Padre Giovanni Battista Manzella in missione a Tula, fine novembre 1920

Erminio Antonello e Roberto Lovera, (a cura di), La Carità in azione.Epistolario di Padre Giovanni Battista Manzella, CLV Edizioni Vincenziane, Roma 2014, pp. 780 s.p. padre-manzella-a-olbia

È Tula un villaggio posto ai piedi di una collina, lontano da Ozieri ventidue chilometri ed altrettanto da Chiaramonti. Estese e deserte pianure gli si stendono davanti, avendo alle spalle una lunga catena di colline. Il casolare più vicino è a due ore di caval- lo, cioè a circa 15 chilometri. Sua eccellenza monsignor Francesco Franco, vescovo di Ozieri, passa tutti i villaggi della sua diocesi (fra i quali è Tula) facendovi la visita pastorale e intanto in ogni villaggio vi fa otto o dieci giorni di missione. Vuol sempre almeno un missionario per compagno. Di solito è il sottoscritto. Il viaggio per Tula è facile. Due ore di ferrovia e due ore di carrozza siamo in Tula. Ma purtroppo per me non fu così. Alle 3,30 di sera salgo in treno armato fino ai denti: valigia, pac- co con grandi catechismi illustrati per ragazzi, altro rotolo di cro- cifissi da dispensare nelle case, ombrello e pastrano. Alle 5, 30 ec- comi giunto alla stazione di Fraigas, ove avrei trovato la carrozza postale. Scendo, mi guardo attorno. Nessuno! Chiedo della car- rozza. E’ già partita. Il treno era in ritardo, non ha aspettato. Dunque, dirà il lettore, è già sera, si ferma a dormire a Fraigas e partirà domani mattina. Non è così, no. Fraigas è titolo della sta- zione, come vi sono molte stazioni in Sardegna poste in mezzo alla campagna; per giungere al villaggio più vicino occorrono talvolta due o più ore di carrozza; come è per quella di Fraigas. Mi carico come un asino di tutto il mio bagaglio e lentamente mi metto in moto. Giunto alla prima cantoniera depongo il pacco dei catechi- smi e dei crocifissi. Il padrone di casa mi consiglia di salire ad Ozieri, comune più vicino (6 km), e il domani sera sarei andato a Tula. Io preferisco affrontare il viaggio. Era sera, la strada bella, tutta piana. Questione di fatica e niente più. Con la sola pesante valigia mi metto in cammino. Le stelle incominciavano ad apparire Lettera 261 – Lettera sotto forma di racconto di padre Manzella sulla Vita di apostola- to in Sardegna, pubblicato in Annali della Missione 28(1921)176-183. 1 La data approssimativa si ricava da indizi interni della lettera.
284 Padre Giovanni Battista Manzella in cielo, spesse nuvole solcavano l’aria, un vento freddo mi soffia- va in faccia. Eravamo agli ultimi di novembre. Tre giovani a poca distanza pareva facessero lo stesso cammino. Studiai il passo, li raggiunsi e profittai della loro compagnia. Erano tre coscritti che, per risparmiare poche lire di spesa, facevano quella via per recarsi oltre Tula altri ventidue km.! Il primo quarto di luna ci accompa- gnò per un’oretta di strada. Appena tramontato rimanemmo nella perfetta oscurità. Io però ero tranquillo, sapevo che quella via conduceva a Tula. Ed ero in errore. Ecco che incontriamo due uomini carichi di legna, apparsi come all’improvviso. Chiediamo quanto tempo occorreva per arrivare a Tula: “Duas oras sunt in Tula” – risposero. “Va bene, grazie”. “Andana cun Deus” – risposero. E ciascuno ripigliò la strada. Nessuno dei giovani mi rivolse la parola per tutta la via. Qualche volta parlai loro e rispo- sero. Avevano soggezione di me. Parlavano fra loro di molte cose. Intanto la notte si fa sempre più buia. Era tempo d’essere in Tula. Io comincio a dubitare del cammino. Le serie di monti neri che coprivano l’orizzonte erano scomparsi e sapevo che a pie’ di quei monti doveva esser Tula! Ecco una casa! Ad una voce diciamo: “Abbiamo sbagliato il cammino. Sulla via di Tula non vi sono ca- se”. Una dozzina di cani erano in guardia, e tutti abbaiarono. Era una cantoniera. Il padrone ci accoglie con amore. Qua e là per terra, si vedono viaggiatori e carrettieri coricati, avvolti nei loro stracci. Tutta la famiglia viene attorno. Do alcune immagini ai bambini. E chiediamo al padrone la via per Tula. “Poveretti, son fuori strada!”