Protagoniste cattoliche di azione sociale in Sardegna tra otto e novecento di Angelino Tedde

Angelino Tedde

Angelino Tedde

Angelino Tedde, Protagoniste cattoliche di azione sociale in Sardegna tra Ottocento e Novecvento, Il Torchietto, Ozieri 1998 pp. 203

(libro postato digitalmente, si raccomanda la citazione qualora si utilkizzassero parti o l’intero testo)

INDICE

 Introduzione di Angelino Tedde

 SEZIONE I – STUDI E RICERCHE

 La tradizione storiografica medievale tra sante e principesse devote

 Restituta (IV sec.)
Giusta (V sec.)
Georgia De Carvia (XI sec.
Giusta di Torres (XI sec.)
Marcusa di Torres (XII sec.)
Massimilla (XII sec.)
Maria De Thori (XIII sec.)
Giovanna di Gallura (XIII-XIV sec.)

Principesse nobildonne e monache

Anna Fara
Caterina Flos
Margherita Tavera
Lucia Zatrillas
Margherita di Castelvì
Maria Rosalia Merlo
Cristina Maria di Savoia

Aristocratiche e alto borghesi Dame di Carità

Genoveffa di Santa Croce (XIX sec.)
Luigia Ledà Boyl (XIX sec.)
Luigia Romano (XIX sec.)
Natalia Pirisi-Siotto (1865-1911)
Gerolama Mannu Ledà nota Momina (1845-1834)
Ignazia Dettori(1833-1944)
Eugenia Solinas Serra(1861-1940)
Maria Pittalis Zirolia (1871- 1952)

Figlie della Carità: le vie per chiostro

Maria Calcagno (1839-1916)
Giuseppina Nicoli (1863-1924)
Suor Fior( 1867-1949)
Anastasia Biassoni (1870-1951)
Adele Aresi (1871-1955)
Maria Elisa Gotteland (1873-1940)
Emma Brambilla (1904-1976)
Suor Sodano (1880-
Redenta Dorigo (1882-1964)
Giuseppina Bava (1879-1949)
Angela Lacelli (1902-1939)
Giuseppina Caldi
Annetta Manca

Contemplative in azione: confondatrici e fondatrici di Congregazioni

Angela Marongiu (1854-1936)
Giovanna Maria Ghisaura (1864-1943)
Rita Orrù (1894-1985)
Pietrina Brigaglia(1900-1985)
Paola Muzzeddu (1913-1971)
Eulalia Palmas (1905,vivente)

 Sezione II- Documenti

L’attività di Donna Gerolama (nota Momina) Manno Dettori nell’Archivio del “Rifugio Gesù Bambino” di Sassari di Lucia Tortu e Angelino Tedde

Atti e Statuti

Regesti dei verbali del Consiglio di Amministrazione (1905 – 1920)
Regesti delle lettere (1905-1927)
Regesti dei lasciti (1907-1964)
Introduzione

A partire dalla metà dell’Ottocento e per quasi tutto il Novecento, vere e proprie protagoniste della creazione e direzione delle opere assistenziali ed educative in tutto il mondo cattolico occidentale furono le donne. In Italia quest’attività “sociale” femminile risulta particolarmenter vivace.

I quattro volumi su La donna nella Beneficenza in Italia di Bruno Roggero e Virginia Sanvito, pubblicati a Torino nel 1913, documentano l’impegno che esse svolsero tra Otto e Novecento nel nostro paese.

La seconda parte del quarto volume tratta della Sicilia e della Sardegna, mentre alla prima vengono dedicate 149 pagine alla seconda soltanto 26. Ciò non sminuisce naturalmente il richiamo alla donna sarda nella beneficenza.

Collaboratori della breve antologia sulla donna e la beneficenza nell’isola risultano l’on. Chironi, il cav. Vittorio Prunas Tola, il prof. Giuseppe Mocci, l’avv. Giorgio Bardanzellu, il prof. Pietro Meloni Satta, Laura Mossi Rossi, il rag. Mario Mocci, l’avv. Francesco cabras, il dtt. Pietro Cadoni, l’avv. Antonio Lissia, Nella Finzi, Gemma Della Carlina, il cav. avv. Antonio Ballero, Sebastiano Satta, Palmira Fanti Melesi, l’ing. Carlo Montù, il Barone Manno, Grazia Deledda.

 Anche in Sardegna le donne sia laiche che religiose seppero dirigere e sviluppare istituzioni assistenziali, educative e formative tali da creare una vera e propria rete di strutture atte a rispondere ai bisogni che sorgevano fra gli strati sociali a maggior disagio e che interessarono un pò tutte le fasce di età.

Opportunamente la scuola di L. Pazzaglia dell’Università cattolica del “Sacro Cuore” di Milano” ha prodotto una serie di ricerche che dimostrano l’impegno della Chiesa e dei cattolici nel corso dell’Otto e del Novecento per la soluzione delle problematiche educative, mentre F. Traniello e G. Campanini col Dizionario storico del movimento cattolico in Italia hanno dato un valido contributo alla conoscenza delle figure di spicco dell’impegno sociale dei cattolici.

Da anni, grazie anche all’impegno di alcune giovani studiose, nonché alle sollecitazioni che ci provengono dall’Associazione Alcide De Gasperi di Sassari, stiamo cercando di tracciare un quadro d’insieme sull’attività svolta a favore degli strati sociali più emarginati di qualunque età attraverso le istituzioni assistenziali educative, degli adulti portatori di handicap, degli anziani in Sardegna da parte di vere e proprie protagoniste cattoliche sia laiche che religiose.

Di queste donne spesso si ignorano i tratti e le attività svolte, mancando qualsiasi studio o profilo e finiscono per essere relegate nell’anonimato.

Questo volume ha appunto lo scopo di riportare in luce queste anonime protagoniste, nel tentativo di tracciare un primo abbozzo di un futuro dizionario biografico delle che operarono nel sociale.

Ci è parso utile partire dalla tradizione storiografica sarda che non tace del tutto almeno su alcune donne illustri, alcune delle quali per la loro santità, altre per aver dedicato le loro risorse economiche e il loro impegno alle opere pie.

Si passano così in rassegna un certo numero di ritratti femminili, alcuni forse un pò stereotipati altri più mossi così come la pubblicistica ce li ha tramandati. Sante, regine, principesse devote, aristocratiche, donne dell’alta borghesia oppure “contemplative in azione”: donne cioè che seppero coniugare una profonda pratica di fede con un’instancabile iniziativa a favore di ogni genere di emarginati.

Il lavoro di ricerca comporta indubbiamente particolari difficoltà di metodo data la scarsità delle fonti disponibili e data il silenzioso lavoro delle protagoniste sulle quali però con l’affinamento del metodo euristico si potrà dire di più man mano che si approfondirà il lavoro di ricerca che è appena agli inizi.

La tradizione storiografica medievale tra sante e principesse.

“La storiografia sulle donne, come “genere”, non è nuova. Per certi versi risale a Plutarco, il quale compose alcune brevi biografie di donne virtuose, con l’intento di dimostrare che il sesso femminile avrebbe potuto e dovuto trarre profitto dall’istruzione. Riprese da Boccaccio nel XIV secolo, le raccolte di “Donne illustri” continuarono ininterrottamente come su una linea ideale (…). In verità, ancor oggi una certa parte della storiografia sulle donne, segue la tradizione delle “donne illustri”b.

Ora, per quanto l’insieme di questa letteratura fosse utile ed infondesse fiducia ha i suoi limiti. Infatti, pur avendo posto le fondamenta per una documentazione sull’attività femminile nel passato, tuttavia l’ha astratta dal suo contesto storico; trattando le donne isolatamente dagli uomini, di solito ci dice poco sul significato dei ruoli sessuali nella vita sociale e nei periodi di mutamento. Ed essendo scritto con scopi particolari con un pubblico particolare ha scarso peso su tutto il complesso degli scritti storici o sulla periodizzazione.[1]

Con la “nuova storia” tuttavia la storiografia sulle donne ha cominciato ad arricchirsi non solo di biografie esemplari di donne come possono essere quelle di sante, guerriere, letterate e politiche, (che pure facevano parte della storia tradizionale), ma anche di altre figure femminili che hanno dato una risposta ai bisogni degli strati sociali più emarginati svolgendo un ruolo sociale complementare rispetto al ruolo degli uomini, ma non per questo meno importante ai fini della crescita di una società civile.

D’altra parte la recente produzione storiografica su “donna e “cultura medievale” è talmente vasta che scoraggerebbe per la mole di scritti qualunque tentativo di sintesi[2].

“Della condizione relativamente felice della donna nella società sarda del medioevo era dovuto in primo luogo al regime matrimoniale e successorio il quale, al contrario di quello continentale, tendeva all’eguaglianza fra i sessi. Il regime matrimoniale, codificato negli Statuti sassaresi(1316) e nella Carta de logu(1392) riconosceva sia il sistema dotale sia il sistema della comunione dei beni[3]“. Particolarmente in quest’ultimo regime il diritto successorio garantiva alla donna la parità fra i due sessi soprattutto nel diritto successorio.

Vi è da osservare tuttavia che “una principessa sarda, nell’assenza di un principe, non poteva succedere al trono in nome proprio. Il titolo di regina, o di giudicasse, accordato a personaggi famosi come Benedetta di Cagliari, Adelasia di Torres o l’eroina nazionale, Eleonora d’ Arborea, era puramente onorifico; queste avevano soltanto di diritto di trasmettere, col consenso della corte regia(la corona de logu) la sovranità del padre al marito o al figlio[4].

Ben diversa era la condizione delle serve che non doveva differire di molto da quella dei servi delle serve il cui lavoro e la cui persona era valutata di un terzo o di metà inferiore rispetto ai primi.

Al di là di queste realtà che vanno costantemente studiate e approfondite la storia sarda, quella tradizionale e quella “nuova”, registra nelle varie epoche illustri figure di donne, si pensi tra le tante a quelle ricordate dal calendario liturgico sardo come le sante Giusta Giustina ed Enedina che hanno dato testimonianza di sé con il martirio e i cui nomi vengono tuttora imposti alle fanciulle delle zone più “interne” dell’isola; si pensi a Eleonora d’Arborea, abile donna di Stato che grandeggia nella storia sarda del tardo medioevo e che fà parte dell’identità nazionale sarda. Ne’ vanno dimenticate le varie abadesse e prioresse che emergono con tratti essenziali, ma forti soprattutto nel Condaghe di San Pietro di Silki tra le quali, priori ed episcopi compresi, ” si impone la personalità onnipresente e dinamica di Massimilla, abadessa[5] “.

Eminenti figure di donne, nonostante la preponderanza data agli uomini, non sfuggirono all’opera storica di P. Tola che nel suo Dizionario biografico di uomini illustri di Sardegna riserva alle donne 44 voci su 858, l’8 per cento anche se di 19 soltanto compila la “voce” compiutamente limitandosi per le altre 25, con due o tre righe, alla sola menzione con l’indicazione della famiglia di appartenenza[6]. Certamente si tratta di sante, regine, principesse, aristocratiche di “toga” o di “censo”, ma comunque appartenenti al sesso femminile.

Per quanto riguarda le “sante” donne sarde, quasi tutte del V-VI secolo P. Tola menziona   Santa Giusta dalla quale prende nome l’omonimo centro abitato vicino ad Oristano e numerose chiese sparse nel territorio sardo.

Due esemplari figure di donne, giovinetta l’una e matura l’altra che i panegiristi di tutti i tempi hanno proposto alle fanciulle e alle donne sarde come modelli esemplari di donne cristiane.

Santa Restituta ( IV sec. d. C.)

“madre del famoso Sant’Eusebio vescovo di Vercelli, martirizzata in Cagliari nei primi anni del secolo IV della Chiesa sotto la persecuzione di Diocleziano e Massimiliano. Sappiamo che dopo la morte di suo marito, chiaro, per nobiltà di sangue e zelante propugnatore del cristianesimo, se ne andò desolata a Roma, seco conducendo l’orfano figliolo, il quale raccomandò alla pietà del papa Eusebio che poi lo rigenerò nelle acque del battesimo, imponendogli il suo medesimo nome. (…) Restituta tornò a Cagliari; dove menò alcun tempo giorni tranquilli e solitarii, consacrandoli interamente alle opere di pietà e di religione; ma accusata come cristiana al preside imperiale, dopo molti crudeli martoriamenti, spirò l’anima gloriosa nella confessione della fede[7].”

Santa Giusta (V sec. )

“Sofferse il martirio colle altre sante vergini Giustina ed Enedina sotto la persecuzione di Adriano. (…) abbracciò la legge del Vangelo colle suddette sue compagne, e spese coraggiosamente la vita per testimoniare la verità della religione cristiana[8]“.

La tradizione agiografica aggiunge che dodicenne non volle andare sposa ad un patrizio pagano per restare fedele a Cristo.

La tradizione popolare delle molte chiese in cui è venerata ha arricchito con i gosos l’eroicità delle sue virtù “specializzandola” in carismi a seconda dei bisogni propri dei luoghi in cui è ubicato il santuario e a seconda delle necessità dei tempi[9].

 Anche nell’XI secolo non mancano ritratti di donne che ben si collocano accanto a queste due sante per la fedeltà a Cristo e alla Chiesa, per le opere di religione e di pietà, specialmente tra le tante donne illustri che popolano le famiglie giudicali e che perpetuarono il modello esemplare della donna cristiana.

Di questo possiamo cogliere i tratti Giorgia de Carvia, Giusta di Torres, Marcusa di Torres, Maria e Susanna de Thori, Giovanna di Gallura, l’abadessa Massimilla.

Georgia de Carvia ( XI sec.)

“Fu donna di Costantino de Carvia, magnate turritano del secolo undecimo, il quale apparteneva alla famiglia regnante dei Laccon. Costei in unione col suo marito fece chiara la sua pietà con varie generose donazioni fatte al Monistero di Monte Cassino [10]

Giusta di Torres ( XI sec.)

” illustre principessa sarda del secolo XI. Regnò in Torres insieme con suo marito Mariano I dal 1075 al 1112. Fu dedita alle opere di pietà, e fece molte cospicue donazioni al Monistero di Monte Cassino, le quali nel 1147 furono confermate da Gonnario II regolo turritano[11]

Marcusa di Torres ( XII sec.)

“regina dell’antica Torres, insieme con suo marito Mariano I nel principio del secolo XII celebrata assai per la sua pietà e per le opere generose. Appartenne all’illustre famiglia dei Gunale, e fu moglie di Costantino I regolo della provincia turritana. Intervenne con suo marito a tutti gli atti di donazione da lui fatti ai monaci di Camaldoli, e specialmente alla fondazione della SS. Trinità di Saccargia, la quale fu consacrata con solenne pompa nel 1116 ed ebbe annesso un Monistero che fu dei più rinomati di Sardegna. (…) Dopo la morte di suo marito, accaduta nel 1127, abbandonata la reggia (…) fondò in Messina uno spedale di pellegrini votato a S. Giovanni nel quale poi terminò i suoi giorni consumati santamente nella solitudine religiosa[12]“.

 Massimilla abadessa del monastero di San Pietro di Silki

( XII sec.)

“Della quale in mancanza di dati anagrafici, oltre a non poter stabilire a quale famiglia di maiorales appartenesse (…) sappiamo soltanto che amministrò per un periodo lungo ma imprecisabile il grande patrimonio di San Pietro di Silki (…). A questa donna dalla personalità volitiva e intraprendente dobbiamo la creazione dei presupposti oggettivi perché il CSPS arrivasse fino a noi (…).Anche perché è a donna come lei che si deve quella peculiarità del Medio Evo sardo che consiste nella condizione e nel ruolo della donna, in virtù dei quali esso parla al “femminile” e non solo al maschile come ha acutamente osservato per il Medio evo continentale il grande medievista francese GeorgeDubys . L’abadessa Massimilla, resse le sorti del monastero di san Pietro per non meno di un trentennio, se non per un quarantennio e forse più. Con mano sicura e inflessibile, senza dubbio, da geloso difensore degli interessi del suo monastero-unico monastero femminile ad assumere un ruolo di prim’ordine nella Sardegna giudicale- come si ricava agevolmente dal Condaghe che in qualche caso ce ne rivela anche le reazioni istintuali, tipiche di una natura volitiva ma anche umbratile ed emotiva, sensibile alle manifestazioni di rispetto e aperta anche ai moti della generosità.

Se di lei come delle altre abadesse che ressero il monastero di S. Pietro e gli altri che gravitarono attorno ad essa- Theodora, Prethiosa, Agnesa, Maria, Benvenuta, Jena, Ispethiosa, Susanna- conosciamo solo il nome, é probabilmente a causa della condizione monacale, che doveva comportare l’assunzione di un nuovo nome, come segno di rinuncia ed abbandono del mondo[13]“.

Maria De Thori ( XIII sec.)

” Pia e doviziosa matrona(…) la quale nei primi anni del secolo XIII fece chiaro il suo nome colla fondazione di due monisteri dell’ordine di Camaldoli, e colle liberalità usate ai monaci che doveano venire ad abitarli. Costei (…) rimase vedova negli anni suoi giovanili, dedicossi interamente alle opere di pietà[14]“.

   Completa meglio il quadro G. Zanetti:

” Già si sapeva che nel primo decennio del secolo XIII, il 10 luglio 1205 donna Maria De Thori, illustre matrona sarda, sposa del nobile turritano Pietro de’ Maroniu e zia di Comita Giudice di Torres, col consenso del sovrano suo nipote e della moglie di lui Agnese regina, aveva conferito in dono due chiese di suo diritto, l’una intitolata a S. Maria di Orrea Picchina ( o Pithinna), l’altra di S. Giusta, coi servi ed ancelle, case, selve, terre ed animali, e alcune campagne nell’agro di Nulvi all’eremo di Camaldoli e per esso al priore maggiore Martino, concedendo a lui ed ai suoi successori la libera elezione dei rettori delle chiese donate. [15]

Giovanna di Gallura ( XIII-XIV sec.)

 “Famosa ed infelice principessa di Gallura, la quale visse nello spirare del XIII e nei primi del XIV. Nacque da Nino Visconti e da Beatrice d’Este(…). Donna di bella virtù e d’innocenti costumi (…) e tale la volle dipingere Dante nei suoi versi immortali, allorché Nino padre di lei disse al poeta:

” Quando sarai di là dalle larghe onde

Dì a Giovanna mia che per me chiami

Là, dove agli innocenti si risponde[16]“.

Principesse nobildonne e monache.

Se J. Day ha cercato di tracciare un quadro della condizione femminile nella Sardegna medievale, G. Olla Repetto ci ha offerto alcuni interessanti tratti delle donne cagliaritane delle varie classi sociali tra Quattrocento e Seicento.

In primo luogo la studiosa affronta la condizione delle nobili ed alto borghesi per le quali ” la vita acquistava un senso ed un significato con il matrimonio, ad eccezione di una minoranza che abbracciava lo stato monacale[17]“.

“I matrimoni venivano combinati tra le famiglie degli sposi e nell’ambito di un gruppo ristretto in cui circolavano sempre gli stessi nomi: Aragall, Aymerich, Asquer, Carroz, De Besora, Derill, Moncada, (…). La possibilità di non sposarsi per questa donna era puramente teorica, perché aveva molto da offrire; in genere, una dote consistente, da un parentado che contava.[18]

“La donna d’alto ceto era istruita: sapeva leggere, scrivere e far di conto (…). Aveva libri propri, distinti da quelli del marito.

Ma la sua educazione era principalmente rivolta al governo della famiglia e della casa, che avrebbe assunto col matrimonio, divenendone domina nel senso pieno del termine.”

Non era raro che rimaste vedove, riuscissero a risanare le gestioni dissestate dei loro uomini.[19]

“Una donna di questo ceto poteva permettersi parecchi lussi e comodità: frequenti erano le note che mercanti di stoffe, sarti e mobilieri le presentavano e che saldava per lo più personalmente.

Vestiva bene e probabilmente usava prodotti di bellezza; aveva molti gioielli in oro, argento, perle e pietre preziose e semipreziose, orologi, spesso regalati dal marito in vita, o lasciatile per testamento.

Era una donna che teneva in conto la religione. Aveva spesso un proprio confessore, cui usava fare lasciti testamentari in vesti, denaro ed immobili, possedeva rosari, immagini sacre, libri di devozione e, se i mezzi glielo consentivano, aveva una cappella privata che adornava con retabli e quadri a soggetto religioso.

