“Battista Falchi (Sassari 15. VIII. 1904 – 13. III . 1988), un uomo e un cristiano esamplare” di Mons. Enea Selis

In occasione del trentesimo anniversario della morte dell’avv. e on. Battista Falchi, commendatore dell’Ordine Equestre Pontificio, intestatario di una via a Sassari, abbiamo pensato di dedicargli un certo spazio in accademiasarda.it. I motivi sono diversi. In primo luogo perché l’ho conosciuto e mi ha soccorso e voluto bene quand’ero in completa miseria, in secondo luogo per la devozione che gli ho visto praticare nei confronti della madre alla quale obbediva quasi fosse un ragazzo, quando gli ordinava di regalarmi una discreta somma di denaro ogni volta che andavo a visitarla, in terzo luogo perché ho avuto la fortuna di conoscerlo quando era ammalato e costretto a letto senza potersi muovere come avrebbe voluto. Vi è da aggiungere però che Battista Falchi non si è mai esibito, non ha fatto sfoggio né della sua cultura né degl’incarichi avuti, né delle importanti conoscenze che aveva e nemmeno si è mai lamentato delle sue prove come ben mette in chiara luce mons. Enea Selis in questo scritto del 1991 e che è finito nel volume a cura sua: Enea Selis, Chiesa Turritana del novecento. Avvenimenti e personaggi, a.v.e. , Roma 1991, pp. 165-171.
Chiunque desiderasse contribuire a questo ricordo di un chiaramontese, vissuto più nel nascondimento che nell’esibizione delle sue benemerenze sarà bene accolto. (A.T.)

Contributo di Mons. Enea Selis

Nel terzo anniversario della morte di Battista Falchi, sento il dovere di ricordarlo alla Chiesa Turritana, non solo perchè mi pare che dopo la sua dipartita nessuno nella diocesi abbia più scritto di lui, e si corre il rischio che lo avvolga l’oblio, ma perchè egli è stato certamente – anche se ciò può sorprendere – il personaggio più eminente del laicato cattolico della Chiesa Turritana del novecento.

            Sono sollecitato a ricordarlo non solo perchè non venga dimenticato, non solo perchè è stato un autentico maestro di vita, un testimone e una guida, ma anche perchè è un dovere ricordare le persone che ci hanno preceduto sulla via della Fede e della vita cristiana.

            Ce lo ricorda la Sacra Scrittura: “Ricordatevi di quelli che vi hanno guidato, e vi hanno annunziato la parola di Dio. Pensate come sono vissuti e come sono morti, ed imitate la loro Fede” (cf. Eb. 13,7).

            Che Battista Falchi sia stato un testimone, una guida, e che, col suo esempio, abbia annunziato la parola di Dio, nessuno di coloro che lo hanno veramente conosciuto, oserebbe metterlo in dubbio.

            Attingendo a quella che Giuseppe Capograssi chiama “provvista di memorie”, ( ed io purtroppo ne ho poca), e dando uno sguardo retrospettivo al laicato della Chiesa Turritana del novecento, mi pare di scorgere alcune figure, ( non intendo parlare di uomini politici), che sono emerse nella vita cattolica diocesana; da Giovanni Zirolia, agli inizi del secolo, ad Antonino Biddau, negli anni venti e, più vicini a noi e a molti di noi contemporanei, da Gildo Motroni a Luigi Desole, da Giovanni Lamberti a Remo Branca – per citare solo i più noti -, ma ritengo che nessuno di costoro abbia raggiunto le dimensioni di Battista Falchi.

            Ecco perchè bisogna ricordarlo e riproporlo ai cattolici turritani del nostro tempo.

            Io poi ho particolari motivi per ricordarlo, con affetto e gratitudine. Quando andai a Milano per fequentare l’Università Cattolica, fu lui che era allora giovane laureato in giurisprudenza nel prestigioso Studio dell’Avv. On. Clerici, ad accogliermi, a farmi ospitare nel pensionato universitario “Cardinal Ferrari”; fu lui che m’introdusse nella FUCI ambrosiana, immettendomi in un ambiente spirituale e culturale qualificato e per me nuovo; fu lui che mi fece conoscere ed amare quel singolare mondo culturale cattolico, che aveva allora come grandi maestri Mounier, Maritain, Sertillanges, sui cui testi si sono formate generazioni fucine.