. Han fatto 4 km in più. Possono fermarsi qua a dormire che ormai è tardi e domani ripartiranno. Io penso bene, e dico ai tre compagni: se loro vogliono fermarsi, facciano come credano. Io vado da solo: questa notte voglio esser in Tula. Detto fatto eccoci di ritorno. Coi zolfanelli cerchiamo i solchi delle ruote per sapere se di là era passata la Postale. Dopo un’ora di strada troviamo la traversa per Tula. Siamo sul buono, e dopo due peno- sissime ore entriamo in Tula. Suonavano le 10 di notte. Nella casa del parroco stavano i preti col vescovo ad aspettarmi, ma non sa- pevo dove si trovasse questa abitazione: giro per le strade dò la voce ad un’ombra che vedo presso un muro e mi risponde; era un brav’uomo, che mi conduce dal parroco, ove sono accolto da tutti con allegrezza. Un cavallo mi era venuto incontro in quel frattem- po, ma non mi trovò stante gli otto chilometri di cammino che feci in più verso Chiaramonti. Se avessi suonato la cornetta che avevo in tasca, quel cavaliere mi avrebbe sentito. All’indomani si comincia la missione. Qui siamo con un vescovo e il missionario deve fare il portapacchi, secondo il detto di san Vincenzo. L’orario era così ordinato: alla mattina la meditazione,
Epistolario 285 alle 10 una predica alle madri, alle tre di sera il dialogo nel quale io faccio il discepolo e Monsignore il maestro. La sera tardi facevo una conferenza ai soli uomini i quali corrispondevano con nume- roso concorso. Oltre il lavoro che si faceva in chiesa, – quasi conti- nuo da non poter mai dire: “Ho finito i penitenti che mi circonda- vano” – vi era anche il lavoro alla spicciolata, ovvero la cosiddetta “pesca” perché si andava nelle case a prenderli uno per uno. 1. Una ragazza mi dice: signor Manzella, c’è mio padre che non si è confessato da quando si è sposato, venga a confessarlo; ma non dica che gliel’ho detto io. Bisogna dunque andarlo a prendere in qualche modo. La sera stessa vado a battere a quella porta. Era notte, erano tutti in casa! Avanti! Rispondono. Eccomi in mezzo alla numerosa famiglia. La figlia che m’invitò si ritira in un angolo a considerare come mi sarei introdotto e come sarebbe finita. Il padre m’invita a sedere e mi esibisce da bere. Grazie, rispondo. Son tutti confessati qui in casa? E poi berrò. “Manca il babbo”, dice una bambina. Come! Non vi siete confessato? Vi confessate adesso, poi beviamo insieme. Protestò il vecchio padre, dicendo che per adesso non si confessava e molte altre scuse. Io allora feci come uno che chiede scusa: Là! Là! Io son venuto con buona in- tenzione: se voi volete, bene; se no, pazienza; e intanto gli dò la mano e, avendogliela tenuta, lo alzai da sedere e, come un pecori- no, lo condussi nella camera vicina. Si confessò con gran cuore, poi non finiva di ringraziarmi della carità che gli avevo fatto. Tor- nato dov’era la famiglia, tutti erano contenti e, mentre mi acco- miatavo, mi ricolmavano di benedizioni. 2. Un signore mi manda a dire che si sarebbe confessato, ma che voleva disputare. Accompagnato da due uomini e dal parroco lo vado a vedere prima della predica delle otto. Era notte e lo tro- vo in compagnia di dieci o dodici uomini che allegramente beve- vano. In questi paesi non hanno osterie e i benestanti si danno la posta e vanno nelle case gli uni degli altri. In quel momento non mi parve il tempo giusto. Promisi andarvi dopo la predica, alle nove di sera, e tenni la parola. Accompagnato da due fidi compa- gni entro in casa. Quel signore mi condusse in una camera separa- ta e mi espose i suoi dubbi. Parve soddisfatto delle mie risposte e si confessò. 3. Intanto erano venute la dieci ed il paese era immerso nel sonno. Uscito di là i due compagni mi dissero: C’è qui un signore che va pigliato questa sera, altrimenti non si confessa più. Andia- mo, dico io. Andiamo, rispondono. E su e giù per quei viottoli. Eccoci alla casa. Si batte: nessuno risponde. Torniamo a battere. Silenzio come prima. Usiamo i calci nella porta. Ecco una voce dalla finestra: Chi c’è? Tre vagabondi, rispondo io. Un momento