La preoccupava la sorte del suo corpo e della sua anima, dopo la sua morte, e ad entrambi dedicava molte disposizioni del suo testamento.

I lasciti erano destinati a definire il luogo della sua sepoltura ed ad alleggerire la sua anima dal peso dei peccati, con donazioni a chiese e a monasteri e con celebrazioni di tridui e novenari a tutti i santi (…).

Da viva faceva qualche opera di beneficenza, mentre non mancava di ricordare poveri ed istituti di ricovero nel suo testamento.

La sua religiosità non le impediva, però, come si è visto, di tenere schiavi anche i cristiani. non era contraria ad affrancarli, più a pagamento che gratis e, quando lo faceva, spesso era per riparare torti di cui la sua coscienza sentiva il peso in articulo mortis[20]

Meno doviziose, ma non per questo del tutto prive di fortuna le donne borghesi che riuscivano a combinare un buon matrimonio.

Anch’essa educata per il matrimonio e con un minimo di istruzione, una volta sposata diventava domina e meri nella gestione della casa e della famiglia.

” Alla casa ed alla famiglia la donna borghese in genere si applicava direttamente e personalmente, e non solo in funzione organizzativa e di sorveglianza, come la donna del primo gruppo. In questa fatica aveva qualche aiuto; talvolta schiavi e balie, più frequentemente serve, che assumeva in genere ancora bambine, e che allevava insieme con i suoi figli”.[21]

Le donne del popolo, invece, appartenevano al gradino più basso della scala sociale, al di sotto delle quali vi erano soltanto le schiave. Non erano istruite e nemmeno preparate in quelli che solitamente vengono definiti lavori donneschi.

Il loro curriculum vitae conosceva spesso il servizio massacrante presso famiglie borghesi, alle quali talvolta venivano date in tenera età, frequentemente da giovani indotte ad amori ancillari ai quali seguiva un destino di allontanamento con l’illegittimo e non raramente una fine da prostitute.

Altre riuscivano a risalire la scala sociale attraverso i mestieri di fornaia, tessitrice, ostessa, locandiera, o commerciante al minuto.

Nella città sarda non mancavano poi nell’epoca citata le schiave russe, tartare, circasse, ungare, africane e levantine che se finivano in famiglie di un certo livello culturale e religioso si integravano in un certo qual modo in esse, ma quando ciò non avveniva esse diventavano “il trastullo sessuale del padrone, una sorta di remedium concupiscentiae , docile, indifeso, sempre a portata di mano” dal destino facilmente immaginabile dopo il loro sfiorire.

In questo contesto storico occorre collocare i ritratti meno ieratici e più mossi, a confronto con gli exempla del periodo tardo medievale, delle nobildonne e alto borghesi nonché delle monache d’epoca moderna.

Costruttrici di chiese, monasteri, conventi, collegi, tutte opere socialmente fruibili dai fedeli esse operarono a beneficio di Santa Madre Chiesa che accoglieva il gregge dei fedeli sia tra le mura di una semplice chiesa urbana o rurale, sia nei monasteri maschili o femminili benedettini di varia professione sia nei conventi, ma ancor più quando accoglieva gli studenti nelle scuole della Compagnia di Gesù o degli Scolopi alle quali queste pie e doviziose donne fecero dei lasciti considerevoli.

Tra le tante si colgono le figure di Anna Fara e Caterina Flos, le vicende di Margherita Tavera, di Lucia Zatrillas, di Margherita e Isabella di Castelvì.

Anna Fara ( XV sec.)

” E verso il 1500 visse Anna Fara illustre matrona, la quale fece edificare a proprie spese nel villaggio di Bolotana il tempio di S. Bachisio, rinomato in Sardegna per il concorso dei fedeli e per miracoli che si dicono operati dal santo[22]

Caterina Flos ( XV-XVI sec.)

“illustre matrona sassarese, la quale si distinse per esemplarità di costumi e per le pie istituzioni alla quale diede esistenza nella sua patria. (…) dedita sin dalla fanciullezza agli esercizi di pietà, ed alla solitudine, visse nella castità tutto il tempo della sua vita, e venuta poi a morte nel 1505 fece il lascio di molti beni per la fondazione di un Monistero di clarisse in Sassari sotto la direzione dei frati dello zoccolo di San Pietro di Sirkis e di un altro di monache della regola di san Girolamo. (…) ed il comune di Sassari nel 1559 lo riscattò con le case annesse per darlo ai gesuiti dove fondarono il primo loro collegio[23]“.

Margherita Tavera (1575 – 1638, Sassari)

“nacque in Sassari nel 1575 da nobili e virtuosi parenti e ricevette nella sua fanciullezza un’educazione assai diligente. (…) Afflitta dalla perdita dei due compagni che si aveva successivamente scelti per vivere in società di vita, si diede intieramente alle opere di pietà, dispensando ai poverelli, larghi frutti del suo ricco patrimonio. Le mortificazioni e le penitenze alle quali dopo la seconda sua vedovanza, avvezzò le delicate membra del suo corpo la fecero riguardare nel secolo qual donna di straordinaria perfezione. Finalmente nel 1615 riedificato e dotato a proprie spese il Monistero di santa Elisabetta in Sassari, vi si rinchiuse con altre undici compagne, e dopo avervi vissuto ventitré anni nell’esercizio costante delle più rare virtù vi morì santamente nel 14 settembre 1638[24]“.

Lucia Zatrillas (XV – XVI sec.)

” nata nel declinare del secolo XV da Raimondo IV Zatrillas e da Erilla Roig e morta in Cuglieri nel 1545 in opinione di grandissima santità. Datasi fin dalla fanciullezza alle opere di pietà continuò nelle medesime costantemente fino all’estremo del viver suo; e nulla curando gli agi e la splendidezza che li offrivano la propria nascita e le ricchezze della sua famiglia, menò una vita tutta consacrata all’umiltà alla beneficenza ed alle opere più meritorie della religione. Essa ebbe devozione particolare all’ordine dei servi di Maria e dopo aver contribuito colle sue generose largizioni alla fondazione di un convento di tale instituto nel suddetto villaggio di Cuglieri vi si ascrisse in qualità di sorella conversa. Gli annalisti dell’ordine servitano (…) la onorano del titolo di beata[25]“.

Margherita di Castelvì (XVI- XVII sec.)

” illustre e pia matrona sassarese, che visse nel declinare del XVI e nel principio del XVII secolo (…) fu maritata a un nobile di Castelvì, il quale la lasciò vedova in età molto giovane. Dopo la perdita di suo marito consecrata essendosi intieramente alle pratiche divote, ebbe nome di femmina virtuosa ed amante di vita contemplativa. Con suo testamento del 3 febbraio 1627 legò il ricco suo patrimonio per la fondazione del collegio gesuitico di san Giuseppe in Sassari. Il medesimo fu edificato con sontuosità quasi principesca dopo la morte di lei accaduta nel 1638[26]“.

Isabella di Castelvì ( XVI-XVII sec.)

” altra illustre donna sassarese, la quale visse nello stesso correr di tempi, e nel suo testamento del 19 maggio 1642 ordinò la fondazione di un altro collegio per i PP. della compagnia di Gesù, l’erezione di un monistero di femmine sotto l’invocazione di santa Maria Maddalena e la fabbrica d’un ospizio per i frati dello zoccolo. Costei che fu tanto profusa nelle opere di liberalità ebbe marito don Giacomo Manca barone d’Usini e di Tissi, rimase vedova di lui e andata a Valenza di Spagna nel 1645, morì due anni dopo in quella città[27]

Maria Rosalia Merlo (1704 – 1772, Cagliari)

“pia religiosa e poetessa del XVIII, nata in Cagliari nel 1704 e morta nella stessa città addì 7 aprile 1772 (…) il padre suo (…) dacché questa figlia pervenne all’età di sette anni la collocò nel monistero del san Sepolcro delle Cappuccine di detta città (…) in questo asilo di rigida disciplina fu istruita nella pietà e nelle lettere e, toccato che ebbe gli anni sedici, prese il velo monacale (…). Si distinse (..) non solamente per lo spirito di umiltà e pazienza che riluce in tutte le sue azioni ma ancora per l’ingegno molto svegliato (…) che essa ingentilì nel silenzio della vita monastica. Essendo maestra delle novizie compose in lingua castigliana molte rime di sacro argomento per infiammare le sue allieve allo spirito della devozione[28].

Negli ultimi anni della sua vita giacque oppressa da cronico morbo (…) ma essa li sostenne con meravigliosa costanza d’animo (..) Finalmente (…) piena di meriti e di virtù s’addormentò nel signore all’età di 68 anni, dei quali ne avea consumati 61 nell’austerità di una religiosa e santa vita[29]

Cristina Maria Di Savoia (1812, Cagliari – 1836, Napoli)

   “Cristina Maria di Savoia, regina delle Due-Sicilie, figlia di Vittorio Emmanuele I re di Sardegna, e di Maria Teresa arciduchessa d’Austria, nacque in Cagliari addì 14 novembre 1812 (…). La sua nascita fu celebrata in Sardegna con straordinari segni di pubblica esultanza, reputandosi un avvenimento felice per la nazione che si accrescesse nel di lei seno di un nuovo rampollo la gran pianta regale trasportata dai politici avvenimenti a maturare tranquillamente in una terra felice, esempio raro di amore, di generosità e di fede verso i regnanti. (…) ebbe un’educazione corrispondente all’altezza dei suoi natali: molto in tempo si manifestarono in lei la bontà d’animo dell’eccelso suo padre, l’ingegno, e gli alti e generosi spiriti materni. Dotata dalla natura delle più rare qualità, crebbe felice per bellezza di esterne forme, per le attrattive del suo sesso, e per tutte le altre doti che rendono i principi rispettati ed amabili.

Prima istitutrice della sua giovinezza fu la sua madre medesima, la quale inspirò nell’animo di lei sentimenti magnanimi e pietosi, e tutte le massime di religione e di politica confacentisi alla sublimità del grado, in cui la Provvidenza l’avea collocata: delle umane lettere, delle matematiche, e di quanto altro a giovine principessa si addice; le fu precettore l’abate Giambattista Terzi, pio e dotto ecclesiastico napoletano, il quale in qualità di confessore della regina Maria Teresa avea seguito la corte sabauda nel ricovrarsi che fece in Sardegna, e da monaco olivetano fattosi prete secolare, per l’abolizione degli ordini religiosi in Italia, avea continuato nello uffizio, ed istruite ancora nei primi elementi del sapere le principesse Beatrice, Felicita e Carolina figliuole dell’istesso re Vittorio Emmanuele I. Sotto la direzione di quest’uomo benemerito, e zelante della gloria dei suoi principi, fece Maria Cristina progressi rapidi e meravigliosi nelle cognizioni utili (…).   L’umanità e la compassione per gli infelici si manifestò in lei sin dalla fanciullezza, e si raccontano a tal proposito alcuni particolari che addimostrano l’eminenza della sua pietà. A siffatti sensi accoppiò la magnanimità, il decoro, le grazie, ed una tenerezza senza pari per gli augusti suoi genitori: finché essi regnarono, partecipò alla gloria del regno loro; e quando l’infelicità degli eventi determinò Vittorio Emmanuele I a rinunziare ad una corona che avea portato per tanti anni, essa, benché fanciulla, superò nella rassegnazione ai voleri del Cielo lo stesso esempio paterno. In tali circostanze Maria Cristina fu la domestica consolatrice delle amarezze provate da suo padre, e colla ingenua voce dell’innocenza rattemperò la triste memoria del regno perduto. (…) La morte di suo padre fu quella sola che l’afflisse profondamente: pure, dopo aver dato sfogo ai primi moti del dolore, ricompose a serenità l’animo, e raddolcì colle sue grazie l’affanno della madre che sopravvisse a tale sventura. Bella come una pianta giovine e vigorosa, la quale germogli eletti fiori di primavera, quest’angusta principessa attirò sopra di sé gli sguardi di molti principi che aspirarono alla sua mano (…) Ferdinando II re delle Due-Sicilie, giovine, bello di aspetto, di animo generoso, ed erede d’uno dei più chiari regni d’Italia, la ebbe in isposa che compiva appena il quarto lustro dell’età sua. Nel santuario di Voltri fu stretto con solenne rito il sacro nodo. Giammai furono formati angurii più lieti di quello se ne fecero allora per un nodo avventurato cotanto. Coppia eletta di giovani sposi, dotati dalla natura di bellezza e di grazie, pieni il cuore di magnanimità e di bontà, sembravano destinati dalla Provvidenza per vivere lungo tempo insieme, per felicitare insieme i popoli.

Napoli accolse con entusiasmo la giovane regina; e come i napoletani si ebbero per singolare benefizio del cielo il possederla dentro le loro mura, così essa reputò sua sventura il poterli rendere contenti e beati. Breve fu la sua vita regale, ma contrassegnata da tracce indelebili di molte rare virtù che la fama ha consegnato all’immortalità. Madre più che regina di popoli, essa sparse senza misura le beneficenze sopra i suoi sudditi. Gli asili della carità la videro più volte somministrare di propria mano i soccorsi agl’infermi, agl’indigenti, agli sventurati: non vi fu giorno ch’essa non abbia abbellito con qualche atto di generosità: trentamila ducati in un solo anno dal suo privato tesoro elargì ai bisognosi. I napoletani l’adoravano; e quando essa partorì alla luce l’erede del trono, cui fu imposto il nome di Francesco d’Assisi, l’allegrezza universale fu tanta che né prima ebbe esempio, né forse sarà mai per averne nell’avvenire. Ma in mezzo alle acclamazioni ed all’esultanza universale volle la Provvidenza insegnare ai mortali, che poco durevoli sono i beni di questa terra. Maria Cristina di Savoia, sposa felice, madre avventurata di augusto figlio, cessò di vivere, pochi giorni dopo il parto, alle ore dodici del 31 gennaio 1836.

   Interprete dei voti comuni il giornale napoletano pubblicò in quel giorno di lutto queste solenni parole:

“Una regina nel fior dell’età, bella, avvenente, e solo conosciuta per la modestia colla quale procurava di occultare le sue rare virtù, l’amata compagna del nostro re, la metà del suo cuore, quella infine che aveva dato, non sono che pochi giorni, a questo regno l’erede tanto desiderato, ci viene rapita in mezzo, si può dire, alle feste, in mezzo alla letizia ch’ella aveva eccitata… E’ questa una perdita, è questo un dolor di famiglia… La sua morte stessa ha fatto splendere di nuova luce le eminenti sue doti. L’ardore della sua pietà nell’accogliere i conforti estremi della religione, e il suo coraggio nel distaccarsi per sempre da un consorte adorato e dal caro frutto delle sue viscere che le costava la vita, hanno svelato in lei un’anima grande, e la degna discendente degli Emmanueli e degli Amedei. Ella si è mostrata negli ultimi momenti più che eroina, ella si è mostrata cristiana sublime”.

   Prima di morire avea disposto che si mantenessero a sue spese in un ritiro cinquanta donzelle orfane di padre e di madre, le quali si proponeva di scegliere ella medesima: ma l’opera pietosa e stupenda non compì per l’acerbità della morte; desiderata lasciolla all’amore ed alla munificenza dell’addolorato suo sposo.

   Così visse e morì Maria Cristina di Savoia. La piansero i popoli delle Due-Sicilie che perdettero in lei una madre; la piansero i popoli della Sardegna che la videro nascere tra di loro; e le lagrime di due popoli amorevoli e riconoscenti, che scorsero insieme confuse, sono l’elogio più luminoso, la più sicura testimonianza che l’augusta regina trapassò nella benedizione del cielo.”

III

 Aristocratiche e alto borghesi dame di Carità.

 In Sardegna, la compagnia delle dame, sul modello di quelle parigine, furono organizzate a Cagliari nel 1856 costituendo subito ben quattro compagnie a seconda della divisione in quartieri della città.

L’organizzazione constava di una compagnia centrale di cui era presidente la nobildonna Maria Aymerich Sanjust di Teulada, marchesa di Neoneli; a ricoprire la carica di tesoriera fu chiamata Antonietta Sanna Borra e di segretaria Effy Serra.

Le filiali sorsero nel 1858: quella del quartiere Castello con presidente Maria Sanjust, tesoriera Assunta Cilocco Sanna e segretaria Effy Serra; quella di Villanova con presidente Gerolama Vignelo, tesoriera Annunziata Casula e segretaria Raffaela Agabbio Casula; quella di Stampace con presidente Maria Teresa Palomba, segretaria Caterina Massoni e tesoriera Battistina Porcu; quella della Marina con presidente Luisa Oppo, tesoriera Efisina Granata e segretaria Fiorenza Biondo; quella dell’Annunziata con presidente la marchesa Carmela Pallavicini.

Oltre a soccorrere i poveri a domicilio le dame cagliaritane nel corso di un secolo (1856-1956) provvidero a dotare la città e la divisione di Cagliari di istituzioni assistenziali per ogni genere di povertà , a ciò coadiuvate sia dalle figlie della carità, giunte di lì a poco, nella capitale dell’isola sia, qualche decennio dopo, dai preti della missione.

Su di esse, a parte notizie e resoconti del bollettino manzelliano “La Carità” poco è stato scritto mentre l’attività sociale da esse svolte, richiederebbe un più approfondito e documentato studio.

A Sassari vennero organizzate nel 1859 per merito di donna Matilde Quesada, moglie del marchese S. Filippo[30]; incorag­giata e sostenuta dal nobiluomo Carlo Rugiu Tealdi che aveva già fondato in città sin dal 1854, sull’esempio del francese Federico Ozanam, le prime conferenze maschili di carità di S. Vincenzo de’ Paoli.[31]

L’occasione per la costituzione della compagnia delle dame di carità fu offerta dal colera del 1855, che aveva lasciato la popolazione tremendamente prostrata.

E’ in questo contesto così irto di difficoltà che operarono le prime dame sulle traccia della tradizione della donna cristiana, da sempre depositaria dell’attività assistenziale e benefica verso gli strati più emarginati della società sarda [32].

La loro costituzione fu sancita da un placito dell’arcivescovo di Sassari A. D. Varesini.

Socie fondatrici figurano la contessa di S. Pietro, Rita Quesada, contessa Vincenza d’Ittiri, Maria Antonia Figoni, marchesa Gerolama di Sant’Orsola, donna Chiara Manca, Teresa Bellieni, donna Angela Pilo Cugia, contessa Maria San Placido Amat, Raimonda Usai[33].

I primi anni della loro attività furono caratterizzate da una grande collaborazione con le conferenze maschili di S. Vincenzo de’ Paoli: saranno infatti i componenti di queste a segnalare le prime due famiglie da soccorrere da parte delle dame[34].

Gli assistenti spirituali che si succedettero nel corso dei primi 50 anni di vita dell’associazione, dopo il futuro arcivescovo Marongiu Delrio, del quale abbiamo notizie nel beneplacito di A. D. Varesini, furono don Sogus, rettore della popolare parrocchia di S. Sisto, mons. Sanguino, rettore della parrocchia di S. Caterina, il canonico Panedda, ai quali subentreranno dal 1879 i superiori della casa della missione in ordine successivo Costagliola, Parodi, futuro vescovo di Sassari, Meloni, Bartolini, p Landi, Manzella.

Una breve cronistoria sull’attività del gruppo dal 1859 fino al 1909 fu predisposta dal noto esponente cattolico sassarese Giovanni Zirolia in un resoconto storico, sociale ed economico, redatto in occasione della celebrazione del cinquantenario delle dame.

.L’attività delle dame sassaresi in quel cinquantennio parrebbe contrassegnata dalle visite a domicilio ai poveri della città da parte di un numero esiguo di dame attive ( da 16 a 20).

Chi diede loro un forte stimolo ad operare più attivamente fu sicuramente il prete della missione G. B. Manzella giunto in Sardegna nel novembre del ‘900.

Nel periodo che va dal suo arrivo in Sardegna fino alla sua morte, avvenuta nell’ottobre del ’37, le dame della carità di Sassari crearono una rete di strutture educative e assistenziali rispondente alle necessità dei poveri della Sardegna, infatti, nel 1903 fondarono il “Rifugio Gesù Bambino per le bambine abbandonate”, più tardi “l’istituto dei ciechi” e subito dopo sollecitarono presso “L’Orfanotrofio delle Figlie di Maria l’istituto dei sordomuti” quindi, fondarono la “Casa Divina Provvidenza per i cronici derelitti” inoltre “l’Istituto Santi Angeli” per bambini orfani ed illegittimi inoltre furono promotrici e finanziatrici dell’istituzione di numerosi asili, impe­gnandosi altresì con svariate iniziative a seconda dei momenti di bisogno, specie in occasione dei due conflitti mondiali, a soc­correre i poveri della città.

