Categoria : storia

Un martire senza altare il padre Giovanni Domenico Aresu, gesuita terteniese (XVII SEC.) di Tonino Loddo

 

1 – Al padre generale lo aveva scritto tante volte di voler andare a offrire il proprio servizio sacerdotale in terra di missione. E si era talmente affezionato a questo desiderio da considerare l’esaudimento della sua richiesta come «don y gracia que major no posso recibir de V[uestra] P[aternida]d y de ninguno de sus hijos»1. Rimasta inascoltata la prima richiesta, il padre Giovanni Domenico l’aveva reiterata almeno una seconda volta 2 specificando che il suo non era un generico desiderio di missione che

ra di Bruno Anatra e Giovanni Murgia, Roma 2004, pagg. 403-424.2 «Otras vezes pedida», ribadisce nella lettera del 1639, affermazione che – per essere al plurale – ri- chiama appunto una pluralità di richieste di cui, però, non ci è pervenuta traccia al di fuori di quelle so- praddette del 1638 e del 1639. 

si sarebbe potuto ben realizzare anche nella Sardegna dell’epoca o in qualche altra parte d’Italia e d’Europa; aspirava, infatti, proprio alle missioni d’oltremare, facendo esplicitamente cenno a «la mission Indica» e «a las missiones y reduciones del Paraguay», cioè a quelle Indie da convertire, in cui c’era tanto da lavorare per santificare e santificarsi. Perché si possa meglio comprendere il contesto nel quale egli matura la decisione di richiedere l’invio in missione non si può non ricordare lo straordinario universalismo delle prospettive presenti nella formazione gesuitica dell’epoca, l’educazione dei novizi finalizzata sempre a verificare la presenza di Dio in ogni circostanza e l’impegno educativo rivolto a che essi fossero in condizione di rendere sempre ragione della loro fede e collocassero Dio al centro di tutte le cose, purificando in tal modo ogni aspetto delle loro intenzioni3. Ma finalmente il padre generale lo accontentò.

quindi, definitivamente attestata da padre Vincenzo Maria Cannas8. Ma prima di allora vige-

3 Vedere L. V. SOUZA, M. MASSIMI, Il desiderio dell’oltremare …, op. cit., pag. 59.
4 Vedilo nei Quinque Libri di Tertenia, vol. I, ad annum, in Archivio Diocesano di Lanusei.
5 Primus catalogus collegii sassaritani 1630, in ARSI, Sardinia, vol. 3, f. 317v.
6 Primus catalogus personarum Provinciae Insularum Philippinarum Anni 1643, redatto a Manila il 18luglio 1643 dal provinciale dell’epoca, Francesco Colin, in ARSI, Provincia Philippinarum, 2, I, f. 215r.7 Il primo riconoscimento lo si deve alla penna di A. M. BALDUSSI, Un sardo assassinato dai pirati tra i primi missionari domenicani mandati nel Seicento in Cina, in “L’Unione Sarda”, 3 agosto 1986, pag. 7, che dell’Aresu dice che «era nato a Tertenia nel 1606», errando nell’anno.
8 V. M. CANNAS, Martire della fede. Un gesuita terteniese tra i primi missionari del Seicento mandati nelle Filippine, in “L’Ogliastra”, 10 (1992), pagg. 5-6.

va la vulgata di Alfonso Maria Casu che voleva l’Aresu nato da «onesti e facoltosi genitori, in Arcidano, piccolo paese della provincia di Cagliari, nel 1605»9. Sempre al Cannas dobbiamo il rinvenimento dell’atto di matrimonio dei genitori di padre Giovanni Domenico che egli identifica, procedendo (immaginiamo) per esclusione, in Juan Aresu e Juliana De Serra, sposatisi a Tertenia il 28 luglio 160310.

3 – Di padre Giovanni Domenico perdiamo, quindi, ogni traccia11 fino al 4 novembre 1622, quando viene formalmente ammesso nella Compagnia di Gesù12. Nel terzo Catalogus del 1622 del collegio di Cagliari, infatti, ne troviamo il nome («Joannes Baresu») tra gli «Admissi in Societate ex Scholis Huius Collegii» che «dabant operam Litteris humanioribus»13. Da questa scarna notizia apprendiamo che egli assai probabilmente aveva frequentato il medesimo collegio almeno nell’anno precedente (o nei mesi precedenti), completandovi gli studi inferiori di preparazione necessari ad essere ammessi, secondo la prassi ordinaria della Ratio studiorum vigente

9 A. M. CASU, P. Giandomenico Aresi di Arcidano, martire della fede, Cagliari 1923, pag. 7. Va però detto, a onor del vero, che il Casu si limitava a ripetere quanto scritto dal Tola (P. TOLA, Dizionario degli uomini illustri di Sardegna, vol. I, Torino 1837, pag. 91) che giungeva ad una siffatta conclusione,interpretando arditamente l’Alegambe (P. ALEGAMBE, Mortes illustres et gesta eorum de Societate Jesu qui in odio fidei … confecti sunt, Roma 1657, pag. 616). Lo storico gesuita, infatti, parlando dell’Aresu(«P. Joannes Dominicus Aresius») lo definisce quanto a provenienza «natus in Sardinia Tertiniani» (nel titoletto) e «Tertinianum Sardiniae oppidum in Calaritana Dioecesi P. Joanni Dominico Aresio natale fuit» (nel corpo dell’articolo che gli dedica). Il Tola (ib.) traduce a sua volta l’approssimativo latino dell’Alegambe in «Terzidano o Terzignano terra ora distrutta in Sardegna nella diocesi di Cagliari» per poi prudentemente commentare in nota: «La terra di Tarzidano non si trova notata nella Corografia sarda del Fara. Forse l’Alegambe fu tratto in errore, e forse la patria del P. Aresi fu Arcidano o San Nicolò di Arcidano, piccolo villaggio esistente nella diocesi di Ales». La prudenza del Tola (evidenziata dai due forse posti a distanza ravvicinatissima) viene saltata a piè pari dal Casu che gli attribuisce plane la patria di Arcidano e, non contento, favoleggia anche del tempo di morte e di presunti mira- coli avvenuti sulla sua tomba. Nello stesso errore incorre anche P. MELONI SATTA, Ricordi storici. Ef- femeride sarda, vol. I, Cagliari 1895, pag. 89.

10 Vedilo nei Quinque Libri di Tertenia, vol. I, ad annum, in Archivio Diocesano di Lanusei.
11 Se l’intuizione parentale del Cannas è giusta (ed è del tutto verosimile che lo sia) potremmo identificarlo anche in un «Juan f[ilius]de Juan Aresius y Jul[ian]a Serra» che viene cresimato da «[Sebastian Carta], Episcopus Madaurensis» in occasione della sua Visita pastorale in Ogliastra (vedilo in ib. in coda ai battezzati del 1634). Sul vescovo Sebastiano Carta vedi M. A. SCANU, Don Sebastiano Carta,Episcopus Madaurensis et Bosanensis. un inventor di ‘corpi santi’ nella Sardegna del ‘600, in “Bollet-tino Bibliografico e rassegna archivistica e di studi storici della Sardegna”, 15/24 (1998), pagg. 73-86.L’elenco dei cresimati non reca, purtroppo, alcuna indicazione di data e dobbiamo presupporre – semprese l’identificazione del Nostro è corretta – che l’amministrazione delle cresime si sia svolta in periodocompreso tra il 21 febbraio 1621 (data di nomina del Carta ad ausiliare di Cagliari, come riportato da F. VIRDIS, Gli arcivescovi di Cagliari dal Concilio di Trento alla fine del dominio spagnolo, Ortacesus2008, pag. 103) e il tardo autunno del 1622 quando l’Aresu sarà ammesso al noviziato nel Collegio diCagliari, come si dirà in appresso.
12 Catalogus primus Collegii Algarensis An 1628, in ARSI, Sardinia, vol. 3, f. 291v.
13 Collegii Calaritani Catalogus Tertius et Supplementum P[rim]um et S[ecund]um Anni 1623, in ARSI,Sardinia, vol. 2, f. 51r.

all’interno della Compagnia dal 1599, agli studi umanistici14. Iniziava in tal modo il suo cammino nella Compagnia di Gesù, compiendo i consueti studi di grammatica, umanesimo e retorica in cui era centrale lo studio del latino e dei classici. A quell’epoca, la presenza dei gesuiti in Sardegna era ormai stabilmente assestata, ed a Cagliari poteva contare su due case: un collegio ed una Casa di probazione, come i Gesuiti chiamano il noviziato15. E proprio nella casa di probazione lo troviamo sul finire del 1622 già insignito dell’appellativo di frater ed inserito nell’elenco dei 12 «Novitii scholares»16 intenti a seguire il proprio percorso di studio e di formazione. Anche nell’anno successivo (1623, e per la prima volta con il suo nome corretto: «Joannes Dominicus Aresu») egli prosegue la sua formazione nella stessa casa cagliaritana con un gruppo di altri 18 confratelli novizi17. Il 1624 rappresenta un anno cruciale per il novizio, perché il 7 novembre18 di quell’anno, a due anni di distanza dall’ammissione, emette i «consueta vota», i primi voti di povertà, castità e obbedienza che lo proiettano verso la probazione definitiva.

4 – Nell’ottobre del 1626 troviamo, quindi, il giovane Aresu nel collegio di Alghero19 unitamente a tutto il gruppo dei novizi cagliaritani. Il trasferimento dei giovani in quel centro è dovuto probabilmente al fatto che proprio in quegli anni «in seguito alla cospicua donazione del capitano Jerónimo Ferret, un algherese che aveva fatto fortuna in Sicilia, e di altri benefattori»20, il collegio era notevolmete cresciuto nelle strutture e nell’offerta formativa, con l’istituzione del triennio filosofico e persino di un ciclo diversificato di studi teologici21. Contestualmente, troviamo chiuso il pro- bandato di Cagliari22 dove il padre Giovanni Domenico doveva aver completato il biennio di studi umanistici perché nel 1628 23 ad Alghero «audit philosophiam», completa cioè il triennio di studi filosofici. In questo periodo sappiamo che il suo

14 Programmi e metodi di insegnamento delle varie classi li si trova in Ratio atque Institutio studiorum societatis Iesu. Ordinamento degli studi della compagnia di Gesù. Testo latino a fronte, Milano 2002. Vedere anche G. P. BRIZZI (a cura di), La “Ratio Studiorum”. Modelli culturali e pratiche educative dei Gesuiti in Italia tra Cinque e Seicento, Roma 1981. Per l’applicazione di queste norme in Sardegna vedere R. TURTAS, Studenti sardi tra ‘500 e ‘600, in ID., Studiare, istruire, governare. La formazione dei letrados nella Sardegna spagnola, Sassari 2001, pagg. 93-171.

15 Per una prima ricostruzione della presenza gesuitica in Sardegna vedere R. TURTAS, I Gesuiti in Sardegna. 450 anni di storia, Cagliari 2010.
16 Catalogus Tertius domus Probationis calaritanae Anni 1622, in ARSI, Sardinia, vol. 2, f. 53v.
17 Catalogus Tertius domus Probationis calaritanae Anni 1623, in ARSI, Sardinia, vol. 2, f. 110v.

18 Occorre dare conto (per mera completezza di trattazione) che le fonti sono incerte sulla data esatta dell’emissione dei voti, in quanto il Catalogus Primus Collegii Algarensis A. 1628 (in ARSI, Sardinia,vol. 3, f. 292v) riporta la data del 7 novembre e il Primus Catalogus Collegii calaritani Anni 1633 (inib., f. 317v) riporta la data del 6 novembre.

19 Catalogus 3us Collegii Alguerensis Anni 1626, mense octobri, in ARSI, Sardinia, vol. 2, f. 65r.
20 R. TURTAS, I Gesuiti in Sardegna…, op. cit., pag. 37.
21 Ib.
22 Catalogus 3us Seminarii Calaritani Anni 1626, mense octobri, in ARSI, Sardinia, vol. 2, f. 67v.
23 Nel Catalogus Primus Collegii Algarensis A. 1628 cit., si dice che il suo «tempus studiorum» è di «Phi[osophi]a 3», dovendosi con ciò ritenere a quella data superato il periodo degli studi filosofici.
 

stato di salute era buono, giacché le sue forze vengono definite «integrae»24. I suoi superiori algheresi ci hanno anche lasciato un profilo sintetico dal quale apprendiamo che «ingenii videtur boni, similis iudicii, ac prud[enti]ae, non habet experientiam, in philosophiam profecit, complexionis est phlegmatica, nec apparet notabile talento»25; insomma, niente di eccezionale ma un gran bravo giovane, dotato di buone capacità critiche benché inesperto delle cose del mondo, che aveva compiuto diligentemente il proprio percorso di studio e dal carattere misurato.

5 – Insomma, pronto a prendere il volo per un’attività più diretta nel campo dell’istruzione. In attesa di poter attendere agli studi teologici, nell’autunno del 1629 l’Aresu viene trasferito nel collegio di Sassari 26 dove è incaricato dell’insegnamento della grammatica. In città, infatti, i gesuiti – che vi avevano una numerosa comunità – avevano aperto delle scuole frequentate da un gran numero di ragazzi che rappresentarono «l’inizio di una nuova fase nel processo di diffusione della cultura scritta in Sardegna»27; e ciò, non solo per l’alto numero di allievi che le frequentavano, ma anche per i nuovi programmi e i nuovi metodi d’insegnamento che i gesuiti vi praticavano, ispirati a quelli del Collegio Romano in cui si insegnava non solo a leggere e a scrivere, ma anche la grammatica, l’umanità e la dottrina cristiana28.