286 Padre Giovanni Battista Manzella dopo la figlia di quel signore è alla porta . Ci apre. Chiediamo del padrone o, meglio, del padre. È già a letto rispose. Gli chieda se accetta la mia visita. La ragazza entra in casa e in famiglia tengono un po’ di consiglio segreto e approvano di fare la mia commissio- ne. Avvisano quel povero uomo che non si aspetta di certo a quell’ora la visita del missionario, ed egli risponde che entrassi pure. Sono introdotto in camera, mi chiede scusa se lo trovo a let- to. Parliamo più con comodo, rispondo io; e dopo i primi com- plimenti si confessa di buon grado. 4. Vedo molti uomini fuori della bottega di un falegname. Mi avvicino, do il buon giorno. Ricevo gentile risposta. Entro in bot- tega. Mi chiede il padrone: reverendo, cosa comanda? Una cassa da morto, risposi, tanto per dir qualcosa. Eccola pronta – ripigliò il falegname. Mi volto indietro e vedo veramente lì una cassa pronta. Peccato! Dissi tra me, però non mi sconcertai per quello … me la conservi che, come abbia di bisogno, la vengo a prendere. Intanto presi occasione da quella cassa e da quel morto per cui era prepa- rata per parlare della missione e dell’anima. E la sera vidi tutti quegli uomini venire a confessarsi. Giacchè parliamo di caccia, racconterò una buona quantità di altri episodi edificanti, la lettura dei quali potrà aprir la via ai giovani missionari per convertire le anime. Li racconterò senza ordine cronologico, ma a seconda che mi passano alla memoria. 5. Ero in missione a Santa Teresa Gallura. Villaggio incredulo per eccellenza, ove nessun uomo si confessa e dove non sono sol- tanto indifferenti ma anche nemici. Vi feci tre missioni e vi feci un po’ di bene. Una giovinotta sui 25 anni mi dice: mio padre, dopo sposato, non si è mai confessato e non viene manco alle prediche. Non so come fare! Ci penso io, risposi, che mestiere fa? – Il calzo- laio -. Dove sta? – Via tale. – Va bene, risposi. La giovane rimase un po’ confusa e mi disse: Come fa? Non dica che gliel’ho detto io! Mi ammazza, mio padre. – Sta tranquilla. Ti ho detto che ci penso io. Appena ebbi tempo, eccomi all’opera. Scucisco col col- tello una scarpa. Esco di casa, passo per quella via, guardo nella finestra e vedo il calzolaio. Calzolaio, voi? – Sì, reverendo. Entro in bottega, mi siedo senz’essere invitato e gli dico: “Faccia grazia cu- cirmi questa scarpa?”, “Subito” – rispose il buon uomo. Lascia il lavoro che aveva in mano e prende il mio. Intanto lui cuciva io parlavo, dicevo che ero un missionario, che alla sera veniva tanta gente, che la vita finisce, etc. Finita l’operazione mi metto la scar- pa, lo pago, eravamo già amici. Si era alzato e mi fece veder la ca- sa. Anche le figlie mi aiutavano a fomentare l’amicizia. Mi condus- se nella camera superiore per farmi vedere un quadro. Io feci se- gno alla famiglia di lasciarmi salir solo col babbo. Giunto nella