Delle dame più note delle quali è stato possibile rintracciare notizie, anche se in forma quasi agiografica, in attesa di più approfonditi studi critici e correttamente contestualizzati, riportiamo “voci” dal Dizionario del Tola e dall’Antologia sulle donne e la beneficenza in Italia anch’esse compilate sia pure a quasi un secolo dalla pubblicazione del Dizionario citato con lo stesso stile agiografico e colorito, quasi in sintonia con i ritratti manieristici tardo-ottocenteschi rintracciabili nelle sale di attesa delle istituzioni da loro fondate.

Marchesa Genoveffa di Santa Croce (XIX sec.)

“figlia e sorella esemplare, fu per molti anni la consolazione della sua amatissima madre e del fratello barone Carlo, che rimasto vedovo della marchesa Mariangela di Neoneli le affidava i suoi bambini, ai quali non poteva dedicarsi completamente dovendo assentarsi dalla famiglia per l’alta sua carica di gentiluomo d’onore di S. M. la regina Maria Teresa che lo teneva in gran conto e spesso lo chiamava a Torino.

Nel 1863 andò sposa al marchese Carlo di Villahermosa e di Santa Croce e rifulse per le sue virtù coniugali. Ma presto l’amato sposo morì, e chiusa nel suo immenso dolore, Genoveffa visse per Dio e pei poveri.

Tutta la sua fortuna, tutta la sua bell’anima vibrante di affetto e di pietà ella dedicò agli umili. Non esiste a Cagliari opera di beneficenza della quale ella non sia stata promotrice o almeno parte attiva. Le dame della carità l’ebbero per molti anni presidente, con sua sorella la Marchesa di Nissa, con la contessa Maria Rita Lostia di Santa Sofia e con altre pie Dame fu fondatrice dell’Opera dell’adorazione Perpetua e delle Chiese povere. Amica e consigliera di suor Maria Calcagno, volle aiutarla nella fondazione dell’Opera della Misericordia che tanto bene arreca ai poveri malati.

Oggi il suo nome è ancora benedetto e ricordato con gratitudine; la radiosa memoria della sua bontà è più forte dell’oblio che tanto spesso, ahimè, si contrappone al beneficio[35]

Donna Luigia Ledà di Boyl dei Conti d’Ittiri ( XIX sec.)

“moglie di S. E. don Raimondo de Quesada,(ministro plenipotenziario di S. S. Pio VII alla Corte delle Due Sicilie fu donna di singolari virtù. La sua vita fu un lungo sacrifizio, un’immolazione continua in favore delle esistenze che erano unite alla sua. Non ebbe giovinezza e dall’infanzia passò senza andarsene all’età matura. Unendosi in matrimonio col Marchese di San Saturnino mentre essa non contava ancora tre lustri d’età e lo sposo era quasi vecchio nulla conobbe dei sogni e delle illusioni della vita non curando le peregrine bellezze che l’adornavano, ella ebbe uguale venerazione che amore per il marito e maggiore conservazione per la conservazione dei preziosi giorni di lui che per la propria salute gracile di molto. Degli onori annessi all’alto grado del marito fu poco curante, le ricchezze non amò che di ogni benchè minimo agio della vita si privò sempre ma per i figlioli li desiderò e con l’ordine e l’economia domestica alla quale sollertissimamente presiedette l’avito patrimonio accrebbe considerevolmente. Dopo la morte del marito, cessata quell’affettuosa inquietudine che aveva per il prolungamento dei suoi giorni la sua salute migliorò ma il colera venne spietato a toglierla da questa vita e alle sue opere di pietà verso il suo prossimo privando Sassari di una delle sue Dame più pie e generose.

Attiva nell’elevazione morale e culturale delle giovinette l’algherese Luigia Romano, operosa nelle attività economiche la nuorese Natalia Pirisi: non più assistenzialismo, ma attività cultura ed economica per la crescita sociale. Entrambe borghesi, si distaccano nettamente dalle nobildonne per l’azione sociale che mira non solo ad aiutare il povero, ma piuttosto a curarne l’elevazione morale e materiale per essere l’artefice della propria fortuna.

Luigia Romano ( XIX sec. )

“nel 1831 domandò al governo ed ottenne di aprire una scuola pubblica alle fanciulle della sua città di Alghero. Ella aveva frequentato un corso di educazione a Torino e cercò di applicare quei metodi nella nuova scuola da lei fondata. Insegnò alle alunne la lingua italiana e francese, l’aritmetica, la storia, la geografia e i lavori donneschi; e fu la prima maestra sarda che accogliesse nel suo programma la storia civile e la geografia. La nuova scuola fiorì rigogliosa e fu frequentata da numerose giovanette che vi ricevevano l’istruzione e l’educazione[36]“.

Natalia Pirisi-Siotto (1865, Orani-1911, Torino)

. “Vita amorosa, vita santa la sua, votata tutta ad un desiderio inestinguibile di bene, pervasa da un inconsueto fascino di amore, professato con la serena dolcezza che ha le radici nella profonda anima e che ad essa sola si appartiene.

Figlia della Sardegna, dell’isola sacra al silenzio e al dolore, nell’anima sua si rinfrange ogni umana tristezza di sua terra, e le corde del suo cuore vibrarono ad ogni incompiuto desiderio, ad ogni alito d’affetto ad ogni lacrima pianta.

Il sentimento del far bene scaturiva dal complesso delle sue energie migliori con generoso impeto sacro; era come un accrescimento di sè stessa, un intensificarsi un moltiplicarsi, un estendersi in rapporti sempre più vasti con persone che la circondavano.

Amare non era solo, per lei, come ha detto il Leibniz, essere contenta della felicità altrui; ma era formare il bene altrui prodigandosi sentendosi ricca di ciò che agli altri avea donato. Nacque ad Orani nel 1865 da una famiglia che, per alta tradizione domestica, intendeva ed intende la beneficenza come dovere religioso e come dovere di solidarietà umana, ed in più modi essa esplicò queste nobili virtù.

Ingegno acuto e singolarmente avido di studio, informò tutti gli atti della sua vita ad un principio irriducibile di rettitudine e di bene; principio che affermò sempre col sollievo e col consolo della parola e con la generosità delle azioni, cui erano premio la serena intima letizia che tiene dietro alle opere di carità.
Quando il marito prof. senatore Chironi (1855-1918) tenne la deputazione politica del collegio di Nuoro ella ricostituì l’asilo infantile cittadino, che molti anni prima era stato fondato a speciale ufficio di benemerite persone del Nuorese, il canonico Salvatore Pala ed il sig. Giovanni Antonio Deledda, padre di Grazia Deledda e che poi era caduto in totale abbandono.

Fu lei, sempre vigile, premurosa, previdente, che al fine di sollevare le condizioni dei meno abbienti, liberandoli dall’esoso traffico degli usurai , raccolse il capitale necessario, secondo la legge, per fondare la Cassa di Risparmio, con l’intendimento che potesse in seguito diventare istituto circondariale. Ma lasciata che ebbe il marito la deputazione dopo una sola legislatura non potè più ampiamente svolgere le sue idee generose.

Però un animo ben fatto che eleva a religione il sentimento della beneficenza, sa dipingere sempre in mille forme di bellezza la virtù che lo accende; e la signora Chironi svolse la saliente opera sua in Orani, suo paese natio, mirando ad uno scopo eminentemente pratico e benefico; costituendo cioè il Monte Granatico che in Sardegna spesso rappresenta la salvezza se non la fortuna della maggior parte dei contadini. Il Monte Granatico è una specie di magazzino centrale, dove ogni anno viene raccolto, a cura di un comitato, una certa quantità di grano, comprata a prezzi miti, che viene poi dato ai contadini, che hanno bisogno della semenza, senza interesse e senza perentorie limitazioni di tempo per restituirle.

La nobilissima istituzione evita così che i contadini ricorrano a prestiti presso gli usurai, prestiti che, per gli alti interessi da corrispondere, riescono in via ordinaria disastro si. E questo sa chi conosca un poco le condizioni dell’agricoltura sarda.
L’opera della signora Chironi, posta sotto la direzione dello zio nobile Cesare Siotto Marcello, sorse florida e continua ancora floridissima. Ella poi favorì silenziosamente ma continuamente, come il fiore che dà il profumo e non si scorge, tutte le opere e tutti gli istituti di beneficenza sardi ed anche fuori della Sardegna, e particolarmente a Torino, sua abituale residenza, ella contribuì col consiglio e con i materiali soccorsi ad ogni opera di bene.

Pia nel senso profondo e più nobile, ella professò la religione con quella illuminata dignità che inspira deferenza e rispetto anche a coloro che quelle idee non professano. E per soddisfare la sua religiosa pietà a che l’antichissimo santuario intitolato a Nostra Signora di Gonare, nel Nuorese, dove è la sola opera autentica che si conosca di antica scultura sarda avesse un decoroso altare marmoreo.

Ma le opere di pietà religiosa divise con quella di pietà civile. Ed insieme con la signora Laura Mossa Rossi e con la Marchesa Boy Faà di Bruno fu fondatrice di quella benemerita scuola professionale femminile sarda di Macomer (…). Non le fu serbata però la gioia di vederla compiuta, che la morte la colse il 5 settembre 1911 in Torino, immaturamente, proprio quando l’accorata passione vigilante del marito, l’affetto immenso del figlio ed i fervidi voti degli amici e dei beneficati sembravano che accrescessero da lei allontanato l’inesorabile visitatrice.

Ma la sua memoria sarà sempre viva in tutti coloro che, conoscendola, hanno apprezzato e valutato la forza della sua generosità e il fascino della sua gentilezza, perchè le orme impresse nel cuore della bontà mai si cancellano, ma sempre rinverdiscono e riempiono le pareti migliori di noi di grande bellezza e sono come il puro lavacro dello spirito.

Nè sarà vano il retaggio di pietà e d’amore che ella avrà lasciato[37].”

Protagoniste d’azione sociale e caritativa del Rifugio Gesù Bambino per le bimbe abbandonate in Sassari, dal 1905 al 1944, furono la famiglia Mannu Dettori e la loro segretaria Eugenia Serra Solinas che accanto alle figlie della carità dedicarono con impegno e e passione la loro vita a quest’opera per l’infanzia abbandonata.

 Gerolama Mannu nota Momina (1845-1834, Sassari)

 Nata in Sassari nel 1845, sposata col nobiluomo Giovanni Dettori (1905-1930) per venticinque anni amministratore dell’Orfanotrofio delle Figlie di Maria( 1905-1930), fu eletta presidente del Consiglio direttivo del “Rifugio Gesù Bambino per le bimbe abbandonate” in Sassari nel 1905, ad oltre sessant’anni di età, amministrandolo per quasi trent’anni, erigendolo in ente morale e sviluppandone la proprietà, il fabbricato e l’attività assistenziale ed educativa: orfanotrofio femminile, asilo, educandato.

Ebbe per tanti anni come segretaria Eugenia Solinas, maestra di pianoforte nello stesso istituto, collaborarono con lei nel consiglio direttivo le più note nobildonne sassaresi quali Rita Agnese Queriolo, Giuditta Sassu, Lucia Riccio, Antonietta Santinelli.

Direttori-assistenti all’opera ebbe i preti della missione Davide Landi, Giovanni Battista Manzella.

Superiore delle Figlie della Carità furono suor Agostina Raiteri e suor Giuseppina Bava.

La fondazione del Rifugio Gesù Bambino per le bimbe abbandonate era stato sollecitata dalla “suora dei poveri” la figlia della Carità suor Agostina Raiteri che nelle sue visite ai poveri della città, trovava spesso bambine denutrite con vestiti a brandelli, abbandonate a sé stesse in ambienti corrotti. Ne parlò con la superiora dell’Ospizio san Vincenzo de’ Paoli suor Ragatzo, che con la presidente della compagnia cittadina delle dame della carità donna Raimonda Usai, d’accordo col fondatore dell'”Ospizio” avv. Carlo Rugiu, decisero di ritirare le due bambine più a disagio.

Si affidarono alla famiglia che aveva in custodia le stalle comunali nelle quali venivano tenuti gli animali sequestrati. Poiché il numero delle piccole derelitte aumentava, nel 1904 l’avv. Rugiu, ottenne che le bestie sequestrate fossero portate altrove; si pensò quindi di far pulire le stalle e congedare la famiglia che ne aveva la custodia per costruire un locale per il nascente “Rifugio”.

Con offerte ,specialmente da parte della presidente delle dame donna Raimonda Usai, che generosamente si donava tutta a sollievo di queste bimbe infelici, si poté adattare tale ambiente formando un camerone che, con letti disuguali donati dall’Ospizio, servì da dormitorio. Si aggiustarono i letti, si fabbricò una cisterna per raccogliere l’acqua che mancava completamente e provvederne la casetta per mezzo di una pompa. Aggiustando l’altra stalla e dividendo con una tenda il camerone, si ebbe un laboratorio ed un refettorio.

Le bambine aumentavano tutti i giorni per cui con offerte varie in danaro e in derrate si riuscì ad andare avanti.

Nel primo consiglio direttivo della nuova opera fu nominata presidente donna Gerolama (nota Momina) Mannu Dettori. Dalla sua prima nomina (1905), periodicamente rinnovata, fino alla morte (1934) svolse un’incessante attività perché il “Rifugio” crescesse.

Le delibere del consiglio direttivo sono numerosissime e altrettanto lo sono le lettere indirizzate ad autorità e a personaggi pubblici per ottenere aiuti. La nobildonna, pur di dare un’adeguata casa alle orfane abbandonate si rivolgeva a chiunque.

Nell’ottobre del 1905, per l’inaugurazione del Rifugio, invitò la Principessa Letizia Bonaparte Duchessa d’Aosta, Eleonora d’Orleans e Maria Clotilde Bonaparte che fecero pervenire le loro offerte; altre offerte pervennero da persone influenti della città fra cui il Conte Arborio Mella di Sant’Elia, cugino della presidente, dal Presidente della Deputazione Provinciale di Sassari al quale si chiese un sussidio annuale di 500 lire. Altro generoso benefattore fu il Professore Giovanni Guglielmo della Facoltà di Fisica dell’Università di Cagliari; offerte cospicue furono fatte pervenire dalla Contessa Rosamond di Sant’Elia e, tramite Mons. Bonomelli, Vescovo di Cremona, si ottenne l’intervento della Regina Margherita di Savoia.

Nel 1906, terminati i nuovi locali su progetto predisposto dall’ing. Manunta invitò l’arcivescovo turritano Mons. Parodi a benedirli. Invitò anche distinte signore sassaresi ad interessarsi dell’Opera e a contribuire con le loro offerte al suo sviluppo. Acquistò altro terreno adiacente al primo caseggiato per ingrandirlo ulteriormente.

L’anno successivo chiese ed ottenne dalle autorità scolastiche un corso di scuola regolare per le bambine ricoverate comprendenti le prime tre classi elementari.

L’anno successivo tra le orfane fu istituita l’associazione interna delle Figlie di Maria per una migliore formazione spirituale orientata alla devozione a Maria Vergine per la salvaguardia delle virtù femminili quali la modestia, l’umiltà e la purezza.

In seguito all’uccisione di Umberto I si erano raccolte in Sassari e provincia ingenti somme per le onoranze funebri all’infelice re; su sua proposta si decise di destinare le somme raccolte all’ingrandimento del “Rifugio”, intitolando al nome del defunto re camerone delle orfane. La proposta ebbe successo e lo scoprimento della lapide nel camerone ebbe luogo il 14 luglio 1910.

Nell’11 chiese ed ottenne da Torino sei figlie della carità di per la cura delle numerose bambine.

A Sassari era stata impiantata da un certo Piero Vincentelli una fabbrica di spazzole; si trattava di occupare le ricoverate al di sotto dei 12 anni in questo genere di lavoro, ma trovando sconveniente mandare le bambine in fabbrica, si stabilì di svolgere l’attività manifatturiera nell’istituto sotto la guida di una suora. L’attività andò avanti procurando un’entrata discreta dal momento che le ragazze disimpegnavano il lavoro con accuratezza.

Oggi tutto ciò parrebbe aberrante, ma non era così in epoca giolittiana.Le altre orfane di oltre dodici anni, venivano addestrate al cucito, al ricamo, alla maglieria, alla tessitura.

Donna Momina desiderava che il “Rifugio Gesù Bambino” venisse eretto in ente morale, per poter usufruire dei lasciti che già erano stati destinati ad esso per mezzo della Congregazione di Carità del comune di Sassari..

Dato l’abbandono dell’infanzia cittadina, nella sia pur prospera città d’epoca giolittiana, non essendo sufficiente l’asilo di sant’Apollinare, diretto dalle figlie della carità né quello di corso Trinità gestito dalle domenicane di San Sisto Vecchio, tra il ’12 e il ’13,fece istituire presso il “Rifugio” un asilo infantile: due aule ben attrezzate con servizi ed accessori, una piccola palestra e un giardino. La struttura per l’infanzia fu frequentata dalle bambine interne e da quelle del rione dei Cappuccini che andava man mano incrementandosi grazie alle costruzioni della piccola borghesia cittadina. A tutti veniva data gratuitamente una refezione calda. Soltanto alle famiglie dei bambini abbienti si fece pagare mensilmente una modesta quota.

Poiché il Marchese Cugia di Sant’Orsola stava per vendere un grosso appezzamento di terreno nelle adiacenze, nonostante i debiti pregressi in cui versava la nuova istituzione, non si lasciò sfuggire la favorevole occasione e decise di aprire una sottoscrizione fra i benefattori, che seppero rispondere generosamente in tal modo l’istituto si trovò un nuovo appezzamento di terreno idone ad essere coltivato ad orto, a frutteto e ad altre produzioni necessarie al sostentamento delle numerose orfane.

Durante la guerra del ’15-’18   chiese ed ottenne un’altra figlia della carità: giunse la preparatissima suor Scaravella, generosa e vivace piacentina che per oltre cinquant’anni sarà madre buona e paziente delle piccole ospiti.

Nel ’16 le bimbe accolte erano 76. Rimanevano i problemi di sostentamento per il loro costante aumento, ma ecco arrivare il provvidenziale e cospicuo lascito del dott. Adolfo Cocco, simpatizzante del Rifugio.

Dopo tante perplessità del consiglio direttivo e dei missionari vincenziani sull’rerezione in ente morale le si superarono e presentata tutta la documentazione alle autorità competenti con il Regio Decreto del 1 luglio 1920, pubblicato nella G. U. il 6 agosto 1920 n° 1055 il Rifugio Gesù Bambino divenne un ente morale.

Risale a questo periodo l’elezione nel consiglio direttivo di altre consigliere illustri dame di Sassari in sostituzione di quelle decedute o per l’aumentato numero delle amministratrici in conformità al nuovo statuto.

Tra le nuove consigliere si annoverano Gavina Pintus Carta, le nobildonne Cristina Cugia, Hilda Gutierrez, Amelia Spada, Maria Nina Orrù Sequi, Luisa Spada, Maria Angelica Binna, Elisa Segni.

Nel ’21, mentre la città era continuamente scossa da manifestazioni politiche, (nasceva in quell’anno il partito sardo d’azione, il partito popolare, quello comunista), per la mancanza di lavoro la presidente accolse cospicue eredità tra le quali quelle del nobiluomo Vittorio Martinez Quesada, eredità composta di terreni in località “La Nurra” di Olmedo denominati: “S’Aliderru” e “Sa Messa” di circa 450 ettari. Nei momenti di cirsi per le orfane il cibo era garantito.

Per gli effetti primo dopoguerra erano aumentati i casi di orfanezza in tutti la Sardegna che attraversava un brutto periodo economico, perciò le richieste di ricovero di bambine era all’ordine del giorno e da ciò la necessità di ingrandire l’istitutodal momento che l’area fabbricabile non mancava.

La presidente nel ’28 diede inizio alla costruzione di una nuova ala che comportò una spesa di £ 150.000.

Di pari passo con lo sviluppo logistico e numerico si preoccupava che i missionari vincenziani e le figlie della carità curassero la formazione spirituale delle ospiti.

