Categoria : storia

“L’inquieta Sardegna di Berto Cara” di Tonino Loddo

Poco si sa di Berto Cara, romanziere, drammaturgo, sceneggiatore e poeta di temperata facondia, che nelle proprie opere ha cantato l’evocativa semplicità dei luoghi della propria infanzia e della propria adolescenza, rivivendone, nell’atto della scrittura, frammenti ampi, di cui esibisce gli andamenti ruvidi e scintillanti e l’estensione modesta eppure misteriosa e inesplorata. Il profumo amaro delle erbe2, lo splendore dei fiori, la luce obliqua che si allunga a sera verso il mare, i piccoli orti e i loro fat cati prodotti («Qui non si canta. Qui si lavora in silenzio»3, dice Bustianu a Taneddu), il «chiasso assordante dei passeri»4, le case «che parevano sepolcri»5 … costituiscono, infatti, le sensazioni prelinguistiche che confluiscono nell’immaginario dello scrittore non come elementi decorativi di contorno, ma come luogo ideale dell’esistenza, come unico spazio in cui sarebbe dolce vivere se solo fosse possibile fermare il tempo. Lo spazio sardo (e quello ogliastrino in particolare, «culla di tutti i miraggi mai raggiunti dal nomade»6) diventa, in tal modo, tramite l’azione continuadella memoria, una sorta di garanzia dell’esistenza, un punto costante cui egli fa ricorso nella scrittura per averne sicurezza, per ritrovare – soprattutto nei momenti di

1 Vedere la Bibliografia in calce al presente saggio.
2 «Ogni tanto allungava la mano a strappare qualche viticcio o qualche stelo d’acetosella, che mordic- chiava nervosa per suggerne l’acida linfa» (B. CARA, Dio non si cura dei funghi, Siena 1956, pag. 116).3 Ib., pag. 90.
4 Ib., pag. 118.
5 Ib.
6 Ib., pag. 3.

page5image59705792crisi e di sconforto – tutto lo spessore della propria identità e per trarne la sicurezza della verità.
Berto Cara cerca attraverso questo suo costante riandare a quel tempo mitico, di su- perare la fatica del quotidiano e la dura realtà della lontananza: «O fedu primorosu e innotzente / tropp’in presse ‘oladu, / d’unu tempus k’inoghe s’est firmadu / nudu, immobile, eternu»7. Così, giusto per capirci, Ambrogino, lo scanzonato ragazzotto diDio non si cura dei funghi, appare altri non essere che la proiezione fantasiosa del suo ego, e raccontando di lui racconta anche di se stesso, compiendo in tal modo come un atto catartico di purificazione della memoria e di appropriazione del presen- te. Con questa operazione, egli tenta (peraltro, non riuscendovi) di superare il maled’esistere, nella perpetua ma inutile ricerca d’una pace smarrita per sempre.

Berto (Filiberto) Cara nasce in Sardegna, a Barisardo, il 12 aprile 1906, e si sa che è impossibile per un sardo dimenticare la propria terra, forse perché avverte in maniera del tutto particolare l’incanto sottile ed intimo di quel genius loci che lo induce a viverla come animata e sacra, una sorta di divinità cui tributare un culto perenne, unica fonte di benessere e di armonia. È il primo dei sei figli di un carabiniere ingegnoso che pratica l’arte dell’orologeria, in un tempo in cui essere carabinieri ed orologiai era ancora un titolo di rispetto e benemerenza, oltre che di parziale agiatezza. A Lanusei è aperto da anni un collegio salesiano8 che diventerà un punto di riferimento essenziale per la formazione della classe dirigente sarda del Novecento. Ma costa unpo’ frequentarlo. Né Raffaele Cara vuol privare il suo primogenito della possibilità di studiare, onde pr ovare ad assicurargli un futuro migliore. L’unica possibilità, concluse le scuole elementari nel paese, è quella di iscriverlo al seminario vescovile di Tortolì9 che un vescovo illuminato, mons. Emanuele Virgilio10, andava riportando

7 B. CARA, Cantos d’anima, Siena 1960, pag. 46.
8 Sul collegio vedere, in particolare, G. MAMELI, I Salesiani a Lanusei, in «Studi Ogliastrini», 5 (1999), pagg. 137-150; G. VIARENGO, O. CRUCCAS, Centenario dell’Opera salesiana a Lanusei ed in Sardegna, Assemini 2000; A. USAI, L’Opera Salesiana in Sardegna, Cagliari 1973, vol. I: Lanusei; P. BELLU,Presenza Salesiana in Sardegna Lanusei-Cagliari…1915, in «Studi e ricerche del seminario di filosofia del diritto e di storia delle dottrine politiche della facoltà di lettere e filosofia dell’università di Sassari», 8 (1995), pagg. 1-72. Per una rapida visione d’insieme, si veda anche M. A. MIGALI, Il Collegio Sale- siano, in T. LODDO (a cura di), Lanusei, Cagliari-Sestu 2006, pagg. 123-129 e ID., L’ordo studiorum del Collegio salesiano di Lanusei e la formazione della classe dirigente sarda, in ib., 10 (2011), pagg. 60- 76.
9 Sul seminario di Tortolì, vedere quanto scrive E. LOCCI, Mons. Serafino Carchero (1825-1834), Lette- re Pastorali e Circolari, Tesi di Magistero in Scienze Religiose, Facoltà di Teologia della Pontificia Università della Santa Croce, Istituto Superiore di Scienze Religiose all’Apollinare, sede staccata diLanusei, AA 2008-2009, relatore il prof. Tonino Loddo, pagg. 72ss.
10 Lo studio più completo e documentato su mons. Emanuele Virgilio è quello di V. PIRARBA, I proble- mi del Meridione in Mons. Virgilio, Cagliari s.d. (ma 1986), oggi ripreso in ID., Mons. Virgilio tra uto- pia e realtà, Cagliari 2006; vedere anche P. BELLU, Prime esperienze di azione sociale in Sardegna nelpensiero e nell’iniziativa del Vescovo d’Ogliastra Mons. Emanuele Virgilio, in «Bollettino perl’archivio della storia del movimento sociale cattolico in Italia», 13 (1978), pagg. 167ss.; A. BONU, Perla consacrazione di Mons. Emanuele Virgilio a Vescovo d’Ogliastra, Napoli 1910; ID., Un grande Ve-

agli antichi splendori. Non aveva nessuna neppur lontana intenzione di diventare prete quel ragazzino che, con il cappello educatamente in mano, se ne stava riverente dinanzi a mons. vescovo; e glielo disse francamente in faccia, ricevendone in cambio congratulazioni per la sincerità.

Gli studi nell’austero edificio di Tortolì furono esigenti e severi, sotto la guida dimaestri espertissimi come il futuro prefetto dell’Ambrosiana e arcivescovo di Sassari, allora giovane prete, Agostino Saba11 e il dotto latinista terteniese Beniamino Corgiolu. La domenica , in fila processionale, vestito come gli altri in sottana e cotta, attraversa il borgo e si reca in cattedrale per assistere al pontificale che il vescovo celebra. Ma soprattutto, impara a conoscere virtù (poche) e debolezze (molte) dei preti della diocesi e a decifrarne le dinamiche interpersonali; vede quelli che«s’ingrassavano» a seguito della lunga permanenza in uno stesso centro montano,«sordidissime spugne, avari come diavoli»12, e quelli che non avevano «né pane, né un uovo, né un po’ di latte, né acqua»13 ed erano costretti «a fare le preghiere» contro la moria del pollame per sopravvivere14. Alla sera, poi, quando studiava nell’ampia sala silente con le pareti piene di libri antichi, il suo sguardo amava correre oltre le finestre e spaziare oltre i «monti di Talana sui quali il sole calava, accogliendone le cime e diffondendo su tutto il suo pulviscolo d’oro»15, o sul mare vicino di cui percepiva i respiri lunghi e gli abbracci caldi; «Canta, mare, s’attitidu costante / e narami s’antiga paristoria, / ki torrat frecuente a sa memoria / d’attera vida vivida a- danante …»16.