Epistolario 287 camera e visto il quadro, confessai il pover’uomo, che non gli pa- reva vero di mettersi in grazia di Dio con tanta facilità. La mattina dopo fece la santa Comunione, col contento della moglie e delle figliuole che non si aspettavano grazia simile. Intanto Gesù aveva acquistato un’anima in più. 6. Pesca nella missione di Pattada. Villaggio di circa seimila anime. Ero in missione con monsignor Franco, vescovo di Ozieri.2 Della missione ne parleremo altrove. Ora soltanto alcuni episodi. In quella missione io avevo in libertà poche ore della giornata, tol- te anche quelle delle confessioni di chiesa. Una mattina finita la Messa e fatta la predica al popolo, scendo per entrare in confes- sionale. Ed ecco una donna mi ferma: “Signor Manzella, venga a confessare mio marito”. “È malato?”. “No, non è malato, è ancora a letto e se non lo piglia adesso mi sfugge”. “E se non si confes- sa?”, chiesi io. “Venga, venga” – rispose. La povera donna non capiva ragione, andiamo! Usciamo di chiesa, era ancor buio pesto. Era nuvolo e minacciava pioggia. Su di qui, giù di là, giungiamo alla casa. Entriamo, e subito, salita una scaletta, siamo al letto dell’uomo che teme i preti. Sembrò un po’ sorpreso della mia pre- senza a quell’ora: era naturale. Ma io mi introdussi con una face- zia: Come? Voi ancora a letto a quest’ora? Poltrone siete! E mi metto a sedere vicino a letto. Questa mia posa lo mise in sospetto. Mi guarda fisso … “per confessarmi?” – “Proprio per confessarvi. Voi siete un uomo di lavoro, e se venite in chiesa vi tocca aspettare a lungo, invece così siete subito spiccio. Tanto è una cosa che do- vete fare, siete cristiano anche voi!”. “Beru est! Vero è”, rispose. Si pose a sedere sul letto, fece il suo bel segno di croce e si confessò, e poi mi ringraziò della tanta bontà. Anche quello è preso. Alle otto di sera avevo la predica agli uomini, e solo alle sei restavo in libertà dalla mia predica come dialogo, avevo dunque solo due ore. 7. Ecco come le occupavo. Una giovane mi faceva da segretaria e andavamo in giro. Una donna malata aveva resistito alla insi- stenza di amici e parenti che la volevano far confessare. Vado colla mia segretaria. Entro senza chiedere permesso nella camera della malata, e mi avvicino al letto: “Come sta? Tanto tempo che è ma- lata? Ricevette qualche volta Gesù nella sua malattia?” – “Quando mi alzo!” – rispose seccamente. “Vado ai suoi piedi non voglio che Gesù venga da me”. “E’ cosa buona ciò che lei pensa; ma deve sapere che Gesù è una persona educata e vorrebbe restituirle la visita, perché non dare questo piacere a Gesù? Faccia il segno di croce che la confes- 2 Francesco Maria Franco, vescovo di Ozieri dal 1919 al 1933.
288 Padre Giovanni Battista Manzella so subito io”. Si fece con devozione il segno di croce e incominciò la sua confessione, e al domani si comunicò. 8. Usciti di là, la mia segretaria mi dice: “Qui c’è un signore, è giovane, è molto ammalato, non guarisce, e muore così, non si è mai confessato. Temono dirglielo per non spaventarlo, venga. Ma non dica che l’ho condotto io”. Andiamo a quella porta. Un colpo di battente e la segretaria scompare, mentre appare alla finestra una vecchia signora che chiede: “Chi c’è?” – “Il missionario Man- zella!”. Viene la serva, apre, salgo le scale, entro senz’altro nella camera del malato. Chiedo: “C’è un malato qui?”. Eccolo, mi si risponde e non potevano dir di no. Il giovane era tutto coperto e dormiva. Mi avvicino, gli scopro la faccia, lo chiamo. “Ehi! Socia- lista, dormi ancora? Svegliati!”. Il povero malato si sveglia, mi guarda, sorride e mi chiede: “Chi è lei?” – “Manzella missionario” – “Chi le ha detto che sono ammalato?” – “So tutto, io. Come sta?” – “Bene” risponde; intanto ripetuti colpi di tosse mi assicu- ravano del vero. Poi gli chiedo: “Non fai conto di confessarti e far la missione come tutti i galantuomini?” – “Signore, subito, mi aiuti lei”. Ben volentieri, risposi e fatto ritirare i parenti lo confessai. Poi volle confessarsi anche la mamma, poi un fratello di 30 anni e un altro di 18. Uscivo da quella casa e li lasciavo tutti in grazia di Dio. 9. Esco da quella casa accompagnato dalle benedizioni di tutti, e vedo dirimpetto due donne alla finestra. Chiedo loro: “Malaidos inoghe? Vi sono malati qui?”