Nel ’29 fu formata all’interno del Rifugio l’ssociazione interna di Azione Cattolica con tutte le ramificazioni per le diverse età.

D’altra parte di fronte alle necessità non mancavano generosi donatori: nel 30 si ricevette un buon lascito dell’illustre politico laico sassarese on. Filippo Garavetti, Senatore del Regno.

Da dieci anni alla democrazia liberale era subentrato il regime fascista che mise particolare cura alle strutture dell’infanzia. Nel ’31 altre bimbe furono accolte nell’istituto con le periodiche sovvenzioni dell’Opera Nazionale Maternit e Infanzia (O.M.N.I.).

Nel ’34 Momina Mannu , che fino all’ultimo aiutata dalla figlia e dalle collaboratrici, aveva speso tutte le sue energie per quest’opera benemerita, aggravatasi passò all’altra vita.

Fu considerata donna ricca di virtù, improntata alla carità più squisita che non conosceva ostacoli quando si trattava ddi provvedere al bene delle orfane

La sua figura meriterebbe un più approfondito studio sia per quanto seppe realizzare a vantaggio delle fanciulle sia per lo stile con cui riuscì a coinvolgere migliaia di persone alla buona riuscita dell’opera. D’altra parte, si trattava di una delle più illustri nobildonne sassaresi e faceva parte di quella classe dirigente femminile che ebbe il ruolo in epoca democratica-liberale di preoccuparsi e risolvere i problemi sociali delle classi più disagiate.

L’avv. Giovanni Zirolia, esponente del movimento cattolico sassarese nonché uomo di spicoo del PPI, commemorandola ebbe a dire:

“…ma era scritto che il Rifugio delle bambine abbandonate, assumesse più vaste proporzioni immediatamente, sicché tosto si rivelò in piedi e camminò come una vela nell’Oceano sotto prosperi venti, mentre al timone si poneva una delle socie più antiche, la N.D. Momina Dettori Mannu, sua prima Presidente[38]“.

Ignazia Dettori ( 1883- 1944, Sassari)

Nata in Sassari il 17 settembre 1883 figlia del nobiluomo Giovanni e della nobildonna Gerolama ( nota Momina) Mannu, fu educata presso l’Orfanotrofio delle Figlie di Maria in Sassari dove suo padre era presidente, mentre la madre presiedeva il “Rifugio Gesù bambino per le bimbe abbandonate”. Alla morte della madre ne “ereditò” quasi la presidenza dal momento che il 18 luglio 1934 il Consiglio di Amministrazione dell’ente morale ad unanimità di voti la elesse presidente.

Anche Donna Ignazia, ormai cinquantunenne, rimasta nubile, fu la madre buona per le piccole ospiti del Rifugio, seguendo le tracce dell’indimenticabile madre.

Nel 1935, secondo le disposizioni testamentarie del benefattore del Rifugio, avv. Lodovico Satta Fara, fece erigere un monumento funerario con disegno e progetto dell’arch. Giovanni Clemente di Torino. Egli aveva lasciato al Rifugio una casa in via Carmelo-Largo San Sebastiano.

Negli anni 1937/1938 accettò da parte del signor Sebastiano Deliperi da Castelsardo la donazione di un vigneto denominato “Li Paddini di Fora” ed una casa in via Nazionale “La Marina” in Castelsardo e un predio pascolativo di circa un ettaro denominato “Sant’Eremo-Monte Giudice”.

Nel 1939, dopo la chiamata a Torino di suor Giuseppina Bava giunse come superiora suor Angela Lacelli con la quale collaborò attivamente decidendo nel ’41 di non far sfollare le bambine ospiti del “Rifugio”. Si adoperò affinché nonostante la guerra non mancassero le derrate alimentari per le bambine. Alla sua morte, avvenuta il 22 gennaio 1944 con suo testamento olografo lasciò all’opera la metà del suo patrimonio per un valore di dieci milioni di lire[39].

Eugenia Solinas Serra (1861-1940, Sassari)

 Nata a Sassari 5 novembre 1861, da Giovanni Battista e Nicoletta Cicu, nubile, presidente delle Figlie di Maria di Sassari, segretaria del “Rifugio”, maestra di musica, dopo le lezioni di pianoforte, tutto il suo tempo era dedicato al Rifugio. Il suo cuore, vigile e materno, vibrava all’unisono con quello dell’impareggiabile donna Momina, fedelissima sua cooperatrice e segretaria.

Fin dalla nascita dell’Istituto, cioè dall’anno 1902 al 1940, svolse operosa attività nel complesso e difficile lavoro di segretaria: tutti i documenti di archivio di quell’epoca: conti, bilanci, verbali, lettere, sono elaborati e scritti dalle sue mani. A quell’epoca le macchine da scrivere al Rifugio non esistevano.

Suo grande impegno fu anche l’educazione al canto e alla musica delle numerose orfane. Alla sua morte, avvenuta il 9 dicembre 1940, con una parte dei suoi beni lasciò all’istituto il suo pianoforte con libri, portamusica e accessori[40].

Altra opera che quasi negli stessi anni del Rifugio sorse a Sassari fu la Casa Divina Provvidenza per i cronici derelitti. Essa fu proposta dalle dame di carità in occasione del cinquantenario. Giovanni Battista Manzella, allora direttore spirituale delle dame, si fece portavoce di quest’opera e spronò le dame a realizzarla per rispondere agli impellenti bisogni che sorgevano periodicamente dalla fascia di età delle vecchie e vecchi ammalati croinici in abbandono come l’infanzia in una Sassari in cui la borghesia imprenditoriale dei mulini, dei pastifici, delle conce, degli affari avanzava col vento in poppa; molti giovani e adulti della buona borghesia o dell’aristocrazia si dedicavano alla vita politica cittadina e le loro donne, giovani e meno giovani, secondo il tradizionale ruolo della donna cristiana, costituenti per queste opere una vera e propria classe dirigente, si dedicavano a risolvere i gravi problemi dei vecchi e come si vedrà in concomitanza dei bambini tracomatosi e a disagio familiare realizzando una comunità di nonni-nipoti che inconsciamente anticipava nei fatti idee pedagogiche che prenderanno campo soltanto alla fine del secolo.

Le protagoniste cattoliche laiche di quest’opera furono Maria Pittalis Zirolia e Laura Carta Segni, entrambe consorti dei più noti ed illustri esponenti cattolici del primo Novecento nella città di Sassari, Giovanni Zirolia e Antonio Segni il secondo dei quali divenne fu più volte ministro, Presidente del Consiglio dei Ministri e infine Presidente della Repubblica Italiana.

 Maria Pittalis Zirolia ( 1870, Ploaghe -1951, Sassari)

 Nata a Ploaghe morta a Sassari nel 1951 moglie del noto esponente cattolico sassarese Giovanni Zirolia (1868-1935), dama della Carità, cominciò ad occuparsi della Casa Divina Provvidenza per i cronici e derelitti fin dai primi passi (1910) quando p. G. B. Manzella turbato per alcuni gravi episodi di abbandono di anziani morti tragicamente in Sassari, in occasione dei festeggiamenti del cinquantenario dell’istituzione delle dame della carità in Sassari, le invitò a fondare un asilo per gli abbandonati.

Tra gli “appunti” tratti dal verbale di una riunione delle dame del gennaio del 1922 si legge: “Si procede alla nomina della presidente per acclamazione e si propone la sig. Maria Zirolia che già da parecchi anni, con grande zelo, attività e abnegazione ricopre l’ufficio. Essa insiste perché si proceda a votazione segreta, ma le signore la acclamano all’unanimità anche nella considerazione che essa fu designata dalla presidente delle dame della Carità cittadina Teresa Bellieni.

Nello stesso anno si delibera di sostituire nella carta intestata alla dicitura “conferenze delle signore” con quella di “La Casa della Divina Provvidenza per i cronici e derelitti”.

Nell’ottobre vengono nominate nel consiglio le signore Cicita Sanna Cherchi, Osvalda Pischedda, donna Laura Carta Segni e Maria Serra. Nel dicembre dopo il rendiconto sull’andamento dell’opera pia viene nominata consigliera anche la marchesa donna Vincenza di Suni.

La presidente propone che si dia inizio alle pratiche per la trasformazione dell’opera in ente morale che si incarichi l’ing. Oggiano per l’ampliamento dei locali sempre più inadeguati per le richieste di ricovero.

Il 28 settembre M. Pittalis Zirolia 1928 predispone la cronistoria della “Casa” da inviare alla congregazione comunale di carità, al prefetto e infine al Ministero dell’Interno. Alla puntuale e appassionata cronistoria della “Casa” allega lo statuto organico, lo stato patrimoniale dei beni mobili ed immobili, il verbale di nomina delle nuove amministratrici che risultano lei medesima, Osvalda Pischedda, Maria Bellieni, Donna Maria Angioy, donna Giovanna Ledà d’Ittiri e l’elenco delle socie azioniste. Si tratta di un elenco di 282 soci, appartenenti all’aristocrazia e all’alta borghesia sassarese. Con Regio Decreto del 19 maggio 1930 l’opera viene eretta in ente morale con la possibilità di entrare in possesso dei beni intestati alle promotrici e di operare nell’interesse dell’iniziativa sociale.

Da quella data di quadriennio in quadriennio fino alla sua morte avvenuta nel 1951 Maria Pittalisi Zirolia sarà alla presidenza dell’ente che con fattivo e continuo impegno personale farà sviluppare e crescere. Sposata e senza figli sia con l’aiuto discreto del marito fino al ’35 sia dopo la sua morte la sua attività amministrativa non ebbe sosta.

Oltre alla collaborazione dei più noti padri vincenziani tra i quali spicca il carismatico e operoso Giovanni Battista Manzella, la Pittalis poté avere strette collaboratrici della casa le figlie della carità suor Adele Aresi, suor Pia Biassoni e suor Brambilla, mentre donna Laura ebbe suor Brambilla e suor Dorigo, tutte superiore della Casa delle quali si parlerà più avanti.

Sue collaboratrici nei vari consigli di amministrazione furono le nobildonne Caterina Spada, la contessa Giovanna Ledà di Ittiri, Donna Maria Angioy Galeazzo, donna Rita Solinas, donna Sara Solinas, donna Maria Bartoli Avitabile, donna Laura Segni e le borghesi signore Maria Bellieni, Costantina Pinna Medda, Antonia Piredda, Osvalda Pischedda, Colomba Porcu, Peppina Talu, Carmela Marras, Delia Righi Bozzo, Giovanna Fiori Nuvoli, Lina Crovetti, Giovanna Fiori Nuvoli, Rina Casula.

Orientamenti educativi e assistenza spirituale offrirà il padre Giovanni Battista Manzella fino al ’37 e altri missionari vincenziani che si occuperanno della formazione spirituale degli ospiti nel periodo successivo.

Mons. Damiano Filia, esponente autorevole del clero diocesano e storico della chiesa sarda, assicurerà la S. Messa quotidiana alla “Casa”, mentre l’ing. Oggiano ne curerà la permanente progettazione e le varianti e il medico dr. Sotgia garantirà la costante cura dei ricoverati.

Ella accolse fino al 1931 soltanto anziani di entrambi i sessi, successivamente furono accolti orfani ed orfane, portatori di handicap di entrambi i sessi, e signore e signorine rimaste senza famiglia, a pensione. Tra queste si ricordano La prima donna consigliera regionale della Democrazia cristiana Eufemia Sechi, una delle presidenti dell’azione cattolica sassarese la maestra Elisa Bortolu, la storica e giusrista docente universitaria Ginevra Zanetti, la madre del filosofo Antonio Pigliaru, maestra Maria Murgia.

Numerosissimi i benefattori, i lasciti, le offerte la solidarietà cittadina.

E’ assai difficile ricostruire la figura di questa donna a causa della dispersione della Bibblioteca e dell’archivio di famiglia. La casa stessa della Pittalis , fu donata alla parrocchia di Santa Caterina che più tardi la cedette all’Università di sassari.

La stessa “Casa” poco ha conservato di sue personali memorie a parte i documenti citati, tuttavia questa generosa donna seppe profondere il meglio delle sue energie per la buona riuscita dell’opera. Fu il braccio destro di G. B. Manzella nell’opera di diffusione che il missionario promosse della spisitualità vincenziana. La sua casa fungeva da ufficio postale e da magazzeno di raccolta di medaglie, statuine, oggetti sacri e di tutti quei mezzi “didattici” dei quali il Manzella si serviva nel tenere unite le dame della carità di tutta l’isola attraverso il bollettino “La carità” pubblicato dal 1924 fino alla morte dell’infaticabile missionario.[41]

Da umile e attiva dama di carità, piena di iniziativa, aperta alla coeducazione dei bambini in tempi in cui vigeva la netta separazione dei sessi, maria Pittalis non si scandalizzò come tante altre dame e figlie della carità ad ospitare nello stesso “stabilimento” quasi un centinaio di ragazze, circa cinquanta ragazzi, una trentina di portatori di handicap, una cinquantina di anziani, un centinaio di anziane, lungo degenti e autosuffcienti. Fece aprire un asilo per i bambini interni e per quelli del popolare quartiere delle Conce. Fin dal ’48 organizzò colonie campestri e successivamente marine per gli orfani e per le orfani. Fece funzionare all’interno dell’istituto prima una scuola elementare privata per l’istruzione delle abambine e successivamente un corso elementare come sezione staccata delle scuole elementari di san Giuseppe. Lo stabile, agli inizi una sempolice casetta, divenne un immenso caseggiato con centri principali di aggregazione un ampio cortile e la cappella e, in occasione delle accademie, il salone dell’asilo.

Dal ’21, (mancano i registri d’ingresso dei primi dieci anni), alla sua morte avvernuta nel ’51, nella casa hanno soggiornata per mesi ed anni oltre un migliaio di ospiti.

Acccanto a Momina Mannu e ad Ignazia Dettori si colloca tra le protagoniste cattoliche di azione sociale in Sassari nel primo Novecento.

 Laura Carta Segni ( 1896-1977, Sassari)

Laura Carta Segni, nata a Sassari il 18 aprile 1896,   appartenente ad una delle più attive famiglie della borghesia commerciale sassarese, frequentò le scuole elementari formandosi anche lei spiritualmente e intellettualmente presso l’Orfanotrofio delle Figlie di Maria con le figlie dell’aristocrazia ed alta borghesia sassarese, destinate a fortunati matrimoni con esponenti della classe dirigente. Sposò, infatti, nel 1921 Antonio Segni, esponente di primo piano del movimento cattolico sassarese.

Ebbe quattro figli maschi (Celestino 1926, Giuseppe 1928, Paolo 1931, Mario 1939) ai quali dedicò le sue costanti cure materne. Seguì il marito nei momenti esaltanti della sua carriera politica: deputato dal 1946 al 1962, presidente del Consiglio dei Ministri dal 1955 al 1957 e dal 1959 al 1960, Prsidente della Repubblica dal 1962 al 1964.

Fece parte ancora giovanissima del gruppo delle damine di carità che in Sassari diede inizio e consolidò l’istituto Santi Angeli, destinato soprattutto ai bambini illegittimi e a forte disagio familiare.

Fin dal ’29, ancora giovane sposina, entra a far parte delle dame azioniste della Casa Divina Provvidenza, tuttavia, comincia a far parte del consiglio d’amministrazione dal ’47 sotto la presidenza della Pittalis Zirolia insieme a Carmela Marras, Peppina Talu, Maria Bartoli Avitabile, Caterina Spada, Rina Casula, Giovanna Fiori Nuvoli.

Nel gennaio del ’51, dopo le dimissioni della Pittalis Zirolia, entrò a far parte del Consiglio di Amministrazione della “Casa” come rappresentante del vescovo insieme alle consigliere d’elezione assembleare Annina Pirino Sassu, donna Sara Solinas, Costanza Pieroni, Livia Satta Frassetto e fu nominata dal Prefetto quale presidente, di quadriennio in quadriennio fu riconfermata amministratrice dell’ente morale dal 1951 fino al 1964, quando si dimise in seguito alla grave malattia del consorte.

Durante gli anni della sua presidenza la Casa Divina Provvidenza ristrutturò i locali, migliorandoli e rendendoli più funzionali. Si dotò di altri reparti grazie a vari finanziamenti regionali e si organizzò più adeguatamente cominciando ad assicurare il personale infermieristico e a porre le basi per il ritorno dell’ente ai fini statutari: un ospizio per vecchi cronici.

Collaborò proficuamente con le superiore figlie della carità sr. Redenta Dorigo e suor Emma Brambilla rispettivmente superiore l’una dal 1951 al 1964, l’altra da quest’ultima data al 1967. Con suor Barambilla, tuttavia, il sodalizio di collaborazione fu assai forte svolgendo quest’ultima la funzione di segretaria, di tesoriera e di economa di fatto dal suo arrivo (1931) fino alla sua nomina a superiora nel 1967.

 Eufemia Sechi (1893, Cagliari- 1972 Sassari)

 Nata a Cagliari nel 1893 aveva abbracciato la missione dell’insegnamento. Era andata in pensione nel 1958 dopo 42 anni di servizio. Le fu conferita la Ministero della P. I. i diploma di benemerenza di prima classe con facoltà di fregiarsi di medaglia d’oro per “l’opera zelante ed efficace a favore della scuola”.

Membro del consiglio nazionale dell’A.I.M.C. e delegata regionale dell’Associazione per la Sardegna fino al 197O.

Dal 1949 consigliera regionale della D.C., e membro della deputazione provinciale di Sassari.

Fece parte dal 1949 al 1954 del Consiglio regionale.

Dal 1960 al 1964 fu consigliera comunale di Sassari.

Appartenne all’azione cattolica dal 1918 con cariche direttive in campo regionale e nazionale. Per la sua attività in questo campo le fu conferita nel 1958 la Croce “Pro Ecclesia et Pontifice”.

Dal 1950 fu commissaria provinciale dell’ente nazionale per la protezione morale del fanciullo e diede inzio all’attività di tale ente in provincia di Sassari organizzando e promuovendo l’istituzione del centro medico-psico-pedagogico e il centro di servizio sociale..[42]

IV

 Figlie della carità: le vie della città per chiostro.

 Fra le protagoniste cattoliche di azione sociale in Sardegna tra Otto e Novecento non si possono omettere le Figlie della Carità Serve dei poveri; è vero che esse dovrebbero considerarsi propriamente religiose, facendo parte di un istituto di perfezione, ma il loro carisma prima e la loro attività poi, a me pare si debba considerare, più all’interno di quel sotterraneo, ma efficace movimento cattolico femminile di azione sociale che seppe sviluppare insieme alle Dame della Carità, piuttosto che facente parte d’una congregazione religiosa, quindi donne di Chiesa.

Prima di tutto la loro stessa origine: Vincenzo de’ Paoli ripeteva loro “Il vostro monastero sono le case dei malati; la vostra cella è la camera che avete preso in affitto, la vostra cappella è la chiesa della parrocchia; il chiostro le vie della città; la clausura: l’obbedienza, la grata: il timor di Dio; il velo la santa modestia”[43].
A tutto ciò si aggiunga la pronuncia dei voti semplici e non perpetui, per cui allo scoccare della mezzanotte del 24 marzo di ogni anno, chi lo desidera può lasciare lecitamente il servizio dei poveri tornando allo stato secolare o rinnovare i voti restando figlia della carità.

In secondo luogo la loro stessa attività: avere per monastero le case dei malati e per chiostro le vie della città non significa davvero trovare la perfezione nella clausura, ma operare eminentemente nella società, a partire dal basso, per trasformarla.

In terzo luogo queste giovani, adulte o anziane filles de la charité, in una Sardegna ottocentesca in cui di fronte alla generale povertà andavano accumulandosi le prime ricchezze di una borghesia agraria e delle professioni e sfaldandosi per tanti versi le rendite degli aristocratici e del clero in carriera, in cui specialmente dopo la fusione col Piemonte e la rinuncia all’autonomia del Regnum Sardiniae esplodevano sul piano sociale tutte le contraddizioni addosso agli strati sociali più diseredati sia dei numerosissimi e isolatissimi centri rurali e delle isole sarde (La Maddalena, Carloforte, per citarne alcune), sia dei tuguri dei centri storici di Cagliari e di Sassari, ma anche di quelli di Iglesias e di Alghero, di Bosa e delle zone minerarie dell’Iglesiente, certo queste figlie della carità non potevano operare che in campo sociale alla stessa maniera con cui lo fecero i “vescovi sociali”, i preti “intellettuali”, ” i contemplativi in azione” visto il ruolo limitato dei laici cattolici, aristocratici e borghesi, e i limiti delle “autorizzazioni maritali” che lo stato unitario imponeva alle donne stesse impegnate in campo sociale[44].

