Scuola ed egemonia del tempo nell’Italia post unitaria. Il caso sardo tra storia locale e nazionale di Fabio Pruneri prof. Uniss

IL CASO SARDO TRA STORIA LOCALE E NAZIONALE

This article examines the relationship between time and education. It focuses on history from below, from the margins, primarily in Sardinia. The management of the school calendar is a source of debate and has generated open hostility and friction between a centralistic and “panoptic” idea of education and its fragmented, particu- lar vision. The latter is attentive to local needs: harvest times, climatic conditions, cultural and religious tradi- tions which were all expressed within schools. Compulsory education, bound to a national program, gradually replaced ancestral traditions and, at times, came into conflict with deeply rooted knowledge. The link between time and education, which is the focus of the article, will also allow for reflection on the processes of the na- tionalization and secularization of the school which followed centuries of the pre-eminence of the clergy. The analysis is based on research in archives, the study of secondary literature, the investigation of literary sources and on disparate and faint traces of temporal devices used in the classrooms.

La presente ricerca, basata sullo scavo archivistico, sull’approfondimento di letteratura secondaria (anche internazionale), sull’indagine di fonti letterarie e su disparate e labili tracce materiali, ha l’ambizione di affrontare la storia della scuola da una duplice inedita prospettiva: quella di ricostruire una vicenda che parte dal basso, dalla periferia, prevalentemente rappresentata dalle comunità della Sardegna (ma non solo) e quella di mettere a tema la questione dell’organizzazione del tempo in diversi contesti for- mativi. La gestione del calendario scolastico è, infatti, motivo di dibattito, quando non di aperta ostilità e attrito, tra un’idea centralistica e “panottica” dei tempi dell’istruzione e una sua visione frammentata, particolare e localistica. Quest’ultima è attenta ai bisogni locali, ai tempi del raccolto, alle condizioni climatiche, alle esigenze culturali e religiose delle diverse scuole. L’alfabeto obbligatorio, vincolato al programma del nascente Stato nazionale, si insinuava quindi in ataviche consuetudini e si poneva in con- flitto, talvolta, con saperi radicati. Il legame tra tempo e educazione, che costituisce il focus dell’articolo, sarà anche l’occasione per una riflessione sui processi di nazionalizzazione e laicizzazione della scuola, dopo secoli di preminenza assoluta del clero.

Key words: Time, Education, Sardinia; XIX-XX Century; Nationalization; Elementary Education. Parole chiave: Tempo; educazione; Sardegna; XIX-XX sec.; nazionalizzazione; istruzione elementare.

Introduzione

Con l’istituzione dell’istruzione obbligatoria, avvenuta nei diversi Stati preunitari secondo modalità e cronologie diverse, la questione del calendario scolastico diven- ne essenziale (Bianchi 2012; Morandini 2003; Pazzaglia e Sani 2001; Pazzaglia 1994; Pruneri 2005; Ragazzini 2012; Ricuperati 2015; Compère e Rodríguez 1997). Il controllo della durata degli studi, come qualsiasi forma di sorveglianza del tempo, era stato nei secoli espressione di potere. Non per nulla la misurazione di quest’ultimo costituì un terreno di frizione, fin dal medioevo, tra l’autorità della Chiesa e quel- la dello Stato (Le Goff 1960, tr. it., Le Goff 2000). I termini sono ancora più sfu- mati perché l’esercizio del rilevamento del tempo era praticato, in ambito religioso, non senza conflitti interni, tanto dai campanili delle chiese locali quanto dai rintoc- chi delle campane dei monasteri e conventi. Furono, invece, i possidenti della città e gli imprenditori di comunità proto-industriali a scandire le giornate degli artigiani dei borghi, attraverso le campane delle torri civiche e gli orologi pubblici, spesso secondo ritmi alternativi a quelli dettati dalla comunità religiosa (Le Goff 2000, 21; Dohrn-van Rossum 1996).

Con l’affermarsi degli Stati nazionali alla scuola vennero imposti vari dispositivi temporali come un calendario e un orario uniforme. Il presente articolo intende fare luce proprio attorno al processo di progressiva standardizzazione del tempo scolasti- co in un percorso che, come si vedrà, toccò diversi aspetti: l’organizzazione burocra- tica amministrativa della vita dell’aula e della professione docente; la complessa sin- tonizzazione tra i tempi d’impiego della manodopera minorile e i tempi di frequenza scolastica obbligatoria; lo studio, sempre più rigoroso, a cavallo del Novecento, delle dinamiche psicologiche e pedagogiche coinvolte nell’impostazione nell’attività didat- tica elementare.

A ben guardare, il primo vincolo che lega apprendimento e dispositivi temporali fu quello della frequenza, espressione anch’essa del potere del legislatore, dato che imponeva all’allievo di essere presente per un certo numero di anni in un certo luogo a determinate ore e giorni della settimana. Com’è noto questo obbligo fu anche quel- lo meno stringente se è vero che si dovette attendere la legge Coppino n. 3961, del 15 luglio 1877, per le prime sanzioni della mancata presenza in aula. Fu però soprat- tutto sul calendario scolastico che emersero tensioni tra le richiesta degli insegnanti ed esigenze delle comunità locali1.

La distribuzione delle festività, l’articolazione delle giornate di lavoro e persino il susseguirsi di momenti di riposo e di attività nello spazio della giornata, rispondeva- no infatti a consuetudini costruite dall’ intreccio di pratiche produttive, dalla mesco- lanza di esigenze legate alla stagionalità delle semine e dei raccolti, da usanze religio- se e costumi culturali. Così, l’Italia dei piccoli villaggi presenta, anche sulla questione dell’orario scolastico, alcune tipicità che una storiografia troppo preoccupata di de- scrivere un (presunto) lineare processo di alfabetizzazione sembra aver trascurato.

1 Nella relazione di Domenico Failla, ispettore centrale del ministero, sulle conferenze pedagogiche a Casoria (1885) il funzionario chiedeva di adottare, «nei luoghi ove tutti o la maggior parte degli alunni frequenta[va]no o po[tessero] utilmente frequentare botteghe ed officine», un orario delle lezioni compatibile a quelle del lavoro, ridu- cendo la durata dell’insegnamento nella scuola, di fatto includendo l’apprendistato come lavoro manuale educativo, oggetto di grande interesse nel dibattito pedagogico dell’ultimo ventennio del XIX sec. (Covato e Sorge 1994, I, 215)

Prima dell’Unità. Il regno di Sardegna

La riflessione tra centro e periferia nella storia della scuola italiana può essere me- glio compresa se arretriamo l’analisi agli anni che precedono l’Unità (Pruneri 2011). Per esempio, agli albori dell’avvio di un sistema di istruzione elementare pubblico nel Regno di Sardegna, in un’epoca in cui, dal Piemonte e dall’isola, si guardava con grande interesse al modello della scuola di metodica diretta da Francesco Cherubini a Milano, si definirono i compiti che spettavano ai comuni e allo Stato nel reparto dell’istruzione di base. I testi anonimi, ma presumibilmente dell’abate Antonio Ma- nunta (Spano 1867; Tedde 2018), rispettivamente: manoscritto di una quarantina di pagine, intitolato Progetto per il miglioramento, ed aumento dell’istruzione nel Regno di Sardegna, non datato, ma certamente steso attorno agli anni Venti del XIX sec. e le sedici facciate delle Carte riguardanti l’istruzione fanciullesca, offrono un interes- sante spaccato di come l’istruzione obbligatoria, per nascere, dovette fare i conti con le esigenze locali2.