È «Professor gramaticae», almeno fino al 1630 29, mentre nell’anno successivo (1631) inizia, sempre nel collegio di Sassari, gli studi teologici30. È ancora studente nel 1632 31 e nel 1633 32. Sicuramente completò il quadriennio dei propri studi teologici nell’anno successivo (1635) quando fu ordinato sacerdote, anche se di questo avvenimento che segnò in maniera importante la sua vita non siamo, al momento, in grado di definire la data esatta33. Certamente, tuttavia, egli fu ordinato sacerdote nel 1635; questa determinazione appare supportata da due circostanze. Terminò nel giu-

24 «Vires integrae» (ib.).
25 Ib.
26 Catalogus Tertius Collegii Sacerensis anni 1629, mense novembris, in ARSI, Sardinia, vol. 2, f. 68v.27 R. TURTAS, I Gesuiti in Sardegna…, op. cit., pagg. 28-29.
28 Ib., pagg. 24-25. Vedere anche R. TURTAS, Scuola e Università in Sardegna tra ‘500 e ‘600. L’organizzazione dell’istruzione durante i decenni formativi dell’Università di Sassari (1562-1635),Sassari 1995.
29 Catalogus Tertius Collegii Sassaritani Societatis Jesu anni 1630, in ARSI, Sardinia, vol. 2, f. 82v.
30 Catalogus Tertius Collegii Sassaritani Societatis Jesu anni 1631, in ARSI, Sardinia, vol. 2, f. 90r,dove compare nell’elenco di un folto gruppo di novizi «Auditores Theologiae Scholasticae».
31 Catalogus Tertius Collegii Sacerensis anni 1632, mense Xbris, in ARSI, Sardinia, vol. 2, f. 101v. Qui il suo cognome compare come «Arezo».
32 Index Alphabeticus Person[aru]m quae continentur in hoc primo catalogo Provinciae Sardiniae Anni 1633, in ARSI, Sardinia, vol. 3, f. 312v e Primus catalogus Collegii Sassaritani Anni 1633, in ib., f. 317v, dove leggiamo che «Theologiae tertium annum agit»
33 Sono, infatti, andati dispersi sia i cataloghi annuali sardi della Compagnia relativi al 1634 sia il Regi- stro delle ordinazioni dell’arcidiocesi di Sassari relativo agli anni 1533-1635, mentre con certezza sap-piamo che non compare tra gli ordinati dell’arcidiocesi di Cagliari dello stesso periodo.

gno di quell’anno i propri studi teologici e, soprattutto, compare come «Pater» (e non più come «Frater») nei registri dell’autunno del 1635 34.

6 – Ordinato sacerdote, il padre Giovanni Domenico Aresu nell’autunno del 1635 viene inviato, insieme ad altri due confratelli e a due coadiutori, a Bosa dove si stava allestendo un nuovo collegio. All’Aresu sono affidate due specifiche mansioni: inse- gnare grammatica e confessare i fedeli35. Superiore di quella piccola comitiva di pionieri era il padre Salvatore Pala, persona all’epoca assai celebre, professore all’Università di Cagliari di teologia e matematica ed autore di alcuni saggi scientifici36. Poiché, come è noto37, la procedura di edificazione del collegio a Bosa non andò in porto, dopo pochi mesi l’Aresu e i suoi confratelli se ne tornarono a Cagliari, dove lo troviamo nella locale Domus Probationis nel 1636-38. Il suo stato di salute che avevamo conosciuto integro, si era ormai deteriorato, tanto che – nonostante i suoi appena 31 anni – le sue forze venivano definite «mediocres»; singolare appare anche il giudizio poco benevolo del suo superiore, in ordine alle sue competenze letterarie, definite «infra mediocritatem»39, cioè pressoché insufficienti, davvero oscuro per uno che per quattro anni era stato incaricato dell’insegnamento della grammatica! Sempre di quest’anno ci rimane anche un giudizio sintetico che suona così: «Est tenuis ingenii, et memoria, tenet bonum iuditium, prudentiam plus quam mediocrem, non tenet experientiam in phil[osoph]ia, et utraque theologia profecit infra mediocritatem, complexionem tenet phlegmaticam, melancholicam sed admodum tractabilem, videtur ostendere talentu mediocri ad gubernandum et docendum; ad concio- nandum infra mediocre[m]»40. Ora, pur premettendo che si tratta di un giudizio sintetico di tipo amministrativo, composto sulla base di parametri statici, esso ci rimanda il profilo di un uomo e di un sacerdote senza doti particolari che ben è tratteggiato in quell’indole tractabilis: disponibile, servizievole, ma del tutto alieno a volersi

34 In calce al Seminarii Calaritani Catalogus tertius Anni 1635, compare la seguente aggiunta: «Bosa ubi datur opera Collegio edificando resident e nostris quinque», in ARSI, Sardinia, vol. 2, f. 129v.
35 «Legit gramaticam et audit Confessiones» (ib.).
36 Lo si ricorda come autore di un volume dal titolo Tratado de algunas sciencias matematicas, datato 1628 e conservato manoscritto nella biblioteca di Ludovico Baille (P. MARTINI, Catalogo della biblio- teca sarda del cavaliere Lodovico Baille preceduto dalle memorie intorno alla di lui vita, Cagliari 1844,pag. 214). Il Pala è considerato dall’Angius anche il responsabile della falsa ricostruzione delle vite di due martiri venerati a Scano Montiferro (sant’Elvio e san Silvano) che conterrebbe «tanti anacronismi, tante asserzioni gratuite, tante scempiaggini che è ben cieco chi non se ne avvede» (V. ANGIUS, in G. CASALIS, Dizionario geografico, storico, statistico, commerciale degli Stati di Sua Maestà il Re di Sar- degna, vol. VI, Torino 1840, pagg. 391-392). 37 Una ricostruzione delle vicende relative a questo collegio in R. TURTAS, I Gesuiti in Sardegna…, op. cit., pagg.68-69.
38 Index Alphabeticus Person[aru]m quae continentur in primo catalogo Provinciae Sardiniae An. 1636in ARSI, Sardinia, vol. 3, f. 346r e Primus Catalogus Domus Probationis Calaritanae 1636, in ib., f. 360r.  39 I40 

Ib, 376r.

mettere in mostra, non particolarmente adatto allo studio, né all’insegnamento, né al potere, che riconosce ed accetta i propri limiti e non vuole primeggiare né dentro né fuori di sé. Nonostante il tono spiccio e sferzante, il padre provinciale ci parla di un padre Giovanni Domenico modesto, privo di superbia, che non si ritiene migliore o più importante degli altri, il cui comportamento è improntato alla consapevolezza dei propri limiti e al distacco da ogni forma di orgoglio e sicurezza eccessiva. Umile, lo potremmo definire con un solo aggettivo.

7 – Negli anni successivi sarà ancora a Cagliari, sempre nella medesima Casa di probazione. Nel 1637 gli vengono affidati due compiti specifici, quelli di «consultor» e «procurator»41. Tali incarichi li conserva anche nell’anno successivo (1638), con l’aggiunta di quello a lui più confacente di «audire confessiones ad ianuam»42. Nel 1639 la presenza del padre Giovanni Domenico è ancora attestata43 nella stessa casa. Non sembra aver incarichi particolari, non sappiamo se per omissione del redattore o perché la sua salute si è ulteriormente deteriorata come dimostra il fatto che le sue forze sono definite «debiles»44, o – ancora – perché deve scrupolosamente attendere alla grave incombenza di preparare l’emissione della professione perpetua. Di questo stesso anno è anche un nuovo profilo sintetico nel quale leggiamo: «Mediocris ingenii et judicii, par prudentiae et minoris experientiae, phlegmaticus, in literis mediocriter profecit, talentum habet ad docendum gramaticae et ad missiones obeundas, ad concionandum aliquale»45. Un giudizio, come si vede, che in parte conferma il precedente, ma che mette anche in mostra aspetti nuovi tra i quali non possiamo cer- to trascurare quello relativo alla sua indole profondamente missionaria (per la quale si dice abbia talento) e alla sua capacità nel predicare, cosa che ne faceva un candi- dato ideale per partire verso le Indie. Fu proprio in quell’anno che il padre Giovanni Domenico emise i suoi voti perpetui promettendo a Dio e alla Chiesa di essere fedele nell’osservanza completa dell’ubbidienza, della povertà e della castità. È il 23 giu- gno 1639. Inginocchiato dinanzi al padre Francesco Serrera46, all’epoca rettore della Casa di probazione di Cagliari, nella chiesa di san Michele, promette solennemente

 

41 Catalogus 3 Domus Prob[ationi]s Calarit[anae], in ARSI, Sardinia, vol. 2, f. 138r. I consultoreserano una sorta di assistenti del superiore della casa che venivano nominati dal padre provinciale e ben- ché fossero sprovvisti di titolo deliberativo, dovevano obbligatoriamente essere sentiti su ogni argomen- to importante del governo della casa. Quanto ai procuratores, erano quelli che si occupavano di gover- nare gli interessi temporali della casa. A questo proposito occorre ricordare che ogni casa gesuitica do- veva essere in grado di poter garantire in maniera autonoma il proprio funzionamento producendo i mezzi necessari alla propria sussistenza (Vedere W. GRAMATOWSKI, Glossario gesuitico, Roma 1992).42 Catalogus Tertius Domus Probationis Calaritanae Societ[atis] Jesu, An 1638, in ARSI, Sardinia, vol. 2, f. 144r. Il confessor ad ianuam era un sacerdote della casa che era sempre disponibile – su chiamata del portinaio – ad ascoltare le confessioni di chiunque si presentasse in qualunque ora.

 

43 Catalogus Primus Domus Probationis Calaritanae Anni 1639, in ARSI, Sardinia, vol. 4, f. 15r.
44 Ib.
45 Catalogus Secundus Domus Probationis Calaritanae Anni 1639, in ARSI, Sardinia, vol. 4, f. 31r.
46 Dal Turtas sappiamo che costui è stato due volte provinciale e rettore dell’Università di Sassari (R.TURTAS, Gesuiti a Sassari durante la peste del 1652, in “Bollettino di Studi Sardi”, 7 (2014), pag. 134).

(come apprendiamo dall’atto da lui scritto e sottoscritto in una un po’ goffa grafia gotico-cancelleresca) «perpetuam Paupertatem, Castitatem et Obedientiam et pecu- liari curam circa puerorum eruditionem»47. In tal modo, egli diventava coadiutore spirituale, titolo che costituiva il penultimo grado di partecipazione alla vita della Compagnia al quale accedevano coloro che avevano seguito con mediocre profitto (se non parzialmente) la trafila degli studi, e che ricevevano una preparazione pratica alle confessioni e ad altri ministeri che potremmo definire meno impegnativi, come la gestione delle incombenze burocratico-amministrative dei collegi48. Si trattava di un grado talora non permanente; infatti, l’originario progetto ignaziano prevedeva che esso costituisse un provvedimento contingente dettato dalla necessità e che pote- va essere superato nel caso si verificassero le condizioni ottimali49. In tale evenienza (e questo accadrà, ancorché parzialmente, come vedremo, nel nostro caso) si sarebbe potuto procedere alla professione dei quattro voti e all’acquisizione del grado di pro- fesso di quattro voti50. Da allora padre Giovanni Domenico non si muove più dalla Casa di probazione di Cagliari dove continuerà a svolgere i servizi di procurator econsultor fino al momento della sua partenza per le missioni (1642)51.

 

8 – Nel cuore di padre Giovanni Domenico, infatti, da tempo – come anche ben sape- vano i suoi superiori -, stava affondando sempre più le radici il desiderio della mis- sione. «Andare tra gli infedeli per annunciare loro il Vangelo, rientrava tra le desti- nazioni prioritarie verso cui ogni Gesuita doveva essere pronto a partire per realizza- re il suo ideale di seguire Cristo»52. Erano gli Indipetae che, a migliaia, manifestava- no ai loro superiori il deseo di andare a convertire quelle lontane e nuove popolazio- ni, sapendo di trovare in tale attività il consuelo delle proprie anime nella sicura ga- ranzia della salvezza eterna. «Non furono molti i Gesuiti sardi che raggiunsero le missioni prima della grande peste del 1652-56, appena 19»53, scrive il Turtas. Tra es- si il padre Giovanni Domenico Aresu che, come già s’è accennato precedentemente, aveva scritto forse più di due lettere al padre generale benché solo tante siano giunte

 

47 Professio J. Dominici Aresu, in ARSI, Hispania, vol. 42, f. 240r.
48 G. ANGELOZZI, L’insegnamento dei casi di coscienza nella pratica educativa della Compagnia di Ge- sù, in G. P. BRIZZI (a cura di), La “Ratio Studiorum”…, op. cit., pagg. 126-127.
49 Ib. Vedi anche A. VALLERIANI, L’educazione nell’epoca barocca, Roma 2004, pagg. 75-76.
50 Ai consueti voti di povertà, ubbidienza e castità, infatti, ogni professo aggiunge il voto di perfetta ub- bidienza al Papa per quanto riguarda le missioni, cioè la disponibilità di andare dovunque egli decida di inviarlo in qualsiasi momento e per qualsiasi ragione. Vedere P. DEZZA, Il quarto voto di speciale ob- bedienza al Papa, in ID., I decreti della XXXII Congregazione Generale della Compagnia di Gesù, in“La Civiltà Cattolica”, 3002 (1975), pagg. 157-159.
51 L’ultima notizia che abbiamo di lui in terra sarda, infatti, risale al 1642, e la troviamo in una carta in cui – oltre a riaffermarne le mansioni, come detto – si trova scritto che sta per partire in missione: «nuc proficiscitur ad Philippinas Insulas» (Catalogus Domus Probationis Calaritanae cum supplemento primi et secundi anni 1642, in ARSI, Sardinia, vol. 2, f. 179r).
52 R. TURTAS, I Gesuiti in Sardegna…, op. cit., pag. 59.
53 R. TURTAS, I Gesuiti in Sardegna…, op. cit., pag. 69.

fino a noi. La prima, datata Cagliari 19 gennaio 163854 , si apre con la parola «Supli- co»: il padre Aresu non si limita a chiedere al padre generale di esaudire il proprio desiderio di andare in missione, ma perfino lo supplica di farlo. L’uso di una siffatta espressione verbale non è casuale perché è prodromica all’ammissione della propria povertà umana e spirituale, delle sue «muchas faltas morales y naturales defectos»: egli sa di non essere all’altezza di un simile, straordinario compito, ma tuttavia ardi- sce chiedere, confidando nella clemenza del suo interlocutore. L’accoglimento di ciò che chiede sarà per lui uno straordinario regalo, un «don y gracia que major no pos- so recibir de V[uestra] P[aternida]d y de ninguno de sus hijos». E dopo aver pre- messo che il suo è un «intenso y ardente deseo», ancora ammette i propri limiti rico- noscendo la debolezza della sua costituzione fisica («no soy de cuerpo y estatura gi- gantea»), per subito però annotare che tutto ciò non gli ha mai impedito di svolgere con passione le mansioni del proprio stato, come la predicazione delle missioni55 e l’incarico di procuratore della casa di probazione regionale, «en tempo riguardosos de frios y calore (inverno e estate) y con hartas (non poche) incomodidades». In- somma, dice al suo generale: so di non essere esattamente l’uomo che voi cercate per inviarlo in missione; ma posso garantire che sono anche uno che non si tira mai in- dietro e che non si fa certo bloccare dalle circostanze avverse! Ad una tale premessa segue, rigorosamente in latino, la formale dichiarazione di disponibilità rivolta al «Pater meus Generalis» di essere disponibile ad andare dovunque egli «me mittere voluerit extra Regnum Sardiniae».