Da ciò la scelta di recuperare alla memoria storica queste figure di “donne di azione sociale” , sia pure con un’abito folcloristico da contadine francesi del Seicento, che nella direzione, nello sviluppo delle strutture socio-assistenziali, educative, formative, richieste dai bisogni che sorgevano da tutte le parti dell’isola, seppero dare una risposta silenziosa, concreta, atta però a promuovere la crescita materiale, morale ed intellettuale della dispersa popolazione di una terra geograficamente spezzettata, culturalmente frantumata, unificata soltanto dalla comune miseria[45].

Quando le Figlie della Carità giunsero in Sardegna, la situazione non era delle migliori, a Sassari infatti, l’anno prima c’era stata l’epidemia di colera. Erano undici suore destinate al servizio dei malati: sei nell’ospedale di Cagliari e cinque in quello di Sassari .

Purtroppo gli archivi della comunità di Cagliari, risalenti al 1856, riportano solamente le firme del p. Durando, della visitatrice suor M. Mazin (1796-1869) e della superiora di Cagliari suor Gottfray. Da mettere in nota

Nei primi anni di permanenza in Sardegna portarono una ventata di novità, tenendo in considerazione il fatto che nell’Isola erano fiorenti le comunità di vita contemplativa.

A Sassari trovarono una gran mole di lavoro, oltre che nell’Ospedale Civile, da poco inaugurato dall’arcivescovo mons. Varesini, presso l’Orfanotrofio delle Figlie di Maria, fondato dal marchese Vittorio Pilo Boyl nel 1832 e diretto inizialmente dalle Fieschine di Genova, nell’assistenza agli orfani dell’Ospizio San Vincenzo de Paoli, fondato da Carlo Rugiu alcuni anni prima, e più tardi nell’Asilo infantile di Sant’Apollinare e nelle altre successive istituzioni[46].

Furono le stesse figlie della Carità a richiedere nuovamente la presenza dei confra­telli Preti della Missione, dopo la tragica esperienza ad Oristano (1836-1866) che li aveva visti soccombere tutti alla malaria. Essi ritornarono rispettivamente nel 1878 a Cagliari e nel 1879 a Sassari, si occuparono anche della loro direzione spiri­tuale.

Furono molte le vocazioni che le vincenziane suscitarono nell’Isola tanto che spesso il seminario delle Figlie della Carità di Torino arrivò ad avere un 50% di seminariste sarde.

Entrarono, specie nel primo cinquantennio di questo secolo, tra le Figlie della Carità molte giovani donne provenienti dalle più celebri famiglie della Sardegna come i Sanjust, gli Amat, i Cugia, i Tola, i Sussarello, i Corda, i Passino, i Melis, i Comida e altre famiglie nobili.

Destinate per istituzione al servizio dei poveri le Figlie della Carità furono chiamate negli ospedali, nelle case di cura specialistiche, ma soprattutto istituirono in numerosi centri dell’Isola asili infantili di metodo aportiano e gestirono istituti per orfani di entrambi i sessi, scuole ed educandati femminili, asili per vecchi e per handicappati nonché colonie campestri e marine, case di accoglienza per il recupero di ragazze tolte dalla strada.

A Cagliari furono attive nelle seguenti strutture ospedaliere o assistenziali: Ospedale civile san Giovanni di Dio 1856, Asilo Carlo Felice 1861, Asilo della marina 1864, Asilo San Giuseppe 1866, Conservatorio Reale 1877, Istituto Sordomuti 1882, Casa di mendicità Vittorio Emanuele 1887, Ospedale psichiatrico 1897, Ospedale SS. Trinità, Istituto dei Ciechi 1901, Prigioni 1902, Ricovero Piccola Casa, Asilo Umberto e Margherita di Savoia 1918, Casa delle Madri 1921, Brefotrofio 1926, Infanzia ab­bandonata 1928, Clinica Pediatrica 1938, Protezione della giovane 1947. Oltre a queste case si annoverano numerosi asili infantili.

A Sassari operarono nelle seguenti strutture: Ospedale Civile SS. Annunziata e Regio Orfanotrofio 1856, Ospizio San Vincenzo 1864, Asilo Sant’Apollinare 1879, Ricovero di mendicità M. di Castelvì 1880, Rifugio Gesù Bambino e Ospedale Psichiatrico 1904, Casa Divina Provvidenza 1918, Policlinico Sassarese 1925, Istituto dei sor­domuti 1927, Colonia Campestre 1928, Istituto dei Ciechi 1935, Cliniche Universitarie 1937, Brefotrofio 1942, Mater Misericordiae 1949, Clinica Otorino 1963, Ospedale Civile Nuovo 1968.

Furono presenti oltre che nelle grandi città dell’Isola anche nei medi e piccoli centri rurali grazie all’opera di generosi donatori e donatrici laici, zelanti sacerdoti i quali diedero vita a istituzioni benefiche di ogni genere nei comuni di Quartu S. Elena, La Maddalena, Oristano, Thiesi, Milis, Nulvi, Ozieri, Tresnuraghes, Tempio, Bonorva, Olbia e numerosi altri centri così come emerge dall’elenco degli asili da esse gestiti nel corso del primo cinquantennio del Novecento.

Nel 1903 a La Maddalena l’Istituto S. Vincenzo, nel 1904 ad Olzai una scuola materna, nel 1905 a Thiesi un asilo, nel 1912 a Nuoro una scuola materna, a Nulvi un asilo orfanotrofio, nel 1920 ad Aritzo una scuola materna, a Quartu l’asilo orfano­trofio Dessì, ad Olbia l’Istituto S. Vincenzo, nel 1922 ad Ittiri una scuola materna, a Bosa una scuola materna, nel 1923 ad Isili un asilo, a Carloforte un asilo, nel 1925 a Borore una scuola materna, a Laconi una scuola materna, nel 1926 a Luras una scuola materna, nel a Quartu l’asilo Steria, nel 1927 a Milis una scuola materna, nel 1930 a Calangianus un asilo, nel 1930 ad Osilo un asilo orfanotrofio, a Sorso un asilo orfanotrofio, nel 1931 a Mores una scuola materna, nel 1933 a Porto Torres una scuola materna, nel 1946 a Tresnuraghes un asilo orfanotrofio, nel 1949 ad Arborea un post brefotrofio, nel 1950 ad Abbasanta una scuola materna, nel 1950 a Belvì una scuola materna.

D’estate molti istituti possedevano una casa di accoglienza propria sulle spiagge per permettere ai ragazzi e alle fanciulle dei 18 orfanotrofi di trascorrere le vacanze; a Castelsardo la casa di S. Giuseppe, ad Alghero la Casa Laura Segni, a Quartu, ad Oristano, a La Maddalena altrettante case estive.

Sono circa una ventina i ricoveri per i vecchi e diseredati ap­partenenti alle Figlie della Carità sparsi in Sardegna dalle antiche costruzioni di Cagliari, Oristano e Sassari alle più recenti di Sorgono Laconi e Milis.

Non mancarono di essere presenti o di fondare e dirigere istituti per i minorati come quello dei ciechi e dei sordomuti a Cagliari e a Sassari e quelli per l’infanzia abbandonata.

A queste attività interne alle istituzioni si aggiungono quelle esterne nelle varie associazioni

Adattandosi alle esigenze dei tempi le Figlie della Carità sono state presenti nel servizio a domicilio di persone sole anziane e malate, attive nella comunità “Primavera” di Alghero per tossicodipendenti, nel centro accoglienza di Cagliari che da circa cinque anni ha lo scopo di aiutare adolescenti, senza famiglia, emarginati.

Le prime undici Figlie della Carità giunsero in Sardegna nella primavera del 1856, a cinque anni dalla proclamazione del Regno d’Italia, proprio nel momento in cui l’isola, oltre agli altri mali andava curando le ferite delle ultime epidemie di colera.

Sei di esse presero servizio presso l’Ospedale civile di Cagliari e cinque in quello di Sassari. Non si chiusero certo in queste strutture sanitarie, ma ebbero subito l’occasione di prendere contatto anche tramite i ricoverati, i signori delle conferenze di San Vincenzo promossi nelle due città dal nobiluomo sassarese Carlo Rugiu Tealdi, le stesse calorose Dame della Carità fondate a Cagliari nello stesso anno del loro arrivo con una situazione di miseria e di arretratezza.

Si resero subito conto che a Cagliari l’Asilo Carlo Felice e il Conservatorio della Provvidenza, strutture assistenziali educative per accogliere gli scatenati picciocus de crobi e ragazze pericolanti e pericolate di tutte le età avevano bisogno di loro; che anche a Sassari l’Orfanotrofio femminile delle Figlie di Maria Addolorata, fondato dal nobiluomo Vittorio Boyl, richiedeva educatrici; la stessa esigenze avvertiva C. Rugiu che si apprestava ad aprire presso il colle dei Cappuccini, fuori le mura, l’Ospizio San Vincenzo per le frotte ingovernabili di pizzinni pizzoni che percorrevano la città compiendo ogni sorta di monellerie ai limiti della piccola criminalità[47].

E così a gruppi di tre, di cinque, di sette, imbarcandosi da Genova, con i piroscafi disponibili e lunghe peripezie di navigazione le Figlie della Carità, di origine francese, piemontese, liguri, lombarde cominciarono ad occupare i loro punti forza operativi nell’isola in cui le pressanti esigenze di povertà le chiamavano.

Il loro esempio, la loro vita tra i poveri, i loro stessi voti semplici o a tempo, forse; la miseria delle famiglie con scarse prospettive di futuro, la scoperta improvvisa di una vocazione nobile, forse anche il desiderio di andare oltre il mare per la frequenza del seminario a Torino, ma anche a Parigi o forse tutte queste cose insieme e altre spinsero molte giovinette sarde anche dell’aristocrazia, della buona borghesia cagliaritana e sassarese, ma soprattutto figlie di pastori e di contadini, di artigiani e di minatori ad arruolarsi generosamente in questa schiera di “suore con le ali” per il servizio dei poveri. Così avvenne che il seminario di San Salvario di Torino cominciò a pullulare di seminariste sarde che man mano divennero così numerose che le suore dirigenti furono costrette a limitare gli arrivi. Man mano che le nuove reclute aumentavano il loro numero in Sardegna andò accrescendosi tanto che ad oltre un secolo dalla presenza dall’arrivo delle prime, nel 1957, raggiunto il numero di circa 651 la Sardegna fu creata provincia religiosa autonoma senza dover dipendere da Torino, ferma restando la statutaria direzione spirituale dai preti della missione che continuarono a far parte della provincia torinese[48].

Il picco massimo delle Figlie della Carità della provincia sarda lo si raggiunse nel 1958 con 766 unità. Da allora ebbe inizio un lentissimo ma graduale decremento decennale: nel 1978 con 691 suore, nel 1988 con 579, nel 1998 con 430. Decremento dovuto alla drammatica diminuzione delle vocazioni a partire dagli anni Settanta e al progressivo invecchiamento e scomparsa delle suore anziane[49].

Moltissime di queste suore, specialmente nel corso del primo secolo della loro attività (1856-1870), si distinsero per iniziative sociali, per le realizzazioni ed impegno nell’umile lavoro di serve dei poveri, infermiere degli ammalati, madri degli orfani, girovaghe delle città alla ricerca in visita domiciliare ai poveri, ma anche coraggiose manager nella realizzazione con le dame della carità di strutture di accoglienza per ogni genere di persona a disagio con le quali quotidianamente venivano a contatto.

I settori di azione furono i più disparati: l’educazione, l’istruzione, l’insegnamento di lavori artigianali e domestici femminili dei fanciulli e dei giovani di entrambi i sessi, compresi i portatori di handicap; l’assistenza ospedaliera a tutte le fasce di età; l’assistenza sociale domiciliare e nelle varie istituzioni educative e di accoglienza per anziani autosufficienti o lungodegenti; la catechesi, l’animazione parrocchiale, la conduzione di colonie estive in località climatiche varie e la promozione delle attività ginniche. Case e centri di accoglienza di soggiorno temporaneo per la formazione morale e, ultimamente case famiglia per ragazzi e ragazze di ogni fascia di età.

Si calcola che nel corso di circa un secolo abbiano operato nell’ isola per periodi brevi o lunghi non meno di tre mila suore[50].

Altrove si è parlato delle loro case: asili infantili, scuole primarie, istituti e scuole magistrali, educandati, studentati, brefotrofi, orfanotrofi, case per anziani, per “ciechi e sordomuti”[51].

In questo studio ci interessa presentare alcune tra le tantissime protagoniste di azione sociale, figlie della carità, scelte unicamente per l’opportunità di avere a disposizione dei dati documentati.

Le ricerche sono ancora in atto e si spera nei prossimi anni di predisporre un ampio lavoro su queste pioniere di azione sociale in Sardegna nell’Otto e nel Novecento[52].

Maria Calcagno (1839-1916, Cagliari)

Nata il 1 marzo 1839, entrò A San Salvario a Torino nel 1860, l’anno successivo vestì l’abito di figlia della carità. Nel 1868 fu inviata a Cagliari presso l’Asilo Carlo Felice che diresse come superiora delle figlie della carità per 48 anni, fino alla morte avvenuta il 21 maggio 1916.

Il maggiore cav. Carlo Cappai, uomo singolarmente pietoso, le affidò l’Opera della Misericordia per soccorrere gl’indigenti. Questa pia istituzione, che conta circa trent’anni di vita florida, deve la sua prosperità alle amorose cure della buona suora ed ai larghi soccorsi che le provennero dalla Dame della Conferenza, e dalla munificenza della regina Margherita di Savoia che fin dal 1889, quando visitò la città le assegnò un sussidio di 1400 lire annue.

Sr. Maria Calcagno si contraddisitnse per l’intelligente ed efficace direzione dell’Asilo Carlo felice, fondato nel 1850, e a cui ella ha dedicato le sue cure fin dal dal suo arrivo a Cagliari.

Da donna intelligente e intraprendente, suor Calcagno capì subito che l’istituto non avrebbe potuto fare grandi progressi se non avesse avuto un locale adeguato. Riuscita, con la propria attività e la generosità dei privati, ad acquistare il locale ove l’istituto si trovava provvisoriamente allogato, riuscì in seguito a edificarlo quasi dalle fondamenta, trasformandolo in un elegante edificio. In tal modo poté, accogliere un maggior numero di bambini poveri, istituire un convitto ed una scuola femminile per fanciulle aristocratiche e alto borghesi con annesso laboratorio di cucito, maglieria e ricamo.

Nel primo decennio del ‘900 l’asilo educava ed istruiva oltre 4OO bambini poveri, cui giornalmente si somministrava una refezione calda; circa un centinaio fra convittrici ed alunne esterne.
Tra l’asilo e l’opera della Misericordia, sotto la sua direzione le figlie della carità da più di vent’anni, e beneficavano giornalmente più di 800 persone.” (p. 152)

Il Governo ha conferito a suor Maria Calcagno la medaglia d’oro[53].

Giuseppina Nicòli (1863, Casatisma (PV) – 1924, Cagliari)

1940)

   Nata a Casatisma (Pavia) 18 novembre 1863, a Pavia consegue la patente superiore della scuola normale il 31 ottobre del 1882 , inizia il postulato di figlia della carità a Torino presso San Salvario il 24 settembre 1883; veste l’abito di Figlia della carità a Parigi a Rue du Bac il 9 agosto 1884, insegnante elementare a Cagliari al Conservatorio della Provvidenza (1884-1899), superiora a Sassari presso l’Orfanotrofio delle Figlie di Maria (1899-1910), economa e poi direttrice delle novizie a Torino San Salvario (1910-1913), superiora dell’Orfanotrofio di Sassari (1913-1914), superiora all’Asilo della Marina in Cagliari (1914-1924) dove muore il 31 dicembre 1924 in concetto di santità.

Nata a Casatisma, piccolo paese nelle vicinanze di Voghera, il 18 Novembre 1863 a due anni dall’Unità d’Italia, fu battezzata il giorno 22 dello stesso mese e le furono imposti i nomi di Maria Paola Giuseppina Anastasia. I genitori e i familiari la chiamarono Giuseppina a ricordo della nonna paterna scomparsa da pochi anni e che aveva fama di donna religiosa e pia.

Era la quinta dei dieci figli che nacquero dal matrimonio dell’avv. Carlo e di Delfina Pincetti: Niccolò, Giovanni (morto ad undici mesi), Itala, Giovanni, Giuseppina, Faustina, Francesco, Luigina, Paolina, Maria.

I genitori erano profondamente religiosi, ma politicamente liberali.

Frequentò la scuola elementare prima a Casatisma e poi, dal 1871, nelle scuole delle suore Agostiniane di Voghera, con ottime votazioni e con distinta condotta, spesso citata a modello, sia dagl’ insegnanti che dalle compagne.

In IV elementare, il 4 Aprile 1873, ricevette la Prima Comunione.

Ultimate le scuole elementari frequentò anche il triennio delle scuole complementari, seguito da un biennio di studio presso insegnanti privati di francese e di italiano.

Partecipava con scrupolo alla vita familiare dove era abituale la preghiera comune. Freuqntava assiduamente la parrocchia partecipando assiduamente ai Sacramenti.

A Voghera conobbe Don Giacomo Prinetti, fratello del futuro fondatore delle Figlie di san Giuseppe in Sardegna e lo scelse, seguendo l’uso dei praticanti dell’epoca come confessore e direttore spirituale.

A 13 anni si fece volontaria infermiera del fratello Giovanni, che caduto gravemente ammalato nel maggio del 1877 morì nell’agosto dello stesso anno.

Spinta poi dal desiderio di istruirsi ulteriormente passò a Pavia per frequentarvi il triennio delle scuole normali e conseguire la patente di grado superiore della scuola elementare. Il primo anno fu ospite presso una zia materna successivamente entrò nel convitto diretto dalla rinomata direttrice sig.ra Bassi.

Di animo sensibilissimo, avvertì molto la lontananza della famiglia e raccontava che ogniqualvolta tornava dalla famiglia in collegio piangeva per tre giorni, tuttavia il sentimento del dovere era in lei molto radicato ed era felice di potere studiare per essere un giorno utile alla società.

Nello studio fu tra le prime allieve; nonostante dati i tempi di forte anticlericalismo, specie in ambito scolastico, seppe dare testimonianza di fede genuina tra le compagne e i professori, riuscendo a far apprezzare da tutti il suo sentimento religioso suscitando l’ammirazione anche delle persone indifferenti.

Nell’ottobre del 1882, dopo il brillante il conseguimento della patente di maestra elementare di grado superiore, con ottime votazioni partecipò a Voghera ad una una conferenza magistrale presieduta dal prof. Pasotti, Direttore della Scuola Magistrale di Pavia. Incaricata di tenere una lezione pratica sul baco da seta: assolse così bene il suo compito da meritare il paluso di partecipanti e professori.

L’ormai diciannovenne Giuseppina non volle continuare più oltre i suoi studi per ottenere il titolo di professoressa seguendo i corsi complementari di Firenze o di Roma, ma preferì dare lezioni private, preferibilmente ai poveri e rifiutando da questi ogni compenso, con l’intento di istruirli e di dar loro un orientamento cristiano.

Per circa tre mesi insegnò come supplente in un istituto di Pavia, facendo un’ottima impressione.[54].

Dato il forte attaccamento alla fede e l’assidua pietà della giovane, in famiglia si temeva che che prima o poi manifestasse l’intenzione di entrare in qualche congregazione religiosa.

Nell’83, dopo essersi consigliata col proprio direttore spirituale, comunicò ai suoi la decisione di entrare a far parte della compagnia delle figlie della carità. Nonostante le riserve e il dispiacere del padre, il 24 settembre Giuseppina entrò nella Casa Provinciale delle figlie della carità di San Salvario in Torino, accompagnata dalla madre e dal fratello Niccolò.