Finito il ginnasio, anche gli studi furono momentaneamente abbandonati, giacché di andare a Cagliari non se ne parlava neppure. Sono gli anni Venti, e le Poste stanno reclutando dipendenti per un piano straordinario di diffusione delle proprie attività in tutto il Paese17. Servono impiegati. Anche a Barisardo, servono impiegati. Berto ha l’età giusta e le giuste competenze culturali. Pochi soldi, s’intende; ma è giovane. Epoi può lavorare proprio a Barisardo. Meglio di così? Invidiato dai coetanei, costretti

scovo dell’Ogliastra, Siena 1948 e V. PIRARBA, Aspetti dell’attività pastorale di mons. E. Virgilio, in T. LODDO (a cura di), Studi in onore di mons. Antioco Piseddu, Cagliari Sestu 2002, pagg. 189-204.
11 Sul Saba esiste una copiosa letteratura. Segnaliamo R. BONU, Scrittori Sardi nati nel sec. XIX, Sassari 1961, pagg. 665ss., con ricca appendice bibliografica; per un elenco completo dei suoi scritti si vedal’Annuario dell’Università Cattolica 1962-1963, Milano 1963; T. CABIZZOSU, Mons. Agostino Saba storico della Chiesa, in «L’Ogliastra», 12 (1987), pag. 4; P. CARTA, Mons. Saba: una vita per la fede e per la cultura, in ib., 2 (1988), pag. 3; G. LOBINA, Un uomo, un vescovo, in ib., pagg. 4ss. Il n. 5 (1961) della rivista «Il Convegno» è interamente dedicato al presule con contributi di G. LEPORI, D. FILIA, S. CARA, S. VISMARA, R. BRANCA.

12 Dio non si cura dei funghi, pag. 51.13 Ib., pag. 48.
14 Ib., pag. 55.
15 Ib., pag. 117.

16 Cantos d’anima, pag.51.
17 Vedi M. COGLITORE, Il timbro e la penna. La nazione degli impiegati postali nella prima metà del Novecento, Milano 2008. Gli impiegati venivano « assunti in genere tra i quattordici e i vent’anni, con qualche punta massima attorno ai trenta/trentacinque», ib., pag. 36.

ad andare per campi o per stradine polverose al seguito di una capra, il Cara inizia così la sua carriera alle Poste (1923). Da Barisardo passa a Mamoiada e, quindi, ad Orotelli. Qui conosce (1925) Salvatora (Bora) Pintori, la madre dei suoi 5 figli18, di cui uno (il primogenito!) morto ancora lattante, che piangerà («poveru debile frore de linu»19) con versi accorati e dolenti. Gli anni nuoresi segneranno fortemente la formazione letteraria di Berto Cara sia quanto alla caratterizzazione dei suoi (primi) personaggi sia quanto alla lingua.

La lingua, innanzitutto. Lo affascinava la lingua che sentiva parlare nel paese e nella famiglia di sua moglie, la sentiva originale e meno influenzata dalle parlate che nei secoli si erano alternate nel dominio dell’Isola; sicuramente più conservativa e arcaica con quel suo bagaglio di parole d’origine prelatina e, in ogni caso, sicuramente più simile sia al volgare latino che all’antica lingua sarda medioevale dei condaghes,rispetto a quella forma di campidanese un po’ bizzarro che aveva imparato a parlare in Ogliastra e a Barisardo in particolare. E poi, era la lingua in cui s’erano espressi poeticamente i vari Sebastiano Satta, Pasquale Dessanay, Antonio Giuseppe Solinas e Sebastiano Mancosu, la cui memoria negli ambienti colti nuoresi era ancora vivissima, quando egli cominciò a frequentarli20. E, comunque, quella era la lingua in cui si esprimeva quotidianamente con la gente che incontrava e gli pareva, perciò, la più degna per esprimerne i sentimenti e la vita. E lo confessa apertamente: «L’autore ha voluto – scrive nel 1929 – che Sa Lampana fosse scritta, più che per i cosiddetti istruiti, principalmente per il popolo, per il popolo sardo, che non ha ancora una lette- ratura o, meglio, un teatro suo proprio. Or ecco perché ho anche preferito scrivere la triste storia di Manzela e di Stene Mura in dialetto, e nel loro dialetto, anziché in lingua italiana o anche semplicemente logudorese. Il mio lavoro è scritto nella lingua

18 Tra essi, ricordiamo Eros (in arte: Eros Kara) (Nuoro 1929 – Parigi 2011), pittore acquarellista di va- lore internazionale, che dopo aver studiato grafica e pubblicità a Milano allo Studio Mattaloni, lavoreràtra l’altro per Elisabeth Harden, per la 20 Century Fox, per la Republic Picture e per l’Universal Inter- national. Dopo aver esposto le sue opere in tutto il mondo, nel 1970 comincia ad interessarsi al fumetto, lavorando come cartoonist per la casa editrice Universo ad una fortunata serie di fumetti per «Grand’Hotel», «Il monello», «L’intrepido», «Gli albi dell’Intrepido» e «Diabolik». Nel 1974 fonda aRoma le Edizioni New Press pubblicandovi «Con noi», il primo giornale dei gay italiani, ed apre a Tra- stevere il primo club per gay, «Al solito posto», dove nasce anche il primo teatro di cabaret gay. Nel 1975 liquida tutte le sue attività editoriali per dedicarsi nuovamente ed interamente alla pittura trasfe- rendosi in Francia, dove rimane per circa altri 10 anni. Nel 1989 rientra in Italia e diviene uno dei pittoripiù quotati dell’organizzazione Capital Investart, suo gallerista internazionale. Da menzionare è ilgrande affresco di ottanta metri quadri eseguito nell’aula consiliare del municipio di Giuliano (NA).Torna qualche tempo in Sardegna (Sanluri, 1994) per poi trasferirsi definitivamente a Parigi, dove muo- re (Vedi S. PORTAS, La mostra dei quadri di Eros Kara, in «Tottus impari», 376 (2011), pagg. 12ss).

19 B. CARA, Sa Lampana, Nuoro 1929, pag. 2.
20 Vedere G. PINNA, Antologia dei poeti dialettali nuoresi, Cagliari 1969 e ID., Antologia dei poeti dia- lettali nuoresi, Cagliari 1982. Sulle peculiari caratteristiche del sardo-nuorese vedere M. PITTAU,Grammatica del sardo-nuorese. Il più conservativo dei parlari neolatini, Bologna 1972, in cui si fa ra- pidamente cenno anche alle opere in limba di Berto Cara.

page8image59662208della taciturna Barbagia, alla quale lo dedico e consacro come una primizia del gene- re»21.
E lo affascinava, in secondo luogo, proprio quell’ambiente taciturno carico di presagi tipico del nuorese, che gli appariva come il cuore selvaggio e genuino della Sardegna, pur esso così diverso da quello lezioso e smagato che aveva conosciuto frequentando i paesi delle estreme propaggini orientali d’Ogliastra. Le storie dei pastori rudi e avvezzi ad ogni intemperie, dei loro amici e dei loro servi che lavoravano i terreni di famiglia, le storie di santi, di latitanti e di banditi, che ogni giorno poteva ascoltare nell’osservatorio privilegiato del suo ufficio al centro del paese, e che ne facevano una terra anacronistica e, perciò, originale22, lo catturarono in modo totale. Sono gli anni in cui Cara non ha ancora bisogno del ricordo ed ama solo il suo presente, che vede ben riflesso nel coraggio e nella forza ruvida degli uomini e delle donne che incontra.