            Tutto ciò fu per me una provvidenziale e grande avventura, cui penso sempre con nostalgia e gratitudine.

            Io devo a Battista Falchi – e non gli sarò mai sufficientemente grato – la mia (se così posso dire) formazione fucina.

            Era il periodo d’oro della FUCI che aveva allora Assistenti ecclesiastici che erano eccezionali maestri di spirito: Mons. Pini, Mons. Montini, Mons. Guano, Mons. Costa.

            La FUCI ambrosiana integrava magnificamente quanto mi veniva insegnato nell’Università Cattolica, e Battista Falchi era per me l’esempio tipico dell’uomo, del professionista, del cristiano e, posso dire con orgoglio, di aver imparato da lui a vivere da laico, onestamente e cristianamente. E non è cosa da poco.

La sua spiritualità

Avevo conosciuto da fucina e da Presidente nazionale della FUCI femminile, Anna Martino, e quando Battista Falchi la ebbe come sposa, vidi in questa unione una perfetta immagine del matrimonio cristiano.

            Erano due persone nelle quali traspariva l’onestà, la bontà, la gioia della donazione reciproca, la vita cristiana vissuta con semplicità e con gioia, con impegno ed autenticità.

            Ma la loro vita nuziale doveva purtroppo, essere molto breve.

            Dopo neanche tre anni di matrimonio, Anna morì nel 1943 quando, per causa della guerra, erano sfollati ad Usini.

            Appena appresi la notizia della morte, mi recai ad Usini con alcuni fucini e fucine, ed è stato in quel giorno cheio ho scoperto, con sorpresa, la grande spiritualità di Battista Falchi.

            Abbracciandomi mi disse:”Il Signore ha disposto così, chissà che cosa vuole da me”.

            Pur nel cocente dolore dell’evento che lo privava della giovane sposa, lasciandogli una figlia di due anni ed un figlio di pochi giorni, non un lamento, non un disappunto verso la Provvidenza, ma il proposito non solo di fare generosamente la volontà di Dio, ma di accettare tutto ciò che il Signore avrebbe voluto da lui. Che esempio ci ha lasciato!

            Battista metteva allora in pratica, eroicamente, ciò che aveva scritto qualche anno prima:”Nelle difficoltà dirò al Signore: Signore sia fatto ciò che tu vuoi; allorquando il mio cammino si farà più aspro, ed i contrattempi si succederanno ai contrattempi, pregherò: Signore che la tua grazia non mi abbandoni; si accresca in me lo spirito di pazienza… Posso dubitare delle promesse di Dio?” E ancora:”Se verrà l’ora del sacrificio, penserò al fine per cui fummo creati, e dirò: Signore se tu sei con me, che cosa è questo sacrificio?”.

            Battista rivelò a me in quella triste e dolorosa circostanza, che egli aveva ben capito la fecondità spirituale del sacrificio, e lo accettava da Dio come una grazia che purifica e ci rende “conformi a Cristo”.

Il sacrificio, accolto ed offerto, che è “stato di perfezione” nella vita cristiana, ha segnato, come vedremo, tutta la vita di Battista Falchi, ne ha affinato la spiritualità, e lo ha reso esempio vivente di autenticità ed eroica vita cristiana.

Impegno ecclesiale

 L’impegno ecclesiale di Battista Falchi risale agli anni in cui era ancora studente, quando a Pavia ricoprì nella Gioventù cattolica la carica di dirigente diocesano per alcuni anni.

Studente universitario fu Presidente del circolo universitario fucino “Severino Boezio”, allora uno dei più vivaci d’Italia.

Durante la sua presidenza (1926-27) fu pregato dal Presidente nazionale Igino Righetti e dall’Assistente nazionale Mons. G.B. Montini, di organizzare il convegno dei fucini dell’Italia nord-occidentale, che non si era potuto tenere a Bergamo, dove era stato indetto, e lo realizzò con dedizione e generosità.

Fu un convegno che diede nuovo slancio ed unità alla FUCI di Montini e Righetti, e fu un momento storico, perchè soltanto nell’autunno precedente, Mons. Montini e Righetti avevano avuto dalla Santa Sede i rispettivi incarichi “in una situazione di interno e di esterno disagio”. (P. Di Rovasenda).