. Con un cenno del capo risposero che no. Ma una donna del vicinato interruppe e disse: “Hanno il babbo infermo e non vuol preti”. “Vediamolo”, risposi. E le due donne che erano alla finestra (eran le figlie) scendono e mi intro- ducono in una cameretta a pian terreno, ove su un letticciuolo gemeva da parecchi anni un povero vecchio. Mi avvicino al suo letto, mi siedo, mi trovo solo con lui. “Ebbene caro uomo, da quanto tempo siete ammalato? Come state? Il medico che dice? Volete fare la santa missione? Vi volete confessare?” – Il povero vecchio rispondeva sempre a tono; ma all’ultima mia domanda cambiò intonazione. Tranquillo, ma serio, parlò più coi gesti che le parole. Disse press’a poco così: “Reverendo, io la stimo e la rin- grazio della carità; ma io coi preti non voglio avere a che fare. Deo cum Deus, Dio con Dio”. Io allora soggiunsi: “È Dio che mi ha mandato”. “Reverendo, soggiunse l’ammalato, Deo cum Deus”. E non vi fu verso di fargliela capire. Allora cambiai discorso, e gli chiesi se era stato soldato. Che campagne aveva fatte, e simili cose che interessano i poveri vecchi. Si capisce che man mano che con- tava i suoi fatti venivano anche i peccati. A un certo punto gli di- co: “Signore, i suoi peccati son quasi confessati. Ci vuol poco a
Epistolario 289 ricevere l’assoluzione”. Egli rispose: “Aspetti”. Si fa un bel segno di croce, si confessa e prende a narrare i suoi peccati. Ricevé peni- tenza e assoluzione. Poi si mise a piangere di consolazione e con- tinuava ad esclamare: “Deus che l’ha mandadu, Deus che l’ha man- dadu”. Vennero le figlie e piansero assieme al babbo. Era una sce- na commovente. Dio ha la sua ora di misericordia. 10. Alla mattina seguente esce la santa Comunione per tutti i malati confessati il giorno prima. Ed io uscii a fare da Giovanni Battista a preparare altri malati alla Comunione. Son condotto da un vecchio ottantenne che aveva una figlia sui quaranta anni, la quale aveva a sua volta una figlia sui 18 anni. Quella mattina la figlia e la nipote vennero in chiesa alla predi- ca. Lasciarono il vecchio a letto col lume accesso. Nella loro as- senza il lume si spense e il vecchio restato all’oscuro si mise a be- stemmiare e maledire quanto c’è in cielo e in terra e nell’inferno. Giunta a casa la figlia colla nipote, le ricevette a bestemmie, e col coltello in mano le voleva ammazzare. La guerra durava da parecchio tempo, quando giungo io colla mia segretaria. Trovo le due donne che piangono e il vecchio furibondo. Mi raccontano il ridicolo torto ricevuto. Mi avvicino al letto; ma non era il tempo buono. Da quella bocca non uscivano che spropositi. “Andiamo” dissi alla segretaria, visitiamo qualche altro malato, poi torniamo. Così si fece. Tornati m’incontro col medico sulla porta di casa. “Signor dot- tore – gli dissi – o fa presto lei o faccio presto io”. “Stia tranquillo, disse il medico, mi spiccio subito”. Infatti dopo la figlia e la nipote che ancora piangevano, e mi pregavano di non andare perché mi avrebbe ricevuto male. Se mi darà bastonate farò la ricevuta e an- dai avanti. Trovai il malato molto conturbato. Gli consegnai la medaglia dell’Immacolata perché la B. V. mi aprisse la via. Infatti dopo un dolce, ma severo rimprovero, lo indussi a con- fessarsi e a ricevere la mattina stessa Gesù sacramentato. Si con- fessò, con segni di speciale dolore. Volle chiamassi la figlia e la nipote. Si chiesero perdono a vi- cenda. Pose loro la mano sul capo, e se un momento prima pian- gevano tutti di rabbia e dolore, ora piangevano di consolazione, in modo che non sapevano manco parlare per ringraziarmi. Gesù autore della pace si vede che mandò i suoi angeli a sedare le ire, mandar via satana e preparare il regno dell’amore. E’ Dio che opera in tutte le cose, nos autem servi inutiles su- mus! G.B.Manzella, p. d. M.

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