Nasce, così, Sa Làmpana, dramma in tre atti, in endecasillabi ordinati e gentili, una semplice storia di amore e di morte. E fin qui, nulla di nuovo: già la Deledda andava raccontando (proprio in quegli anni) forti vicende d’amore, di dolore e di morte sulle quali aleggiava il senso del peccato, della colpa, e la coscienza di una inevitabile fatalità23. Ma quelle storie acri che raccoglievano innegabile ed invidiato successo fuori, nel Continente, non piacevano granché ai nuoresi che non condividevano per nulla l’immagine che ella dava della loro terra come di terra rude, rustica e quindi arrettrata. Forse è questa la ragione per cui Berto Cara evita accuratamente le solite e rancide scene di banditi sanguinari, i consueti e secolari rancori, le bardane fulminanti e granguignolesche … Perché se è vero che il male è presente nelle sue varianti più grevi in quasi ogni pagina dell’opera (e che dramma sarebbe stato, altrimenti!), è vero che vi sono presenti anche sentimenti positivi di gentilezza e perfino di bontà che riescono a temperare il terribile impianto complessivo. Certo, tre morti ammazzati tutti d’un botto, uno – per giunta – (Stene Mura) ucciso in modo immeritato e perfino infame, restano un po’ difficili da digerire, al pari della crudeltà di Mariedd’ ‘e

21 B. CARA, Sa Làmpana, Nuoro 1929, pag. 58.
22 Guido Piovene, che visitò la Sardegna centrale nell’immediato secondo dopoguerra, così ne parla: «Il Nuorese è […] uno stupendo anacronismo, con le attrattive per l’estraneo e l’asprezza di vita che l’anacronismo comporta. Qui vive il nucleo indigeno sardo, che ha resistito attraverso i millenni a tuttele invasioni senza lasciarsi penetrare; e perciò gli abitanti tendono a considerare sé stessi più sardi degli altri» (G. PIOVENE, Viaggio in Italia, Milano 2007, pag. 725).
23 Si vedano, a questo proposito, l’ormai dimenticato ma esemplare M. MASSAIU, La Sardegna di Gra- zia Deledda, Milano 1972 e ID., Sardegnamara, Una donna un canto, Milano 1983. Si vedano anche le ottime opere di M. GIACOBBE, Grazia Deledda. Un’introduzione alla Sardegna, Milano 1973 (poi Sas- sari 1999), N. TANDA, Dal mito dell’isola all’isola del mito. Grazia Deledda e dintorni, Roma 1992, el’opera collettiva U. COLLU (a cura di), Grazia Deledda nella cultura contemporanea. Atti del Semina- rio di Studi, Nuoro 1986, vol. I, Grazia Deledda nella cultura sarda contemporanea e vol. II Grazia Deledda nella cultura sarda nazionale e internazionale, Cagliari 1992; infine, si segnala (nella stermi- nata bibliografia) il bel volume di G. CERINA, Deledda ed altri narratori. Mito dell’isola e coscienza dell’insularità, Cagliari 1992, che rappresenta la più attuale proposta interpretativa dell’opera del pre- mio Nobel.

page9image59667200Fonne capace di ogni perfidia; ma le parole conclusive di perdono24 di Pedru Meleri escono perfino a commuovere, così come tenero e quieto appare il sentimento d’amore della giovane Boela e il suo affetto tenace e commosso verso l’infelice Manzela, vittima di un’ingiustizia ignobile, e bastano loro due ad offrire un ritratto esaltante delle forti donne di Sardegna. L’azione ha un ritmo sorprendentemente veloce e il succedersi delle situazioni crea nello spettatore/lettore un senso di partecipata sorpresa che avvince25.

Il giovane Cara, intanto, continua a pubblicare poesie, novelle, atti unici, riflessioni varie sulla società sarda, saggi di critica letteraria in diversi giornali dell’Isola e della Penisola e il tempo che gli è lasciato libero dalle incombenze postali (forse, le file non erano molto lunghe nell’Orotelli di quegli anni!) lo dedica allo studio, nel tentativo di realizzare un antico sogno: laurearsi in Lettere. Nel 1936 riesce a fare il primo passo in tale direzione, ottenendo a Cagliari il diploma magistrale. Gli è, così, possibile abbandonare il grigio ruolo di impiegato postale per cominciare quello di insegnante elementare, più consono alla sua formazione, che lo porta a Cagliari, dove lo attende un incarico alle scuole elementari di piazza Carmine. Inizia, così, una pluridecennale esperienza di vita a Cagliari durante la quale potrà finalmente realizzare il suo desiderio, laureandosi in Lettere presso la locale università con una tesi sullo Zibaldone di Leopardi (1941).

Porta avanti, contemporaneamente, la propria attività letteraria. Appena arrivato a Cagliari pubblica, a sue spese26, presso le edizioni BTC di Francesco Trois, la sua seconda opera Marytria, un dramma in cinque atti, pieno di personaggi e ricco di azione27. Pur trovandoci dinanzi alla solita storia di amore e di morte in endecasillabi in lingua logudorese28, possiamo osservare che essa esce dai consueti clichés, per dire subito che si tratta, forse, della più riuscita delle sue opere per ricchezza d’animazione e capacità di analisi psicologica dei protagonisti29. Vi si narra la storiad’un amore contrastato tra Marytria Albais che ama riamata Badore ‘e Ligios, un giovane poeta da cui aspetta segretamente un figlio, pure avidamente desiderata da Nanni Dore, podestà del paese e fratellastro della ragazza. Una tragedia fosca e cruenta, in cui domina un male assoluto che nessuna forza sembra possa sconfiggere, proprio ed in quanto esso è frutto di prepotenza e di cattiveria; la gran parte dei personaggi appaiono complessi ed ambigui, non conoscono rimorsi, sono incapaci 

24 «Sorres meas … So benniu che anzone / non che cane comente, semper, m’hazis / connotu … […] / […] e so benniu a ti precare su perdonu» (Sa Lampana, pag. 49), dove non è la pura richiesta di perdo- no posta in bocca al violento Mele, quanto la parola sorre a farci quasi scordare le sue passate crudeltà.25 Antonio Scano ne parla, all’epoca, come di «un lavoro scenico costruito su uno sfondo di potentedrammaticità» (A. SCANO, Narratori e poeti, in ID., Rinascita artistica e letteraria in Sardegna, in «Rassegna Nazionale», 22 (1935), pagg. 129-143, pag. 134).

26 La notizia è in B. CARA, Paska, Modena 1957, pag. 101.
27 B. CARA, Marytria, Edizioni BCT, Cagliari 1936,
28 Tale la definisce lo stesso autore (ib., pag. 99).
29 Così, peraltro, la considerava anche l’A. che la definiva «s’opera sua pius amada, in sa cale hat di-stilladu, segundu sas forza suas, totaganta s’anima sua, pibiosa e addolorada» (ib., pag. 99) pentimento ed agiscono del tutto indisturbati in un mondo in cui per le loro vittime non resta che la sofferenza e la morte. Un dramma denso, rapido, intimamente umano, che scava nel profondo e mette a nudo le anime, attanagliate dalla beffa atroce di un ineluttabile destino avverso.

Ma se finora avevamo conosciuto un Berto Cara coraggioso e tutto proteso verso un futuro nuovo, a questo punto pare di avvertire in lui come una sorta di cedimento ad un destino avverso, apparentemente senza ragione e, comunque, ancora senza rancore. La realtà dura ed aspra che segna la vita di Badore e Marytria sembra una proiezione della vita personale dell’artista, caratterizzata com’è da un pessimismo a tutto tondo fondato sul concetto che la vita dell’uomo sia esclusivamente dominata dall’amarezza del male, senza che vi sia alcuna luce di provvidenza che la rischiari, nessuna possibilità di mutarla e nessun altro scampo che accettarne le leggi e i limiti e compiervi la propria faticosa vita in rassegnato silenzio.

«So fizu ‘e su Dolore! / So fiore / naschidu in d’una triste ‘adde ‘e piantu … / Deono’ hap’ edade / né hat frade / custu destinu meu de ispantu! / Mi jamant “su Rebellu” / ca orpellu / non conneschet sa ‘oghe ‘e dolore»30, scrive nella Presentazionedell’opera, quasi a voler dichiarare l’uniformità del proprio individuale destino a quello dei personaggi che vi presenta. Destino che solo la poesia sembra poter in qualche misura superare, come emerge con chiarezza quando dichiara apertamente di scrivere al solo scopo di «’incher, cum su fruttu ‘e s’Arte, sa Morte»31.

Ora, è possibile pensare che tanto dolore sia causato da motivazioni puramente letterarie, in particolare dall’osservare come la limba stia progressivamente morendo, per cui si chiede «a boghe manna, si custa limba tantu donosa meritat abberu sa morte,o s’isiliu, a su cale pagos donchisciottes nostranos la diant cherrer – birgonza! –hoe cundennare»32. Ma le liriche del periodo (e, ancor più, quelle che seguiranno) non ci confermano in questa ipotesi e ci danno, al contrario, proprio l’immagine di un poeta dolente, vittima dell’ostinato accanimento di un destino avverso, una sorta di antiprovvidenza che ossessivamente e ripetutamente l’assale. Da questo momento in poi, la vita letteraria (ma, sembrerebbe di poter dire, non solo) del Cara ci appare colma di rimpianti per una felicità lontana, il cui ricordo può essere, talvolta, fonte di momentanea dolcezza, ma anche causa di richiami dolorosi all’affanno del presente. Questo passaggio è significativamente evocato anche dagli pseudonimi con cui si firma, in quel passare da Rebellu (usato fino almeno al 1933) a Fizu’e dolore che compare per la prima volta proprio in Marytria34.