Le «scuole normali da stabilirsi nei Villaggi del Regno» (si noti l’aggettivo “nor- male”) destinate, oltre che all’educazione cristiana e letteraria della gioventù, a dif- fondere nelle classi dei coltivatori ed «artefici» (cioè artigiani, altre volte definiti «ar- tisti»), specialmente dei villaggi, «la cognizione dei primi rudimenti del leggere, dello scrivere, e degli abachi», sarebbero nate su specifica richiesta dei Consigli Comu- nitativi [comunali] dei centri privi di scuola. La domanda di apertura di un nuovo stabilimento avrebbe coinvolto sia il governo, che avrebbe provveduto al pagamento dei 15 scudi previsti per lo stipendio degli insegnanti e i 5 «per la provvista di carta, penne e libri di rudimenti agli scolari più poveri», sia la comunità chiamata a pagare la spesa del mantenimento della scuola tramite «la contribuzione in grano solita farsi in molti villaggi». In questi progetti l’intendente provinciale, un funzionario rappre- sentate del ministero degli interni sul territorio, avrebbe corrisposto la paga degli insegnanti, mentre il parroco di ciascun villaggio avrebbero valutato, secondo l’«uso che gli suggerirà lo Spirito di carità di cui deve essere animato», a quali fanciulli poveri consegnare il materiale didattico gratuito e i premi di merito. I «precettori» delle scuole normali erano quindi considerati come alle dipendenze dell’Intendente provinciale al quale spettava anche la sorveglianza e l’eventuale sospensione, nei casi di negligenza degli insegnanti. Sarebbero stati scelti come maestri, preferibilmente, i vice-curati del luogo e, solo nelle parrocchie in cui non era disponibile un sacerdote, si sarebbe optato per «altra persona secolare del villaggio» (Pruneri 2011, 210).

La prospettata riforma mi pare interessante perché concepiva la scuola al di fuori del perimetro della semplice iniziativa parrocchiale, cioè della scuola della Dottrina cristiana e del catechismo perdurante fin dall’età Moderna. Il carattere «scolastico» dei corsi derivava dalla precisa articolazione in classi, distribuite in funzione delle disponibilità economiche del territorio. L’anonimo estensore si preoccupava, infatti, di far notare la tipicità dell’isola: «la Sardegna non deve volger le mire a grandi stabilimenti, perché questi richiedono grandi mezzi» dato che «il tentare grandi cose è lo stesso che esporsi al pericolo di far nulla» (Pruneri 2011, 211).

Le stratificazioni sociali, la straordinaria complessità culturale e geografica del ter- ritorio rendevano difficoltosa sia l’adozione di modelli esterni sia l’applicazione di soluzioni univoche ai problemi, tuttavia non si poteva neppure trascurare il fatto che il sovrano Carlo Felice avrebbe affermato in più occasioni, e con vigore, le prerogati- ve dei Savoia nel governo degli apparati dello Stato, compreso quello dell’istruzione.

È quindi interessante, in una prospettiva di studio degli spazi di autonomia, os- servare la questione dell’orario. L’analisi può essere svolta su un duplice versante: quello dell’estensione delle ore di lezione e quello del tipo di contenuti culturali pro- posti. Perché avesse successo la scuola elementare obbligatoria avrebbe dovuto limi- tarsi, secondo l’estensore del Progetto per il miglioramento, ed aumento dell’istruzio- ne nel Regno di Sardegna, ad un’ora e mezza al giorno, fissata secondo l’arbitrio del maestro, di mattina o al pomeriggio nei diversi villaggi. Anche il curriculum doveva essere molto semplice: leggere, scrivere in italiano, catechismo (sia in italiano che in sardo), «breve compendio di Storia Sacra colla spiegazione del senso morale». Di- verso il destino delle scuole dei mandamenti (anch’esse elementari), cioè degli istituti nei centri di medie dimensioni, dove gli orari erano sarebbero stati più estesi e vi era un maggior ventaglio di materie. Questi “simil ginnasi” dovevano prevedere alla continuazione del Catechismo e anche allo studio della Storia Sacra, all’apprendi- mento delle quattro operazioni di aritmetica, «un breve compendio di Storia Sarda, compilato in modo che si rilevi il carattere Nazionale nell’attaccamento alla Religio- ne, ai Governi legittimi, ed alle Patrie istituzioni» (Pruneri 2011, 212). Si compren- de bene come la scuola comunale, il cui mantenimento e la cui manutenzione era a carico delle comunità, agiva da filtro scremando coloro che potevano continuare gli studi nelle scuole di mandamento e nei collegi delle città. Il diverso assetto della istruzione di base, in rapporto al territorio, era sancito anche dalla retribuzione. Dai quindici ai venticinque scudi, al massimo, spettavano ad un insegnante di villaggio, mentre il maestro di latinità, che operava nei borghi più popolosi, avrebbe dovuto guadagnare non meno di cinquanta scudi. In quest’ultimo caso gli oneri della pub- blica istruzione sarebbero stati ripartiti tra il mandamento (consorzio di più comu- ni), i feudatari3 e i fondi diocesani o erariali; nel primo erano gli abitanti del comune a dover tassare il grano o altri generi alimentari con un’imposta di scopo.

Tuttavia occorrerà attendere il Regio Editto del 24 giugno 1823 Sulla istruzione superiore, inferiore normale od elementare perché si sancisse ufficialmente l’avvio di un sistema d’istruzione popolare e capillare negli anni della restaurazione. Tale scuo- la ebbe sì i tratti della scuola ad un tempo patriottica (sabauda), e quindi leale agli interessi della corona, non certamene ostile all’altare (gli insegnanti erano in preva- lenza i sacerdoti), ma anche i lineamenti di una istituzione attenta alle tipicità del territorio, come si vede nell’indicazione delle materie di studio. «Vi sarà in tutti i

3 La fine del sistema feudale sarebbe avvenuta ben oltre l’emanazione dell’Editto delle chiudende (1820), il 21 aprile del 1846, quando Carlo Alberto decretò l’incameramento dei feudi di Sardegna.

villaggi del Regno un maestro di scuola, il quale insegni a leggere e scrivere l’abbaco, la Dottrina Cristiana, ed il Catechismo d’Agricoltura, secondo il metodo accennato nelle annesse istruzioni», affermava l’articolo 31 del Regio Editto, emanato per la sola Sardegna, dopo che l’anno precedente (23 luglio 1822) erano state date precise indicazioni sulla pubblica istruzione in Piemonte, a Nizza e a Genova. Una asserzio- ne che evidenziava come l’alfabetizzazione mirasse non solo alla conoscenza dell’al- fabeto, ma anche della religione e soprattutto della coltivazione dei campi.