 

9 – La richiesta rimase inaccolta, ma padre Giovanni Domenico non si diede per vin- to. Così, ci riprovò. La seconda lettera di cui abbiamo notizia è datata Cagliari 14 giugno 163956. Il tono è sempre modesto, umile, quasi dimesso. «Con la humiltad possible y con el afecto mas intenso», egli reitera la propria istanza. Anche in questo caso, supplica il generale di «consolarme con la concession de la mission Indica o- tras vezes pedida a V[uestra] P[aternidad] y confirmada con esta [letra]». Succes- sivamente, dopo aver fatto esplicito riferimento ad una formale chiamata che era sta-

 

54 Al Padre General, Cagliari 19 gennaio 1638 in ARSI, Fondo Gesuitico. Indipetae, 759, f. 212r. Per le considerazioni di carattere generale vedere la precedente nota 1. La nota è firmata «minimo hijo de V[uestra] P[aternidad]», espressione degna dell’umiltà di padre Giovanni Domenico.
55 Sotto questo nome (missioni) si intendeva la predicazione straordinaria itinerante nei vari paesi della Sardegna nei periodi di Avvento e di Quaresima. «Si trattava – scrive il Turtas – di un’attività praticatadai Gesuiti anche in altre regioni europee più emarginate e arretrate: questo genere di vita, condotto senza interruzioni per alcuni mesi, faceva loro venire in mente quello praticato dai loro confratelli che predicavano il Vangelo nelle terre rese accessibili dalle recenti esplorazioni geografiche. Di qui a quali-ficare questa attività come ‘missione’ e le regioni visitate a questo scopo come ‘le nostre Indie’, che in Sardegna diventavano le ‘Indie sarde’, il passo era breve» (R. TURTAS, I Gesuiti in Sardegna…, op. cit., pag. 44). Vedere anche M.G. PETTORRU, «Indias sardescas». Forme della prima presenza gesuitica in Sardegna tra contesto urbano e realtà rurali (1559-1572), in «Archivio italiano per la storia della pie- tà», 19 (2006), pagg. 284-334.

56 Al Padre General, Cagliari 19 gennaio 1638 in ARSI, Fondo Gesuitico. Indipetae, 759, f. 231r . Per gli aspetti generali vedere ancora la precedente nota 1.

 

ta fatta all’interno della Compagnia per l’invio di missionari in Paraguay, egli non manca di sottolineare che l’averla udita ha accresciuto «en mi mucho esto deseo» e di esser rimasto particolarmente deluso perché il padre provinciale, cui evidentemen- te aveva già offerto la propria disponibilità, dopo averlo scelto per la missione l’aveva successivamente scartato preferendogli un altro confratello57, il padre Luca Chessa. Inutile dire che il padre Chessa (professo di quattro voti) sarà avviato imme- diatamente alle missioni del Paraguay, dove giungerà l’anno successivo e dove pre- sterà il suo servizio pastorale tra gli Indios per oltre un quarto di secolo trovandovi la morte il 1 ottobre 1666, all’età di 57 anni58. Si sarà scoraggiato, in quegli anni di si- lenzio, il padre Aresu? Non sappiamo, ma vogliamo immaginare di no, perché quan- do il tempo della Provvidenza fu maturo arrivò anche il momento della sua partenza.

 

10 – La storia dell’evangelizzazione delle Filippine e della spedizione missionaria che portò colà il padre Giovanni Domenico Aresu è lunga e complessa59. Fin dalla seconda metà del Cinquecento insieme alle armate spagnole erano giunti nell’ar- cipelago decine di religiosi spagnoli. Nel 1575 sbarcarono a Luzon 24 agostiniani, nel 1577 li seguirono i francescani e nel 1579 Manila divenne un vescovado. Sino al principio del sec. XVII è stato contato che si siano imbarcati per le Filippine circa 450 religiosi, tra i quali (a partire dal 1581) i gesuiti che nel 1606 vi costituirono una provincia. Gli evangelizzatori non trovarono quasi alcuna resistenza tra gli abitanti delle isole che professavano un primitivo animismo e nel 1620 si contavano già oltre due milioni di battezzati: in appena cinquant’anni la massa della popolazione dell’arcipelago era divenuta cristiana! Nel 1595 Manila divenne arcivescovado ed

 

57 Così si legge testualmente: «deseo que mi Padre Provincial ha mortificado señalando y substituyen- do en lugar de P[adre] Coni y mio el P[adre] Lucas Quessa» (ib.).
58 Vedere R. TURTAS, I Gesuiti in Sardegna…, op. cit., pagg. 174-175
59 Pure ampia, articolata e complessa è la bibliografia che la concerne e di cui, in questo luogo, ci limi- tiamo a dare un conto sommario. P. CHIRINO, J. GORRIZ I ABELLA, History of the Philippine Province of the Society of Jesus, 2 voll., Manila 2010-2011; H. DE LA COSTE, The Jesuits in the Philippines, 1581- 1768, Cambridge 1961; M. BATILORI, Del descubrimiento a la Independencia. Estudios sobre Iberoa- merica y Filipinas, Caracas 1979; V. YEPES, Una etnografia de los Indios Bisayas del siglo XVII, Ma- drid 1996; ID., Historia Natural de las Islas Bisayas del padre Alzina. Madrid 1996; ID., Historia so- brenatural de los Indios Bisayas del padre Alzina, Madrid 1998; P. FERNÀNDEZ, History of the church in the Philippines (1521-1898), Manila 1979; V. BELLOC Y SÁNCHEZ, Los Misioneros en Filipinas: sus relaciones con la civilización y dominación, Manila 1895 (reprint London 2013); P. MURILLO VELARDE,Historia de la Provincia de Philipinas de la Compañia de Jesus. Segunda parte, que comprehende los progresos de esta provincia desde el año de 1616, hasta el de 1716, Manila 1749; P. WITTMANN, Mis- sioni nelle Filippine, in ID., Una storia universale delle cattoliche missioni, vol. I, Milano 1842, pagg. 282-292; M. L. DIAZ, Evangelizacion y misiones en Iberoamerica y Filipinas: textos historicos, Madrid 1999; J. S. ARCILLA, Jesuit Historians of the Philippines, in “Philippine Studies”, 44 (1996), pagg. 374–391; A. ASTRAIN, Historia de la Compañia de Jesus en la assistencia de España, 1615-1652, vol. V, Madrid 1916; P. PASTELLS, Labor evangelica. Ministerios apostolicos de los obreros de la Compañia de Jesus, fundacion, y progressos de su provincia en las islas Filipinas, vol. III, Barcelona 1902. Fon-damentali per la nostra ricerca sono risultate le varie annate della rivista “Philippiniana Sacra” che sipubblica in Manila dal 1966 a cura delle Facoltà ecclesiastiche della locale University of Santo Tomas.

 

ebbe in Cebu, Nueva Segovia e Nueva Càceres tre diocesi suffraganee. La presenza dei gesuiti si stabilizzò ben presto, grazie a successive ondate di arrivi di missionari dall’Europa60, la più importante delle quali fu quella organizzata dal padre Diego Bobadilla61, che essendo stato nominato procuratore della provincia a Roma nel 1637, si attivò subito per reclutare quanti più missionari poté per poi tornare nelle Filippine. Ottenuta licenza dal re Filippo IV62 di poter portare con sé 41 confratelli, organizzò la spedizione. Ci vollero un paio d’anni per mettere tutto a punto e finalmente, il 15 luglio 1642, la comitiva composta da 43 gesuiti, si imbarcò da Cadice alla volta del Messico; il viaggio, infatti, prevedeva lo spostamento attraverso gli Oceani Atlantico e Pacifico. Di questo viaggio, che ebbe la durata complessiva di un anno, il Bobadil- la ci ha lasciato un’ampia relazione manoscritta ed ancora inedita63, da cui somma- riamente attingiamo le notizie che seguono.

 

11 – Il padre Giovanni Domenico, finalmente, coronava il proprio sogno: della spe- dizione, infatti, faceva parte anche «Padre Juan Domingo Aressu coadiutor spiritual de la [Provincia] de Cerdeña». Con lui partivano anche altri quattro sardi, che for- mavano (insieme ai gesuiti provenienti dalle province di Aragona, Andalusia, Casti- glia e Toledo) la pattuglia più numerosa64. Le giornate a bordo (tempo e condizioni del mare permettendo!) erano organizzate in forma comunitaria, comprese le orazio- ni e la celebrazione della Messa che diventava solenne nei giorni di festa. Non man-

 

60 «A los cuatro años, en 1620, volvió este Padre [Otazo] con 20 jesuitas. Dos años después llevó 12 el P. Villafañe; en 1625 llegaron 20 con el P. Juan de Aguirre; seis años después, en 1631, vemos al P.A. ASTRAIN, La Com-

 

pañia de Jesus en Filipinas de 1615 a 1652, in ID., Historia de la Compañia de Jesus..
674). Vedi anche un efficace riepilogo di queste vicende alla voce Filipinas in CH. E. O’NEILL, J. M. DOMÍNGUEZ, Diccionario histórico de la Compañía de Jesús, vol. II, Roma-Madrid 2001, pagg. 1422-1429.
61 Diego de Bobadilla (1590-1648) membro della Compagnia di Gesù, era giunto nell’arcipelago nel1615 (P. MURILLO VELARDE, Historia …, op. cit., pag. 4) e ne fu provinciale dal 1646 al 1648 (ib., pag.421). Di lui ci è pervenuto, tra l’altro, un volume dal titolo Relacion de las gloriosas victorias que en mar, y tierra an tenido las armas de nuestro invictissimo rey, y monarca Felipe IIII …, Mexico 1638.62«Por Cédula de veinte y cinco de Octubre de mil seiscientos y quarenta, concedió Su Magestad al Pa- dre Diego Bobadilla de la Compañía de Jhesus Procurador General de Philipinas para bolber á ellas y llebar quarenta Religiosos de la orden y mandó Su Magestad que para el auiamiento dellos desde E- spaña al Puerto de la Veracruz se le diesen ochenta ducados en Seuilla por una vez con que en estos Reynos no se les diesse otra cossa de la Real Hacienda para este efecto y que desde la Veracruz a Phi- lipinas se les acudiesse con lo que fuesse necesario en la forma que se acostumbra» (P. PASTELLS, La- bor evangelica…, op. cit., pag. 785)
63 Si tratta, in realtà, di due distinte relazioni indirizzate dal Bobadilla al Padre Generale, la prima dellaquali racconta il percorso da Cadice all’arrivo in Messico, datata Mexico 1 febbraio 1643 (vedila inARSI, Philippinarum, vol. 11, ff. 227r-231r) e la seconda che narra il percorso successivodall’attraversamento del Messico fino all’arrivo al porto di Lampon e, quindi, a Manila, datata Manila 6agosto 1643 (vedila in ib., ff. 235r-239v). Una buona sintesi delle stesse è presente in P. MURILLO VE- LARDE, Historia …, op. cit., pagg. 134-135.
64 Vedi l’elenco completo in ARSI, Philippinarum, vol. 11, ff. 227r-228r. Per qualche ulteriore informa- zione sui sardi del gruppo vedere R. TURTAS, Primi risultati di una ricerca…, op. cit., pag. 83.

Francisco de Encinas conducir a otros 19; el P. Juan López llevó 12 en 1635» (

., op. cit., pag.

 

carono giorni di vero terrore per colpa delle tempeste. Il 30 agosto i padri poterono sbarcare a Porto Rico per poi riprendere ben presto la navigazione alla volta del Messico, dove giunsero (Vera Cruz) il 6 ottobre65. Era ormai giunto il periodo au- tunnale e bisognava aspettare il tempo favorevole per iniziare la seconda traversata, quella del Pacifico. Intanto, bisognava anche attraversare il Messico per raggiungere la costa occidentale, da cui partire alla volta delle Filippine: un’altra faticosa avven- tura segnata, questa volta, anche dalle malattie. Il periodo trascorso nel paese centro- americano (in gran parte nella residenza gesuitica di Ciudad de Mexico), però, fu an- che rallegrato dall’incontro con altri sei padri che avevano deciso di aggregarsi alla spedizione e che colmavano il dolore per i due che erano morti durante la prima fase del viaggio. Giunti il 19 marzo ad Acapulco, i missionari, predisposta ogni cosa, si imbarcarono il 31 marzo su una nave che conteneva anche altri 400 passeggeri66: la spedizione contava a questo punto 47 missionari. Il Bobadilla non manca di ricordare le celebrazioni in cui poteva benedire la nave con la reliquia della vera Croce che portava con sé. Anche quest’ultimo periodo di navigazione fu segnato da una grave pestilenza che si diffuse a bordo e che, oltre a molti passeggeri, condusse alla morte anche cinque missionari. Finalmente, dopo quasi quattro mesi di navigazione, la na- ve giunse al porto di Lampon (oggi Puerto Real): era il 7 luglio 1643. Ma non era ancora finita; li attendeva, infatti, una lunga camminata a piedi fino a Manila (tre giorni di viaggio) dove però trovano sollievo nella calorosa accoglienza e nel con- gruo periodo di riposo concesso a tutti per rimettersi dalle fatiche del viaggio.