30 Ib., pag. 5.
31 Ib., pag. 99.
32 Ib., pag. 100.
33 Vedere, tra le altre opere, Ancora della “fu Sardegna”e del “fu dialetto”, in «Il lunedì dell’Unione»,20 luglio 1933, pag. 3, La vecchia Sardegna è dura a morire?, in ib., 6 agosto 1933, pag. 3, Sa maledis- sione, in «Sardegna», 9 (1933), pag. 3 e Presone, in ib., 11 (1935), pag. 3, in cui si firma Rebellu.
34 Appare singolare che la postfazione dell’opera (pagg. 99-100) inizi con le parole «Rebellu a sos pa- gos amigos suos e de sa Sardigna» e si concluda con la firma «Fizu ‘e dolore».

La sua amarezza raggiunge il colmo quando (1936), non appena pubblicata, quest’opera fu ritirata dalla circolazione con un decreto della censura fascista, perché vi comparivano alcune figure delineate con connotazioni che suonavano offensive per il regime35. Effettivamente, occorre riconoscere che Berto Cara mostra di non concedere alcun credito al fascismo e ai suoi locali accoliti; in particolare, ciò emerge quando Nanni Dore, podestà di Araè, utilizza le proprie funzioni per fini esclusivamente personali (nihil sub sole novum!), condannando al confino Badore onde togliere dalla circolazione il suo competitor all’amore di Marytria che, peraltro, ama solo il giovane poeta e non il dispotico amministratore che nel gesto svela tutta la sua arrogante brutalità.

Colpì molto l’ego dell’autore anche l’accoglienza discorde che l’opera ebbe presso la critica isolana. Accanto ai lusinghieri giudizi di personalità come Filippo Addis36, Luigi Falchi37, Raffaele di Tucci38 e Antonio Scano39, infatti, non mancarono stroncature feroci, come quella di Vincenzo Ulargiu al quale l’opera appariva non solo modesta, ma perfino «una grossolana mostruosità, degna solo di una solenne fischiata»40, giudizio al quale non doveva essere estranea la prona simpatia del professore- poeta iglesiente verso il fascismo41.

Forse per il bisogno di staccare, forse (e più probabilmente) per seguire il proprio destino professionale, nel 1948 Berto Cara lascia la Sardegna per il Continente: ha vinto il concorso nazionale42 per direttore didattico e gli viene assegnata la sede di Orbetello43. Alle rive dell’Arno modifica parzialmente la propria abitudine a scrivere in sardo, ma non modifica la propria desolata visione della realtà. Per quanto nella dolce Siena abbia occasioni di studio e di amicizia con importanti personalità della cultura locale tra cui in particolare Ubaldo Porcu (che, forse per mascherare la du-

35 Per giunta, il bombardamento su Cagliari del febbraio 1943 mandò distrutti i magazzini della casaeditrice presso cui giaceva l’intera edizione dell’opera ritirata anni prima dalla circolazione, di cui sisalvarono pochissime copie.
36 «Un opera destinata, nonostante tutto, a lasciare di sé un segno indelebile» (Filippo Addis), cit. in B. CARA, Paska, Modena 1957, primo risguardo di copertina.

37 «Opera pregevole artisticamente e sardamente, cioè socialmente, assai significativa» (Luigi Falci), cit. in ib.
38 «Un dramma denso, rapido, intimamente umano» (Raffaele di Tucci), cit. in ib.
39 «Il dramma appare percorso da una luminosa vena di poesia e di sentimento e abbellito daun’efflorescenza di immagini e di pitture, che sono chiara prova di fervida fantasia» (Antonio Scano),cit. in ib.

40 V. ULARGIU, Marytria di Berto Cara, in «La lampada. Bollettino Bibliografico della Sardegna», 4 (1936), pag. 12.
41 Si veda V. ULARGIU, Italia madre. Canzone al nostro benamato duce Benito Mussolini, Iglesias 1934 oltre alla plaudente biografia del duce, V. ULARGIU, Benito Mussolini, Iglesias 1934. Ulargiu era docen- te presso il Liceo Scientifico parificato di Iglesias. Il Del Piano lo definisce «polemista quanto meno disinvolto» (L. DEL PIANO, La Sardegna nell’Ottocento, Sassari 1984, pag. 343.)

42 Il concorso era stato bandito con Decreto Luogotenenziale n. 373 del 21 aprile 1947.
43 Più esattamente, occorre dire che Berto Cara nel 1948 da Cagliari si trasferì direttamente a Siena conla famiglia, escluso Eros che, all’epoca, era a Milano dove lavorava presso la Mondadori. Solo dopo circa quindici anni egli si trasferirà a Grosseto, ma senza famiglia, solo con la moglie.

page12image59371712rezza del cognome, ma mai negando la provenienza, si firma Ubaldo Cagliaritano)44, storico della città di Siena e acuto narratore della natia Sardegna, e quel bizzarro Giulio Cogni che fu scrittore, critico musicale, compositore e docente di estetica e psicologia della musica, prima di diventare cultore del buddhismo45. Ai dialoghi con Cogni è, assai probabilmente, dovuto anche l’incontro con Stanis Ruinas che sul finire degli anni Quaranta aveva dato vita alla rivista « Il Pensiero Nazionale»46, su cui pubblicò qualche suo scritto47.

44 Tra le sue opere ricordiamo U. PORCU, Alba Vergine. I racconti della Sardegna, Siena 1936; U. CA- GLIARITANO, Proverbi e modi di dire toscani, Siena 1968; ID., Storia di Siena, Siena 1977; ID., Voci di Sardegna, vol. I, Siena 1957, 19642, vol. II, Siena 1966, vol. III, Siena 1966; ID., Vocabolario senese, Firenze 19752; ID., Mostra personale Krimer, Siena 1959; ID., Mamma Siena. Dizionario biografico- aneddotico dei Senesi, Siena 1977; ID., La verità si è vestita di rosso, Siena 1963. Fu attivo collaborato- re della terza pagina de «La Nuova Sardegna», dove si occupò di critica letteraria. A Siena diede vitaalla rivista «Fonte Gaia. Rassegna mensile di cultura», il cui primo numero vide la luce nell’ottobre1948, e che rimase attiva almeno fino al 1960, che ospitò interessanti scritti di Giovanni Papini, Elpidio Jenco, Ubaldo Riva, Arrigo Bugiani, A. Zamboni, Salvatore Quasimodo ed altri, tra cui il nostro Berto Cara. La rivista divenne anche una vivace casa editrice che pubblicò oltre ad alcuni volumi di Berto Ca- ra, anche le opere di altri poeti sardi come Dionigi Panedda (Sardi asfodeli, 1958), Raffaele Musio (Polvere, 1958), Peppino Murtas (E ancora non è sera, 1957; È nudo il nostro dolore, 1960), Teresa Crobu (Canto di cicale, 1957), Salvator Flores (Momenti, 1959), Angelo Pittau (Lasciatemi solo a pen- sare, 1962), Pietro Falchi (Il sole era già alto, 1961) …

45 Giulio Cogni (Siena 1908-1983), è stato un personaggio singolare della Siena del Novecento. A soli venticinque anni si segnalò, con la pubblicazione del Saggio sull’Amore come nuovo principio d’immor- talità (Torino 1932), come «il primo e il più coerente» studioso italiano impegnato a «introdurrel’approccio biologico razzista nel pensiero e nella scienza italiani» (M. MICHAELIS, Un aspetto ignotodel ravvicinamento tra fascismo e nazismo durante la guerra d’Etiopia in un documento inedito tedesco, in A. MIGLIAZZA, E. DECLEVA, Diplomazia e storia delle relazioni internazionali. Studi in onore di En- rico Serra, Milano 1991, pagg. 404-406), seguito da altri due saggi dal titolo Il razzismo (Milano 1937) e I valori della stirpe italiana (Milano 1937), che gli valsero un momentaneo quanto lusinghiero ap- prezzamento tra i teorici del fascismo, al punto che Giovanni Gentile ne ospitò alcuni scritti nel «Gior-nale critico della filosofia italiana» (vedi sull’argomento F. Cassata, La difesa della razza. Politica, ide- ologia e immagine del razzismo fascista, Torino 2008, pagg. 24ss). Criticato dalla Chiesa cattolica (chene mise all’Indice il volume Il razzismo) e scaricato dallo stesso Mussolini cui le tesi del Cogni pareva- no evidentemente eccessive (!), si dedicò prima agli studi di musicologia e, quindi, a perfezionare alcu- ne teorie di cui amava lungamente discutere con il suo amico Berto Cara, concernenti alcuni aspetti delbuddhismo che, poi, espose nei volumi dell’ultimo periodo, tra cui ricordiamo G. COGNI, Agape eterna,Siena 1952; ID., Ahamannam. Io Sono Cibo. Essere universale di tutte le cose, Roma 1982; ID., Io sono Te. Sesso e Oblazione, Milano 1970, e una interpretazione dal sanscrito dell’avadàna buddhista, ID.,Manicudàvadàna (Roma 1979), storia di un re – precedente incarnazione del Buddha – che diede per compassione se stesso in cibo.