Un esame distratto del provvedimento potrebbe convincere il lettore che la pro- posta feliciana si inserisse in un trend fisiocratico assai comune in Europa tra il XVIII e XIX secolo. In realtà, il disegno dei Savoia era più sottile e ambizioso: si trattava di cambiare i costumi degli abitanti dell’isola, convincendoli ad abbando- nare la pastorizia e il pascolo brado per approdare alla coltivazione dei campi e alla proprietà “perfetta”, come in uso nei poderi e nelle cascine dell’Italia continentale (Caboni 1828; Lai 1972; Sani e Tedde 2003). Ne costituivano una prova lampante i contenuti del volume per l’insegnamento del catechismo agrario, una materia cardi- ne dell’istruzione di base, smaccatamente a favore di un sistema di colture simile a quello praticato in terraferma e, soprattutto, l’invito ai consigli comunitativi di porre fine al sistema feudale e ai latifondi chiudendo dei terreni così da garantire, con i prodotti della terra, tra l’altro, la dotazione finanziaria, destinata a coprire i costi del primo insediamento scolastico e le spese «di provvista della carta, di penne e libri pei studenti poveri». La divisione della proprietà era la chiave di volta di un moder- no Stato liberale, non più succube a baronie e antiche consuetudini prive di fondamento giuridico.

Dal Regolamento del 25 giugno 1824 per le Scuole Normali del Regno di Sardegna, di fatto istitutivo di quanto nel precedente progetto era solamente auspicato, pos- siamo ricavare uno schema di orario dove si evince una stretta connessione tra le attività d’aula e il catechismo (Regolamento approvato da Sua Maestà Carlo Felice per le scuole normali del Regno di Sardegna, 24 giugno 1823 1823). In generale possiamo dire che anche la distribuzione delle lezioni seguiva l’andamento del calendario litur- gico, con un avvio degli studi a partire dalla prima domenica dopo la Pasqua, fino ad ottobre, con attività che andavano dalle 7:00 del mattino alle 16:00, per ridursi nel periodo invernale, fino alla quaresima, all’intervallo 8:00-14:00. Lo schema di orario della scuola normale può essere sintetizzato in questa tabella che mostra come allo scoccare di ogni ora ci fosse un cambio nelle materie.

Come riportano varie testimonianze, la vita scolastica era regolata dalla campana che richiamava alla frequenza delle lezioni allo stesso modo che chiamava i fedeli alla messa. Lo scrittore Salvatore Satta dà conto efficacemente di questa pratica ne Il giorno del giudizio, dove leggiamo che, un secolo dopo l’editto di Carlo Felice, la scuola elementare di Nuoro, città natale dell’autore, continuasse a svolgersi nel con- vento dei francescani, così che

andare al Convento voleva dire essere a scuola, andare a scuola. In realtà – come precisa l’autore – nulla era cambiato, di fuori e di dentro […] era rimasta anche la campana nella nicchia in cima alla parete […] il bidello, alla nove in punto tirava la fune, come faceva il sa-

Ora

Lun. Mar. Mer. Ven.

Sab.

Dom.

I

Lettura Lettura Lettura Lettura

Ripetizione della Lettura, Scrit- tura, Aritmetica della settimana

Il maestro raduna nella scuola i disce- poli e li accom- pagna nella chiesa dove assisteranno in posto separato le funzioni par- rocchiali

II

Scrittura Scrittura Scrittura Scrittura

III

Aritmetica Aritmetica Aritmetica Aritmetica

Accompagnamento degli studenti in chiesa per ascolto della messa con canto delle “di- vote preci”, durante il percorso

Pranzo

I

Ripetizione lezioni della mattina

Ripetizione lezioni della mattina

Ripetizione lezioni della mattina

Ripetizione lezioni della mattina

45’. ripetizione spiegazioni dot- trina cristiana

II

30’ dottrina cristiana

30’ catechi- smo agrario

30’ dottrina cristiana

30’ catechi- smo agrario

30’ dottrina cristiana

30’ catechi- smo agrario

30’ dottrina cristiana

30’ catechi- smo agrario

1 h. catechismo agrario

15’ canto delle litanie

grestano ai tempi dei frati. Lo stesso suono annunciava l’inizio dell’officio sacro e dell’officio laico, come se nulla fosse avvenuto (Satta 2003, 126)4.

È lo stesso Satta che, in altro passaggio del medesimo romanzo, racconta magistralmente un evento di cui ormai si è persa traccia, ovverosia il suono della campana nell’aria del paese, a richiamo dell’inizio delle lezioni. Nel capoluogo barbaricino, ancora nel primo Novecento, quel suono costituiva, assieme al rullo del tamburo del banditore, la voce del borgo. Era il segnale mattutino di chiamata a un ordine e a un dovere, quello scolastico, attorno al quale si regolava la vita di tutta la comunità. Spenti quei due suoni, conclude l’autore, la misteriosa comunanza che legava gli uo- mini viventi sotto lo stesso cielo era parsa svanire (Satta 2003, 148).

In realtà a smentire una presunta uniformità attorno ad un orario identico per tutti i paesi della Sardegna vi sono le risultanze delle inchieste promosse ad un de- cennio dalla promulgazione delle Regie Patenti feliciane dal funzionario Giuseppe Montiglio. Egli inviò una richiesta a tutti i consigli comunitativi dell’isola per vedere lo stato di attuazione della legge per l’istruzione normale. L’esito dello studio mette- va in luce le resistenze e le disparità tra i comuni per esempio nel pagamento degli insegnanti, nel loro reclutamento, nella struttura degli immobili scolastici, nel nume- ro degli allievi.

Interessante, dal nostro punto di vista, è considerare la questione dell’orario scola- stico e della durata della lezione giornaliera. Se prendiamo come riferimento, a titolo di esempio, il Campidano, cioè la regione storica del meridione della Sardegna, notia-

4 Gli elementi di continuità tra convento e scuola, a Nuoro, erano rimarcati dal fatto che le lezioni si svolgessero in quella che doveva essere l’antica chiesa con la cattedra posta sopra i quattro gradini dove in precedenza era collocato l’altare. mo che a Forru la giornata scolastica durava 1 ora e 1⁄2, a Guspini 2, a Sanluri 1 ora e 1⁄2 al mattino, più 1ora e 1⁄2 al pomeriggio, per un totale di 3 ore. Non mancavano anche scuole in cui la frequenza giornaliera si attestava, secondo il dettame governati- vo, su 5 ore: 3 al mattino e 2 al pomeriggio come a Arbus, Gesturi, Gonnosfanadiga, Samassi, San Gavino, Sardara, Serramanna, Sorrenti, Turri, Villacidro, Villamar. In ogni caso, si trattava di tutto fuorché uno schema uniforme, a riprova di una sostan- ziale elasticità nell’applicazione delle norme dei Savoia (Pruneri 2011, 268-69).