 

12 – Il primo periodo di permanenza nelle Filippine, il padre Giovanni Domenico lo trascorse nella residenza di Manila, una casa ormai diventata importantissima visto che nel 1643 ospitava ben 71 gesuiti, tra sacerdoti, coadiutori e novizi67. Lo troviamo in buona salute («valetudo firma»68) e ignoriamo esattamente per quanto tempo vi si trattenga, prima di essere inviato alla sua destinazione. Anche nella casa di Manila non manca di dare prova di grande umiltà e severità morale. Come si ricorderà, egli era solo un coadiutore spirituale e non era stato mai ammesso ai quattro voti, forse

 

65 La data dell’arrivo non è specificata, ma la deduciamo dal fatto che nella relazione è scritto che «duro la navigacion segun la cuenta 82 dias (ARSI, Philippinarum, vol. 11, f. 230v).
66 Sono in piena settimana santa, e il 2 aprile sulla nave si celebra con grande devozione la Messa in Coena Domini: «cantamos Missa en la mar, y conforme a l’uso de la Iglesia comulgaron todos nuestrossacerdotes con sus estolas, y despues comulgaron nuestros Hermanos y casi toda la gente de la nao, que eran hasta quatro cientas personas de varias naciones» (ib., f. 235v).

 

67 Ne abbiamo notizia dal Primus Catalogus personarum Anni 1643, in ARSI, Philippinarum, vol. 2, I, ff. 210r-215v, firmato dal provinciale, padre Francesco Colin, e datato Manila 18 luglio 1643, oltre che dal secondo Catalogo di quello stesso anno (Index eorum qui in hoc secundo Catalogo continentur, an- no 1643, in ib., f. 216v). Vedere anche Catalogus brevis Provinciae Philippinarum Anni 1643. Colle- gium Manilanum, in ib., vol. 4, f. 18vr e Catalogus rerum Provintiae Insularum Philippinarum Anni 1643, in ib., vol. 2, I, f. 225r.

 

68 Ib., f. 215r, mentre il suo conterraneo padre Didaco Sylvano vi appare piuttosto cagionevole («vale- tudo mediocris»).

 

 

per la modestia del suo percorso di studi. Un giorno, egli si trovò a passare nell’auditorium del collegio in cui si tenevano le consuete disputationes, i dibattiti su temi teologici o filosofici che la Ratio Studiorum prevedeva come metodo ordinario per rafforzare le competenze degli studenti (ma anche dei professi) in tali discipline69. Il fatto è narrato dal padre Francesco Roa che fu provinciale delle Filippine tra il 1643 e il 164670 e che, quindi, è assai probabile sia lo stesso superiore di cui si parla nel racconto. Ma lasciamogli direttamente la parola71. «Non appena il Padre giunse

 

69 «Questo modello pedagogico trovava la sua espressione più compiuta ed esemplare nella disputa ac- cademica, sia privata, cioè tra gli alunni di una sola classe, sia pubblica, con il concorso di studenti e professori di altre classi ed esterni. Essa costituiva il momento conclusivo del procedimento didattico e si richiamava al modello delle università medievali» (A. BIANCHI (a cura di), Ratio atque institutio stu- diorum Societatis Iesus – Ordinamento degli studi della Compagnia di Gesù. Testo latino a fronte, Mi- lano 2002, pag. 42). Si tratta della pratica pedagogica nota come Modus Parisiensis che prevede una grande abbondanza di esercizi (quaestiones, disputationes, repetitiones, compositiones …) finalizzati a rendere molto attiva la partecipazione degli studenti allo studio delle varie discipline e di quelle filoso- fiche e teologiche in particolare (vedere la voce Modus Parisiensis in CH. E. O’NEILL, J. M. DOMÍNGUEZ,Diccionario histórico…, op. cit., vol. III, pagg. 2714-2715. Vedi anche M. FOIS, L’insegnamento delle lettere al Collegio Romano, in «Archivum Historiae Pontificiae», 29 (1991), pagg. 42-60 e G. P. BRIZZI(a cura di), La “Ratio studiorum”. Modelli culturali e pratiche educative dei gesuiti in Italia tra Cinquee Seicento, Roma 1981).

 

70 Vedi A. ASTRAIN, Historia de la Compañia de Jesus …, op. cit., pag. XI.
71 Il testo originale (che presentiamo in una nostra traduzione italiana dal latino) è in Annuae Litterae Philippinarum Provinciae Anno MDCXLIII-IV-V, in ARSI, Philippinarum, vol. 7, II, ff. 580r-580v) ed è datato e firmato «Manila XIIII Augusti MDCXLVI Franciscus de Roas» (ib., f. 619r). La stessa storia, pur con minore dovizia di particolari è narrata dal padre Diego De Oña in un manoscritto (che sarà rias- sunto dal Pastells) titolato Labor evangelica: ministerios apostolicos de los obreros de la Compañia de Jesvs. Progressos en su provincia en las islas Philippinas historiadas, in ib., vol. 19, I, ff. 1133-1135che di seguito riportiamo in una nostra traduzione dallo spagnolo, con l’avvertenza che lo scrittore con- fonde il nome e chiama il Nostro col nome di Andreas anziché con quello di Juan Domingo: «Il padreAndrea Arezu era originario dell’isola di Sardegna da cui passò a queste Isole con il desiderio di servirele anime, e per tutto il tempo in cui servì queste popolazioni sempre gli si riconobbe un bruciante desi- derio di sacrificarsi interamente a Dio. Infaticabile nel lavoro e mai sconfitto dai disagi, tanto disprez-zava tutto ciò che poteva procurargli degli onori quanto era sollecito nell’abbracciare ciò che potevaservire ad accrescere la sua modestia. Riferirò solo un caso in cui è manifesto quanto egli detestasse il primo posto e preferisse sempre quello successivo. Il padre era di eccellenti capacità intellettuali al pun- to che a giudizio di tutti avrebbe potuto ben essere professo di quattro voti, benché il grado che aveva fosse quello di coadiutore spirituale. Quando raggiunse tale grado non mancò chi tentava di persuaderloche ripetesse l’esame, per superare gli scrupoli che nel corso del primo esame aveva avuto un maestro; ma il padre era rimasto molto fermo in ciò che aveva deciso di fare, dicendo che non meritava di ottene- re un simile grado nella Compagnia. Ma non è questa la cosa più importante. Mentre era a Manila, dopoaver ricevuto l’offerta per il grado di cui abbiamo detto ed avendo raggiunto la terra di missione da po- co tempo, accadde che si tenessero delle prove conclusive in cui si trovavano a dissertare alcuni padri arrivati di recente dalla Spagna. Per caso il padre entrò nel[la sala delle dissertazioni dove si trovavano] quei padri ed avendolo visto il padre rettore gli ordinò che partecipasse alla discussione. Il padre Andreasi scusò dicendo di essere solo un povero coadiutore spirituale e che non s’intendeva abbastanza diquelle materie che si discutevano perché il conoscerle non faceva parte della sua professione. Poiché ilpadre rettore insisteva e non poteva più scusarsi, cominciò anch’egli ad argomentare con molta acutezzae brillantezza intorno agli argomenti discussi che dimostrava di conoscere chiaramente come se avesse fatto la professione, guadagnando nuovi crediti alla sua virtù». Infine, questo racconto è presentato an-

 

nelle Spagne si trovò accidentalmente coinvolto in importanti dissertazioni di teolo- gia; nell’auditorium tra il plauso e i positivi commenti delle prime file, si estraevano i temi delle discussioni. Dal superiore (non discuto se il fatto sia accaduto per impul- so celeste o per caso) [il padre Aresu, ndr] venne chiamato affinché scendesse nell’a- rena delle discussioni. Inizialmente il padre non si mosse, considerata l’imprevista situazione, e cortesemente se ne scusò. Il superiore insistette perché pronunciasse comunque qualche parola. Ed allora con voce chiara, parlò a tutto l’auditorium che ascoltava attentamente. Disse di essere un semplice coadiutore spirituale nella Com- pagnia e di non aver alcuna consuetudine con le Lettere o con le discipline teologi- che. Il superiore ribatté, ingiungendogli comunque di pronunciare almeno qualche parola sul tema in esame. Messo da parte e superato il proprio sgomento, assecondò il desiderio del superiore. E benché fosse insieme uomo acutissimo e di ingegno vi- vace nello smussare gli ostacoli, in quella discussione sottile ed astratta ed in mezzo alle molteplici difficoltà degli interlocutori, riuscì a mala pena a cavarsela; giunto pe- rò al mezzo della discussione, l’Aresu fece roteare vorticosamente il vaso del suo in- gegno e ragionando sull’argomento con rapidi e chiari passaggi mise in difficoltà il teologo che svolgeva l’argomento, al punto che le cose che l’ingegno di cui era ricco gli suggeriva di dire gli consentirono facilmente di districarsi. Risplendette in questa discussione l’ingegnosa sottigliezza di padre Domenico al pari che la sua modestia ed umiltà. La perspicacia dell’oratore fu resa manifesta dall’applauso dell’uditorio e dall’ammirazione conseguente, non meno che dall’esempio di obbedienza e di sot- tomissione che egli aveva dato»72.

 

13 – Dopo qualche tempo passò, quindi, da Manila alla residenza di Carigara in compagnia di altri quattro missionari73 e colà si mise subito a lavorare con zelo e senza risparmiarsi per la salvezza di quelle popolazioni. «Fue grande lo zelo para aprovechar à las almas, y luego que llegò a la Provincia, le embiaron a las Islas Bi- sayas, ò de Pintados, y siempre se conociò en el Padre un encendido deseo de sacri- ficarse todo à Dios. Era incansable en el trabajo, y envencible à las comodidades […] Era tan zeloso del bien espiritual que sin temor ni rezelo procuraba estorbar las o- fensas de Dios y promuover la salud espiritual de los Indios, que estaban a su car-

 

che (ma con il nome corretto e con qualche modifica di non rilevante interesse) in P. MURILLO VELAR- DE, Historia de la Provincia de Philipinas …, op. cit., pag. 148. In questo testo, il superiore è individua- to come «rettore» e, quindi, potrebbe trattarsi anche del padre Francisco Ignacio Alcina di cui diremo più avanti e, in particolare, alla successiva nota 79.

 

72 Questa umiltà è testimoniata anche in una breve biografia del padre che si trova in Vitae, dove leg- giamo: «Ea fuit humilitate ut cum progressus in Phlosophia et Theologia magnos fuissent, recusaverit ad Professorum gradum promoveri contentus inter spirituales coadiutores cooptari» (ARSI, Vitae, 167, f. 85).

 

73 Catalogus rerum Provintiae Insularum Philippinarum Anni 1643, in ARSI, Philippinarum, vol. 2, I, f. 225r. Nel 1656 saranno sei (F. COLIN, Labor evangelica, ministerios apostólicos de los obreros de la Compañia de Iesus, fundacion y progressos de su provincia en las islas Filipinas, vol. I, Madrid 1663, pag. 792).go»74. La casa gesuitica di Carigara, punto di riferimento per l’evangelizzazione del- le popolazioni Bisayas dette anche Pintadas (per quell’abitudine degli Indios di di- pingersi il corpo, che gli spagnoli trovarono molto singolare), era stata fondata sul finire del Cinquecento75, e doveva occuparsi delle esigenze religiose della assai vasta circoscrizione dell’intera isola di Leyte che, ai tempi di cui diciamo, contava una de- cina di popolati tra cui Carigara (situata nell’estremità nord dl’Isola), Leyte, Alanga- lan, Sogor, Poro e Cabalian (l’attuale San Juan, situata all’estremità meridionale del- la stessa)76. Quanto all’aspetto sociale degli Indios che abitavano quelle contrade, il padre Colin ci informa che essi «son meno reducidos y obedientes que los otros»77: una popolazione violenta e non aliena ai saccheggi e agli omicidi, «poblada de muertes, robos y incendios»78. Il padre Francisco Ignacio Alcina79, poi, in una sua fondamentale e accurata relazione su queste popolazioni aggiunge non poche preci- sazioni sulle abitudini e gli stili di vita degli Indios Bisayas su cui ci soffermiamo perché saranno particolarmente utili nel prosieguo della nostra ricostruzione storica.