46 Partorito dalla fervida mente di Stanis Ruinas (pseudonimo di Antonio De Rosas, Usini 1899 – Roma 1984), «Il Pensiero Nazionale» uscì per la prima volta il 15 maggio 1947, con l’obiettivo di coagulareintorno a sé tutti gli «ex fascisti di sinistra, i quali, come Ruinas, si identificavano nella concezione ri- voluzionaria del fascismo, riconoscendo in Benito Mussolini un rivoluzionario autentico la cui politica fu per lungo tempo condizionata dagli interessi dei conservatori, dei clericali, dei moderati, di tutti colo-ro, insomma, che, dopo esser saliti sul carro dei vincitori nel 1922 per garantire l’intangibilità delle pro- prie ricchezze, non ebbero troppe remore nel liquidare il Capo del fascismo quando gli eventi bellici iniziarono a far vacillare le loro posizioni» (L. C. SCHIAVONE, Pensiero nazionale. Stanis Ruinas, il fa- scista rosso, in «Rinascita», 14 Novembre 2007, pag. 3). Il giornale, pur vivendo su un crinale difficile

page13image59315456Giunto, dunque, in Toscana, per prima cosa, il Cara pone mano alla versione italiana di Marytria il cui titolo modifica in Paska48 e lavora, contestualmente, alla redazione del suo primo romanzo, Dio non si cura dei funghi. Contemporaneamente, apre un’intensa e lunga collaborazione poetica con la rivista «S’Ischiglia», uno tra gli spazi più virtuosi della poesia sarda49. Poco di nuovo c’è da aggiungere su Paska che conserva alla lettera lo svolgimento scenico di Marytria. Complessivamente, si può osservare che l’opera teatrale del Cara si situa al di fuori della ricerca in atto nella prima metà del Novecento influenzata dal modello teatrale naturalista come approdo del dramma borghese50 (per non dire delle avanguardie), e si avvicina di più al modello dannunziano51, con quella sua ambientazione in uno spazio/tempo mitico (ché tale è la Sardegna immaginaria e favolosa che egli ritrae, ben lontana da quella che faticosamente si stava riprendendo dalla guerra e stava ponendo le basi per la Rinascita), il suo carico di caratteri simbolici e sovratemporali, i personaggi fuori dalla dimensione quotidiana immersi nella ritualità di una società primitiva, barbara e pastorale, e la lingua esuberante, arcaica e ricercata; una drammaturgia, per intenderci, agli antipodi di quella pirandelliana, un teatro da leggere piuttosto che da rappresentare. Perché (non si dimentichi che Paska è del 1957), se mentre da un lato si comprende la nostalgia affettuosa dell’esule ed il suo accorato anelito di vedere l’Isola Madre più bella e felice, dall’altro non si può non notare quanto l’Autore sia lontano dalla sua realtà sociale e culturale, lontananza che la lingua usata52 e quegli endecasillabi precisini rendono ancor più plastica, fino a farne un’operazione totalmente fuori dal suo tempo.

di compromessi, finanziato com’era da ex repubblichini della RSI, da Nasser e Gheddafi, dal PCI di Togliatti e perfino dalla DC di Moro, riuscì sopravvivere fino al 1977. Vedere, sull’argomento, anche P.G. PINNA, Stanis Ruinas, il fascista rosso, in «La Nuova Sardegna», 28 settembre 2006, pag. 25 e P. BUCHIGNANI, Fascisti Rossi. Da Salò al PCI, la storia sconosciuta di una migrazione politica, 1943 – 1945, Milano 1998, passim.

47 B. CARA, Gli ominidi ci guardano, in «Il Pensiero Nazionale», 15 ottobre 1958, pag. 16.
48 B. CARA, Paska, Berben editore, Modena 1957. Il lavoro è preceduto da una superba Prefazione di Filippo Addis che ne dà un giudizio oltremodo lusinghiero, definendolo «lavoro elettissimo, meritevole veramente del più vasto consenso» (ib., pag. 6).
49 Fondata nel 1949 da Angelo Dettori, è stata pubblicata dal 1949 al 1957 e dal 1980 al 2001 per conto delle Edizioni 3T di Gianni Trois, con la cui scomparsa cessò momentaneamente la diffusione che ri- prese nel ventennio 1980 – 2001, ad opera di un gruppo di amici quali Franceschino Satta, Gavino Maieli, Antoninu Rubattu, Aquilino Cannas e altri, per poi riprendere le pubblicazioni nel 2012.
50 «Il dramma naturalista si presenta come l’approdo ideale del lungo itinerario del teatro borghese»,scrivono C. BERNARDI, C. SUSA, Storia essenziale del teatro, Milano 2005, pag. 271.
51 Vedere G. DESTRI, La poetica drammatica di Gabriele D’Annunzio, in «La Rassegna della Letteratu- ra Italiana», 1 (1970), pagg. 61-89, E. MARIANO, Il teatro di Gabriele D’Annunzio, in «Quaderni del Vittoriale», 11 (1978), pagg. 5-25 e R. JACOBBI, Il teatro di d’Annunzio oggi, in «Quaderni del Vittoria- le», n. 24 (1980), pagg. 8-24.
52 Si veda l’utilizzo di termini desueti quali bigoncia (pag. 13), rancura (pag. 14), ruina (pagg. 16 e 58),fiso (per fisso, pag. 22), sonito (pag. 23), lendinoso augello (pag. 24), druda (pag. 26), botro (pagg. 32 e 34), vulture (pag. 38), novizzo (pag. 42), assidere (pag. 49), stutare (pag. 50), sofferire (pag. 52), viatri- ce (pag. 58), novello (pag. 62), donzella (pag. 75), lodola (pag. 83), molcere (pag.91) …

page14image59317760 Di ben differente spessore appaiono sia le opere poetiche che il romanzo Dio non si cura dei funghi53, che dà alle stampe negli anni Cinquanta, nelle quali compare un artista maturo e consapevole, decisamente più attento alle dinamiche culturali del proprio tempo. Del Cara pseudo romantico che aveva vissuto e aveva lottato per i suoi ideali, per vedere una Sardegna più nobile e più bella, non resta più nulla; negli scritti postbellici (salvo Paska che, però, risente del fatto di essere solo una traduzio- ne) lo scrittore sembra non avere più ideali o, comunque, sembra non avere più laforza e l’energia necessarie per aderire ad un qualsiasi ideale; il suo pessimismo sia fa sempre più radicale e lo spinge a chiudersi in se stesso e a rifugiarsi nell’unico va- lore della poesia e della letteratura.

In Dio non si cura dei funghi si rivela la vena più schietta di Berto Cara e non solo nel suo patente autobiografismo54, ma anche (e, forse, soprattutto) in quella disincan- tata concezione di un’umanità che appare disperata nella propria solitudine e profondamente delusa nella sua antica fede. Un’opera forte, scritta con mano vigorosa; «un romanzo originale e di indubbio valore artistico»55. In effetti, questo romanzo appare subito costruito su due piani56. Sullo sfondo c’è il racconto, il paese con il suo squallore e le sue grettezze, ed in primo piano c’è il dramma, rappresentato dal conflitto che si insinua dentro ai protagonisti in ordine al senso della vita e al problema della verità. Lo sfondo serve a dare concretezza ai personaggi, dal giovane sacerdote don Achille Soro alle sorelle Daniela e Luisa, fino ad Ambrogino57: tutte figure al pari essenziali al racconto, analizzate nelle loro profonde crisi d’animo e, soprattutto, neldramma della crisi del loro sentimento religioso. Perché, poi, in fondo, il senso pro-

53 B. CARA, Dio non si cura dei funghi, Siena 1956. L’opera fu segnalata al Premio «Grazia Deledda» nel 1957. Il Premio nacque per iniziativa del presidente dell’Ente Provinciale per il Turismo di Nuoro nel 1952 (primo vincitore per la narrativa fu Paride Rombi), che lo gestì – tra alti e bassi – fino al 1972.L’organizzazione del Premio riprese, dopo 30 anni d’interruzione, con l’edizione del 2003-2004 bandita e gestita dalla Provincia di Nuoro (vedi A. BASSU, Il premio Deledda guarda al futuro, in «La Nuova Sardegna», 11 agosto 2008, pag. 17).

54 Il romanzo narra le vicende di un giovane sacerdote (i luoghi sono facilmente individuabili in Ogliastra, nei centri di Barisardo, Lotzorai, Santa Maria Navarrese e Baunei) che, cacciato a causa di un equivoco dalla parrocchia di titolarità, per punizione viene inviato in un paesino lontano; privato del rango di parroco è costretto a vivere una vita grama dalla quale esce transigendo con la propria coscienza, alimentando la superstizione e le pratiche magiche in cui la gente del luogo crede. Quando tornerà alsuo paese, troverà la sua famiglia d’origine in rovina e sentirà sopra di sé tutto il peso della sconfittacome prete e come uomo.

55 Così Marino Moretti (cit. in R., Narrativa di Berto Cara, in «La Nuova Sardegna», 13 gennaio 1957, pag. 3).
56 Vedi, per questa e per le osservazioni che seguono, il bel pezzo di G. FRATONI, La oscura gente di Berto Cara, in «La Nuova Sardegna», 5 febbraio 1957, pag. 3

 È il personaggio nel quale sembra di intravvedere lo stesso Cara adolescente: «Ambrogino in semina- rio era un perfetto sornione; ma in paese, dove si recava ogni anno per le vacanze, si svestiva tutto, co- me il colubro ad ogni nuova stagione, e si mostrava allora per quello che era: un simpatico filibustiere, smargiasso per natura e bighellone per posa, attaccabrighe, svescione e sottaniere; la peste dei compagni e il cocco per le donne» (B. CARA, Dio non si cura …, op. cit., pag. 18), doti che non gli impediranno di finire ammazzato!

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fondo (e moderno, questo sì, moderno) di questo romanzo è tutto nell’insanabile dis-sidio tra l’ideale e il reale, tra la fede e la ragione, tra l’aldilà e l’aldiquà. È la crisireligiosa a condurre queste figure verso un nichilismo senza uscita, verso un vorrei ma a che serve, verso l’estrema disperazione e il vuoto; è proprio la derivadell’esistere, infatti, a condurre la giovane e sincera Daniela (forse la figura più riu- scita del romanzo) nel sadismo sensuale e nella crudeltà, dopo una giovinezza vissu- ta seguendo ideali di onestà e verità, che rivolge contro di sé la propria voglia di vi- vere e di amare, ribellandosi contro tutte le ipocrisie di un mondo in putrefazione: «Ero stanca – scrive al fratello sacerdote – di respirare la vostra atmosfera piena difalse rinunzie, con la quale mi avete avvelenato il sangue e l’anima, durante vent’anni di pratiche virtuose cui non credete neppure voi»58.

E sullo stesso piano si colloca Luisa che, liberatasi dal mito perbenista della propria onestà di vedova, guarda al mondo con disincanto e con rabbia, pronunciando parole agghiaccianti contro il fratello sacerdote ed i falsi miti della religione: «Desiderate la vita e la maledite, sfiorate il peccato e lo respingete, lo carezzate e poi l’uccidete …Negli altri se non in voi stessi! Oh!, a voi basta una vostra abluzione per mondarvi, lo so. Ma agli altri che consigliate? Penitenze e preghiere, preghiere e penitenze […]Hai visto tu che cosa ne hai fatto della tua sorella (Daniela, ndr)? L’hai tenuta rin- chiusa per tanti anni come una clarissa. Ebbene, ora godi! La crisalide ha fatto le a- li»59.

A questa ferrea legge del disincanto non sfugge neppure lo scanzonato Ambrogino che, prima di essere ucciso, discutendo con i compaesani se ne esce con un dotto: «La vera sapienza è qui, nella natura che ci governa e della quale potremmo essere i sacerdoti, mentre ne siano i succubi».60 E anche don Achille, già noto per essere un fine teologo61, non può alla fine non dichiarare la propria rassegnazione e la propria sconfitta, sentendo di non avere più la forza per riallineare i propri ideali; la sua rettitudine ed il suo candore evangelico non reggono dinanzi alla dura realtà della vita: i poveri in spirito non hanno cittadinanza in un mondo dominato dagli ipocriti, che altro hanno nelle labbra ed altro nel cuore. A Luisa che lo apostrofa con veemenza («Che vuoi sapere tu della vita? Sei un uomo, tu? No, l’hai detto tu stesso, una volta.Tu sei meno di una formica. Ricordi? Che chiedi mai al tuo Dio, se non ti ascolta?»), non resta che dire: «È davvero possibile, Signore, che io abbia davvero sbagliato?» 62. Perché don Achille è un cristiano deluso, ancora innamorato di quella fede in cui non può più credere, ma anche in preda ad un insanabile dissidio tra il cuore volto al passato e la ragione volta al futuro. Un romanzo che è anche un libro di alta spiritualità.

58 B. CARA, Dio non si cura …, op. cit., pag. 136.
59 Ib., pag. 139.
60 Ib., pag. 71.
61 «Ma come aveva potuto ridursi a tanto, lui, Achille Soro, il chiosatore sottile di Agostino edell’Aquinate, lo scoliaste angelico, come qualcuno l’aveva battezzato tra i compagni di corso?» (ib., pag. 128.

62 Ib., pag. 139.

Il tema del nichilismo e della sconfitta è anche il tema ricorrente delle liriche del Cara che, pubblicate negli anni su varie riviste, trovano infine una (pur assai parziale) sistematizzazione in Cantos d’anima63, un volume denso di grandi visioni e di grandi rimpianti, tutto inutilmente proteso «verso nuovi orizzonti / fioriti d’asfodeli e d’azalee»64, brani d’anima scritti per vincere la solitudine e il silenzio, versi che altro non sono che l’espressione di un’esistenza sospesa tra i ricordi e l’infinito. Giunge al poeta l’urlo del mare nel vento («Mare de idda mia sempr’amadu / k’istadu mises lughe e prima ghìa […] / Triunfale armonia / d’antigos ardimentos […] / a pes de s’impassibile zigante»65) e il profumo silenzioso dei monti diletti («Ogn’erva, o- gni fiore / donzi entu dormiat, donzi âe […] / tra alvores umbrosas / de murta, de tzipressu o brunu laru»66), e rammenta i giorni dell’infanzia quando leggera gli ap- pariva ogni presenza, «cando ogni thitulìa / mi fit raru tesoro»67; questo riaffiorare di ricordi e di immagini, lungi dal placarlo e dargli pace, suscita nel poeta un tumulto di sentimenti dolorosi che lo spingono sempre più dentro le spire atroci di un destino beffardo.

E se un tempo aveva cercato di ribellarsi, tentando disperatamente «de aggarrares’istante chi fuet e non torrat»68, o perfino lasciandosi stupire dal delirio «de firmare sas chimeras»69, ora null’altro gli resta se non prender atto che le sue ali non sanno(o non vogliono, o non possono) più volare, ridotte come sono a «boidas filigranas de rantzolu» stese «subra su muntonarzu de sa morte»70. Eppure, all’anima sua «trista e bandulera»71 sarebbe bastato davvero poco per librarsi lieve oltre la notte del mondo, visto che al destino chiedeva «solu una domedda mia / tra sas alvures gentile  / una corte a manzanile / e un ortu prenu e ûa […]./ Una domo, o Deus giustu, / nessi cussa la kerìa»72. Ma a che chiedere aiuto a Dio, se egli è «surdu a totas sas vanas litanias», e non ha tempo di occuparsi dell’uomo73, e lo lascia solo al suo de- stino?! Così, la sua vita se ne va, piroettando cinicamente («sentz’iscampu»74) verso il nulla: «E falat, mulinende / – poberu corzu e nughe – in tundu in tundu, / bardof- fula macca, ki gioghende / Destinu debbulanu happat frundidu»75.

63 B. CARA, Cantos d’anima, Fonte Gaia, Siena 1960.64 Crosciava il canto mio come torrente, in ib., pag. 7.65 Mare, in ib., pag. 46
66 Perda Liana, in ib., pag. 30.

67 Mare, in ib., pag. 47.
68 B. CARA, Marytria, op. cit., pag. 101.
69 Su kindalu, in Cantos …, op. cit., pag. 18.70 Fozas siccas, in ib., pag. 19.
71 Fantasia de unu rebellu, in ib., pag. 20.72 Kimbant’annos, in ib., pag. 28.
73 Pompei, in ib., pag. 36.
74 Isparghe, in ib., pag. 44.
75 Ib.
Berto Cara muore a Grossetto il 31 luglio 1964. Per sua volontà le spoglie furono ri- portate in Sardegna, precisamente a Cagliari, dove riposano nel monumentale cimite- ro di Bonaria.

BIBLIOGRAFIA DI BERTO CARA

OPERE
– Paska. Novella sarda, in «L’Isola», 248 (1925), pag. 3
– Il sacrilegio. Novella sarda, in «L’Isola», 278 (1925), pag. 3
– Sa Làmpana, dramma sardo in tre atti, Soc. An. Nuorese Tipografica Editrice,Nuoro 1929, pagg. 58, con illustrazioni xilografiche dell’A.
– Il primo idillio, in «L’Isola», 29 luglio 1929, pag. 3
– Sera, in «Il lunedì dell’Unione», 30 settembre 1929, pag. 3
– Plagio!, in «Il lunedì dell’Unione», 11 novembre 1929, pag. 3
– Commedia. Atto unico, in «Il lunedì dell’Unione», 25 novembre 1929, pag. 3
– T’amo ca gioia tesses, in «L’Isola», 22 dicembre 1929, pag. 3
– Firenze nel pensiero e nel cuore dei sardi, in «Il Popolo di Roma», 23 maggio 1930, pag. 3
– Amsicora, in «Il lunedì dell’Unione», 1 settembre 1930, pag. 3
– Il bacio che uccide, in «Il lunedì dell’Unione», 28 luglio 1930, pag. 3
– Sardegna marinara, in «Il popolo di Roma», 15 marzo 1931, pag. 3
– Ancora della “fu Sardegna”e del “fu dialetto”, in «L’Unione sarda», 20 luglio 1933, pag. 3
– La vecchia Sardegna è dura a morire?, in «L’Unione sarda», 6 agosto 1933, pag. 3 – Ancora a proposito del dialetto sardo nella poesia di Montanaru, in «Il lunedìdell’Unione», 6 agosto 1933, pag. 3
– Marytria, poema dramaticu in 5 attos, Edizioni B. C. T., Cagliari 1936, pagg. 104, con illustrazioni xilografiche dell’A.
– Cornus, in «La Sardegna poetica», 15 gennaio1934, pag.
– Vecchia Sardegna di Filippo Addis, in «L’Isola», 78 (1940), pag. 3
– A Siena, in «S’Ischiglia»76, 2 (1950), pag. 365
– Notte mala, in «S’Ischiglia», 5 (1950), pag. 444
– Maju eternu, in «S’Ischiglia», 5 (1950), pag. 464
– Giuseppina, in «S’Ischiglia», 9/10 (1950), pag. 496
– Amsicora. Dal poema epico Irena, in «S’Ischiglia», 11/12 (1950), pagg. 518-519
– La voce, in «S’Ischiglia», 3 (1951), pag. 69
– Notizie brevi, in «S’Ischiglia», 3 (1951), pag. 75

76 La rivista «S’Ischiglia» sarà citata nel corso di questa bibliografia secondo l’impaginazione dell’edizione anastatica (Cagliari 1979) che ha così suddiviso la pubblicazione: vol. I (1949-50); II (1951-52); III (1953-54); IV (1955-56); V (1957 e allegati).

– A Siena, in «S’Ischiglia», 3 (1951), pag. 70
– So fizu e su dolore, in «S’Ischiglia», 4 (1951), pag. 91
– Pedra Liana, in «S’Ischiglia», 5 (1951), pag. 110
– Josto, in «S’Ischiglia», 6 (1951), pag. 132
– Amsicora, in «S’Ischiglia», 6 (1951), pag. 132
– Sera del 16 agosto, in «S’Ischiglia», 9/10 (1951), pag. 208
– Contavo le mie greggie tra le stelle, in «La Nuova Sardegna», 30 marzo 1951, pag. 3
– Dal colle di san Prospero, in «S’Ischiglia», 9/10 (1951), pag. 208
– Il ritorno, in «S’Ischiglia», 1 (1951), pag. 236
– Hutalabì! Innu, in «S’Ischiglia», 1 (1952), pag. 264
– A Siena, in «Contrada», 1 (1952), pag. 77
– Io non so se sono un poeta, in «S’Ischiglia», 1(1953), pag. 17
– Al figlio lontano, in «S’Ischiglia», 2 (1953), pag. 41
– Dinanzi al Duomo, in «S’Ischiglia», 4/5 (1953), pag. 90
– Evoè!, in «S’Ischiglia», 8/9 (1953), pag. 172
– Su mutiladeddu, in «S’Ischiglia», 10 (1953), pag. 202
– Il nostro “Leopardi”, in «Rinnovamento», 11 (1953), pag.
– Da Croce a Schoenberg, in «Rinnovamento», 11 (1953), pagg. 3-4
– Crosciava il canto mio, in «S’Ischiglia», 10/11 (1954), pag. 467
– Sardi venales, in «S’Ischiglia», 11(1955), pag. 221
– Chimbant’annos, in «S’Ischiglia», 1/2 (1956), pag. 253
– Il cieco veggente, in «Il convegno», 9/10 (1954), pag. 20-22
– Partire all’alba, in «S’Ischiglia», 9/10 (1956), pag. 421
– Mergiani, non ti timu, in «S’Ischiglia», 11(1956), pag. 446
– Angiulinedda, in «S’Ischiglia», 3/4 (1957), pag. 59
– Nicolinu Succuvai, in «S’Ischiglia», 5/6 (1957), pag. 86
– Gli ominidi ci guardano, in «Il Pensiero Nazionale», 15 ottobre 1958, pag.
– Noterelle antipoetiche. Mamuthones e Issocadores, in «Fonte Gaia», 4 (1960), pagg. 40-41
– Una nuova teoria sull’origine dell’etrusca Orbetello, in «Il Corriere della Costad’argento», 28 gennaio 1962, pag.
– Dio non si cura dei funghi, in «La Nuova Sardegna», 27 ottobre 1954, pag. 3
– Dio non si cura dei funghi, Editoriale Fonte Gaia, Siena 1956, pagg. 140
– L’amore fa paura, in «La Nuova Sardegna», 31 marzo 1957, pag. 3
– Paska, poema drammatico in 5 atti, con Prefazione di Filippo Addis, Bèrben Edi- tore in Modena e Milano, Modena 1957, pagg. 104, con illustrazioni xilografichedell’A.

77 Laddove in questa bibliografia non si indica la pagina, significa che non è stato (al momento) possibile confrontare il testo citato (di cui si conosce l’appartenenza al Cara solo per via indiretta), con la relativa pubblicazione.

page19image59282496 – Cantos d’anima, Fonte Gaia, Siena 1960, pagg. 63, con illustrazioni xilografichedell’A.
– Etruschi e … Kirghisi, in «Fonte Gaia», 4-5 (1960), pagg. 57-58
– Raimondo Manelli. Il cuore a spicchi, in «Fonte Gaia», 6 (1960), pagg. 52-53

INEDITI
– Thomas. Visione drammatica in 4 atti, copione, 1953, conservato in Riccione teatro – Archivi del teatro contemporaneo, Riccione
– Fiamme sul monte, dramma, segnalato al Premio Murano, sez. teatro, Venezia 1951
– Santucca, tragedia in 5 atti
– Dio non si cura dei funghi (parte II e III)
– La Sibilla d’Orgìli
– Ritorni, poesie
– Irena, poema epico
– La notte vuole luce78

CRITICA
– A. MEREU, Berto Cara. Sa Lampana, in «Sardegna», 7 (1929), pag. 4
– M. COL, Giovane di Sardegna, in «Il lunedì dell’Unione», 2 dicembre 1930, pag. 3
– G. ANCHISI, Una risposta da oltretomba, in «Il lunedì dell’Unione», 10 luglio 1933,pag. 3
– F. ADDIS, Paska. Dramma di Berto Cara, in «Il Corriere dell’Isola», 5 aprile 1943, pag. 3
– A. SCANO, Narratori e poeti, in ID., Rinascita artistica e letteraria in Sardegna, in «Rassegna Nazionale», 22 (1935), pagg. 129-143, pag. 135.
– (A. DETTORI), Il nostro Berto Cara vince a Siena, in «S’Ischiglia », 8 (1951), pag. 193
– Vinto da un sardo il concorso di poesia bacchica, in «Il Nuovo Corriere», 21 ago- sto 1951, pag. 4
– I segnalati al Premio Deledda, in «La Nuova Sardegna», 27 ottobre 1954, pag. 3
– Berto Cara e il Premio Deledda, in «I Maestri d’Italia», 9 (1954), pag. 32
– Il premio Deledda, in «S’Ischiglia», 8/9 (1954), pag. 427

78 Si tratta di una silloge di 12 testi poetici, che avrebbe dovuto costituire l’Introduzione ad un’opera di Giulio Cogni, in cui l’autore adombra la sua visione metafisica del mondo; la silloge, che è datata 6 lu- glio 1964, possiamo ritenere che costituisca a tutti gli effetti una sorta di testamento spirituale del No- stro, giacché il Cara morirà il 31 luglio di quello stesso anno (cioè 25 giorni dopo) a causa di un infarto.In quest’opera (che meriterebbe di vedere la luce) sembra voler riflettere sul noto aforisma nietzschiano:«Come? È l’uomo soltanto un errore di Dio? Oppure è Dio che è soltanto un errore dell’ uomo?» (F.NIETZSCHE, Crepuscolo degli idoli. Ovvero: come si filosofa con il martello, a cura di G. TURCO LIVERI, Roma 2005, pag. 89), sul quale volentieri si sarebbe soffermato, se la vita gliene avesse appena dato la possibilità.

– M. CIUSA ROMAGNA, Questo scrittore, in «La Nuova Sardegna», 27 ottobre 1954, pag.
– A. CAIROLA, Dio non si cura dei funghi, in «Il Campo di Siena», 19 settembre 1956, pag. 3

– Dio non si cura dei funghi, in «Giornale del Mattino», 20 ottobre 1956, pag. 3
– Arrivi di biblioteca, in «La Fiera letteraria», 11(1956), pag. 15
– Berto Cara. Dio non si cura dei funghi,in «Il Pungolo Verde»,11 (1956), pag. 22
– M. MUNATO, Dio non si cura dei funghi, in «I Vespri d’Italia», 25 novembre 1956,pag. 22.
– F. ALZIATOR, Dio non si cura dei funghi, di Berto Cara, in «Nuovo Bollettino Bi- bliografico sardo e archivio tradizioni popolari», 7 (1956), pag. 14
– P. SALONI, Berto Cara. Dio non si cura dei funghi, in «S’Ischiglia», 11/12 (1956), pag. 463
– R., Narrativa di Berto Cara, in «La Nuova Sardegna», 13 gennaio 1957, pag. 3
– G. FRATONI, La oscura gente di Berto Cara, in «La Nuova Sardegna», 5 febbraio 1957, pag. 3
– G. COGNI, Berto Cara e il suo romanzo, in «L’Unione Sarda», 5 febbraio 1957, pag. 3
– G. COGNI, Berto Cara e il suo romanzo, in «Nostro Tempo», 3 (1957), pagg. 15-16 – G. COGNI, Berto Cara e il suo romanzo, in «Il Giornale d’Italia», 5 febbraio 1957,pag. 3
– G. COGNI, Romanzieri di Sardegna. Un amaro libro di Berto Cara, in «Il Giornaled’Italia», 5 febbraio 1957, pag. 3
– E. MAIZZA, Berto Cara. Dio non si cura dei funghi, in «Prospettive Meridionali. Mensile del Centro democratico di cultura e di documentazione», 8 (1957), pag. 52
– D. CUCCINI, Il romanzo di Berto Cara, in «L’Unità», 8 ottobre 1957, pag. 3
– G. DE GREGORIO, Berto Cara, Paska, in «La Vita Scolastica», 8 (1958), pag. 34
– G. BERTELLI, Berto Cara. Paska, in «L’Eco del Parnaso», 2 (1958), pag. 29
– G. SATTA, Berto Cara. Paska, in «Omnia», 9 (1958), pagg. 56-57
– U. CAGLIARITANO, La Sardegna di Berto Cara, in «La Nuova Sardegna», 1 no- vembre 1957, pag. 3
– Cara Berto, in «La Nuova Italia Letteraria», 4 (1960), pag. 45
– S. PACIANI, Berto Cara. Cantos d’anima, in «I Maestri d’Italia», 7 (1960), pagg.22-24
– U. CAGLIARITANO, Cantos d’anima. Poesia di Berto Cara, in «La Nuova Sarde- gna», 11 agosto 1960, pag. 3
– F. ADDIS, Marytria di Berto Cara, in «La Nuova Sardegna», 4 gennaio 1961, pag. 3
– Autori nostri presentati alla radio, in «Fonte Gaia», 4/5 (1960) , pagg. 54-55
– È morto Berto Cara, in «La Nazione», 7 agosto 1964, pag. 8.
– A. FRATTINI, Poeti sardi del Novecento, in «Cultura e Scuola», 109 (1989), pagg. 279

– M. PITTAU, Grammatica del sardo-nuorese. Il più conservativo dei parlari neolati- ni, Bologna 19722, pag. 5
– N. TANDA, Letteratura e lingue in Sardegna, Sassari 1991, pag. 81
– S. BULLEGAS, Storia del teatro in Sardegna. Identità, tradizione, lingua, progettua- lità, Cagliari 1998, pagg. 99-100

– G. PORCU, La parola ritrovata, Nuoro 2000, pag. 43
– G. INGRASSIA, E. BLASCO FERRER, Storia della lingua sarda, Cagliari 2009, pagg. 166-167

Da “Studi Ogliastrini” II, 2013

TONINO LODDO (Lanusei 1950), laurea in filosofia a Cagliari, dirigente ispettivo in quiescenza pressol’Ufficio Scolastico Regionale della Sardegna, giornalista pubblicista, è stato sindaco della sua città na- tale, consigliere e assessore regionale, deputato al Parlamento. È autore di diversi volumi, tra i quali Il Movimento Cattolico in Ogliastra (1872-1969), Cagliari 1993; Bibliografia ogliastrina, Sassari 1997;Agostina Demuro, Sassari 1997; Chiese ed arte sacra in Sardegna. Diocesi di Lanusei, Cagliari-Sestu 1999; Franco Ferrai, Cagliari-Sestu 2007; Giovanni Usai. Un poeta neoclassico nel Novecento, Dolia- nova 2008; Ilbono. Oltre la memoria, Cagliari 2009. Ha curato anche la pubblicazione dei volumi L. LEGRÉ, Ogliastra 1879. Memorie d’un cacciatore marsigliese, Cagliari-Sestu 2002; Lanusei, Cagliari- Sestu 2006; Flavio Cocco. Saggi, inediti, testimonianze, Cagliari-Sestu 2007; Arbatax. La cultura, la storia, Sassari 2009; F. FARCI, Gioele Flores e altri racconti, Cagliari-Selargius 2010 che ha corredatocon un’ampia introduzione (Filiberto Farci. Note per un profilo, in ib., pagg. 13-53); Felix Dèspine,Ricordi di Sardegna, Cagliari-Selargius 2011. Suoi scritti sono presenti in numerose opere collettive ed in diverse riviste isolane.

 

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