Con le Regie patenti del 7 settembre 1841, essendo sovrano Carlo Alberto, l’o- rario delle scuole elementari (questo il nuovo nome attribuito alla scuola normale) venne ridotto, a norma dell’art. 16, a «sole ore tre alla mattina per tutti indistinta- mente li luoghi in cui non sianvi scuole di latinità, non compresavi la mezz’ora della Messa, ed ove questa venga a mancare in qualche giorno, si impiegherà il Maestro tal tempo in esercizio di religione» («Regie patenti colle quali S.M. lasciando alcune disposizioni circa il metodo d’istruzione per le scuole elementari nel Regno di Sarde- gna, nomina un Ispettore Generale per la direzione, visita e sorveglianza delle mede- sime, un Vice Ispettore in Sassari e stabilisce tre apposite scuole di metodo» 1841). Anche in questo caso prevale la flessibilità: l’ora d’inizio delle lezioni sarebbe, infatti stata fissata dall’Ispettore Generale con «riguardo alle circostanze de’ luoghi e delle stagioni». Uniforme era invece il calendario con l’apertura simultanea delle scuole di tutti i gradi in ciascuna provincia. Quanto all’articolazione settimanale le lezioni si svolgevano in tutti i giorni non festivi, «Se ne eccettua il giovedì quando non occorre durante la settimana, altra vacanza».

Le Regie patenti affermavano che la scuola elementare, aperta a «tutti li ragazzi di qualunque età e condizione», si riteneva conclusa dopo tre anni ininterrotti di fre- quenza. Il curriculum di studi appariva però ridimensionato rispetto alle attese del 1823. Nel primo anno, per esempio, non era prevista la scrittura, mentre occorreva attendere il secondo anno per il catechismo agrario, la stesura di testi sotto dettatura e gli esercizi di lettura. Solo al compimento degli studi si sarebbe avuta «la cognizio- ne de’ pesi, delle misure e delle Monete nazionali in corso».

Il difficile equilibrio tra centro e periferia è confermato dal fatto che, nelle proteste che accompagnarono i moti insurrezionali del 1848, accanto a rivendicazioni di carat- tere politico, ebbero un rilievo anche le aspettative locali. La scuola elementare, già normale, era senz’altro avvertita come “un’invenzione” sabauda, strettamente connes- sa al nuovo sistema delle “chiusure”5. Non era un caso che gli abitanti di Santu Lus- surgiu, un centro a un trentina di chilometri a nord di Oristano, si riversarono nella piazza del paese alle sei del mattino del 4 febbraio 1849, al suono delle campane, ur- lando: «Fuori il Vicario! Fuori il maestro della scuola Normale! Questa scuola la faccia

5 Il temine indicava il Regio Editto Sopra le chiudende, sopra i terreni comuni e della Corona, e sopra i tabacchi, nel Regno di Sardegna emanato nel 1820, ma pubblicato solo tre anni più tardi, nel quale il sovrano, al fine di permettere il «rifiorimento della Sardegna […] manifestò il pensiero di favorire le chiusure dei terreni; principalissimo mezzo d’as- sicurare, ed estendere la proprietà, e così promuovere l’agricoltura». In pratica, con l’editto il re concedeva «l’auto- rizzazione a qualunque proprietario a liberamente chiudere di siepe, o di muro, vallar di fossa, qualunque suo terreno non soggetto a servitù di pascolo, di passaggio, di fontana o d’abbeveratoio». Analoga licenza era data ai comuni, per i terreni di loro proprietà (Gemelli 1842).

 

uno dei nostri Padri Osservanti senza stipendio alcuno!». Una reazione che seguiva la demolizione dei muri che segnavano i confini delle nuove proprietà (Zichi 2015, 138).

Dall’unità d’Italia all’età giolittiana

È bene precisare che il termine scuola elementare, normalmente si utilizza per includere l’istruzione gratuita data in ogni comune dopo il varo della legge Casati del 13 novembre 1859, in realtà comprende modelli scolastico molto diversi: all’art. 338 si parla di scuole urbane e rurali (classificate), ciascuna delle quali divise in tre classi e all’art. 343 si definiscono le scuole in borgate sparse lontane dal centro o comunque con popolazione inferiore ai 500 abitanti, aperte solo per alcuni mesi6.

Il successivo Regolamento delle scuole elementari del 15 settembre 1860 determinò, all’art. 8, la durata dell’anno scolastico (dal 15 ottobre al 15 agosto) e al successivo art. 9, i giorni in cui si sarebbero svolti gli esami di promozione (tra il 15 e il 25 ottobre e dal 5 al 15 agosto) e anche a metà semestre nelle scuole rurali7. Le scuole delle borgate, a norma dell’art. 10 «cominciano e terminano nel tempo da stabilirsi dal Consiglio provinciale sopra le scuole, avuto riguardo alle speciali condizione de’ luoghi»8. Le vacanze corrispondevano alle feste ecclesiastiche di precetto e alle festi civili, oltre ad un giorno per settimana, mentre «le lezioni, l’una delle quali sarà data prima e l’altra dopo mezzodì, dureranno nella totalità almeno cinque ora ogni gior- no». Solo nel caso di orario continuato, il tempo scolastico sarebbe stato di quattro ore e mezzo. La riduzione delle ore al solo mattino sarebbe stata ammessa a partire dal 1° luglio, a condizione che la durata delle lezioni fosse di tre ore e mezzo. Spetta- va comunque ai comuni stabilire ora d’inizio e di fine delle lezioni.

Presso l’isola de La Maddalena, per esempio, il maestro elementare Giuseppe Cossu nel 1872, avanzava al sindaco la seguente richiesta: «ridurre le lezioni giornaliere ad una sola», con la seguente motivazione: «eccessivo calore delle ore meridiane. Lo scrivente – aggiungeva – crede maggiore il profitto, che gli allievi ne ritrarrebbero riducendo le lezioni ad una sola; mentre nelle ore del pomeriggio si vedranno d’ora innanzi annoiati e qualche volta costretti ad abbandonarsi al sonno» (Cossu 1872a)9. Il suggerimento del maestro si appaiava all’indicazione esplicitata in

6 Per esempio, le scuole elementari maschili del grado superiore erano quelle dei comuni dove erano aperte «1) scuole mezzane classiche, o scuole tecniche, o scuole normali maschili regie», 2) nei comuni con oltre «4000 abitanti di popolazione unita non computandovi le borgate». Cfr. art. 29 del Regolamento delle scuole elementari del 15 settembre 1860.

7 «Alla fine d’ogni semestre, cioè nella settimana prima di Pasqua o in quella che sarà segnata dal calendario scolastico, e dal 5 al 15 agosto, vi sarà in ogni scuola comunitativa un esame pubblico verbale, in cui, gli allievi saranno interrogati ciascuno sopra le materie insegnate nella propria classe». Cfr. art. 29 del Regolamento delle scuole elemen- tari del 15 settembre 1860. La normativa fissava (art. 46) anche in venti minuti per le classi inferiori e in mezz’ora in quelle superiore la durata degli esami.