 

14 – Ebbene, sulla base della propria esperienza, l’Alcina – dopo essersi lungamente esercitato sull’etnoantropologia – ci parla degli aspetti morali di questo popolo che al gesuita educato alla rigida scuola morale dell’Ordine appare caratterizzato da un’innata indolenza, estremamente avido, perpetuamente in preda ai vizi della lussu- ria e della gola e incapace di mantenere la parola data («son facilissimos los Bisayas negar lo que deben, como son tenacissimos en no olvidar lo que les deben»80). Sono,

 

74 P. MURILLO VELARDE, Historia de la Provincia de Philipinas …, op. cit., pag. 148.
75 Il 16 luglio del 1595, secondo quanto scrive il padre Chirino (P. CHIRINO, Relacion de las islas Fili- pinas i de lo que en ellas an trabaiado los padres de la Compañia de Iesus, Roma 1604, pag. 28; vedine una riedizione in lingua inglese in P. CHIRINO, J. GORRIZ I ABELLA, History of the Philippine Province…,op. cit.).
76 F. COLIN, Labor evangelica, op. cit., pag. 811.
77 Ib., pag. 815.
78 Ib., pag. 622. L’insubordinazione di queste popolazioni era cosa nota che si tardò a sconfiggere. Tra il1649 e il 1650, ad esempio, cioè a meno di cinque anni di distanza dalla morte di padre Giovanni Do- menico, nelle Visayas vi fu una sanguinosa insurrezione contro gli spagnoli i quali ebbero inizialmente la peggio (vedere P. FERNANDEZ, C. KOBAK, The Bisayan Uprising of 1649-1650, in “Philippiniana Sa-cra”, 52 (1983), pagg. 89-159).
79 Il padre Francisco Ignacio Alcina (anche Alzina) (1610-1674) visse nelle isole Visayas per 32 anni spendendo la sua vita tra gli Indios che amava chiamare «i miei amati Bisayas». Giunto nelle Filippine nel 1632 quando era ancora studente, vi fu ordinato sacerdote e negli anni di cui ci stiamo occupando fu rettore proprio a Carigara (1645-1648). Sull’Alcina e sulla sua relazione esiste una ricca bibliografiaraccolta in E. D. HESTER, Alzina’s Historia de Visayas. A Bibliographical Note, in “Philippine Studies”vol. 10 (1962), pagg. 331-365, cui sono almeno da aggiungere i preziosi studi della Yepes già citati allaprecedente nota 60 e forniti anch’essi di un ricchissimo apparato bibliografico.
80 The Muñoz text of Alzina’s History of the Bisayan Islands (1668) – Part I, book 3, Transliteracion from a microfilm of the Spanish text, Philippine Studies Program, Dept. of Anthropology, University of Chicago, sd [ma 1960], pag. 303. Le citazioni della relazione dell’Alcino saranno fatte sulla base dellatrascrizione che ne ha effettuato Victor Baltazar, dell’University of Chicago, che ha utilizzato la copia manoscritta settecentesca della Biblioteca de Palacio di Madrid, a detta degli studiosi unica copia comunque e in generale, anche pazienti e perfino rassegnati alla propria sorte e per- ciò non facili all’ira: «Son los Bisayas de suyo pacientes y sufridos […], pues rara vez se veran airados, pocas enojados, porque la pasion de la ira les predomina poco, y por esta causa hay pocas riñas entre ellos, y rara vez se matan rinendo […] y per- donan en lo exterior con mucha facilidad»81. Ma, ovviamente, non gradiscono per nulla essere offesi82, e quando ciò accade sono spesso capaci di un rancore terribile: «conservan en su voluntad con un genero de rancor y odio casi indelebile»83. L’abitudine di covare in seno odio e rancore, fa sì che la gran parte dei reati che si commettono tra essi avvenga solitamente a sangue freddo e mai d’impeto84 e «a trai- cion, de noche […] quando halló ocasion acomodata»85. La causa scatenante di que- ste esplosioni d’ira è, in genere e sempre a giudizio dell’Alcina, una sola: il vizio del bere, un vizio talmente radicato e dagli effetti così malefici e nefasti che alla sua trat- tazione egli dedica un intero capitolo86. «Es la embriaguez el principio de los mayo- res males corporales y espirituales», scrive senza alcuna esitazione87. Ma seguiamo- lo ancora: «Es tan general entre todos los Yndios el vicio de la embriaguez – scrive -que pareze ye entre todos ellos naturaleza ό propriedad […] De aqui salen entre el- los las conjuraciones y alzamientos», risse omicidi, incesti e promiscuità88. L’aspetto più sorprendente di tutto quanto detto è che ad ubriacarsi siano soprattutto le persone più in vista89, e ciò per due ordini di ragioni abbastanza singolari. Innanzitutto, per- ché tutti i compaesani – in virtù della loro posizione di prestigio – li invitano conti- nuamente a bere, ed essi non rifiutano mai («ellos que de esto acen punto de honra, de nadio se escusan, por que es entre ellos caso de menos valer»90)! Quindi (e la cir- costanza non appare meno bizzarra!), bevono per meglio chiacchierare tra loro negli estenuanti incontri comunitari in cui discutono di tutto, e (ma la cosa è riservata a co- loro che svolgono attività di qualche rilevanza pubblica) per meglio svolgere le pro-

 

 

pleta esistente della prima parte dell’opera. Su questa copia vedere anche quanto scrivono M. L. MAR- TIN MERAS, M. D. HIGUERAS, Historia de las islas e indios visayas del Padre Alcina, 1668, Madrid 1965, pagg. XXIIss. Successivamente (oltre alla V. YEPES, Una etnografia de los Indios Bisayas…, op. cit.) hanno pubblicato trascrizioni e traduzioni (questa volta in lingua inglese) dell’opera di Alcina, P. FER- NANDEZ, C. KOBAK in un’ampia serie di puntate su “Pilippiniana Sacra”, rivista dell’Università di sanTomaso in Manila, tra il 1981 e il 2011.

81 The Muñoz text of Alzina’s History …, op. cit., pag. 304. Altrove l’Alcina aggiunge: «Son los Yndios Bisayas comunemente mas moderados y templados que ninguna de las demas naciones barbaras de que tenemos noticias» (Ib., pag. 322).
82 «Y por otra parte nuncan olvidan los agrabios recebidos» (ib., pag. 304).

83 Ib.
84 «Las mas de las muertes que entro ellos suceden son a sángue fria» (ib., pag. 305).
85 Ib.
86 Si tratta del capitolo 22: «Del vicio de la embriaguez, y las bebidas que tienen que la causan» (ib.pagg. 316-330).
87 Ib., pag. 321.
88 Ib., pagg. 316, 320.
89 «Los mas principales y de mayor calidad entre ellos» (ib., pagg. 319).
90 Ib.

prie funzioni (giudici, funzionari reali, maestri, catechisti …), perché «sin un poco de vino con que avivar antes el calor natural, hablan poco, discurren mal y tardo y su- ponen peor»91! Questi funzionari pubblici, addirittura, se non posseggono vino lo chiedono fino a pretenderlo come se costituisse parte integrante del proprio status: «lo piden si no lo tienen, por que dicen que sin beber un poco ni saben ni pueden di- scurrir poco ni mucho; y asì, o nostros quando se ofresen semejantes casos ό el Principal mayor ό Governador del Pueblo provienen para ellos algo que beban mo- deratamente para asegurar el acierto». Si noti che il vizio, ai tempi di padre Gio- vanni Domenico, era talmente radicato che tardò ad essere estirpato, al punto che an- cora nel secondo Ottocento anche altri sentono di poter assicurare «sin tremor de e- quivocar que, à la caida de la tarde, las tres quartas partes de los indios Visayas e- staban èbrios. Por esta razon, cuando se tratò de estancar el vino en aquel teritorio, hallò esta medida tanto apoyo en las autoridades superiores. Tengase pues presente que el principal obiecto de esta renta era un obiecto moral»92.

 

15 – Chissà quante volte il padre Giovanni Domenico avrà parlato di queste cose con il suo confratello (poi superiore) Francesco Alcina; e come avranno appassionata- mente discusso sul modo di estirpare quella perfida abitudine! E come egli lo abbia attentamente ascoltato meditando in cuor suo sulle buone ragioni del confratello più esperto delle abitudini del luogo… Tutte queste cose si portava nel cuore quando da Carigara partiva per recarsi nella sua sede di Cabalian, ignorando che proprio quel- l’inveterata abitudine sarebbe stata causa della sua morte. Vi giungeva, dunque, pie- no di zelo apostolico, fermamente deciso a stroncare il male, pur sforzandosi in ogni modo di stare dalla parte degli Indios di cui cercava di conservare ogni pia usanza ma anche assai determinato ad «eliminare anche i più piccoli residui di superstizione e le imponenti comuni bevute che si consumavano tra essi»93.

 

Non molto conosciamo dei poco meno di due anni che padre Giovanni Domenico trascorse nelle Visayas. Sappiamo però e con certezza – e di questo ci è testimone di- retto il padre Francesco Roa, cui dobbiamo un’ampia e dettagliata relazione mano- scritta sulla sua vita e la sua morte redatta nel 1646, cioè a un anno di distanza dalla sua morte94, che utilizzeremo nel racconto che segue – che combatté con ogni forza qualsiasi forma di superstizione e di idolatria. C’era in quel luogo una donna che nel- la sua giovinezza aveva servito gli idoli, una sacerdotessa, una catooren95, una assi- stita dal demonio, o – almeno – una che fingeva molto bene di esserlo, che veniva pa-

 

91 Ib., pag. 325.
92 Così, L. de E., Las provincias ultramarinas y sus presupuestos, Madrid 1864, pag. 74.
93 «Vestigiola superstitionis, ac solennes inter eos compotationes de medio tollere nitebatur egregie» (Annuae Litterae Philippinarum Provinciae Anno MDCXLIII-IV-V, op. cit., f. 576v).
94 Si tratta delle già citate Annuae Litterae Philippinarum Provinciae Anno MDCXLIII-IV-V, op. cit., ff. 576v – 581v.
95 Per la definizione di questo personaggio e per la sua attività vedere The Muñoz text of Alzina’s Hi- story …, op. cit., pag. 197-199.

gata per esercitare il suo servizio e cui tutti portavano gran rispetto perché la consi- deravano moglie del demonio cui offriva sacrifici per allontanarne dal popolo e dalle persone i malefici. Poi la donna s’era convertita al cristianesimo. Ma la sua conver- sione era durata poco, perché ben presto era tornata alle vecchie pratiche, mettendo insieme Dio e Mammona, pensando di poter illudere Dio con le sue astuzie. Un giorno, la donna fu assalita da una malattia che le provocava gravi dolori, fin quasi a renderla cieca e portarla ad un passo dalla morte. Fece chiamare al suo capezzale il padre Giovanni Domenico al quale confessò la gravità del suo stato, ricevendone consolazione. La donna sembrava definitivamente persuasa ad abbandonare la pro- pria vita di peccato e decisa a riconciliarsi con la Chiesa; ma perché potesse aspirare ad una conveniente vita cristiana, occorreva che ella si impegnasse a fare una pub- blica confessione dei propri peccati non appena il suo stato di salute glielo avesse permesso. Il padre ci pregò molto sopra, ben consapevole che le seduzioni diaboliche non si fermano mai e possono sempre riapparire. Ma la determinazione della donna durò davvero poco, e una volta compreso che il suo stato di salute stava migliorando e avrebbe potuto scansare la morte perché i sintomi della malattia sembravano atte- nuarsi, rinunciò alla pubblica confessione del suo peccato. Il padre Giovanni Dome- nico, timoroso che quell’anima potesse perdersi per sempre, continuò ad insistere presso di lei perché compisse quell’opera necessaria alla sua salvezza eterna ma, ina- scoltato, altro non poté fare che pregare. E quando, dopo qualche tempo, la poveretta morì senza convertirsi, non lo consolò di certo il sapere che lui comunque le aveva tentate tutte96. Le era stato vicino, l’aveva seguita, le aveva chiesto solo di rinunciare

 

96 L’episodio è raccontato da Padre Roa (Annuae Litterae Philippinarum Provinciae Anno MDCXLIII- IV-V, op. cit., f. 580v-581v). Eccone il testo in una nostra trascrizione (nostre sono anche le trascrizioni che seguono): «Ab idolorum sacrilega veneratione defecerat foemina quaedam ad Crhistianam religio- nem, eo fortunatius quo execrandius suis in superstitionis olim se involuerat. Sacrificulae nefandum munus exercuerat, stultorum quam maximo detrimento. Sed sacris lustrata lymphis ab daemonum spur- citiis ad candorem filiorum Dei transierat. Verum inveterata idolorum servitus, quamquam lustralis aquae rore paene fuerat extincta, diuturni moris cineribus veluti sopita illico revixit. Ad vomitum rever- sa in teterrimum cacodaemonis obsequium iterato se dedit, Deum et Mamonam [581v] lucem ac tene- bras gemino placendi studio insana copulavit. Ac si fallaciis, et technis illudere Deum posset. Templum hinc adibat, inde Idoli postribulum; sacrosanto missae sacrificio intererat: foedissimis oblationibus litabat. Preces vero Numini effundebat, inde magicis submurmurationibus insaniebat. Hic sacrum ora- torem de fidei misteriis, ac veritatis eloquiis auras praebere, ibi mendacis parentis de quisquiliis ac innumeris deliramentis animum applicare. Duobus ad navigare ventis in aperto naufragii discrimina non verebatur. Verum Dominus miserae muliebri sortis miserata, caelestibus subsidiis a teterrima Da- emonis servitute elevare tentavit. Animum divinis motionibus orsus perpungere, corpus doloribus, lan- guoribusque p[r]osternere. Sensit caeca indivisibiles poenas, cum Deo reconciliationem appetit, Pa- trem evocat, statum explanat, rogitatque, ut deperditam adiuvet, et qua tandem via a tantis sceleribus posset, per Deum aperiat. Solatur afflictam Pater, de more que instituit, ut recursis anteactae vitae ini- quitatibus cuntas sibi recludat: ad insequentem diem refert aegra medicamentum quamquam Pater su- bverebatur, ne vel mobile mulieris ingenium tot sacrilegiis effrene (?), diabolicis demum artibus per- verteretur, vel ne corporis invaletudo, quae persaepe ementita malacia, subitariam fovet tempestatem vota eluderet. Verum ut sentit infelix mulier languores suos mortem evitare posse: a concepta noxarum confessione desistit, in dies illusa prolongat, Patre illius animae iacturam timente, aeque, ac indolente.

pubblicamente a servire il diavolo, e la voleva pubblica quella confessione, perché sapeva che quello era l’unico modo per allontanarla davvero dalle vecchie abitudini di peccato. La sua ostinazione non era bastata. Sentiva nel cuore il peso della sconfit- ta …

 

16 – Oltre a combattere gli adoratori di Satana aveva da combattere anche la sua bat- taglia contro la radice di tutte le miserie della sua comunità: l’alcoolismo. E proprio nella sua Cabalian c’era un catechista che – guarda caso! – non faceva eccezione a quanto il superiore gli aveva spiegato a suo tempo circa le abitudini degli Indios nel merito. Si trattava di una gran brava persona, considerata saggia dal villaggio, cui era stato affidato l’incarico di maestro: aveva imparato a leggere e a scrivere ed era stato scelto dai missionari per governare la scuola del villaggio e mettere a sua volta tali competenze a servizio dei bambini; in assenza del sacerdote, cosa che poteva anche durare intere settimane se non mesi, vista la vastità della zona, svolgeva anche le funzioni di catechista. Aveva, però, un difetto, il difetto di tutti i Bisayas che erano chiamati ad esercitare un pubblico servizio: beveva. Tantissimo. Diceva di farlo per avere una parlantina più spiccia, perché in tal modo riusciva a fare delle belle lezioni; ed in effetti, tutti erano contenti di lui ed ogni volta che passava per strada lo invita- vano, e lui non si tirava mai indietro… Il padre Giovanni Domenico era intervenuto già un paio di volte: l’aveva pregato di evitare di bere, o comunque almeno di non esagerare. Ma era come parlare a un sordo. Lui perseverava nel vizio sempre più; e più il padre lo rimproverava e più lui se ne rideva e quasi se ne faceva beffe dinanzi ai compaesani97. Quando la misura fu colma, il padre Giovanni Domenico prese la decisione che non avrebbe mai voluto prendere: lo rimosse dall’incarico98 con il fer- mo proposito di evitare che nello svolgimento del suo servizio potesse creare occa- sione di scandalo per gli altri e incrinarne la virtù. Perché lì sapeva di giocarsi gran parte della propria credibilità: come poteva predicare l’abbandono dei vizi e la se- quela in verità del Figlio di Dio, se poi si circondava di persone che davano di sé stesse una così triste immagine e costituivano scandalo per i fedeli? No, ci aveva ben riflettuto a lungo, aveva provato a fargli cambiare vita … L’intransigenza cui lo ave- vano educato nei collegi della sua lontana Sardegna e che lo aveva accompagnato in tutto il suo personale itinerario di scelta vocazionale gli imponeva di agire99. Ed agì.