Con la fondazione dei Laureati cattolici nel 1932, Battista fu Presidente diocesano, e dal 1938 al 1946 come Delegato regionale fece parte del Consiglio nazionale.

Essendosi nel frattempo dimesso, perchè impegnato a Roma, l’Avv. Nino Dettori Garau, Mons. Mazzotti chiamò a succedergli nella carica di Presidente Diocesano dell’Azione Cattolica Battista Falchi, che diede notevole impulso alla vita cattolica di tutta la diocesi.

Mons. Mazzotti aveva altissima stima di lui e lo consultava spesso anche su problemi strettamente ecclesiastici.

A sua volta Battista Falchi aveva per Mons. Mazzotti devozione ed ammirazione, e dopo la morte di lui, mi manifestò più volte il desiderio di scriverne la biografia.

La lunga malattia gli consentì solo di annotare alcuni appunti.

Sarebbe interessante studiare i rapporti tra Mons. Mazzotti e Battista Falchi – due personalità certamente fuori dal comune – e, se potrò, vorrei far conoscere questa pagina inedita della storia della Chiesa Turritana del nostra tempo.

Battista Falchi fu confermato Presidente diocesano dell’AC anche dal nuovo Arcivescovo, Mons. Paolo Carta, che ne condivise col predecessore la fiducia e la stima ed ebbe a definirlo – quando dette le dimissioni per motivi di salute – “una delle figure più nobili del laicato cattolico di Sardegna e d’Italia”.

Padre costituente

 Pur avendo dedicato, fin da studente, tutta la sua attività all’AC, alla FUCI, ai Laureati, ed alle attività ecclesiali in genere, non si sottrasse all’impegno politico, negli anni più cruciali della comunità italiana, quando incombeva il pericolo – non effimero – di perdere la democrazia, faticosamente riconquistata.

            Perciò nel 1946, sollecitato anche da Mons. Mazzotti, accettava di essere eletto Deputato per la Democrazia cristiana nell’Assemblea Costituente.

            A Montecitorio trovò antichi amici della FUCI, La Pira, Dossetti, Moro, Lazzati – per citare solo alcuni – e con essi lavorò con impegno, mettendo a profittò la sua preparazione giuridica, alla stesura della Carta Costituzionale, nella quale l’apporto dei cattolici fu notevole e talvolta determinante, come è stato ampiamente riconosciuto anche da eminenti esponenti del così detto “mondo laico”.

            Ma il Signore gli chiedeva che anche quella preziosa esperienza, che aveva iniziato con entusiasmo, avesse breve durata.

            Dopo pochi mesi la sua salute cominciò a declinare.

            Mosso dalla sua retta coscienza, e da un vivo senso dello Stato, non potendo più assumere le gravi responsabilità cui era stato chiamato, e che richiedevano assidua presenza a Roma per le frequenti votazioni degli articoli della Costituzione, diede telegraficamente, senza esitare, le dimissioni.

            Fu certamente una rinuncia sofferta, cui dovevano seguire ben altre sofferenze e ben più gravi prove.

            Gli amici cercarono di dissuaderlo, ma fu inesorabilmente fermo, dimostrando non comune distacco dagli onori e dai successi, e riaffermando così la sua adamantina coscienza di uomo, di cittadino e di cristiano.

            “Nella sua attività sociale – ha scritto di lui il Padre Enrico di Rovasenda o.p. – Battista Falchi professò sempre, con la sua purezza incontaminata del suo ideale sociale e politico, un’assoluta coerenza”.

            Del resto egli stesso aveva scritto: “Il compromesso è falsa pace; verità e giustizia dilatano il cuore e la mente dell’uomo, schiudono orizzonti di una profondità impensata”.

            Il suo impegno sociale fu sempre permeato di interiorità: “Non bisogna lasciarsi soverchiare dalle cose – aveva ancora scritto – anche e soprattutto nella scelta di esse; bisogna che si accordino alla nostra anima e le vengano incontro, per facilitare il suo respiro segreto”.

            Anche nell’attività sociale e politica, Battista Falchi non cercò mai se stesso: “Non bramo ricchezze – aveva affermato – e non miro nemmeno alla più modesta notorietà”.