  1. 8  In ogni caso si affermava che «la loro durata non può essere minore di quattro mesi». Il corsivo è mio.
  2. 9  La documentazione archivistica citata è trascritta nell’appendice documentaria della tesi di Giovanna Aresu,

L’istruzione primaria a La Maddalena dal 1860 al 1911, Università degli studi di Sassari, Facoltà di magistero, corso di laurea in pedagogia, relatore A. Tedde, a.a. 1997-98. Lo stesso insegnante, in altra lettera nel medesimo anno, si una circolare del ministro Matteucci secondo cui era possibile abbreviare, anticipare e posticipare l’orario nei comuni rurali e nei paesi di montagna «ove nei tempi dei lavori agricoli i contadini sogliono valersi dell’opera dei ragazzi». Era, infatti, «del massimo interesse che i fanciulli prend[essero] per tempo debito amore al lavoro» senza cessare la frequenza. Spettava quindi a Consigli scolastici provinciali e ai co- muni fare il possibile per fare «in modo che si possa sempre avvicendare il lavoro coll’istruzione» (Matteucci 1862).

La questione del rispetto degli orari costituì un tema molto importante nella for- mazione del carattere degli italiani. L’Italia lavorista dell’Ottocento doveva assegnare a questo aspetto un certo rilievo (Smiles 1865, 189). Il primo avvio alla puntualità sul luogo di lavoro, essenziale nel portfolio degli operai, si doveva infatti apprendere a scuola. E se erano i maestri a dover trasmettere queste abitudini occorreva praticare queste virtù fin dalla loro educazione nelle scuole normali. Nella Relazione finale del vice-direttore sull’andamento del convitto annesso alla scuola normale [di metodo] maschile di Sassari (1863), per esempio, si ricordava come l’impegno dell’ispettore che aveva retto l’istituto, e del suo vice, erano stati: di ammonire gli studenti alla disciplina e ad una condotta consona al loro ufficio futuro; di suggerire opportune ricreazioni, uscite, letture, e, infine, di «ottenne[re] puntualità persino nel levarsi alle ore cinque e prima nella stagione rigida», anche a costo di esercitare l’autorità con punizioni e privazioni (Covato e Sorge 1994, I, 134)10. L’ossessione per l’orario era del resto uno dei tratti caratteristici dell’educazione degli alunni e delle alunne delle scuole normali anche nel resto d’Italia. Al fine di agevolare la frequenza, le lezio- ni delle scuole per i maestri elementari si svolgevano, per esempio a Napoli, negli anni immediatamente postunitari, tutti i giorni (compreso il giovedì) alle ore nove e terminavano alle tre, con un’ora di ricreazione attorno alle dodici11. Così, a poco a poco, gli aspiranti maestri e maestre acquisivano quell’abitudine alla disciplina e all’ordine considerate come essenziali nell’esercizio della loro professione educativa. Nella «Relazione riservata del provveditore agli studi di Benevento sull’andamento della scuola normale femminile (1888)», invece, si faceva notare:

Anche l’orario scolastico era poco propizio al buon andamento degli studii. […] perché la signora Pellegrini amava d’essere libera nella mattinata, per poter ricevere le famiglie delle alunne, accadeva che le materie più importanti come dire l’italiano, la pedagogia, la mate- matica e la storia civile erano insegnate nel secondo periodo delle lezioni, mentre, nelle ore del mattino, le alunne erano occupate, per lo più, nei lavori donneschi, nella ginnastica, nella calligrafia e nel disegno (Covato e Sorge 1994, I, 109).

lamentava del drastico calo del numero degli alunni aggiungendo “Pel bene degli allievi sarebbe meglio che la scuola si apra per il 1° ottobre e si chiudesse in giugno» (Cossu 1872b).

10 Giova chiarire, come anticipato, che il termine “scuola normale” venne adottato in Sardegna, a partire dagli anni Venti dell’Ottocento, per indicare le scuole della prima alfabetizzazione condotte secondo il metodo simultaneo, poi chiamate “scuole elementari”. Il binomio scuola normale sopravvisse, negli anni Quaranta, ma venne riferito ai corsi per gli insegnanti, attività formative definite “scuole normali di metodo”.

11 Relazione del direttore sulle origini e l’andamento delle scuole normali a Napoli (1873). Proposte per alcune riforme da introdurre nelle scuole normali, in (Covato e Sorge 1994, I, 71).
I regolamenti, come si è visto, fissavano in maniera abbastanza rigida l’avvio dell’anno scolastico. Un giornale destinato ad un pubblico di lettori borghesi, quale il “Giornale dei Fanciulli”, si apriva, nell’ottobre 1899, con un’allegra poesia intitolata Il primo giorno di scuola, dove, in rima, si decantava «come è bello il ritorno! Come è bella la scuola il primo giorno!». Sappiamo però che nei contesti, non certo marginali, dell’Italia rurale, l’avvio in autunno dell’anno scolastico era ben più tribolato, doven- do gli scolari far i conti con le necessità della vendemmia e della raccolta delle olive.

Una maestra di Ozieri descriveva in questi termini la sua ripresa delle attività

Finita l’iscrizione, quando persi per dar mano all’insegnamento, m’accorsi che quasi tutti gli alunni/ distratti dagli ozi delle vacanze, avevano trascurato e mal ritenuto le materie apprese; erano ritornati alle voci dialettali, e abbandonati per la maggior parte a loro stessi, lasciavano molto a desiderare in fatto – di educazione: Con risolutezza mi diedi a combattere tali ostacoli, e prima d’inoltrarmi nell’insegnamento, mi fermai a tradurre in patrio dialetto ogni vocabolo e ogni periodo d’italiano che da me si leggeva o si proferiva – e, viceversa, le parole del dialetto in patria lingua (Buy 1902)

Nel testo del giornale diretto da Cordella Tedeschi non mancava addirittura un richiamo alle vacanze in villeggiatura: «si riveggono gli amici, ed i compagni/Dove son iti mai gli antichi lagni?/Chi parla di montagne e chi di bagni» e si ricorda che «I visi riposati son contenti,/ Tutti fanno più bei proponimenti;/ Studiar a casa e a scuola star attenti» (1899).

Ma c’era anche l’altra faccia della penisola: quella del lavoro minorile, dell’impiego dei bambini nelle attività agricole, nelle botteghe artigiane, oppure nelle filande. A titolo di esempio, nella relazione del maestro Piero Addis de La Maddalena del 4 agosto del 1877 si dà conto delle graduali assenze degli alunni in questi termini: «1) Susini Giuseppe […] abbandona la scuola nel mese di aprile con pretesto di arruo- larsi nel servizio di marina. 2) Dodero Antonio […] abbandona la scuola per partire al servizio nella Marina Mercantile il 24 maggio. 3) Zonza Pietro […] abbandonò lo studio per arruolarsi mozzo nel servizio di Marina, il 16 maggio». Evidentemente il lavoro marittimo era un temibile concorrente al tempo da dedicare allo studio e le famiglie dell’isola avevano interesse perché vi fosse un precoce impiego dei figli (Ad- dis 1877). Un destino non molto diverso spettava alle bambine, infatti, «la natura del paese costringe[va] qualche volta i genitori a valersi dell’opera fanciulle nelle dome- stiche faccende» (Pinna 1891). Ad Ozieri la maestra Angelina Sotgiu ricordava come in paese si seguisse «l’antica consuetudine di emigrare per trasferirsi in campagna nella stagione primaverile» (Sotgiu 1901). Sempre in Sardegna, ma questa volta in un comune dell’interno: Buddusò, un maestro verso fine ottobre del 1908 si lamentava del fatto che «numerosi alunni non frequentano le lezioni pomeridiane trascuran- do la scuola per dedicarsi ai lavori di campagna» («Orario unico e continuato nelle scuole elementari» 1908)12.