     Da San Salvario, per i tre mesi di Postulato venne destinata alla casa dell’Istituto Alfieri-Carrù della stessa città, tornò a San Salvario per i sette mesi di noviziato, che ebbe inizio il 22 dicembre. In una lettera del 23 dello stesso mese, Giuseppina comunica ai suoi la bella notizia di aver incominciato una nuova vita. Ed in altre lettere successive traccia quasi alcune linee di teologia ascetica-positiva della vita consacrata sostenendo che il distacco dai famigliari è lontananza vissuta nella gioia per amor di Dio; che negarsi talvolta la soddisfazione di scrivere alla famiglia giova alla maturazione e alla libertà di chi intende dire sempre sì al Signore e che il tempo di formazione nel seminario è da lei vissuto come proficua preparazione alla missione di figlia della carità.

   Giuseppina trascorse a San Salvario, alcuni mes, con altre 81 novizie: poi il Consiglio Provinciale ne scelse sei, lei compresa, a migliorare la loro formazione presso la Casa Madre delle figlie della carità a rue du Bac a Parigi.

Là il 9 agosto dell’84, nella grande cappella in cui si conservano le reliquie di santa Luisa di Marillac e la salma di santa Caterina Labouré vestì il caratteristico abito delle figlie della carità.

Nello stesso anno, rientrata i Italia, fu destinata al Conservatorio della Provvidenza di Cagliari dove trova un ambiente vivo, guidata da un’ottima superiora, con ragazze vivacissime, ma di belle qualità (circa 200 allieve, delle quali 60 interne, le rimanenti esterne), provenienti dalle famiglie socialmente più elevate del capoluogo sardo quelle esterne, da situazioni di disagio familiare quelle interne.

Sr. Giuseppina vive e lavora consorelle che si adoperano per il miglioramento culturale, pedagogico e didattico delle alunne, insegnando nella Scuola Complementare.

   In questo incarico mostrò molta dottrina, infondendo tra l’altro, con l’esempio, un grande fervore per la fede ed una particolare devozione per l’Eucarestia.

   Dolce e ferma con le ragazze, adempiva il suo compito con uno scrupolo e professionalità, procurandosi l’ammirazione delle educande e la stima delle consorelle.

Insegnava inoltre con grande slancio e zelo il catechismo ai giovani studenti e operai della Pia Unione dei Figli di Maria (detti Luigini, perché posti sotto la protezione di S. Luigi), da lei fondata e diretta: li preparava alla prima comunione e in quell’occasione donava ai più poveri vestiti e oggetti utili allo studio e al lavoro.

In una sua lettera alla famiglia narra con particolare soddisfazione che i Luigini preparavano con grande impegno, contribuendo ciascuno con 10 centesimi alla settimana, la festa del loro celeste Patrono, del quale si erano procurati una statua: tenevano accademie alle quali intervenivano sacerdoti e talvolta lo stesso Arcivescovo. Spesso erano i ragazzi provenienti da famiglie operaie a leggere i componimenti di carattere religioso.

Il salesiano don Francesco Congiu, che da ragazzo fece parte dell’associazione, conserva un ricordo particolarissimo dei catechismi domenicali, pure curati da lei: fin da ragazzo desiderava farsi sacerdote, ma le difficoltà economiche della famiglia glielo avevano impedito. A 19 anni, per interessamento di suor. Nicoli, potè finalmente entrare nel Collegio Salesiano di Lanusei e seguire la sua vocazione.

Suor Giuseppina, che amava l’elevazione sociale e culturale delle persone umili e non abbienti, istruiva icon lezioni supplementari il personale di servizio e alcuni giovani operai, e si adoperò per la propagazione dell’Opera della Santa Infanzia, anche quando a Cagliari non c’era ancora la diffusione delle Opere Missionarie.

   Nella notte di Natale dell’88 pronunziò i voti semplici secondo le regole delle figlie della carità.

In questa occasione le fu donato il crocefisso cavo all’interno del quale, all’atto della sua morte, fu rinvenuta una preghiera scritta di suo pungo composta in quell’occasione in cui chiedeva al Signore di volerlo sempre fedelmente servire, praticando la povertà, la castità, l’obbedienza e servendo per suo amore i poveri.

 Nel giugno del 99 fu trasferita a Sassari in qualità di superiora all’Orfanotrofio delle figlie di Maria , fondato nel 1832 da Vittorio Boyl marchese di Putifigari, ubicato nei locali dell’ex convento domenicano, nella periferia alta del centro storico, accanto alla chiesa del Rosario, amministrato da notabili laici sassaresi non sempre in armonia con le educatrici figlie della carità.

   La nomina era stata deliberata nel Consiglio Provinciale di Torino del 14 Giugno 1899. Pochi giorni prima dell’arrivo a Sassari di Sr. Nicoli, la Visitatrice Sr. Anastasie Lequette scriveva al Presidente dell’Orfanotrofio di Sassari, deplorando l’atteggiamento di penosa diffidenza daparte dell’Amministrazione nei confronti della ex superiora suor. Cassini, descritta come fortemente provata da questo atteggiamento, e invocando benevolenza verso Sr. Nicoli.

La buona suora umile e con un vivissimo senso del dovere, nella prima lettera ai famigliari da Sassari esprime come appunto senta il peso del nuovo compito in un istituto grande e con varie opere, ma confida nel Signore, nell’aiuto dei superiori e nella preghiera dei famigliari.

In effetti ella fu costretta ad operare tra molte difficoltà sia a causa dei rapporti ancora tesi con gli amministratori della più antica istituzione femminile di Sassari sia per il disagio che regna tra le consorelle di Sant’Apollinare, dipendenti dalla superiora dell’Orfanotrofio, ma che apparivano insofferenti di tale dipendenza.

La brava suora conferma le difficoltà con l’Amministrazione con la lettera della alla Visitatrice del 10 Agosto 1899, nella quale, a soli due mesi dalla sua nomina a superiora, ella è costretta a segnalare il malcontento della città contro la stessa Amministrazione laica (dovuto probabilmente all’aumento della quote di frequenza per le allieve esterne): d’altra parte lo stesso Presidente dell’Istituto la prega di intercedere presso le socie sostenitrici dell’Orfanotrofio e di procurare nuove benefattrici e altre alunne!

Quanto poi alle polemiche con le consorelle della Comunità dell’asilo di Sant’Apollinare, ella dà un fulgido esempio di disponibilità e caritàesprimendo il suo desiderio di collaborare con tutte le consorelle (anche con Sr. Giuseppina Preve, dinamica e capace responsabile della succursale di Sant’Apollinare, ma un pò troppo portata all’autonomia). In questa corrispondenza con le superiore di Torino non accentua mai il negativo delle situazioni, ma insiste sulla speranza, sul miglioramento delle persone, sul bene che si può compiere. Atteggiamento pienamente confermato nella lettera del 14 Ottobre del ’99, con la quale ribadisce la sua intenzione di collaborare con Sr. Preve, che pure è stata ripresa dai Superiori, e manifesta la propria fede nella preghiera per la soluzione dei problemi relativi alla scuola, alle rette e alla frequenza.

Sempre sorretta da questa Fede e da una grande carità, anche a Sassari Sr. Nicoli favorì le scuole di catechismo per tutte le categorie di giovani, comprese le domestiche, ed in genere l’istruzione religiosa dei fanciulli.

   La domenica, come ricorda una consorella, si arrivò ad avere anche 800 bambini al catechismo, e nelle varie attività di insegnamento appariva l’anima di tutto. Contribuì inoltre alla istituzione di una scuola superiore di religione per le studentesse aristocratiche, coadiuvandone poi lo sviluppo, in tempi in cui l’insegnamento religioso non esisteva affatto nelle scuole e in cui a Sassari come a Cagliari soffiava un forte vento di anticlericalismo.

Anche a causa di questo fervente apostolato, non mancarono certo momenti critici per l’Orfanotrofio. Nella sua lettera alla Visitatrice del 2 Marzo 1903, ella accenna ad un vento massonico che soffia contro l’Istituto, provocando anche esitazioni operative nel Consiglio di Amministrazione, ma non si perse mai d’animo: confidò come sempre nell’aiuto di Dio e proseguì nella sua opera.

Una grande predilezione ebbe per l’associazione delle Figlie di Maria che ebbe in lei una direttrice e una zelatrice attivissima. Escogitava numerose iniziative per attirare la gioventù e prevenirne le devianze morali sia con recite, con giochi sportivi e sani intrattenimenti adeguati all’età. Particolarmente interessante, per questo periodo della vita del suo apostolato, è la testimonianza del sacerdote Frazioli tra i promotori della maschile associazione studentesca “Silvio Pellico” e Direttore anche di una sezione femminile delle Scuole di Religione nell’Orfanotrofio.

   A Sassari Suor Nicoli ebbe modo di manifestare, insieme con il suo grande zelo per l’istruzione religiosa, ma anche l’amore per i poveri, che qui si espresse soprattutto verso le orfane. Sua cura particolare fu anche l’assistenza ai malati e ai bisognosi. Favorì seguendo l’esempio di G. B. Manzella e degli altri missionari vincenziani l’incremento delle dame della carità, che nella città fu molto operosa e benefica, e si adoperò per introdurre le suore nll’assistenza alle carcerate.

Questo primo periodo sassarese se per un verso era stato inizialmente difficile andava concludendosi con grande soddisfazione.

Secondo la tradizione delle figlie della carità le suore periodicamente debbono essere trasferite e il Consiglio Provinciale di Torino nel 1910 deliberò la nomina di Sr. Giuseppina ad Economa provinciale.

   Il trasferimento a Torino fu comunicato al Presidente dell’Orfanotrofio avv. prof. Giovanni Dettori (1904-1930) che manifestò il suo rammarico.

E’ indubbio che sr. Nicoli visse questo trasferimento come un grande, penoso sacrificio: sia per l’ufficio di economa, così diverso da quello tenuto fino ad allora, sia per l’impossibilità di attendere all’apostolato diretto della gioventù e dei poveri per il quale aveva spiccate attitudini. La sua disponibilità e l’accettazione di quello che era stato disposto dai Superiori fu anche un esempio del suo straordinario esercizio di virtù come l’umiltà e l’obbedienza. E come in ogni caso ella vivesse questo incarico direttivo in uno spirito di assoluta dedizione e di servizio e come sempre non si risparmiò neanche sul piano fisico.

Per le doti già ampiamente da lei dimostrate, Sr. Nicoli, ancora Economa, venne chiamata talvolta a fare le istruzioni alle seminariste in sostituzione della Direttrice Sr. Ritter, che era ammalata. Successivamente, non riprendendosi Sr. Ritter, per regolarizzare la situazione, il Consiglio Provinciale decise di proporre la stessa Sr. Nicoli come nuova Direttrice del Seminario.

   Dal 17 Febbraio 1912 conclusa la sua esperienza di economa provinciale viene nominata direttrice delle Novizie.

Nel comunicarlo alla madre, ella si dice contenta, sia perché presenta il nuovo ufficio di Direttrice del Seminario come inferiore a quello di Economa Provinciale (non fa più parte del Consiglio Provinciale, o Cordon bleu, secondo l’espressione importata dalle Figlie della Carità francesi), sia perché preferisce maggiormente stare con le giovani come guida ed educatrice. Sempre però umile e quasi portata ad evidenziare presunti limiti ed incapacità, considerandosi indegna ed incapace di sostenere questo compito, nonostante le Novizie stesse affermassero che svolgeva molto bene il suo compito.

   Nell’adempimento delle sue funzioni, già cagionevole di salute, accompagnò a Parigi nel 1912 le seminariste che dovevano prendere l’abito: anche a causa del viaggio il suo stato si aggravò e si rese necessario consultare i medici. Sr. Marie Rossignol, nominata Visitatrice il 26 Giugno 1912, in un suo appunto datato 22 Dicembre 1912 annota il giudizio ed il suggerimento del medico Prof. Pescarolo riguardanti la salute e l’ufficio della Serva di Dio.

   Nella riunione del 9 Gennaio 1913 il Consiglio Provinciale, pur giudicando positiva ed esemplare l’esperienza della sua Direzione,deliberò, abbisognando la sua salute del più favorevole clima della Sardegna, di inviarla come Superiora di nuovo a Sassari.

     Il Presidente dell’Orfanotrofio fu informato con lettera della Visitatrice datata 18 Gennaio 1913, nella quale si accenna ai motivi di salute alla base della decisione, alla precedente positiva esperienza della Serva di Dio a Sassari e alla sicura continuità rispetto alla linea della Superiora uscente Sr. Zari. Quando però vi ritornò, vi trovò un clima completamente cambiato, sia nella Comunità che nell’Amministrazione Civile dell’Orfanotrofio. Anche il citato Sac. Nicolò Fazioli, ne restò stupito.

   Illuminante a questo proposito è stata la testimonianza della Sig.na Ignazia Dettori, figlia di Giovanni, che era Presidente dell’Amministrazione Civile in quel periodo.che accenna al fatto che la Comunità, a un certo momento, quasi si divise in due gruppi: uno con la superiora, l’altro con l’Amministrazione che nutriva particolare stima per l’intraprendente suor Provano che tendeva a sostituirsi alla superiora.

Sta che l’avv. Dettori, presumibilmente contrariato per il trasferimento di sr. Zari, o per ripicca o perché favorevole a nuovi sviluppi della situazione manifestò le sue riserve su Sr. Nicoli e i superiori a malincuore e manifestando la loro contrarietà per evitare ulteriore disagio alla buona e stimata suora pensarono di trasferirla come superiora dell’Asilo della Marina a Cagliari con patente di nomina dell’8 Luglio 1914 del Superiore Generale della Congregazione della Missione e della Compagnia delle Figlie della Carità, Antoine Fiat.

   Il 7 Agosto 1914 la Serva di Dio giungeva alla sua nuova sede.

Ll suo primo atto fu l’assistenza, prestata anche personalmente, ad una suora moribonda, che spirò poi il 15 agosto. Anche questo episodio contribuì a creare un clima di piccole lotte e subdole ribellioni, che amareggiò molto Sr. Nicoli, ma che ella sopportò con grande equilibrio..

In effetti a molte delle Suore dispiaceva separarsi dalla Superiora precedente, Suor Ottaggio, ma suor Nicoli non se ne lamentò mai, riconoscendo anzi che la superiora precedente era migliore di lei e che accettava l’ufficio solo per ubbidienza.

   Già dal successivo Ottobre si adoperò per aprire la Scuola di Religione che in quei tempi in cui la Religione non solo era insegnata nelle scuole pubbliche, ma era insidiata o apertamente combattuta, rappresentò un provvidenziale mezzo di formazione religiosa della gioventù studiosa. Prima ne entusiasmò le Suore, poi ne interessò i Missionari, infine si rivolse all’Arcivescovo, che la incoraggiò e l’appoggiò. Gli inizi non furono facili: tanto che, fatti gli inviti, le alunne non si presentavano.

   La scuola fu poi molto fiorente e frequentata dalla gioventù femminile.

In modo particolare diede buon frutto il corso di formazione per le insegnanti che il primo anno venne frequentato da oltre cento maestre che conseguirono il diploma di abilitazione all’insegnamento religioso nelle scuole pubbliche. Anche negli anni successivi un gran numero di alunne conseguì il diploma, e anzi lo sviluppo fu tale che, non bastando più i locali, si aprirono altre due scuole, sempre dirette dalle Figlie della Carità: una all’Asilo Carlo Felice e l’altra al Conservatorio della Provvidenza.   Le iscritte, accompagnate dalla stessa Sr. Nicoli o da altra suora, portavano soccorsi in natura a domicilio ai poveri e ai malati, sovvenendo ai loro bisogni, materiali e spirituali, sull’esempio della conferenza di S. Vincenzo.

Ancora per sua iniziativa venne impiantato nell’Istituto un laboratorio, dove una volta alla settimana si radunavano le Damine per riparare o cucire abiti ed indumenti da distribuire ai poveri. Le Damine furono inoltre le prime ad essere mandate da suor Nicoli a collaborare con le Suore alla Colonia Marina del Poetto a Cagliari, affidatale dalla comunale Congregazione di Carità di Cagliari, per assistere i ragazzi scrofolosi, ridare e fortificare loro la salute ed istruirli nel catechismo per ricevere i sacramenti. Ella volle che uno dei carrozzoni, di cui era composta la Colonia, fosse destinato a Cappella in cui si potesse celebrare la santa Messa e conservare il Santissimo Sacramento. Nelle ore pomeridiane, sotto i capannoni, si faceva il catechismo e non mancavano le Messe festive, le Comunioni generali, talvolta anche con l’intervento dello stesso Arcivescovo di Cagliari.

Va notato che per attuare questa sua iniziativa dovette lottare con l’Amministrazione della Colonia, e si deve alla sua fermezza se essa poté realizzarsi. Fu proprio alla Colonia del Poetto che si verificò uno degli episodi più tristi della vita di Sr. Nicoli.

   Non mancarono le difficoltà e le opposizioni: i bambini ospitati erano gracili, con piaghe ributtanti e molti se ne lagnavano come se questo suo modo di operare fosse un pericolo per l’igiene. Tuttavia ella finì col trascinare gli altri a seguire il suo esempio. Attendeva personalmente a fatiche per lei gravosissime, come trasportare i bambini che non potevano camminare sull’ampia distesa di sabbia che circondava la colonia: prediligeva poi quelli che erano in condizioni più pietose, che spesso erano ospitati nella sua stanza, trasformata così in dormitorio e infermeria.

   Gli anni della fondazione e dello sviluppo della Colonia del Poetto coincisero con gli anni della Grande Guerra, i cui drammatici risvolti non mancarono di incidere sulla vita della Sardegna e di Cagliari.

   Sempre a Cagliari, presso l’Asilo della Marina, la Serva di Dio istituì inoltre l’associazione delle Dorotee, che aveva più particolarmente lo scopo di portare le anime a Dio. Questa istituzione, favorita ed incoraggiata dallo stesso Arcivescovo di Cagliari Mons. Rossi, era formata da anime più fervorose, reclutate da tutti i ceti sociali, le quali si proponevano di avvisare caritatevolmente le persone che avvicinavano ed adoperarsi con tutta la Prudenza per portarle all’osservanza perfetta di tutti i doveri cristiani.

   Ancora per istruire gli ignoranti nella Fede, e nello stesso tempo per assisterli e preservarli dal male, Suor Nicoli, anche in questo riprendendo un’analoga attività già svolta a Sassari, fondò l’associazione delle Zitine, radunando la domenica le persone di servizio, per insegnare il catechismo e farle partecipare alle sacre funzioni, oltre, talvolta, ad insegnare a leggere e scrivere.

     Suor Nicoli fu inoltre, a Cagliari, Direttrice delle Figlie di Maria, che guidò con grande zelo e sollecitudine, inculcando nelle iscritte non solo la pratica di ogni loro dovere, ma la vera imitazione delle virtù della Vergine. Non a caso tra le Figlie di Maria da lei dirette si notò una vera fioritura di vocazioni religiose.

   Il Sac. Carlo Porta, che nel periodo in cui fu a Cagliari e conobbe Sr. Nicoli era anche Direttore Diocesano delle Opere Missionarie, ricorda inoltre che l’Asilo della Marina si dimostrava attivissimo, per lo zelo della Serva di Dio, nel promuovere le opere della Propagazione della Fede e della Sant’Infanzia.

   E va ricordato che il circolo di S. Teresa, fondato da Sr. Nicoli, fu il primo circolo di Gioventù Cattolica femminile di Cagliari e primo nucleo della futura Azione Cattolica femminile. Ella continuò senza soste a prodigarsi per l’istruzione religiosa e catechista, fondando in particolare l’Associazione dei Giuseppini. Chiamati così perché posti sotto la protezione di San Giuseppe, a differenza dei Luigini provenivano da famiglia di ambiente sociale ed economico più elevato.

   Suor Nicoli aveva infatti notato che queste famiglie, per pregiudizio sociale, proibivano ai figli di frequentare il catechismo con ragazzi poveri, e ne finivano per compromettere l’educazione religiosa: anche questo piccolo granello di senape pose le sue radici, germogliò ed estese i suoi rami sempre nuovi e vigorosi.

   Attendeva inoltre personalmente a fare il catechismo alle fanciulle e guidava e sorvegliava le Suore e le Dorotee che facevano il catechismo nelle parrocchie ed anche i rioni lontani dalla città. Sr. Nicoli in particolare stabilì stretti rapporti con la parrocchia di S. Eulalia dove le Suore dell’Asilo tenevano corsi domenicali di catechismo e volle portare la Parola di Dio tra i poverissimi della fascia periferica (S. Bartolomeo, Montixeddu, Is Mirrionis), precedendo con ciò il “lavoro in borgata”, di moda negli anni della contestazione giovanile. Anche in questo fu in piena sintonia con l’Autorità Ecclesiastica.