            Il suo premio era il Signore: “Per ciò che riguarda il mio intimo, voglio, con l’aiuto del Signore – sono ancora sue parole – spingermi con tutte le mie forze più vicino a Dio, poichè in me la chiamata divina, già manifestatasi in tempi lontani, or non è molto si è fatta più chiara e disinta”.

            Ed aggiunge: “Per ciò che riguarda la mia attività esteriore, la professione, con l’aiuto del Signore, voglio essere sempre un sincero realizzatore del Regno di Cristo, in ogni parte della società”.

            Quanti cattolici del laicato hanno potuto scrivere e vivere impegni di tanto valore spirituale e sociale?

Apostolo della sofferenza

Ma il periodo più spiritualmente fecondo della sua vita, fu quello della lunghissima malattia – 17 anni – che lo colpì improvvisamente quando era nel vigore delle sue forze fisiche edella sua attività professionale.

            Nella notte tra il 17 ed il 18 luglio del 1970 fu colpito da una trombosi celebrale che lo imbolizzò nella parte sinistra.

            “Terminò così – scrive ancora P. Enrico di Rovasenda – la sua attività professionale ed iniziò un cammino di rinuncia e di sofferenza fisica. Accettò dal Signore il nuovo stato di vita con la fede di sempre, accresciuta dall’abbandono nella volontà divina”.

            Tuttavia conservò sempre la speranza di poter guarire, e ne diede conferma alla figlia Angelamaria quando le confessò: “Ho sempre avuto l’illusione di poter guarire”.

            Ma il Signore lo voleva ancora sulla croce. Infatti nel 1975 una nuova prova, causata dalla frattura del femore, con la conseguenza di essere quasi del tutto impedito nei suoi movimenti, lo costrinse all’inazione completa, ma sempre amorosamente sorretto dalla figlia e dai familiari.

            Nonostante questa avversa fortuna, dichiarava di essere stato un “uomo fortunato” – ed è uno dei sorprendenti aspetti della sua grandezza morale e spirituale – perchè aveva avuto “una sposa impareggiabile” e dei figli e dei nipoti a lui affezionatissimi.

            Gli ultimi anni li trascorse nel silenzio e nella speranza, alimentati da una più intensa preghiera, da una più intima comunione col Signore, da una nascosta sofferenza, accettata ed offerta a Dio nella rinuncia e nella certezza, datagli dalla Fede, che l’inazione non voluta e la sofferenza accettata ed offerta, contribuiscono più dell’azione alla crescita del regno di Dio tra gli uomini.

            Egli aveva la grazia ed il merito di poter ripetere con San Paolo: “Sono lieto delle sofferenze, che sopporto per voi, e completo nella mia carne ciò che manca ai patimenti di Cristo, a favore del Corpo che è la Chiesa” (Col. 1,24).

            Non si lamentava mai, ma diceva continuamente alla figlia Angelamaria: “ci vuole amore”. Dimostrava così di voler vivere la vita cristiana come “impegno di amore” (S. Agostino).

            L’amore verso Dio e gli uomini fu il lievito che gli diede forza, pazienza, coraggio, e potremmo dire eroismo, e lo fece progredire nella vita spirituale fino a “conformarsi a Cristo”.

            Santa Teresa del Bambino Gesù, ispirandosi forse al profeta Isaia: “canterò per il mio diletto il mio canto d’amore” (Is. 5,1), ha scritto, durante la sua ultima malattia, una poesia intitolata: “Voglio morir d’amor”, nella quale esprime in versi la preghiera ed il desiderio di voler andare, a ventiquattro anni, in Paradiso per vivere eternamente “una vita di amore”.

            Battista Falchi durante la sua lunghissima e dolorosa malattia, ripetendo spesso “ci vuole amore”, forse voleva esprimere la stessa preghiera e lo stesso desiderio.

            Ho sempre pensato che in paradiso avremo la lieta sorpresa di trovare persone che abbiamo conosciuto ed amato in questo mondo, che vivono in Dio con “un grado di gloria” superiore a quello di alcuni santi canonizzati dalla Chiesa.

            Penso che Battista Falchi sia uno di questi.

[1]Nel terzo anniversario della morte, 1991

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