12 La documentazione archivistica citata è trascritta nell’appendice documentaria della tesi di Elenora Satta, La scuola elementare di Buddusò dal 1900 al 1923 edilizia, maestri, scolari, Università degli studi di Sassari, Facoltà di magistero, corso di laurea in pedagogia, relatore A. Tedde, a.a. 1998-99. Entro un quadro frastagliato, il tema della corretta distribuzione delle ore nell’or- ganizzazione del curricolo non era privo d’interesse. Già all’inizio del Novecento, sulla scorta degli sviluppi della psicologia sperimentale e della pedagogia scientifica si arrivò a teorizzare, specie nella scuola elementare, cioè nel contesto in cui era il maestro a disporre in maniera quasi esclusiva del controllo del tempo della classe, un orario che rispondesse alle «capacità di applicazione de[gli] alunni, distribuendo le materie quantitativamente (numero di ore assegnate a ciascuno) per modo che il fan- ciullo, colla minore fatica reale possibile, riuscisse a seguirlo in tutto lo svolgimento del programma» («Note di pedagogia. L’orario scolastico» 1911, 43). Si trattava di considerare con oculatezza il fattore stagionale come elemento che influiva diretta- mente sulla resa psicologica degli studenti. L’anno scolastico, sotto questo punto di vista, aveva sue tipicità. Gli alunni faticavano, non poco a seguire l’insegnante alla ripresa della scuola in autunno, per giungere poi al massimo rendimento nei mesi invernali. La curva dell’attenzione subiva, secondo i primi studi di pedagogia speri- mentale, però una sorta di arresto con irrequietezza e distrazioni da parte degli alun- ni in occasione della «prima fioritura», mentre il «commovente rigoglio della natura che si spinge rapida a maturità», dei mesi di maggio giugno si accompagnava a un migliore profitto destinato però ad inaridirsi con la bella stagione, dato che il caldo dell’estate era da considerarsi «il peggior nemico dello studio» («Note di pedagogia. L’orario scolastico» 1911, 42). Sempre sul versante della “tenuta” psicologica degli allievi, la questione del calendario settimanale, ed in particolare del giovedì di ripo- so, cominciava a suscitare, all’inizio del secolo, qualche interrogativo. La pratica di- dattica era lì a dimostrare che spezzare la settimana con un giorno libero, non aveva nessuna efficacia nel ristorare l’animo dei fanciulli e che, anzi, lo studio continuativo e ripetuto consentiva di ottenere migliori risultati, garantendo un ritmo di lavoro più stabile («Note di pedagogia. L’orario scolastico» 1911, 43).

Anche la pratica, derivante dal buon senso della classe magistrale, di inserire al- le prime ore della giornata scolastica le materie considerate difficili, mostrava, alla lunga, i suoi limiti. Le discipline del mattino, di solito le più teoriche, erano inserite subito dopo il suono della campanella, quando i fanciulli raggiungevano la scuola, magari dopo una levata all’alba e un lungo tragitto, in condizioni non certo favore- voli, data la penuria di istituti sul territorio e di mezzi di trasporto per raggiungerli. Viceversa, le indagini sperimentali mostravano che i rendimenti migliori si avevano dopo un periodo di “allenamento” della classe, quindi non ad inizio di giornata, ma quando il gruppo degli studenti si era “riscaldato”. Fondamentale, infatti, era con- siderare il «gettito di energie» (oggi diremmo la motivazione) degli studenti e non tanto il tipo di materia. Un buon insegnante poteva rendere interessanti anche le discipline teoriche ed un cattivo docente faticose quelle più applicative. Anche la divisione della giornata scolastica in attività meridiane, pausa di due o tre ore, e a seguire attività antimeridiane, se risolveva il problema della refezione, consentendo a studenti e maestri di rientrare a casa per il pranzo e permetteva un intervallo di ripo- so, non era nella realtà particolarmente efficace visto che in molti contesti l’intervallo era tutt’altro che defatigante e diventava anzi uno spreco di tempo per raggiungere la propria dimora, spesso lontano dallo stabile della scuola. In generale, sembrava costituire una buona strategia l’inserire nelle ore mattutine le lezioni che chiedevano «l’accumulo di materiali mentali», l’«invenzione», mentre per il pomeriggio la cor- rezione, l’ordinamento, l’applicazione di regole, oppure lo studio di discipline de- scrittive (storia, geografia ecc.). Quanto alle pause e al tempo della ricreazione, per- ché l’intervallo fosse davvero efficace, non andava riempito di altre attività, come, ad esempio, esercizi fisici guidati. La vera pausa ristoratrice del bambino era in realtà il sonno notturno, prolungato per tutte le ore necessarie ad un corpo in crescita. Sem- brava essere una soluzione ottimale la creazione di un’unica lunga giornata di scuola meridiana, opportunamente costruita per incontrare i bisogni degli allievi.

Con il regolamento generale per la istruzione elementare del 1908 si stabilì in ma- niera dettagliata la giornata scolastica e si ribadì che, tra gli altri adempimenti, il di- rettore (art. 90): «vigila al mantenimento della disciplina e all’osservanza dell’orario degl’insegnanti, degli alunni, dei bidelli e inservienti»13. Era attorno alle lancette del suo orologio che ruotano gli attori della vita scolastica: i maestri, il personale, gli stu- denti, anche se a ben vedere, mancavano, e non poteva essere altrimenti, i genitori, veri responsabili delle trasgressioni scolastiche dei figli, dei loro ritardi e delle assen- ze, magari dovute al precoce impiego lavorativo.

Tabella oraria della scuola elementare

Regolamento 18881

Regolamento Rava 19082

Lezioni meridiane

3 ore

«Art. 34. In tutte le scuole si osserverà l’orario fissato dal Governo.

Il Municipio, d’accordo col R. Ispettore, determi- nerà in ogni stagione, secondo le esigenze locali e quelle delle aule scolastiche, le modalità e le ri- partizione degli orari, avendo cura che gli alunni non debbano mai rimanere più di tre ore continue nella stessa aula»

3 ore3:
Prima lezione: 1 ora e un quarto Pausa 10 minuti4
Seconda lezione 1 ora e un quarto

Intervallo

2 ore (potevano aumentare con la bella stagione)

Almeno 2 ore di pausa nelle quali gli alunni abbandonano la scuola

Lezioni pomeridiane

2 ore

1 ora e 30:
Terza lezione 45 minuti Pausa 10 minuti
Quarta lezione 45 minuti

13 Secondo l’art. 27 del RD n. 623 del 9 ottobre 1895, Regolamento generale per l’istruzione elementare il diret- tore «vigila al mantenimento della disciplina e all’osservanza dell’orario» (Ministero della pubblica istruzione 1900).

 

Orario continuato

4 ore 1⁄2

40 minuti per la refezione/ricrea- zione fra la2a e la 3a lezione

1 Art. 39 del RD n. 5292 del 16 febbraio 1888, Regolamento unico per l’istruzione elementare: «l’insegnamento quoti- diano durerà, compresa la ginnastica e il canto, cinque ore; ma sarà diviso in due lezioni, l’una antimeridiana e l’altra pomeri- diana, coll’intervallo di due ore almeno tra l’una e l’altra nell’inverno, e con un intervallo maggiore nelle altre stagioni».

2 L’art. 19 del RD. n.150 del 1908, in conformità con il precedente regolamento del 1888 concede ai Comuni la possibi- lità ridurre l’anno scolastico a sei mesi e l’art. 93 invece affermava: «le Giunte municipali hanno facoltà di stabilire coll’assenso del Consiglio scolastico provinciale, date diverse per l’apertura e la chiusura delle loro scuole, purché il corso scolastico duri dieci mesi comunque siano ripartite le vacanze. Per le scuole semestrali la data di apertura e le eventuali interruzioni consi- gliate dai bisogni agricoli, sono stabilite dalla Giunta comunale e approvate dal Consiglio scolastico provinciale». Il corsivo è mio. Questo aspetto era già presente all’art. 7 della legge Coppino n. 3961 del 15 luglio 1877, che recitava «Art. 7. Le Giunte comunali hanno facoltà di stabilire, di consenso col Consiglio scolastico provinciale, la data dell’apertura e della chiusura dei corsi nelle scuole elementari. Durante l’epoca delle vacanze gli alunni avranno obbligo di frequentare le scuole festive colà dove queste si trovassero istituite. Compiuto il corso elementare inferiore, gli alunni dovranno frequentare per un anno le scuole serali nei comuni in cui queste saranno istituite», quanto all’art. 31 del regolamento generale del 1895.

  1. 3  Si veda l’allegato C relativo all’art.97 del RD. n.150 del 1908.

  2. 4  Il regolamento chiariva che le pause fra una lezione e l’altra avevano essenzialmente uno scopo igienico: rinnovare l’aria nella classe, «con le cautele richieste dalla stagione e dal clima e consigliate dall’ufficiale sanitario».

A dimostrazione di una certa flessibilità nell’accogliere le esigenze dei territori si affermava che il regio ispettore avrebbe determinato «in ogni stagione, secondo le esigenze locali, le modalità per l’applicazione dell’orario»14, in caso di conflitto tra questi e i municipi avrebbe deciso il provveditore, inoltre nelle scuole rurali, dove gli alunni percorrevano notevoli distanze, le ore di scuola potevano «essere ridotte a 3 e mezzo con opportune riduzioni delle pause o del tempo destinato alla refezione e ricreazione»15.

Il tempo libero

Nell’Italia del campanile e della scuola si consuma un’altra lotta sul filo del tem- po: quella della gestione della ricreazione dei giovani nelle giornate di riposo. Scon- tro particolarmente feroce soprattutto nell’ultimo Ottocento, quando laici e cattolici

14 Art. 97, del RD. n.150 del 1908. Interessante anche l’art. 98, che affermava: «D’accordo col direttore didatti- co, dove questo manchi, con l’autorità municipale, il maestro in due giorni al mese impiegherà una parte dell’orario scolastico ad una passeggiata istruttiva». Quanto ai giorni di vacanza l’art. 95 stabiliva come liberi, oltre a giovedì e alla domenica e ai giorni festivi riconosciuti dallo Statuto: il Giorno dei Morti, l’anniversario della morte di re Vittorio Emanuele II, il giorno del natalizio del Re, della Regina e delle Regina madre e altri dodici giorni in totale per Natale, Carnevale, Pasqua ed altre feste provinciali. Ogni comune aveva poi a disposizione altri quattro giorni per varie cele- brazioni. Eventi, quelli municipali, che andavano notificati dall’ufficio scolastico provinciale.

15 Tabella d’orari, art. 97 (Rava 1908) Giova ricordare che il maestro, secondo i dettami dell’art. 192 del medesi- mo regolamento doveva trovarsi «nell’ora stabilita dall’autorità municipale, non meno di 10 né più di 20 minuti innan- zi al principio delle lezioni per assistere all’ingresso degli alunni», compito del maestro era «sorvegliare gli alunni stessi durante il tempo destinato alla ricreazione e refezione dove l’orario adottato [fosse] unico; e [doveva] rimanere nella scuola finché ne [fossero] usciti i suoi alunni». Ingressi e uscite degli studenti nelle scuole miste «doveva effettuati in tempo diverso coll’intervallo di dieci minuti». Per esempio l’orario delle lezioni nella scuole di Buddusò, un comune a ottanta chilometri da Sassari, era articolato nel seguente modo, per le diverse stagioni: «dall’apertura dell’anno scola- stico a tutto il mese di aprile dalle ore nove alle undici di mattina, e dalle ore due alle quattro di sera. Dal primo maggio fino alla chiusura dell’anno scolastico, dalle ore sette e mezza alle ore nove e mezza al mattino e dalle ore quattro alle sei alla sera» («Apertura e chiusura delle scuole» 1902).

si trovarono a fare fronte alle rinnovate esigenze educative derivanti del processo di urbanizzazione e industrializzazione. Emblematico è il caso di Brescia dove comin- ciarono a sorgere luoghi come il “Ricreatorio Laico Festivo” destinato ai giovani da- gli 8 ai 16 anni, un’istituzione incoraggiata anche dal Ministero della pubblica istru- zione e persino da quello della guerra. L’interessamento di quest’ultimo dicastero merita un supplemento di spiegazione, infatti nei locali dell’ex convento delle Gra- zie, si curava anche la formazione militare dei partecipanti. Ai bambini del ricrea- torio, oltre all’addestramento alla scherma, alla ginnastica, all’uso del “velocipede”, alle passeggiate, al nuoto, vennero distribuiti anche dei fucili. I dirigenti del ricrea- torio, forse memori di quegli episodi bellici avvenuti nel periodo risorgimentale, che avevano visti per protagonista a Brescia il popolo insorto contro il nemico austriaco, ritennero altamente educativo, e patriottico, insegnare ai giovani ad usare le armi

La colonizzazione del tempo libero del bambino nell’Italia umbertina era iniziata quindi con intenzioni sfacciatamente ideologiche. Si vedano le parole d’ispirazione massonica che definivano gli schieramenti in campo:

Là [negli oratori] s’insegna a pregare, qui s’insegna a vivere; là ci si dice: siete stati posti al mondo da Dio, ed a lui solo dovete pensare, qui si parla di famiglia, di società, di patria, ed all’orecchio ci suona la parola: avanti! Più avanti! […]. Un panetto, un’immagine è l’esca col- la quale s’attira nell’Oratorio il figlio del povero; [nel ricreatorio] gli utili esercizi, la scherma, il tiro a segno, la ginnastica, che fa uomo il fanciullo, che prepara alle battaglie della vita, che lo renderà un giorno forte e robusto a difesa, se occorre della patria sua (Monti 1882, 415; Pruneri 2006, 218-19).