 

Quieti se post paucos dies, somnoque commisit, mortis fit praeda, scelera aeternis panis solutura. Sic quae inter aeternae temporalisque vitae fluctuavit discrimina, incuria, an protervia sua demum naufra- gata est».
97 «Persa[pienter] enim a Patre privatim ad frugem se recipere, ac bonos Christiano dignos mores, ac publici muneris docendi consonos hortatus est. Surdo canitur. Vini enim intemperantia, adeo hominem exagitabat, ut monitis nihilo melior factus in suae obduresceret ebrietatis vitio» (ib, ff. 576r-577v).

 

98 «His distentus preoccupationibus, ac Dei gloriae ardentissimus e Praeceptoris muniis (solent Indo- rum peritiores ex instituto pueros ad internoscenda figurandaque elementa edocere) Indum submovit» (ib., f. 577v).
99 «Expunxit Pater hominem, ne in officio, ac Pa [..] [..]icem gerente munere, vel ultro reliquiorum scandalo, ac virtutis iactura detineret» (ib.).

17 – Il padre Alcina glielo aveva spiegato bene che con quegli Indios ci doveva anda- re prudente perché il vino li portava ad avere spesso delle reazioni imprevedibili. Ma la prudenza non poteva sconfinare nell’indifferenza: non poteva far finta di niente. Glielo avevano insegnato nei corsi di filosofia scolastica, ad Alghero, quando gli di- cevano che la prudenza è virtù che dispone l’intelletto all’analisi accorta del mondo, ma anche virtù che esorta la ragione a discernere in ogni circostanza il vero bene, scegliendo i mezzi adeguati per compierlo. Si ricordava perfettamente quella defini- zione di san Tommaso che, sulla scia di Aristotele, affermava: «prudentia est recta ratio agibilium»100, e a lui piaceva soprattutto sottolineare l’ultima parola di quella definizione: «delle cose da fare». Non fare, quindi, era atto contrario alla prudenza. È vero che non l’avevano passato alla professione dei quattro voti perché era un po’debole nelle materie filosofiche, ma era solo perché dei concetti ricordava l’essen- ziale e non gli piaceva perdersi in disquisizioni filologiche o di dettaglio. Lui era lì per fare.

 

Dopo l’allontanamento dal servizio, per l’Indio iniziò un periodo di imbarazzo e di confusione: da uomo che ricopriva un ruolo di prestigio nella comunità era divenuto una sorta di zimbello, e la sua indole mal avvezza a sopportare umiliazioni cominciò a covare la vendetta. In fondo, era stato offeso e provocato pubblicamente; il suo o- nore e il suo prestigio erano stati calpestati! La sua rabbia cominciò a montare. L’offesa sarebbe stata vendicata nel sangue101. Ricominciò a bere, come e più di prima. Senza ritegno. L’alcool rafforzava le sue decisioni. Secondo il suo modo di pensare, il padre si era comportato ingiustamente nel cacciarlo dal ruolo di maestro, e lui gliela avrebbe fatta pagare. Ma aveva bisogno di complici; no, non per colpirlo, perché a fare quello ci avrebbe pensato da solo; ma per farsi forza e coraggio, perché lo assecondassero nella realizzazione del suo piano perverso. Trovò due compari di bevuta. Non gli fu difficile convincerli. E poi, quegli stranieri che erano venuti a tur- bare il loro ordine e le loro usanze … Si trattava solo di scegliere il giorno adatto102.

 

18 – La Quaresima era avanzata e l’Indio sapeva che il padre la sera, dopo aver com- pletato le attività pastorali, amava ritirarsi da solo in preghiera dinanzi ad un grande crocefisso posto nei pressi della residenza. Ma lasciamo parlare il padre Roa. «Es- sendo ormai prossimo al tramonto il lunedì della settimana santa (10 aprile 1645, ndr), afferrato un pugnale, trovato il Padre non più intento alle cose umane ma pro-

 

100 T. D’AQUINO, Le questioni disputate, vol. 5, Le virtù, Bologna 1992, pag. 556.
101 «Indus efferatae mentis, ac si a throno, sceptroque amotus, pudore, ac confusione primo captus est mox offensum, ne lacessitum se reputans bilem alto in pectore excoquebat; exim insaniis agitatus Pa- trem de medio tollere statuit» (Annuae Litterae Philippinarum Provinciae Anno MDCXLIII-IV-V, op. cit., f. 577v).
102 «Barbarum sane Consilium: vinum hinc inde ructare haud pudet, in foedoque vitio pertinacius hare- re haud indecorum ducit; a paedagogi munio solvi indignum arbitratur. Non ausus exarmatum Patrem, quamvis remotis arbitris adoriri: sceleratorum socios duos sibi domesticos adscivit» (ib.).

fondamente assorto in preghiera, l’infame traditore avvicinandosi alle sue spalle con passo felpato e lento rapidamente lo assalì e con un violento fendente dall’alto gli provocò una ferita, per poi darsi subito alla fuga. Il servo di Dio precipitò violente- mente a terra dopo aver fatto uno o due passi, trattenendo lo spirito giusto il tempo sufficiente ad invocare i nomi di Gesù e Maria Santissima; quindi, come nuotando nel proprio sangue, gloriosissimamente emise lo spirito»103. Vendetta era fatta.

 

19 – La notizia dello scellerato gesto si diffuse nel villaggio in un baleno. All’inizio, il sentimento più comune fu l’orrore: vedere quel corpo immerso in una pozza di sangue e riverso nella polvere, illuminato a stento da poche fiaccole, muoveva ad un moto di pietà e di compassione anche chi al sangue era avvezzo. Ma dopo subentrò la vergogna: chi aveva potuto compiere un simile gesto nei confronti di un uomo buono e timorato di Dio? E poi, proprio nel loro villaggio doveva succedere una cosa simile? Subito il magistrato regio cominciò le indagini, non prima di aver chiamato a sé alcuni soldati della guarnigione spagnola di stanza nell’isola e due confratelli del padre Giovanni Domenico per aiutarlo a capire cosa esattamente fosse successo quel giorno. Le indagini portarono ben presto alla scoperta del colpevole e dei suoi due complici e la condanna fu rapida e (per l’epoca!) esemplare: i tre disgraziati furono condannati a morte per impiccagione. E, per punire con la massima evidenza l’ef- feratezza del delitto che essi avevano commesso, il magistrato ordinò anche che i lo- ro poveri corpi fossero ulteriormente sfigurati con una sorta di tiro a segno fatto dai soldati a colpi di archibugio. Ma il magistrato non era ancora pago e voleva dare agli Indios quella che, a suo modo, poteva costituire una gran bella lezione. Mentre anco- ra la gente era in piazza chiese ed ottenne il silenzio. Quindi si recò dinanzi ai due padri che in un canto avevano osservato la scena e si gettò in ginocchia dinanzi a lo- ro, baciandone commosso i piedi, altresì ordinando che anche tutti i soldati facessero altrettanto. «Gesto ispanico, degno della fede cattolica, da ricordare con grande rilie- vo», commenta il padre Roa sorpreso ed entusiasta per tale manifestazione di vene- razione e di affetto. Quindi, acconciandosi a parlare, chiamato un interprete, il magi- strato ammonì la folla degli Indios in modo solenne e con parole intense: «si doveva sapere – disse – una volta per tutte che i sacerdoti erano sulla terra i vicari di Dio e quasi essi stessi esseri divini; che ad essi si doveva prestare la deferenza e il riguardo dovuto a coloro che rappresentavano Dio: rifulge in essi, infatti (così proseguiva), lo stesso Dio che è necessario che veneriamo, e i misteri divini che essi maneggiano e che dispensano agli altri, li mettono come al di sopra del familiare consorzio. Abita- tori del cielo, collaboratori di Dio, onore e decoro della terra intera». Agli Indios, ter-

 

103 «Feria igitur secunda infausta sibi maioris hebdomadae ad occasum iam vertente luce, pugionem arripit, Patrem reperit humanis casibus haud intentum, divinis praecibus insistentem, suspenso pede infamis proditor, lentoque passu ad Patris tergum accedens, extemplo adoritur, immanique ictu alte infixit vulnus, dat sese in fugam. Corruit praeceps post unum vel alterum passum Dei famulus, perexi- guum retinens spiritum quantum ad Jesu, Mariaque Sanctiss[im]a nomina invocando satis esset; suo natans in sanguine gloriosissime occubuit» (ib.).

ribilmente spaventati sia dall’atrocità del supplizio, sia dal sacro timore derivante dalla stima che il magistrato spagnolo aveva dichiarato nei loro confronti, non rimase che professare di voler rifuggire da ogni nefandezza e di voler venerare in perpetuo i ministri di Dio104.

 

20 – Della tragica morte del padre Giovanni Domenico ci è pervenuta anche una se- conda versione manoscritta che riprende quasi per intero la precedente del padre Roa, e che dobbiamo alla penna di padre Diego de Oña, che ne scrive sicuramente prima del 1665105, all’interno di un’ampia e dettagliata storia delle missioni gesuitiche nelle Filippine. Egli raccoglie evidentemente notizie di seconda mano e non conosce diret- tamente il Nostro, come chiaramente dimostra il fatto che scorrettamente lo chiami «padre Andres de Arezu», sbagliandone il nome.

 

Ma ecco anche la sua versione dei fatti in una nostra traduzione italiana: «In un altro popolato della stessa residenza conseguì per mano di un nuovo Giuda il premio del suo zelo il padre Andres de Arezu. Era singolare (come riconoscevano gli stessi In- dios) l’impegno che metteva nello stroncare alla radice i vizi in modo che le virtù po- tessero dare frutti più gustosi. Era diffuso in modo abnorme il vizio dell’alcoolismo, cui si opponeva con molta energia il fervoroso Ministro, e al fine di correggere que- sta pessima abitudine tra quelli che disprezzavano la sua predicazione, tolse l’ufficio di maestro di scuola a un tizio che già aveva ammonito diverse volte. Colui conside-

 

104 «Extemplo indignissima Patris necis fama finitimos populos implet. Cohorrescere primo omnes; in- dique indignitate rei pudore suffusi, quod in Christiano ipsorum pectore tantum scelus ordiri, ac perpe- trari patuerit. Incredibiliter perculit casus atrocitas, Hispanum Praetorem; sed cunctandum rat[…] […]latione usus est. Interfectoris indices accurate conquisivit, parricidaque expiscato; extemplo in ne- fastum oppidum evolat, duos sibi adiungens e Societate nostra comites, ac ex praesidiariis certos hi- spanos, re tanta breviter discussa, cum esploratum iam esset facinus, reos morti destinat obtortoque collo fune tres strangulantur. Et ut caeteris horrorem incutiat, suspensa e trunco corpora militum e- xplodentium manu multo glande devastantur. Re confecta Regius Praetor, Indis in admirationem con- versis in genua profusus Patrum pedes non sine lacrymis deosculatus est, reliquique militum ordinatim idem praestitere. Facinus hispana, Catholicaque fide dignissimum, ac candido notando lapillo. Hinc ad concionem degressus, Interprete usus confertam Indorum turbam serio, ac gravibus verbis admonuit. Scirent semel Sacerdotes Dei esse in terris Vicarios, ac Prodivos; eademque deberi reverentia, ac ob- sequium, ac Dei ministris: elucet in eis aiebat ipsemet Deus, quem venerari necessum est. Divina mysteria quae attrectant, caeterisque dispensant, e vulgari mortalium consortio expungunt. Coelitum consocii, Dei cubicularii, ac Orbis terrarum decus, et ornamerntum. Ita proclamavit zelus Christiani Paretoris. Indi tum atrocitate supplicii, tum Hispani Praetoris de Dei ministris aestimatione horrore, ac terrore exanimati, et scelera effugere, et Dei ministros venerari didicere» (ib., ff. 577v – 578v).

