine e in altra aule acquisite da privati fino al 1941.
La frequenza degli alunni era tutt’altro che assidua, complice, certo, l’incuria dei genitori, le malattie (morbillo, malaria, tricofizia) e l’impiego dei bambini nei lavori agricoli, ma anche la latitanza delle autorità nel far rispettare il principio dell’obbligo, almeno a dar retta alla seguente cronaca e alle altre simili:
“Dopo 15 giorni dacché siamo a scuola le iscrizioni procedono ancora molto lentamente. Le alunne si presentano alla spicciolata e sole o accompagnate dalle proprie mamme le quali si scusano del ritardo col pretesto che ignoravano la data della riapertura.
Questa, ormai, è consuetudine di tutti gli anni appunto perché non si è mai seriamente pensato, o per questa o per quella ragione più o meno giustificata, di far rispettare dalla nostra popolazione l’obbligo scolastico applicando all’uopo le sanzioni prescritte dalle presenti leggi”.
Il patronato scolastico, come si è già visto, era assolutamente inefficace nel far fronte alle richieste delle famiglie più povere: