“La festa patronale di San Matteo nel 670 esimo anno dalla nascita del Castello e del borgo diventato paese di Chiaramonti (1348-2018)”a cura di Angelino Tedde con servizio fotografico di Vanni Manchia

Sono ormai trascorsi 670 anni, a detta dello storico-archeologo Gianluigi Marras, che è sorto il Castello e il borgo di Chiaramonti. Costruirono il Castello i Doria, padroni dell’Anglona, cacciati da Alghero, da Castelgenovese, da Casteldoria. A coloro che abbandonarono i centri vicini Orria Pitzinna, San Giuliano, Santa Caterina, Ostiano e altri ancora per popolare il borgo furono riconosciute delle franchigie. Il borgo fu amministrato da un podestà che stranamente si chiamava Giovanni Pischedda [Ioannes Pisquella], presumibilmente arrivato da altro centro. Il procuratore o per dirla modernamente il rappresentate-avvocato del borgo si chiamava Nicola Vare. Non  sto lì a ricordare i Falchi, i Murgia, gli Usai, i Deiana, i Putzolu e i Serra e altri casati dal momento che chi lo desidera potrà consultare lo scritto di Gianluigi Marras su internet in accademiasarda.it.

Si presume che il Castello, costruito nell’area di sedime del cosiddetto Monte de Cheja, ospitasse oltre alla guarnigione di soldati e altri uffici anche la casa del castellano con la cappella, dedicata a San Matteo, apostolo ed evangelista, protettore dei Doria oriundi genovesi, ormai imparentatisi con le famiglie giudicali sarde e da tempo con quelle catalane. Eleonora d’Arborea, giudicessa reggente di Mariano IV, giudice d’Arborea,  in fondo, era  una Bas-Serra, catalana. Brancaleone Doria Junior che fu suo sposo, sicuramente partecipò con Brancaleone Senior, suo padre, sposato in terzo letto con Costanza Chiaramonte lo ebbe da una relazione con la concubina di nome  Giacomina, nacque illegittimo, ma  fu poi legittimato. Insomma i fratelli Galeotto, Cassano, Manfredo, Matteo, e lo stesso succitato Brancaleone, diedero dal cognome della sposa Chiaramonte, il nome al Castello e al borgo, ancora esistente nelle sue fondamenta a piano terra.

Si tratta delle vie dette Carruzzu Longu, che ha conservato la radice genovese di carruggio, mentre via XX Settembre o via delle Balle, via Muru Pianedda, che io ho sempre chiamato forse erroneamente Carrela Longa, Piatta, s’inerpicano puntigliosamente verso la roccaforte doriana. A parere del Marras, ma anche di altri suoi colleghi, sul Castello come a Dolceacqua correvano le mura e le stesse intorno al borgo come del resto erano costruite lungo tutta via Lamarmora o Carrela de sos Putos e dietro le poche case (allora di Piatta) forse dove il podestà dava udienza ed emetteva sentenze o firmava patti. Non è  curioso che da carruggi più tardi  le vie fossero chiamate, per influsso catalano, carrelas. Ad Alghero si dice ancora “mignons del carrer” per dire “ragazzi della strada”.

Se il Castello ruinò presumibilmente ai primi del cinquecento, il borgo è giunto fino a noi sebbene falcidiato da “Laudato si’ mi’ Signore per sora nostra morte corporale, da la quale nullu homo vivente pò scappare”e oggi abitato da pochi  chiaramontesi e da qualche inglese. Forse, ai primi del settecento, disfattisi delle mura intorno al borgo e già ingollatisi il Castello e le sue mura e, da ultimo la chiesa abbandonata di San Matteo al Monte, [costruita presumibilmente sull’area di sedìme della cappella e del palazzetto dei Doria], per rafforzare le vecchie casette, i chiaramontesi si sono talmente allargati che non si capisce più dove vogliano andare a parare con le villette. A ricordare il Castello oggi svettano i Ruderi  e la torre campanaria della cinquecentesca chiesa di San Matteo, parrocchia fino al 1888, quando a valle fu costruita sull’oratorio abbattuto  di Santa Croce la nuova parrocchia. Al forestiero quei ruderi paiono Ruderi del Castello e noi glielo lasciamo credere come dice un caro amico amante della tradizione. Del resto con le ruberie dei conci e dei fregi e con la presenza della svettante torre campanaria, in cui è incastonata la vecchia torre di avvistamento, ha davvero l’aria di Castello.

Insomma, il borgo si è fatto paese che, per via della sorte sta demograficamente declinando, anche se non è detta l’ultima parola. Ché le nascite e le morti solo apparentemente le decide l’uomo, dato che l’istinto, per fortuna corregge le nostre scelte inconsulte.
Tornando al borgo e all’ormai mirabilmente  stravaccato paese di Chiaramonti l’ennesima processione di San Matteo si è consumata con le e i  fedales o coetanei del 1967.

Ma vediamo com’è andata quest’anno la festa. La Santa Messa, celebrata da don Virgilio, già parroco  di  Chiaramonti, è stata cantata dal Coro Santu Mattheu. La chiesa era gremita anche se i fedales maschi, entrati dal portone centrale, lasciata un’esigua rappresentanza, sono usciti dalle navate laterali, forse allergici all’incenso. Alla fine del sacro rito ha avuto inizio la collocazione del santo sul carro trainato da buoi modicani (di Modica in Sicilia), mi verrebbe la voglia di scrivere moicani e la colorita espressione in sardo bocc’e oes! Credo che ogni bue pesasse circa 10 quintale tanto erano massicci e voluminosi.

Dopo un certo tempo sono sfilate le bandiere e quindi le autorità (finanzieri, carabinieri, sindaci dell’Anglona capeggiati dal nostro onorevole regionale sindaco Alessandro Unali con fascia tricolore). Al seguito il popolo fatto di donne e di uomini, tolti quelli che a s’Istradone hanno osservato a bocca aperta la processione incedere col chiacchiericcio delle donne, ma anche degli uomini. Arrivata la processione davanti al Comune ho desistito, data la mia corpulenza, e la processione è scomparsa  alla mia vista su in alto in via San Giovanni.  Ciò che non so io lo diranno le immagini di Vanni Manchia, postate su facebook e certamente contento che io le abbia usate per quest’articolo gettato in fretta e furia nel successivo giorno della festa ancora in atto. Ché, i claramontani, memori che a Genova dura una settimana la festa-sagra di San Matteo e due settimane ad Asiago, si son presi tre giorni. Ma nonostante il  lauto obolo “io non mi curo e quasi fuggo lontano ” dalla festa cosiddetta civile, sapendo soltanto che la maggior parte degli oboli se li ingollerà qualche band. Bisogna accontentare la cosiddetta “gioventù del loco che per le vie si spande” bevendo birra e superalcolici per scaldarsi il cuore.

foto di Lucio Dettori

Auguri, San Matteo, 670 anni non son pochi, ma tu che ti accontenti di poco, sarai ugualmente contento per aver visitato il paese, accompagnato dalla banda e da una folla consistente.chiacchierona che più che pregare si è occupata di frasche e di tresche. I santi per fortuna si accontentano di poco e il rude claramontano, quando compie un gesto religioso, o quasi, arrossisce in volto col terrore che gli diano del bigotto e credulone.  Oggi essere credenti non è facile, ma lo era anche ai tempi del Crocifisso di Nazareth. E il senato romano, grande cultore del diritto, nella sua supponenza mandava gli ebrei, definiti superstiziosi, a morire nella pestilente Sardegna senza che gliene importasse niente come sostiene lo storico romano Tacito.

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