 

105 D. DE OÑA, Labor evangelica ministerios apostolicos de los obreros dela Compañia de Jesus. Pro- gressos en su Povincia en las Islas Philippinas historiados, in ARSI, Philippinarum, voll. 19, I e 19, II. Si tratta di un volume diviso in due tomi in cui il nostro racconto compare nel secondo tomo (Parte se- gunda) ed occupa tre carte (ff. 1133-1135). Il volume non è datato, ma siamo in grado di stabilirne unadatazione grazie ad una seconda copia cartacea esistente nell’Archivium Historicum Societatis Jesu Ca- taloniae di Barcellona: D. DE OÑA, Historia de la Compañía de Jesús en las Islas Filipinas desde el año 1619 al 1665; il manoscritto è rilegato in quattro volumi ed ha le seguenti segnature archivistiche FIL 0008.1, 2, 3, 4.

page26image25163840

 

60

 

TONINO LODDO, Padre Giovanni Domenico Aresu

 

rò la cosa molto oltraggiosa sembrandogli che la punizione fosse in contrasto con la sua reputazione e decise di vendicarsi del padre. Scelse per il suo misfatto un giorno che potesse meglio far assomigliare lui a Giuda per il suo tradimento e a Cristo il suo discepolo gesuita. Un lunedì santo decise di togliergli la vita e a tal fine gli furono complici altri due che parteciparono al suo peccato quantunque diversi nel castigo. Sapeva che il miglior momento in cui poteva aggredire il servo del Signore era la prima notte, quando il padre si ritirava dal rumore della gente e quindi legava le vele [per dedicarsi] alla preghiera. Entrarono nel luogo in cui si trovava e brandendo un kriss – genere di arma che essi usano e che ha le stesse dimensioni di una daga, anche se più larga e devastante – il traditore lo colpì alle spalle. La ferita fu così profonda e grave che, dopo aver barcollato un poco, il Padre si fermò e cadde morto. La voce si sparse rapidamente e accorse l’Alcade maggiore il quale, dopo una sommaria infor- mazione, come si usa in tempo di guerra, ordinò che i tre delinquenti fossero passati per la garrotta quindi, dopo averli legati saldamente a dei pali, li fece fucilare. Finita l’esecuzione, compì un gesto degno di un animo cattolico; infatti, non prima di es- sersi assicurato presso i padri che avevano assistito alla pena che non ricusassero la dimostrazione che aveva in mente di compiere con essi al cospetto di tutti gli Indios che avevano assistito al castigo, si gettò in ginocchio e non si limitò a baciare le loro mani ma baciò anche i loro piedi, e successivamente fece un discorso agli Indios in cui illustrò il rispetto che si doveva ai Ministri, per esser quelli i loro veri Padri e rappresentare Dio. Quel luminoso gesto di umiltà fu imitato dagli altri spagnoli, per cui gli Indios rimasero completamente sbigottiti perché tra di essi fosse stata com- messa una simile atrocità e crebbe la stima nei confronti dei propri Ministri». Il testo riprende, come si vede, per intero la versione del padre Roa senza apportarvi novità alcuna.

 

21 – Anche l’Alcina si occupa della morte del padre Giovanni Domenico e lo fa all’interno della sua monumentale Historia de las Islas e Indios Bisayas106 cui ab- biamo diverse volte fatto cenno. L’Alcina che, lo ricordiamo, fu padre provinciale del Nostro, colloca l’episodio della sua morte nel più ampio contesto delle solleva- zioni popolari contro gli spagnoli che intorno agli anni ‘40 si verificarono nell’isola

 

106 In questo passaggio ne tratteremo facendo riferimento alla trascrizione che ne fa V. YEPES, Historia sobrenatural de los Indios Bisayas …, op. cit., pag. 29. Dell’Alcina ci è noto anche un ulteriore mano- scritto in cui egli parla di padre Giovanni Domenico e che sostanzialmente conferma quanto già cono- sciamo della sua morte. Ecco il testo: «Vengo a ellos aunqua sea en ultimo lugar pues sin duda enel cielo le tendran de los primeros. El primero dejando al Padre Carpio de quo supra que despues que estoy en estas Islas murio a manos de estos indios fue el Padre Domingo Arezu sardo, avia poco que estava en estas missiones y estava en la residencia de Carigara; donde yo era superior entonces a 13 o 14 años a este siervo de dios, que es cierto lo era, aunque algo nimio con los indios por ser nimis justus y Nuevo aun; stando rezando cerca de una cruz delante de la casa del Padre por la tarde le dio un in- dio de puñaladas de quo murio luego; dizen le avia tenido el Padre al d[ho] indio las borracheras fre- quentes en que se hallava e los excesos que de ellas succede» (Status Missionis de los Pintados, in AR- SI, Provincia Philippinarum, 12, f. 8v, firmato «De Pintados 24 de junio 1660, Ignacio Alzina»).

 

di Leyte, parlandone unitamente ad alcune esemplari esecuzioni capitali compiute dai conquistadores a danno dei nativi. Ecco come ne scrive: «De otras sublevaciones trataremos en su lugar; sólo acabo este capítulo con añadir que uno o dos de los perdonados en esta ocasion, por ser mancebos (giovanotti) aún, aunque sus padre murieron por justicia y a ellos le valiό el patrocinio del Padre Juan Lόpez y la pocaedad, murieron después por justicia en la playa de Cabarian, dados garrote, porhaber, según les probό, (Dios sabe la verdad, si fueron ellos) intervenido en lamuerte del Padre Domingo Arazu, como veremos en su lugar; a quien el uno de el- los y que era entonces más muchacho, llamado Tuinga, matò con un baladao, y éste era primo hermano de Buligan, que era Gobernador de Cabalian cuando sucediò dicha muerte, y a quien quitò el dogal de la garganta el dicho Padre Juan Lopez,como dijimos; y por haber sido en esta ocasiόn cόmplice acabό con otro después,que tres fueron los justiciados»107. Ebbene, questo testo, benché nulla ci dica delle ragioni e delle modalità della morte di padre Giovanni Domenico, è utilissimo per- ché ci fa conoscere anche il nome del suo assassino (Tuinga) e perché conferma il Roa quando parla di un omicidio premeditato ed eseguito in complicità da tre sogget- ti che furono giustiziati. Il testo conferma anche altre due affermazioni del Roa: in- nanzitutto, la posizione di privilegio dell’assassino del quale si dice che era fratello del governatore del paese, tale Buligan; poi, il fatto che vi sia stato un processo, an- corché sommario, come usava in tempo di guerra, intorno alla cui correttezza di svolgimento l’Alcina solleva, peraltro, qualche dubbio, quando afferma che la verità sullo svolgimento dei fatti che narra è conosciuta solo da Dio.

 

22 – Ora, come ben si può vedere, la versione della morte che abbiamo riportata è ben lontana dalla vulgata fino ad oggi circolata secondo la quale, la morte di padre Giovanni Domenico sarebbe avvenuta perché egli avrebbe aspramente rimproverato un Indio per avergli occultato il grave stato di salute della madre la quale, perciò, sa- rebbe morta sprovvista dei sacramenti. Poiché il più antico scrittore che ci ha riman- dato una tale notizia è Filippo Alegambe che pubblica il suo libro nel 1657108, cioè ad appena 12 anni di distanza dalla scomparsa del Nostro, è possibile che tutti quelli che hanno riportato la notizia di cui s’è detto l’abbiano ripresa da lui, omettendo ogni

 

107 V. YEPES, Historia sobrenatural de los Indios Bisayas …, op. cit., pag. 29. Come si vede, l’Alcinaafferma di voler tornare in altra parte del suo scritto sulla vicenda del padre Aresu («como veremos en su lugar», leggiamo nel testo appena citato). In verità, di questo approfondimento non abbiamo trovato alcuna traccia, ma ciò pensiamo debba attribuirsi al fatto che il manoscritto dell’Alcina ci è pervenuto in una sola copia fortemente mutila. Il Muñoz che lo rinviene e lo trascrive nel 1784, infatti, ci dice di aver recuperato solo 149 carte delle più che 400 di cui originariamente si componeva (vedi ib., pag. XIV). È, quindi, molto probabile che – per nostra sfortuna – il più dettagliato rapporto sulla morte del Nostro fos- se contenuto nelle carte andate perdute. Per completezza di informazione, aggiungiamo che una breve nota manoscritta che riguarda il padre Giovanni Domenico Aresu è contenuta anche in Necrologia 1605-1731 (vedila in ARSI, Provincia Philippinarum, 20, f. 420v).

 

108 Vedi P. ALEGAMBE, Mortes illustres et gesta eorum de Societate Jesu, qui in odium fidei ab Ethnicis, haereticis, vel aliis … confecti sunt, Roma 1657.

controllo di quelle fonti alle quali egli stesso dice di ispirarsi109. Riteniamo sia, per- ciò, sufficiente riportare il suo testo limitandoci a rimandare alle indicazioni biblio- grafiche di tutti gli altri, senza doverne riportare per intero il rispettivo contenuto. Ecco le parole dell’Alegambe: «Eo [l’A. si riferisce all’arrivo nelle Filippine di pa- dre Giovanni Domenico, ndr] non multo post quam appulit, ad Cabaliensem vicum destinatum, cum Indium quempiam negligentiae coarguisset, quod matrem ille suam Sacramentorum expertem, se minime admonito, mori sivisset, ad eo reprehenditionis impatientia concitato, incautus inter orandum hasta confixus est. Invenere suo na- tantem in sanguine Patrem Indi, qui ad opem accurrere, dilapso celeriter percussore; quem, suscitantibus illis quis esset, noluit ulla ratione Pater adhuc dum spirans indi- care. Sic honestissima morte, et optima in causa consumptus est Cabaliae die 10 A- prilis anno 1645, aetatis suae 40 et initae Societatis 23»110. Ora, occorre subito dire che non è stato reperito negli Archivi consultati alcun documento del Rea che rac- conti una simile versione dei fatti, il quale, anzi, nella versione che abbiamo più so- pra riportato, non fa alcun cenno alla morte della madre dell’omicida senza sacra- menti come causa scatenante dell’omicidio del padre Aresu. L’Alegambe, inoltre, sembra far capire che dell’omicida si siano semplicemente perse le tracce e che non se ne sia mai potuta apprendere l’identità, cosa che cozza evidentemente con la nar- razione della morte: se nessun testimone era presente all’omicidio, se il padre Gio- vanni Domenico non ne ha svelato il nome, se non s’è fatta alcuna indagine, in che modo si sarebbe venuti a sapere che la ragione dell’omicidio fosse quella piuttosto che un’altra? Ci pare, pertanto, che la versione dell’Alegambe, per essere di seconda mano e per non avere intrinseca ragionevolezza, non possa essere ritenuta affidabile, soprattutto se confrontata con quelle del Rea e del De Oña che, al contrario, sono di prima mano e intrinsecamente giustificate. Detto questo, appare evidente come tutte le successive riprese di una siffatta versione debbano considerarsi non corrette111.

 

109 L’Alegambe dice, in margine alla sua ricostruzione degli eventi, di aver assunto le sue notizie da«Pater Franciscus de Rea, Provinciali Paraquariae, literis ineunte Julio 1645 datis Manila ad Patrem Michaelem Solanam eius Provinciae ad Urbem Procuratorem. Literae aliorum nostrorum ex Philippi- nis tum ad me, tum ad alios datae» (ib., pag. 614).

 