   A Montixeddu, dove si faceva catechismo all’aperto, intervenivano anche gli adulti di entrambi i sessi: Sr. Nicoli si adoperò molto, in questa frazione, anche per la regolarizzazione dei matrimoni e il popolo incominciò a frequentare la Chiesa, che successivamente venne eretta in Parrocchia.

Nella relazione della Visitatrice Sr. Rossignol sull’unica visita regolare (25-26 Settembre 1919) all’Asilo della Marina durante il mandato di Sr. Nicoli, emerge come l’Istituto fosse diventato diventato un centro di Carità, di catechesi e di apostolato per la città.

Ma, fra tanto zelo apostolico ed assistenziale e nella molteplicità spesso originale delle iniziative della Serva di Dio, c’è un’istituzione, fondata a Cagliari, che è rimasta particolarmente legata al nome di Suor Nicoli, forse perché lo era in primo luogo al suo cuore. I cosiddetti Marianelli, o Monelli di Maria. Quest’opera aveva il compito di radunare dall’ozio e dal vagabondaggio della strada i ragazzi di Cagliari che erano rimasti orfani e senza assistenza, o che avevano abbandonato la famiglia o ne erano stati scacciati. Essi vivevano tra il porto ed il mercato, dormendo per la strada o sotto i portici e passando la giornata rubacchiando e disponendosi alla delinquenza. Guadagnavano inoltre qualcosa trasportando bagagli o pacchi, che caricavano in cesti che si ponevano sulla testa: erano perciò detti in dialetto is picciòcus de crobi, i piccoli monelli della cesta. Suor Nicoli, fin dal luglio 1915, pensò dunque a raccoglierli, sentendo la necessità che qualcuno si occupasse di loro, e non esitò a dedicarsi a quest’opera difficilissima con slancio, anzi con vero eroico ardore. Li faceva assistere alla Santa Messa, alla sera attendeva alla loro istruzione religiosa ed insegnava loro a leggere e scrivere, si interessava per far loro apprendere un mestiere o per collocarli come garzoni presso qualche buon padrone. Li faceva partecipare alle feste ed era particolarmente lieta quando poteva procurare loro speciali divertimenti o speciali refezioni: curava che fossero celebrate solennemente le Prime Comunioni, che ricevessero la Cresima. Ed ogni anno dava una specie di resoconto con un pò di saggio, nel quale i Marianelli stessi per mezzo di componimenti da essi stessi fatti attestavano la loro riconoscenza. A questi saggi di solito interveniva l’Arcivescovo di Cagliari. In generale i Marianelli corrispondevano positivamente alla Carità ricevuta, ma l’opera, specie agli inizi, costò a Suor Nicoli molti sacrifici e mortificazioni. Sono facilmente immaginabili le difficoltà, le incomprensioni, gli equivoci ma Suor Nicoli non si scoraggiò, nemmeno di fronte a queste resistenze che, talvolta, erano presenti all’interno stesso della Comunità.

   E’ peraltro assai significativo che le stesse persone che avevano messo in guardia la Serva di Dio rimasero poi ammirate e convinte della utilità dell’opera.

   Gli ultimissimi anni della vita della Serva di Dio le riservavano ennesime prove.

   Nell’ultimo anno della sua vita, il 1924, infatti, dovette affrontare un’ulteriore prova, in cui seppe tenere un comportamento di grande equilibrio.

Agli inizi del ’24, in particolare con l’elezione del nuovo Presidente dell’Amministrazione civile dell’Asilo, l’Ing. Vittorio Tronci, che cercò di andare oltre i limiti consentiti dal suo mandato occupandosi senza la dovuta competenza e prudenza del metodo d’insegnamento delle suore insegnanti e avutone un deciso diniego sottopose a vessazioni di ogni genere la piccola comunità che sr. Nicoli seppe gestire con grande equilibrio dalle insolenze di quest’autocrate che probabilmente aveva caricato il suo mandato oltre i limiti del consentito creando un puttiferio incredibile arrivando ad insultare le suore e ad usare un linguaggio più degno di un trivio che di un isitituto educativo.

Di fronte alla fermezza delle suore e alla chiara dimostrazione dei suoi torti si ricredette con molte scuse che certamente non furono sufficienti ad alleviare le passate soffereze inferte alla piccola comunità di figlie della carità.

Suor Giuseppina dopo aver pilotato con grande serenità di spirito questi momenti, già stremata dagli impegni del suo ormai lungo lavoro, lasciò questo mondo nel rimpianto generale e nella comune opinione di donna che aveva sempre saputo praticare la virtù in modo eroico tanto che a circa sei anni dalla morte ebbero inizio a Cagliari, a Torino e a Sassari presso gli appositi tribunali ecclesiastici i preliminari per la causa di beatificazione. [55]

A cinque anni dalla sua morte apparve sul bollettino “La Carità” diretto da G. B. Manzella questa commemorazione che in un certo qual modo rispecchiano fedelmente quanto risulterà nella positio pubblicata nel 1997.

“Figlia fortunata di ottimi genitori cristiani, rivela nella prima età molto equilibrio alleato a notevole delicatezza di sentimenti che vibra nella vita religiosa, s’effonde nella prima comunione trova nell’affetto tenerissimo della madre le gioie del completo abbandono e nell’assistenza di un fratellino malato tutta la dedizione un infermiera modello. Quando il fratellino muore , si rivela nel supremo distacco da lui, tuta la forza di un’anima già temprata ai dolori della Croce.

Alla carità per i parenti s’accoppia la carità per i poveri e la bambina nasconde a tavola il companatico perché vada a rallegrare chi spesso manca anche del pane, mentre il pane raffermo viene collocato da lei, a tavola, al suo posto, quando le tocca d’apparecchiare. Ella misura severamente la propria sensibilità e quando, un giorno riga di lacrime una pagina patetica che sta leggendo, d’un tratto s’alza, chiude il libro con energia ed esclama:” Non voglio piangere voglio serbare le lacrime per i miei peccati “

Allorché terminato il corso complementare, la Nicoli si decide a frequentare il corso normale, insieme alla vocazione all’insegnamento che sogna completamente gratuito, già si delinea la vocazione a Figlia della Carità. Posta in collegio vi studia indefessamente e a 18 anni, nel 1872, ottiene la patente magistrale di grado superiore alla quale accennava solo coi genitori perché sapeva di fare loro cosa gradita. Quanto agli altri cercava di rimpicciolirsi in tutto , più che poteva e non solo nella cultura che l’ abito dell’ intelligenza, ma perfino negli abiti preparati dalla sarta. Un giorno che le sorelle la complimentavano per una toilette più delle altre aggraziata e ne attribuivano il merito alle cosiddette stecche di balena che conferivano al corpo una bella linea, ruppe allegramente tutte le stecche.

Inesorabile con se stessa in tutto ciò che poteva arieggiare la vanità, era indulgente con gli altri, perché non si offendesse in alcun modo la legge di Dio. In questi casi l’energia della volontà si esplicava con serena fermezza. La volontà che doveva portarla; ad una vita che si può chiamare eroica palesò al padre quanto questi accennò alla possibilità di un ricco matrimonio. Rispose che voleva essere esigentissima: avrebbe sposato solamente un re. Il padre chinò i capo, pensoso.

La sua scelta era fatta. Ne parlò anzitutto col confessore, un santo uomo che sapeva frenarla nel fervore inconsiderato e formarla insieme, mirabilmente, all’obbedienza a e all’umiltà; ne parlò on seguito ai genitori. L’ottenerne il consenso non fu cosa facilissima. La mamma si limitò ad avanzare qualche timida obiezione, ma il padre, uomo di fede ma non scevro di pregiudizi verso gli ordini religiosi oppose dapprima ostacoli non lievi. Ella vinse con la dolcezza e la costanza. ed ebbe la consolazione un giorno di vedere lieto anche il padre, anzi orgoglioso di averle dato il consenso. Dal seminario scriveva ai suoi” è d’uopo ch’io neghi qualche soddisfazione al mio cuore che mi pare sia sempre più sensibile all’affetto della famiglia, affine di fortificarlo e di fargli acquistare quella libertà che una figlia della carità deve possedere per essere pronta a fare quei sacrifici che Dio richiede da lei. Ed era non pronta, ma prontissima, quando, in altra lettera da Parigi, dove trovatasi a compiere il noviziato, alludendo ad un’epidemia colerica, scriveva: “Come sai, di timore le figli della Carità non ne dobbiamo mai avere”.

Dopo pochi mesi d’insegnamento da Alessandria, viene mandata al Conservatorio di Cagliari, nell’isola che, per antonomasia detta vincenziana per l’ attività che vi profondono i Figli e le Figlie di San Vincenzo de’ Paoli. Basta il dire che nella sola Cagliari si aprono ad ogni forma di vita caritativa ben dodici case tenute dalle Figlie della carità.

Suor Nicoli vi passò dieci anni servendo il signore in perfetta letizia ed alimentando la sua gioia del bene con la serena accettazione di sacrifici e collo stringere in un unico amore la vita attiva e la contemplativa. Non si ripeterà ami abbastanza che la vita delle cornette, d’ogni ora, nel pacato eroismo della pazienza, nell’umiltà che si sprofonda negli abissi, per trovarvi i divini fastigi non sarebbe possibile se alimento perenne non fosse la vita eucaristica la preghiera nelle ore al sonno contese, l’amore di Dio per Dio.

Dopo Cristo di cui era vestita Suor Nicoli educatrice aveva la tenerezza che si prodiga senza limite e che non si scompagna dalla doverosa serenità. Voleva punite le mancanze e quando le alunne si ribellavano alle riparazioni, la maestra si inginocchiava a chieder perdono dio per la scolara ostinata. l’orgoglio finita per piegarsi, i frutti si facevano degni dell’amorosa morosa , intelligentissima, santamente abile coltivatrice; la quale teneva in particolare considerazione le pianti celle moralmente e fisicamente più deboli. Quand’era un’allieva che tute cercavano di schivare per l’alito insopportabile, le assegnò un posto vicino al suo, come alla più gradita delle scolare. Nelle ore libere dall’insegnamento ufficiale, organizzò l’istruzione religiosa a povere ragazze a cui nessuno pensava, a ragazzi o ragazzacci di strada attratti dalla sua bontà, raccolti in una compagnia di Luigini, dei quali molti serbarono nell’età’ età virile viva riconoscenza alla loro maestra, una riconoscenza che maturava nella vita rifatta e mantenuta cristiana.. Nel 1899, suor Nicoli è nominata superiora all’Orfanotrofio di Sassari, dal quale dipendeva un asilo d’infanzia con quattrocento bambini ed una scuola esterna con sette classi. Ella aggiunse la scuola domenicale maschile e femminile, La misericordia, e tutte le altre opere vincenziana per cui l’orfanotrofio diventa un centro di quasi tute le opere benefiche della città.

Semplice, umile, prudente, attivissima, infiammata d’amor di Dio, e perciò d’amor del prossimo, era la molla prima d’ogni iniziativa, parlava come se i meriti fossero di tutti, fatta eccezione di suor Nicoli. A nessuno sapeva dire di no e da tutti otteneva quanto voleva per i suoi poveri, che trattava con una deferenza confinante con la venerazione. Fu accusata di compromettessi con gente indegna e di cattiva vita. Avrebbe potuto scusarsi dicendo che lo stesso rimprovero era stato mosso a San Vincenzo, e prima ancora, a Gesù.

Le Dame della Carità trovarono in lei un magnifico elemento di propulsione, l’ Associazione delle Figlie di Maria, poté dire altrettanto e le alunne della scuola festiva di religione raggiunsero, per opera sua, il numero di settecento.
Fervente zelatrice degli esercizi all’ aperto o delle cure marine, accompagna le educande in lunghe passeggiate ed ai bagni di mare davanti alle voci, agli spettacoli della natura dei quali nessuno è minimo perché tutti parlano di Dio, taceva, ascoltava, pregava in estasi francescana.

Ad uno spirito rettissimo, in flessibile nel dovere, assolutamente incapace di mezzucci e di compromessi né grandi né piccoli non poterono mancare dispiacerai, opposizioni e perfino persecuzioni dai cattivi ed anche dai buoni, per cui dovettero lasciare l’ Orfanotrofio dilettissimo e trasferirsi a Cagliari all’ asilo della Marina, che divenne anch’esso, per opera sua, il massimo centro benefico cittadino. Ella vi apre una scuola di religione frequentata da più di duecento alunne, guida amorosamente, con nutrita corrispondenza epistolare le suore chiamata a servizi di guerra ad accudire ad un ospedale aperto ne suo asilo.. Tutto questo non bastava al suo zelo. L’istituzione della Damine della Carità fu da suor Nicoli vagheggiato come una benedizione celeste. Vi si preparò con preghiere, con opera sapiente di persuasione ed il 15 gennaio 1915 il primo nucleo di Damine poté ufficialmente funzionare. Raccolse inoltre, sotto il patronato di santa Zita, le Zittite, persone di servizio, che nei pomeriggi domenicali lasciavano i pericoli della strada per l’istruzione religiosa e civile appositamente loro impartita in ambienti adatti per loro; istituti di Circolo “Santa Teresa di Gesù” quale seminario dell’ azione cattolica femminile; fondò le Dorotee che con sante industri si proponevano di allargare il regno di Dio nelle anime diffonditrici della buona semente. E la buona semente suor Nicoli trovò modo di coltivarla anche negli spiriti più refrattari, più difficili ad essere lavorati perché lontani dalla vita regolare. Si commosse di quelli che i cagliaritani chiamano “is piccioccus de crobi”, i monelli della cesta, vagabondi, orfani, abbandonati dai genitori, o fuggiti di casa, facchini improvvisati alla stazione e per le strade, cenciosi, rissosi, impertinenti, birichini oggi, delinquenti domani. Li riuniva per l’istruzione catechistica nel teatrino della parrocchia, li attirò con piccoli doni, li fece avvicinare da chissà quante suore finché trovò quella propria adatta per loro, li preparò alla prima comunione, li chiamò Marianelli, i monelli di Maria, e riuscì ad istruirli, a ridurre del cinquanta per cento i casi di delinquenza di quei piccoli selvaggi.

“Li ho veduti, scrive suor Nicoli, baciare commossi il quaderno sul quale avevano scritto il nome di mamma”. Mentre raccoglie i rifiuti sociali, provvede anche ai figli delle classi elevate, che spesso trascurano l’istruzione religiosa perché temono di confondersi col popolo, ed organizza, perciò i Giuseppini come aveva organizzato i Marianelli. Richiesta di alcune suore per l’impianto di una colonia Marina si butta nella nuova iniziativa con tutto il suo entusiasmo, l’organizza con saggezza cristiana, allarga a tutti i richiedenti il cuore, la borsa, le braccia fa partecipare all’opera le Damine della Carità, ultima sempre nel posto che occupa, prima nelle sante industrie prima nelle fatiche. Non dimentica neppure nell’opera moralizzatrice certi immersi dintorni di Cagliari dove la campagna ha perduto la beata sua semplicità ed il vizio è ancora cittadino. Apre scuole; di musica e di pittura per accrescere attraverso la cultura artistica, la cultura religiosa e trova tempo d’occuparsi delle Missioni per le quali suscita simpatie, offerte, preghiere. Il segreto di tanto bene genialmente intuito, organicamente attuato, costantemente perseguito nel completo sacrificio di sé, lo troviamo nell’aspirazione’ aspirazione alla santità che pervase la vita di suor nucoli fino dai primi anni. “La santità, scriveva la degna figli di san Vincenzo, non è pittura che aggiunge e scultura che toglie. Gesù è sommo scultore. Noi siamo blocchi di marmo; affidiamoci a lui più saranno forti re ripetuti i colpi sotto cui fremerà la nostra povera natura, più sarà alto il grado di santità a cui saremo elevati”. Questi colpi ella desiderò ed accolse con entusiasmo, con eroismo paziente, minuziosamente fedele.

Volle la perfezione perché attuò sempre il volere di Dio, raggiunse la santità e quindi le vette della Carità per l’ unica via possibile che è quella dell’umiltà, la quale non è altro che la verità. L’ubbidienza fu per lei suprema regola di vita spirituale perché l’ubbidienza e la stessa regola tradotta in praticava. Quanto e come pregasse un’anima così alta si deduce da una sua riga “La vita interiore consiste nel trattenersi sempre con Dio”” Quanto amasse si comprende usando si pensi che ella attuò in modo perfettissimo le parole di san Vincenzo:” La compagnia dlle figlie della carità è stabilita per amare Dio ed il prossimo per amore di lui”. Ella compendiò la sia vita in queste sue parole : “Praticherò 1° la carità, 2° la carità 3° la carità” Allorché le suore la sorprendevano a regalare tutto quanto possedeva, perfino il materasso e le coperte, e brontolavano preoccupate della salite sua delimitassimo: “Qualche volta si spoglierà anche della pelle” rispondeva con tutta la voce del cuore: ” Oh potessi Dar via anche la pelle” Così esclamava in uno slancio insopprimibile colei che mai seppe pronunciare una parola in propria lode.

Si spense serena il 31 dicembre 1924 irradiata nel viso di una calma suprema, di un sorriso angelico nel quale, attraverso le impronte dei patimenti terreni, pareva sbocciare la giovinezza del’ aldilà.

E’ convinzione di quanti la conobbero, suffragata da molteplici manifestazioni straordinarie che suor Nicoli deve dir santa nel pieno senso della parola. Si curverà un giorno l’aureola sopra il capo splendente di tanta spirituale bellezza.
(…) Quando poi m’imbatto in una creatura d’eccezione come suor Giuseppina Nicoli, morta nel 1924 diffonde il profumo di santità pianamente, naturalmente, come il profumo naturalmente emana dal cuore di una rosa, io vedo lo spirito vincenziana perpetuarsi così che nessun distacco si avverte tra il padre e la figlia, uniti dall’umiltà, dalla semplicità, dalla carità serena, gioiosa ubbidienza alla voce di Dio e della sua Chiesa[56]“.

Il18 Ottobre 1932 venne fatta l’esumazione della salma, che fu trasportata nella Cappella dell’Asilo della Marina.

 Suor Fior (1867 – 1949, Udine)

 Nata a Udine 15 ottobre 1867 entrata in Comunità a Torino nel 1887, l’anno successivo fu mandata a Parigi Rue du Bac Parigi fino al 1892, insegnante all’Orfanotrofio delle Figlie di Maria di Sassari (1892-1903), superiora presso l’istituto San Vincenzo di La Maddalena (1903-1907), superiora a Udine in una fondazione, sorta per opera del padre, e che diresse e sviluppò fino alla morte avvenuta ivi il 5 aprile 1949.

“Figlia di ricchi industriali, di fede adamantina e inesauribile carità, ella aveva ricevuto con un accurata educazione ed una brillante istruzione il desiderio di una fede profonda e di un ardente zelo. Dotata di qualità superiori di mente e di cuore aveva saputo valersene consacrando la sua vita a Dio e a sollievo dei poveri e giungeva in quest’isola, in cui l’obbedienza l’inviava, disposta a dare il meglio del suo cuore e di se stessa.

Il 15 luglio 1903 fu aperta la prima opera a La Maddalena il laboratorio delle giovinette poi, data esiguità dei locali, fu costruito un altro piccolo fabbricato con due aule che servivano, una per asilo ed una per dare qualche lezione.

Grandi progetti di miglioramento aveva in mente la buona Suor Fior, ma richiamata dai superiori di Torino nell’agosto del 1907, per prendere la direzione dell’Orfanotrofio, fondato da suo padre ad Udine, sua città natale, non poté effettuarli[57]“.

 Anastasia Biassoni (Ceseno Maderno (Mi) 1870, Sassari 1951)

 Nacque da Enrico e da Luisa Busnelli, a Cesano Maderno, (Mi) il 2 novembre 1870 entrò in Comunità il 1° gennaio 1891 e prese l’abito delle Figlie della Carità l’8 settembre dello stesso anno quando riceve la destinazione per la Sardegna. Trascorse quattro anni nella casa di Oristano, nel 1896 passò a Cagliari nell’Asilo Carlo Felice tra i più vecchi istituti delle Figlie della Carità in Sardegna e presso il cui asilo infantile venne applicato il metodo aportiano.

Nel 1898 fu trasferita ad Iglesias come superiora della Comunità locale che svolgeva il suo servizio presso gli ammalati del locale ospedale civile tra i quali molti minatori.