Più o meno in quegli anni si svolgevano anche le dispute tra i municipi, in mol- ti casi rette da maggioranze laiche, e parrocchie in merito al suono delle campane. Con un equilibrismo che fu tipico di quell’epoca, a norma dell’art. 62 del RD n. 394, del 19 settembre 1899, si stabilì che spettava ai comuni «dettar norme per impedire l’abuso del suono delle campane», ma non era però permesso alle amministrazioni comunali fissare il regolamento che la parrocchia avrebbe dovuto stilare circa il loro uso («Il suono delle campane» 1910).

La norma, come quella più celebre che faceva dipendere orari e modalità di inse- gnamento della religione dalle singole maggioranze dei consigli comunali (Regola- mento Rava del 1908), cercando di accontentare due istanze difficilmente conciliabi- li: quelle della borghesia laica e quelle della comunità dei fedeli, finiva per creare più problemi di quanti ne risolvesse. Il regio decreto che non intendeva infatti vietare, ma, semmai, lenire gli eccessi acustici provenienti dai campanili, lasciava al clero la decisione circa quali fossero le occasioni che giustificavano l’uso delle campane e so- prattutto disciplinarne durata e modalità d’impiego. Una questione che atteneva alle abitudini locali e in ultima analisi, alle molte identità che, un’Italia ancora fortemen- te rurale, teneva vive. Le classi dirigenti si chiedevano: quanto tempo doveva decor- rere tra uno scocco di campana e un altro? In occasione di quali cerimonie religiose? Si poteva consentire il suono delle campane durante la notte in speciali circostanze? Il consiglio di Stato, in un parere espresso il 6 marzo 1908, sembrava incline a tolle- rare le consuetudini locali e, comunque, a lasciare un certo margine alle parrocchie.

L’episodio è significativo delle frizioni e dei compromessi non solo tra campanile e municipio, lungo un crinale che sarebbe perdurato fino alle famose dispute descrit- te da Guareschi e rese cinematograficamente memorabili dal binomio don Camillo e Peppone, ma anche del difficile equilibrio tra poteri locali e poteri nazionali nel controllo del tempo. Un tema che, come si è visto, fu fondamentale nella storia della scuola e che venne considerato rivelatore delle pretese centralistiche della nazione, soprattutto da chi, dopo la seconda guerra mondiale e la crisi della monarchia, au- spicava la creazione di una repubblica liberale e rispettosa delle autonomie.

Non è quindi casuale che Luigi Einaudi, nel corso della seduta del 29 aprile 1947, in assemblea costituente, mentre era in corso l’approvazione dell’art. 27 poi art. 33, dovendo giustificare il suo voto contrario, citasse il seguente esempio:

Ricordiamo il colloquio che il Falloux, Ministro dell’istruzione pubblica all’epoca di Na- poleone III, ebbe con uno straniero. Interrogato intorno all’insegnamento scolastico in Fran- cia, il Ministro tirò fuori l’orologio e disse: Sono le undici; in tutti i licei francesi, pubblici e privati, si commenta quel determinato passo di Tacito nella terza classe liceale (Einaudi 1947, 3375).

Evidentemente l’economista torinese non poteva condividere l’ossimoro di un ar- ticolo costituzionale che affermava la libertà dell’arte e della scienza e poi, nei com- mi successivi, fissava obblighi e prescriveva esami di Stato, a danno della scuola non statale. Il centralismo di Napoleone III, citato nell’esempio, era quindi emblematico degli effetti perversi che un controllo troppo stringente sul tempo poteva avere sulla libertà d’insegnamento.

Conclusione

Nel presente saggio si è voluta raccontare una storia dell’istruzione elementare lie- vemente diversa da quella che assume come riferimento il Titolo V della legge Casati e lo fa divenire un punto fermo per la storia della penetrazione dell’alfabeto in tutta la penisola. Per mostrare i possibili errori derivanti da questo approccio, si è scel- to di trattare il tema dei dispositivi temporali (calendario, orario di lezione) eviden- ziandone la particolarità. Anche l’arretramento del punto di partenza agli anni Venti dell’Ottocento e ad una regione considerata periferica come la Sardegna ha consen- tito di accentuare le “tipicità” delle politiche scolastiche prima dell’unità.

Per quanto patriottica, la scuola dell’Italia liberale dovette fare i conti con le esi- genze dei territori, come attestato dal particolare, non certo trascurabile, di una so- stanziale flessibilità nella determinazione di calendario e orario di inizio delle lezioni. Del resto, la scuola elementare affidata ai comuni era la riprova, in senso negativo, di un sostanziale disinteresse dello Stato ad assumere in toto il delicato compito dell’al- fabetizzazione degli italiani, in senso positivo della volontà del governo di rispettare l’orientamento delle comunità locali che dovevano avere a cuore l’educazione dei fi- gli e conquistare il credito delle famiglie con personale e proposte culturali vicini agli interessi popolari.

Sul controllo e sulla gestione del tempo, anche quello libero, in una nazione che aveva fatto proprie le conquiste della pedagogia positivistica e della psicologia spe- rimentale, si giocheranno, all’inizio del Novecento, battaglie ideologiche che inve- stiranno forze laiche e cattoliche orientate a “colonizzare” il tempo dell’infanzia con proposte sempre più strutturate e normate (si pensi alla diffusione dei giardini d’in- fanzia, della refezione scolastica, degli educatori e dei ricreatori).

È particolarmente suggestivo ripercorre la storia della scuola elementare adottan- do la categoria del tempo. Si scopre così che nel secolo che va dall’Unità d’Italia al boom economico si attuò una singolare forma di convergenza e semplificazione del quadro orario che corrisponde alla semplificazione delle tipologie di scuole elemen- tari. Infatti, nel corso di cento anni, all’incirca, scomparvero le distinzioni tra scuo- la urbana e rurale, scuola maschile e femminile, scuola elementare superiore e infe- riore, inevitabile conseguenza di un processo di comprensivizzazione dell’istruzione obbligatoria che, secondo i dettami della Costituzione, doveva portare ad un’unica scuola obbligatoria e gratuita fino ai 14 anni. È abbastanza sorprendente che negli anni dell’Italia liberale vi fosse invece, almeno in termini orari, una notevole vivacità di opzioni mentre, viceversa, negli anni della rinascita della vita democratica si andò verso una sostanziale omologazione. Se da un lato quest’ultima era una conquista anche delle rivendicazioni sindacali di un corpo, quello docente, divenuto classe e non più espressione di un parcellizzato ceto piccolo e piccolissimo borghese, frazio- nato in tante forme contrattuali strettamente dipendenti dalla amministrazioni locali, dall’altro l’uniformità degli orari comportò una maggiore difficoltà nel costruire una scuola realmente a misura delle esigenze locali. Una questione, quella di orari lunghi, elastici e adattabili ai bisogni famiglie, che sarebbe divenuta essenziale nelle propo- ste di una scuola a tempo pieno dei primi anni Settanta del Novecento, in un conte- sto molto diverso da quello dal quale siamo partiti.

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