110 Ib.
111 Si vedano, a mo’ di esempio, tra i più antichi, il M. TANNER, Societas Jesu usque ad sanguinis et vitae profusionem militans … pro Deo, Fide, Ecclesia, Pietate …, Praga 1675, che oltre ad illustrare la pagina con una bella incisione, scrive del padre Aresu – riprendendo evidentemente l’Alegambe – che fu ucciso per aver lasciato morire la mamma senza sacramenti: «Indum ille quempiam negligentiae coar- guebat, quod matrem suam lethaliter decubantem, se minime ex vicinia commonito, Sacramentorum expertem decedere passus est» (pag. 423); e il P. MURILLO VELARDE, Historia de la Provincia de Phili- pinas de la Compañia de Jesus…, op. cit., pag. 148, che scrive nel 1749 e che riporta correttamente tutte le notizie già in nostro possesso ad eccezione di quella relativa alla causa della morte, che collega allavicenda dell’Indio che lascia morire la madre senza sacramenti. La vulgata di cui diciamo è stata poiripresa nell’Ottocento da G. A. PATRIGNANI, Menologio di pie memorie d’alcuni Religiosi della Com- pagnia di Gesù, vol. II, Venezia 1830, pag. 101, che ancora ripete il racconto dell’indiano che «senzadargliene avviso avesse lasciata morir senza Sagramenti sua madre». Rimarchevole appare, in questo contesto, la prudenza del Tola (P. TOLA, Dizionario degli uomini illustri …, op. cit., ib.) il quale si limita genericamente a parlare di «un indiano intollerante delle correzioni e della santità» propostegli dal pa- dre. Venendo più dappresso nel tempo, i primi nel XX secolo ad occuparsi del Nostro furono gli esten- sori della nuova versione del volume del Colin (Labor Evangélica de los Obreros de la Compañía de Jesús en las Islas Filipinas por el padre Francisco Colín de la misma Compañía. Nueva edición ilu- strada con copia de notas y documentos para la crítica de la historia general dela soberanía de España en Filipinas por el padre Pablo Pasthells, s. j., vol. III, Barcellona 1902, pagg. 792-793), i quali, peral-tro, citano curiosamente come fonte proprio quell’Oña che dice ben altro, rispetto a quanto da essi ri- portato! Ad essi fa seguito Alfonso Maria Casu (A. M. CASU, P. Giandomenico Aresi di Arcidano …, op. cit., pag. 13) che, oltre a ripetere la storia della madre ammalata lasciata morire senza sacramenti, ag-giunge di suo anche il perdono agli assassini e l’invito a non perseguirli («perdonò ai suoi carnefici epregò gli astanti che questi non venissero puniti» (ib.), oltre ad altre singolari fantasie circa la patria del Nostro (vedi precedente nota 9). Giungiamo così ai nostri giorni. Non si sottrae al fascino della notavulgata neppure il De la Costa (1961), quando scrive che la causa della morte di Father Domenico A- ressu è da ricercarsi nell’indio «reproved for not reporting the illness of his mother and thus allowing her to die without the sacraments» (H. DE LA COSTE, The Jesuits in the Philippines,op. cit., pag. 466). Neppure la Baldussi (A. M. BALDUSSI, Un sardo assassinato dai pirati …, op. cit., ib.), si sottrae al fa- scino della «donna spirata senza sacramenti». E non ne sfugge neppure il padre Cannas (V. M. CANNAS,Martire della fede …, op. cit., ib .), che nel suo saggio pluricitato e per tanti versi benemerito, scrive di apprendere la notizia delle modalità della morte del padre Giovanni Domenico da fonte manoscritta di- retta e, segnatamente, da una «breve relazione scritta a mano ed in lingua latina, trasmessa dal Provin- ciale del Paraguay alla Curia Generalizia di Roma tramite il P. M. Solana verso i primi del mese di giu-gno del 1645. Tuttora conservata nell’Archivio generale della Compagnia», di cui indica anche la se- gnatura alla nota 19 nel modo che segue: «ARSJ, Vitae, 167, f. 85». Ora, una prudente ispezione della detta segnatura archivistica ha consentito di verificare che in quel luogo non esiste nessuna lettera ma- noscritta del Provinciale (poi, non si sa perché di quello del Paraguay, visto che le Filippine costituiva- no Provincia a sé), ma che del padre Aresu si parla brevemente solo nel contesto di un’ampia ricogni- zione di gesuiti illustri di vari secoli che fa parte della sezione Vitae dell’Historia Societatis. Il Cannas, in verità, mostra di non aver fatto alcuna verifica e di essersi limitato a prendere per buone le paroledell’Alegambe, omettendo di segnalare che l’atto di cui colui parla non è reperibile o, quantomeno, nonè quello che egli cita. In ogni caso, occorre anche dire che il volume 167 di Vitae presenta una raccolta di menologi non attribuibili ad un unico autore, che compaiono in fogli sciolti la cui datazione si esten- de tra il XVI e il XIX secolo. L’ultima in ordine di tempo ad essersi occupata diffusamente e con mag- gior fantasia del Nostro è stata Lina Aresu (L. ARESU, Cronaca di un caso di Amok registrato nell’apri- le 1645 nelle Filippine, Sant’Olcese 2014) che non solo offre della morte del padre Giovanni Domenico una ricostruzione priva di referenze archivistiche, ma che si limita a riprendere testualmentel’Alegambe (peraltro, senza mai citarlo) facendo intendere di aver invece come fonte proprio quel Fran- cisco de Roa (pag. 15) che – come si è visto – dice tutt’altra cosa rispetto alla morte del Nostro che non l’aver «il Filippino occultato le condizioni della madre moribonda, in modo da impedire a padre Do-mingo la somministrazione dell’Estrema Unzione» (pag. 21). Ma la ricostruzione dell’Aresu raggiunge il culmine quando immagina che l’omicida sia solo e che agisca d’impeto, per giungere a concludere che si tratti di un evidente caso di amok («l’ipotesi più ragionevole intorno all’atroce omicidio è quella dell’Amok», pag. 21), ipotesi senz’altro ragionevole se davvero fosse corretta la premessa che, come si è detto, è invece ben lungi dall’esserlo, in quanto nell’omicidio del padre Aresu è certa la premeditazione, circostanza che, da sola, basta ad eliminare qualsiasi ipotesi di amok. E ciò, sorvolando su altre evidentifantasticherie come quella che vorrebbe l’assassino «un esagitato gorgogliante parole smozzicatedall’ira, con lo sguardo infiammato e torbido» (pag. 15). Pure da riscrivere appaiono, alla luce di quantofin qui siamo andati dicendo, le voci che riguardano il Nostro comparse anche recentemente su vari di- zionari biografici tra cui soprattutto ricordiamo J. S. ARCILLA, Aressu Juan Domingo, in CH. O’NEILL, J. M. DOMÍNGUEZ, Diccionario histórico de la Compañía de Jesús, vol. I, Roma-Madrid 2001, pagg. 222- 223. 

 

 

Certa, invece, appare la data dell’omicidio che tutti gli autori concordemente riporta- no, quella del 10 aprile 1645, giorno che – in quell’anno – coincideva con il lunedì della settimana santa112.

 

 

 

23 – Ora, giunti a conclusione del nostro studio, possiamo con sicurezza dire che le fonti ci rimandano l’immagine del padre Giovanni Domenico Aresu come quella di un martire. A darci questa certezza non è solo l’affermazione storica della sua morte avvenuta in odio alla fede e alla virtù113, quanto l’unica possibile lettura di fede della stessa; cioè, non solo la perfetta attendibilità storica di quell’episodio, ma anche e soprattutto il suo spessore semantico e le dinamiche di quella testimonianza. In altri termini, una lettura in controluce della pagina storica che abbiamo presentato ci per- mette di cogliervi in filigrana la presenza di quel Gesù Cristo cui padre Giovanni Domenico ha interamente dedicato la sua vita fin dalla giovinezza, così fortemente compromessa dalla confidenza in Lui e dal costante desiderio di voler essere insepa-

 

112 Il Rea e il De Oña, infatti e come detto, non fanno luogo a date, ma parlano il primo di «Feria prima majoris hebdomadae» e il secondo di «Lunes santo». L’unica data discordante ci proviene dal J. FEIÉR,Defuncti secundi saeculi Societatis Jesu, 1641-1740 , vol. I, Roma 1985, pag. 51, dove leggiamo: «Pa- ter Aresu Joann Domin Carigarae 10 maii 1645», con l’evidente errore del mese (maggio anziché apri- le) e del luogo (si indica la sede della residenza ufficiale e non della morte); va rilevato che la fonte ma- noscritta che egli cita, un elenco di gesuiti defunti (vedilo in ARSI, Historia Societatis, 47, f. 42v), è pure errata.

 

113 Su questo tema, le fonti edite e inedite sono concordi. Il più esplicito di tutti è il suo primo biografo e superiore, il padre Fracesco Roa, che così si esprime: «In dies enim ea pollebat virtutum ornamentis, Angelicis moribus, ac ab hac mortali in alia degentis vitae genere, ut nihil cunctandum sit in beatam patriam ex tunc evolare. Quam plurimi non alio nuncupabant nomine, quam Beati Martyris: quamvis enim persap[ienter] his in terris sacrilegi facinoris intenta penetrare, investigareque vix possit humana industria, in Coelis numeros Martyris haureola praefulgere certum est, cum oculatissima Dei sapientia funditus cunta compraehendat. Caeterum quamvis in Coelum abiit; Insularibus pictis iure optimo Patre amisso, subsidium ingens subtractum est, eius enim animarum zelo, ac cum virtute rebus gerendis fru- strati in terris sunt. Speramus tamen (ut persap[ienter] a sapientibus observatum est) ut minore socio- rum numero, aliis in Coelo interpellantibus uberiorem animarum his in partibus proventum. Et in P. Dominici Aresii e coelo benigne respicientis opem sperata fertilitas referetur. Nos vero virtutum sua- rum odoribus perfusi religiosum virum semper suspeximus» (Annuae Litterae Philippinarum Provin- ciae Anno MDCXLIII-IV-V, in ARSI, Philippinarum, vol. 7, II, f. 578v). Di identico parere è anchel’anonimo estensore del Necrologio in ARSI, Provincia Philippinarum, 20, f. 420v, che scrive: «re- splenderon en esto zelan obrero muy heroicas virtudes, pero en la humildad fue su mayor esmero». An- che il padre De Oña nel suo manoscritto non manca di sottolineare il martirio del padre Giovanni Do- menico, scrivendo che «quiso Nuestro Señor remunerar con tan gloriosa muerte, a que podemos per- suadirnos corresponder el lauro del Martirio, pues acabo la vida por tan buena caussa» (D. DE OÑA,Labor evangelica ministerios apostolicos…, op. cit., f. 1132). Di identico tenore sono le prime fonti edi- te cui si sono ispirati tutti i successivi autori che si sono occupati del padre Giovanni Domenico.L’Alegambe parla di «honestissima morte et optima in causa consunctus» (P. ALEGAMBE, Mortes illu- stres…, op. cit, ib.). Di identico tenore è il Tanner che, dopo aver detto di lui che era morto per odio del- la virtù («occisus odio virturtis ab Indis», M. TANNER, Societas Jesu usque ad sanguinis…, op. cit., pag,. 423), riprende testualmente la dicitura dell’Alegambe. Anche il Patrignani (G. A. PATRIGNANI, Menolo- gio di pie memorie …, op. cit., pag. 101) parla di «onestissima morte» definendo, altresì, il P. Giovanni Domenico come «servo di Dio».

rabilmente «presso di Lui nell’amore» (Sap 3, 9). Egli, come tutti i martiri, ci ricon- segna con la sua vita e con la sua gloriosissima morte quel prezioso patrimonio che da duemila anni fa luce sulla vita ordinaria dei credenti: «una speranza piena di im- mortalità» (Sap 3, 4).

 

Ma poiché per potersi parlare di martirio occorre che esso sia proclamato ufficial- mente dalla Chiesa in atto di beatificazione o di canonizzazione, è necessario innan- zitutto verificare se si vi siano contemporaneamente almeno tre condizioni e, cioè, la morte fisica del martire, l’odio contro la fede da parte del persecutore e l’accet- tazione della morte per amore di Cristo da parte del martire stesso114. Crediamo che questo primo tentativo di ricostruzione critica della vita e del martirio di padre Gio- vani Domenico Aresu, oltre a dimostrare che le citate condizioni persistono, possa servire quantomeno a riprendere le fila di un ragionamento e, quindi, a consentire nella diocesi d’Ogliastra (eventualmente d’intesa con la diocesi di Maasin, circoscri- zione ecclesiastica cui attualmente fa capo la parrocchia di San Juan-Cabalian, Phi- lippines) l’apertura di una causa volta a stabilire se la sua morte eroica possa classi- ficarsi come martirio. Per stabilire, cioè, se padre Giovanni Domenico Aresu, «a- vendo seguito più da vicino il Signore Gesù Cristo, sacrificando la vita nell’atto del martirio»115, possa essere additato alla pietà di tutti i fedeli come alto modello di vir- tù e di fede.

page32image24255616

 

114 Di fronte ad una tematica così ampia, ci limitiamo a rimandare ad alcuni studi fondamentali: L. FLI- SIKOWSKI, Il problema della certezza morale nelle cause di canonizzazione, in Elementi giuridici della santità canonizzata secondo la legislazione di Giovanni Paolo II. Materiali del II Simposio Nazionale Polacco di Diritto di Canonizzazione KUL Lublin 24–26.IX.1992, Lublin 1993, pagg. 57-69; E. PIA- CENTINI, Il martirio nelle cause dei santi, LEV Roma 1979; J. L. GUTIERREZ, La certezza morale nelle cause di canonizzazione specialmente nella dichiarazione del martirio, “Ius Ecclesiae. Rivista Interna-zionale di Diritto Canonico”, 3 (1991), pagg. 645–670; H. MISZTAL, La dichiarazione ecclesiale del martirio, in “Soter – Journal of Religious Science”, 14 (2004), pagg. 7-23. Sulla procedura di dichiara- zione del martirio vedere Istruzione per lo svolgimento delle Inchieste diocesane o eparchiali nelle Cause dei Santi della CONGREGAZIONE DELLE CAUSE DEI SANTI, Sanctorum Mater, del 17 maggio 2007,in “Acta Apostolicae Sedis”, 99 (2007), pagg. 465-517.

115 Ib., art. 4, primo comma.

TONINO LODDO (Lanusei 1950), laurea in filosofia a Cagliari, dirigente ispettivo in quiescenza pressol’Ufficio Scolastico Regionale della Sardegna, giornalista pubblicista, è stato sindaco della sua città na- tale, consigliere e assessore regionale, deputato al Parlamento. È autore di diversi volumi, tra i quali Il Movimento Cattolico in Ogliastra (1872-1969), Cagliari 1993; Bibliografia ogliastrina, Sassari 1997;Agostina Demuro, Sassari 1997; Chiese ed arte sacra in Sardegna. Diocesi di Lanusei, Cagliari-Sestu 1999; Franco Ferrai, Cagliari-Sestu 2007; Giovanni Usai. Un poeta neoclassico nel Novecento, Dolia- nova 2008; Ilbono. Oltre la memoria, Cagliari 2009. Ha curato anche la pubblicazione dei volumi L. LEGRÉ, Ogliastra 1879. Memorie d’un cacciatore marsigliese, Cagliari-Sestu 2002; Lanusei, Cagliari- Sestu 2006; Flavio Cocco. Saggi, inediti, testimonianze, Cagliari-Sestu 2007; Arbatax. La cultura, la storia, Sassari 2009; F. FARCI, Gioele Flores e altri racconti, Cagliari-Selargius 2010 che ha corredatocon un’ampia introduzione (Filiberto Farci. Note per un profilo, in ib., pagg. 13-53); Felix Dèspine,Ricordi di Sardegna, Cagliari-Selargius 2011. Suoi scritti sono presenti in numerose opere collettive ed in diverse riviste isolane.

 

Un grazie di cuore al direttore dei Quaderni Ogliastrini per aver concesso la pubblicazione di questo contributo ad accademiasarda.it. (Angelino  Tedde)

Studi Ogliastrini 12

prima ed. dicembre 2015

Realizzazione editoriale

Grafica del Parteolla di Cossu Paolo & C. s.n.c. P. IVA 02130710920
via Pasteur 36, Z. I. Bardella
09041 Dolianova (CA)

tel. 070 741234 fax 070 745387 www.graficadelparteolla.com info@graficadelparteolla.com

Direzione, Amministrazione e Redazione

Via Roma 108 – 08045 Lanusei
tel. 0782482213 – fax 0782482214 redazione@ogliastraweb.it www.ogliastraweb.it
© L’Ogliastra – Associazione culturale Via Roma 108 – 08045 Lanusei

Direttore responsabile

Tonino Loddo direttore@ogliastraweb.it

Stampa e allestimento

Grafica del Parteolla – Dolianova (CA)

In copertina: Escalaplano. Il rosone della chiesa parrocchiale © Comune di Escalaplano

supplemento al n. 1/2016 de “L’Ogliastra”aut. Tribunale di Lanusei
n. 23 del 16/06/1982

ISBN 9788867911042

 

Commenti sono sospesi.

RSS Sottoscrivi.