Il clima politico di Iglesias influenzato da un socialismo sentito e attivo da parte dei minatori non la scoraggiò, ma dialogò con essi e all’occorrenza li contestò nel loro pervicace anticlericalismo tanto che diventa loro simpatica partecipano alle processioni del Corpus Domini. Poiché confessano di non conoscere alcun canto religioso, chiede loro se conoscono l’inno nazionale e avutane risposta positiva intona “fratelli d’Italia” con grande compunzione dei minatori e scandalo dei benpensanti.

Burbera nei modi, talvolta schietta come un minatore, ma profondamente amante degli emarginati e dei poveri.

Giunse a Sassari nel 1928 come superiora della Casa Divina Provvidenza, succedendo a suor Aresi.

Suor Pia, per le consorelle ma soeur amò molto i bambini orfani e figli abbandonati di madri nubili e di prostitute. Stabilì un buon rapporto con p. Manzella suo conterraneo e promotore della “Casa”.

Burbera con gli anziani brontoloni, severa e commovente ad un tempo coi bambini che quando marinavano la scuola osava chiamare coloritamente “marcioni de la carera” cercando di punirli con una bacchettina talmente corta che faceva più male alle sue mani che non ai ragazzi che le sfuggivano chiedendo scusa, mentre lie continua a rimproverarli in dialetto lombardo. Più tardi li raggiungeva dando loro delle caramelle e facendosi promettere che non avrebbero più marinato la scuola. I piccolini, con qualcuno dei quali, portandolo in braccio o per mano, era sempre in giro per la “casa”. Questi piccoli la chiamavano “mamma poppa”.

Da vecchia stava seduta in parlatorio sferruzzando golfetti di lana dai più variopinti colori per gli orfani.

Alla sua morte, avvenuta nella Casa, dopo dolorose e lunghe sofferenze, il 15 luglio del 1951 mons Damiano Filia sintetizzò in queste parole la sua vita “Suor Biassoni peccò nell’amore eccessivo per il povero e per l’emarginato nel corso dei suoi quasi 60 anni di servizio in Sardegna”[58].

Nel ricordino del trigesimo si legge:

“Vergine prudente e saggia non lasciò che mai si spegnesse la lampada ardente della carità verso i miseri, nutrendola ogni giorno sino all’ultima sera con l’olio della pietà verso Dio, lo sposo che unico amò.

Venuta a noi dalla terra lombarda prodigò da prima le sue cure di giovane suora tra gli operai infortunati, delle miniere dell’Iglesiente, angelo di conforto in un mare di dolore, poi nella maturità degli anni in questa Sassari dove profuse tutte le ricchezze del suo nobile cuore.

Calcando le orme di un altro suo conterraneo – l’anima grande di Padre Manzella- ne ricevette come in sacra eredità di amore l’opera da lui fondata per i cronici e i derelitti che divenne sotto la sua direzione l’emporio di tutte le miserie il “Cottolengo “della Sardegna.

Porta sempre aperta per ricevere, cuore largo per accogliere tutti gli afflitti e tutti gli abbandonati: dal vegliardo cadente alla vecchierella paralitica, dalla fanciulla pericolante all’orfano solo al mondo, dai poveri tracomatosi ai fatui e ai dementi.

Se beati sono i morti che muoiono nel Signore perché le opere loro li seguiranno-, beata ora sei tu suor Pia, poiché la tua amorosa fatica si continua dalle figlie e sorelle dalla tua pietà formate e l’opera tua d’amore non conoscerà tramonto.

Riposa nella luce dei giusti, nella pace dei santi e dal cielo veglia sull’orfano e sull’abbandonato che ancora ti attendono, attendono invano.

Un monito tu ripeti a tutti i benefattori: nella sera della vita saremo giudicati sull’amore (S. Giovanni della Croce). Amate dunque e fate del bene; tutto passa e tramonta quaggiù; solo l’amore non finisce mai; iniziato sulla terra si perpetua nella patria celeste.[59]

Le parole del ricordino del trigesimo sono sicuramente dettate dallo storico Filia, cappellano dell’istituto e vicario generale dell’archidiocesi turritana, -affezionato alle suore e all’istituto a cui lasciò l’attigua palazzina di sua proprietà- riassumono l’attività feconda di questa piccola suora lombarda destinata a trascorrere la sua vita, dal 1892 al 1951, in Sardegna al servizio dei minatori, degli ammalati, degli orfani di entrambi i sessi, degli anziani e dei portatori di handicap. Collaboratrice zelante delle dame della Carità, facente parte di quella schiera non piccola di lombardi generosi che sia chiamavano Giovanni Battista Manzella (1900- 1937), Arcangelo Mazzotti (1931-1961), Emma Stella Maria Brambilla (1931-1976) e di numerose altre figlie della carità[60].

 Adele Aresi (Treviglio 1871, Lusera 1955)

 Nasce a Treviglio in provincia di Bergamo il 20 settembre 1871, l’anno dopo la presa di Roma. Entra in   Comunità a Torino il 10 novembre 1894 indossato l’abito delle Figlie della Carità il 7 settembre 1895 è inviata a Cagliari presso l’Ospedale Civile dove svolge con vero spirito di abnegazione la sua attività di suora di reparto a contatto con gli ammalati.

Dopo 25 anni di servizio ospedaliero i superiori la ritengono idonea a far decollare la Casa Divina Provvidenza di Sassari dove giunge nel 1819. L’istituto ha appena nove anni di vita, è in fase di costruzione, vi sono decisioni urgenti da prendere, suor Aresi lamenta la lentezza delle maestranze e propone delle varianti che le dame accolgono. La sua presenza è molto discreta, almeno da ciò che appare dagli scarni appunti consultati, a lei vengono affidati i soldi della gestione della “Casa” e le cartelle fondiarie acquistate per garanzia di legge. Prima della su partenza così descrive la presidente Maria Pittalis Zirolia lo stato della piccola comunità di anziane: “Le croniche, poiché fino ad oggi si è potuto attuare soltanto il reparto femminile, sono raccolte ancora in varie camere della casa (…) e provvisoriamente in altre camere intercomunicanti prese in locazione dalla casa di un vicino; che saranno sgombrate rinchiudendo l’aperta comunicazione col luglio 193O, allo scadere della locazione allorché si spera sarà finita o a buon punto la costruzione di nuovi cameroni sul viale di S. Pietro. Le stesse croniche sono tenute con la massima nettezza dalle infermiere che agiscono con la direzione fattiva e collaborazione pietosa delle tre suore, figlie della carità, alle quali se ne aggiunge una quarta(…). <Le croniche> hanno sole e aria e quelle che si possono alzare dal letto spesso si intrattengono nel piccolo cortile tra il verde dei pampini e dei rami (…)”. All’arrivo di suor Pia Biassoni da Iglesias come superiora, suor Aresi parte per l’ asilo di Buggerru, tre anni dopo la ritroviamo presso l’asilo infantile di Mores, da cui dopo tre anni di direzione, nel ’34, parte come superiora della casa di Riposo per anziani di Sampierdarena dove rimane fino al 1952, ammalatasi passa alla casa delle suore anziane in riposo a Lusera (To) dove muore il 12 giugno 1955 a 84 anni di vita, 61 al servizio degli ammalati, dei piccoli degli asili, degli anziani nelle case di riposo.

Vita da routine di una serva dei poveri: da Torino a Cagliari, di là a Sassari, a Buggerru, a Mores, a Sampierdarena a Lusera, ultima dimora[61].

Una figlia della Carità “in carriera”. Resta nei registri d’ingresso della “Casa” la sua incerta grafia di donna appena alfabetizzata. Restano le sue proposte pratiche sull’utilizzo dei sottopiani ad uso cucina, le sue lamentele per la lentezza degli operai, la presa in consegna delle cartelle fondiarie tra i documenti della Casa Divina Provvidenza, il ricordo di chi è stato assistito a Cagliari e a san Pierdarena; la memoria di una suora dolcissima nei ricordi d’infanzia degli ex bimbi dell’asilo di Mores e di Buggerru. Pochi, ma significativi i documenti su chi lavora per gli emarginati di un’isola che tra il suo arrivo in Sardegna (1895) e la sua partenza (1934) ha vissuto il leggero progresso dell’epoca giolittiana, i guasti della prima guerra mondiale, gli anni del consenso al fascismo col progressivo sviluppo delle Opere pie: brefotrofi, asili infantili, istituti per ogni genere di disagio non da parte del regime, ma delle “afasciste” figlie e dame della carità[62].

 Maria Elisa Gotteland ( Torino 1873, La Maddalena 1940)

 Nacque a Torino il 1 novembre 1873 da antica famiglia piemontese, ricca di censo e di nobiltà, ma più ancora di virtù solida e di doti elevate di mente e di cuore, cresciuta nel collegio delle Dame del Sacro Cuore dove aveva ricevuto una perfetta educazione ed una vasta cultura, entrò fra le Figlie della Carità nel 1892, fu destinata a La Maddalena nel 1909 la nuova Superiora univa a una mente vastissima, un senno più che femminile, un cuore grande una squisita semplicità che facevano di Lei un essere veramente superiore.

Da Lei si aspettava molto e molto diede. Infatti provvide a pagare immediatamente i debiti e a mettere in ordine la malferma casetta, si diede d’attorno ad ampliare i locali, comprando a tal uopo il terreno annesso a quello già di proprietà della Casa, ed eresse una degna dimora all’Ospite Divino.

Così, proprio nel centro dell’istituto, sorse la graziosa Cappella, col porticato a tre archi, dove, dall’alto dell’altare tutto in marmo, una Madonna bellissima sembra sorridere dolcemente ai numerosi fedeli che frequentano la chiesetta, specialmente nei giorni festivi, e in cui tanti maddalenini celebrano le loro nozze.

La Casetta San Vincenzo si trasformò in un grande Istituto, fervido di vita operosa e gioiosa, nonostante le lotte che all’inizio la cara Superiora dovette sostenere con le leggi massoniche ed il pastore protestante, che si adoperarono con tutte le loro forze ad impedirne l’espansione. La vittoria fu sua. E chi avrebbe potuto, infatti, vincere una Suora Gotteland, che i Maddalenini compresi di ammirazione chiamavano “L’Ammiragliessa dell’isola”.

Ed è per far conoscere meglio questa tempra del tutto eccezionale, che noi lasciamo ora la penna ai Superiori di Torino, che intimamente la conobbero e l’amarono.

“Per una mente aperta ai vasti orizzonti del sapere, illuminata dalla Sua vivida luce, la scuola apparve come l’opera più indispensabile per la formazione intellettuale, spirituale, civile e morale della mente e del cuore di tante anime che si aprivano alla vita.

Dotata di una bellissima intelligenza, di una profonda e vasta cultura, appassionata per l’insegnamento, Suor Gotteland aprì un corso di lingue mentre affidava le prime classi elementari alla cura di qualche suora che vi si dava pur essa, con animo generoso. D’anno in anno si formarono le cinque classi elementari, private, popolatissime, rette e dirette da Suore insegnanti che impartivano anche lezioni ad alunni privatisti e pubblicisti delle scuole medie e superiori. La scuola accoglieva tutti senza distinzione di grado o di censo. I figli dell’ammiraglio, degli alti ufficiali, delle autorità, come i figli degli operai, degli umili lavoratori, dei poveri cui provvedevano il necessario per lo studio, erano uniti in fraterna cordiale società, rivestiti della stessa divisa, trattati e qualificati con giudizio imparziale. Quanto lavoro, ma quanta soddisfazione! Suor Gotteland seguiva ed incoraggiava il magnifico sviluppo di quest’opera educativa che guadagnava sempre più la stima, la fiducia e la simpatia di tutti.

La nomea dell’istituto varcò i monti, varcò i mari, si diffuse in Italia e oltre dove la nostra bella, gloriosa Marina, portava il sorriso della nostra bandiera, simbolo luminoso della nostra terra.

Reali, distinte personalità, alti funzionari che toccavano la nostra ridente isola, assorta ai grandi fastigi della Base Navale, piazzaforte del Mediterraneo, onoravano l’istituto della loro visita che era plauso, un degno riconoscimento del lavoro svolto in tutti i rami di cui, il più rigoglioso vivificava la scuola. Per questo il sottosegretario della Pubblica Istruzione in seguito ad una constatazione personale, proponeva e favoriva il riconoscimento giuridico delle cinque classi elementari che nel 1931 entrarono fra le scuole a sgravio, prima e poi parificate, mentre il Ministero decorava con l’alta onorificenza della medaglia d’oro, l’artefice Suor Gotteland”[63] Morì a La Maddalena il 27 dicembre 1940.

 Emma Brambilla (1904, Bergamo – 1976 Cagliari ).

 Nasce a Bergamo il 26 febbraio 1904 da Michele , affermato grossista di tessuti e da Emilia Cividini, casalinga.

Emma, così venne sempre chiamata in famiglia , fu la primogenita di cinque figli: Giuseppe (1905), Angela (1906) Paola (19O8) Alfredo (1912). L’ambiente familiare era caratterizzato da una profonda fede religiosa, da un’agiatezza economica decorosa, da un forte senso degli affetti familiari.

La bambina di sana costituzione trascorse serenamente gli anni della fanciullezza. Frequentò le scuole elementari comunali di via Borfuro(1910-1915) e successivamente le scuole tecniche all’Amedeo di Savoia (1916-1920). La giovane, pur nella sua vivacità, si prodigava generosamente per i fratelli e le sorelle venuti dopo di lei.

La famiglia numerosa, sviluppò in lei quel carattere materno e altruista che da adulta doveva distinguerne la personalità.

Ultimati i tre anni delle scuole tecniche di primo grado (1915-1918) i genitori pensarono di iscriverla a quelle di secondo grado per il conseguimento del diploma superiore.
L’ormai avviatissima azienda paterna, costituita da un negozio e dai magazzini di stoffe da vendere all’ingrosso, richiedeva del resto una competenza specifica nel settore.

La ragazza, ormai sedicenne, prometteva bene, data la capacità che dimostrava nel sapersi districare sia nella contabilità aziendale sia nei rapporti con i clienti.

Nel 1920, il padre cadde ammalato ed Emma con dispiacere fu costretta a ritirarsi dall’ultimo anno della scuola tecnica superiore per dedicarsi con il fratello maggiore Giuseppe all’azienda paterna.

La crisi economica che travagliavano l’intera Italia travagliava anche l’industriosa città di Bergamo. La giovinetta, coadiuvata dal fratello e da qualche dipendente, non solo mantenne, ma ampliò l’azienda familiare.

Secondo le testimonianze familiari sapeva trattare con i clienti e svolgere la sua fruttuosa attività commerciale. Per la famiglia si aprivano buone prospettive. I genitori di Emma erano orgogliosi di una figlia così affettuosa ed impegnata negli affari dell’azienda. Tra il 1919 e il 1929 l’azienda Brambilla divenne una dell più floride di Bergamo nello storico quartiere di Sant’Orsola non lontano dalla chiesa parrocchiale di Sant’Alessandro.

Dopo dieci anni di intensa attività commerciale in cui la giovane dimostrava capacità e bravura ecco come un fulmine a ciel sereno l’annuncio di una vocazione speciale
La giovane che peraltro era cortegiatissima e poteva aspirare ad un buon matrimonio nella sua Bergamo, manifestò ai genitori il desiderio di entrare a far parte delle figlie della carità.
Agli inizi la cosa fu presa sullo scherzo, ma con il passare dei giorni, la determinazione della giovane gettò nello sconforto l’intera famiglia: questa scelta significava l’abbandono di un’attività così promettente per genitori e figli che potevano contare su un sicuro posto di lavoro.

Emma non si perse d’animo e quasi sfida la Provvidenza decide che si farà suora se riuscirà ad assicurare la tranquillità economica ai suoi . Con non poche difficoltà, ma al tempo stesso con la ferma volontà di riuscire nel suo intento, vende le stoffe, salda i conti con i fornitori, mette su un discreto capitale per i genitori, riesce a sistemare alla Cassa di Risparmio della Lombardia il fratello Giuseppe, rinuncia alla sua parte di eredità, acquista degli immobili per assicurare l’avvenire ai suoi e il 2 febbraio parte senza indugi per Torino per entrare nel seminario delle Figlie della Carità di   san Salvario .

La commossa testimonianza della sorella Paola aprono spiragli di profonda umanità in tutta questa vicenda del distacco.

Emma trascorre un anno di seminario a Torino (1929) e successivamente presso la Casa Madre di rue du Bac a Parigi(1930)[64].

Si preparava del resto a partire per la Cina. Tutto è pronto per la partenza, mancano gli ultimi incartamenti. In Cina però ha inizio proprio in quei giorni “la rivoluzione socialista” e la situazione sconsiglia l’invio di religiose, Suor Brambilla viene chiamata dai superiori per la nuova destinazione.

Le viene detto” La sua Cina è la Sardegna presso la Casa Divina Provvidenza di Sassari”.

“I Cronici” così era denominata Sassari la “Casa”, era una tra le tante opere assistenziali che nell’assoluta assenza dello Stato. L’idea di far sorgere una “asilo per gli abbandonati” era stata proposta dal carismatico prete della missione, il lombardo Giovanni Battista Manzella, alle “Dame” che festeggiavano nel 1909 il cinquantenario della loro istituzione a Sassari.

Nel 1910 era stato lui ad invogliare le Dame a dare inizio all’opera che sia pure con difficoltà, nel corso degli ultimi vent’anni andava consolidandosi a tal punto da ottenere dal Ministero dell’Interno l’erezione in ente morale.

Quando suor Brambilla giunse, nel maggio del ’31, giunse a Sassari “La Casa”   era costituita da un fabbricato che andava ingrandendosi lungo Via San Pietro nel popolare rione delle “Conce”.

Vi erano passati oltre un centinaio di ospiti ammalate croniche ed era presente qualche anziano e tre sorelle in tenera età. Era stato aperto anche un asilo per i bambini del quartiere.

Ad accogliere la ventisettenne vivace suora bergamasca furono la bresciana superiora Anastasia Biassoni, la trevigiana   la lombarda suor Teresa Penati, le consorelle sarde Anna Marongiu, sassarese, Maria Teresa Cuccu, ozierese, Maria Murgia, oristanese. La salutarono calorosamente anche la presidente   Maria Teresa Pittalis Zirolia, le nobildonne Caterina Spada, Maria Angioy Galeazzo, la contessa Giovanna d’Ittiri, Maria Bellieni, le borghesi signore Costantina Pinna Medda e la signorina Antonia Piredda, tutte dame facenti parte del Consiglio di Amministrazione della “Casa”.

Prese come d’uso il nome di religiosa di suor Luisa che mantenne per tutta la vita.

Suor Luisa ricevette l’incarico dalla superiora suor Pia Biassoni di coadiuvare le dame nel Consiglio di amministrazione: libro mastro, registro degli ingressi, elenco dei fornitori. Rimase di stucco. Si era fatta suora serva dei poveri per tornare alla noia della contabilità aziendale, proprio quella che credeva d’aver definitivamente abbandonato nel lasciare la famiglia. Dopo un attimo di esitazione ci rise sopra.

Le furono altresì affidate le tre sorelline Griva e le “pubbliche relazioni” con le dame. D’altra parte, rispetto alle altre suore, tutte di modesta preparazione scolastica, lei aveva quasi il diploma di scuola tecnica superiore, quel che si diceva allora una bella calligrafia, un’ottima capacità di conversazione. A questo si aggiunga la spigliatezza con i fornitori della “Casa” che non sempre erano scrupolosi nel calibrare le fatture. Da quell’anno tutte le carte d’archivio e i registri sono ordinatamente compilati da una scrittura da manuale.

Quei libri contabili e quei registri che credeva d’aver gettato via abbandonando i magazzini paterni se li ritrovava di nuovo, ma non per segnalare lucrosi profitti da commerciante bensì per lasciare tracce di quell’assistenza cristiana e vincenziana che religiosi e laici in sinergia seppero sviluppare in Sassari.

Il lavoro di suor Luisa non si esauriva con la contabilità, ma si ampliava con al cura delle bambine tracomatose che la casa andava già accogliendo. A queste bambine ella cominciò a fare da madre e da “maestra”. Alle piccole offriva “la scuola materna” alle più grandette dava gli insegnamenti della scuola elementare. Doveva preoccuparsi anche di curare l’asilo infantile per 150 bambini tracomatosi che venivano dal popolare quartiere delle Conce in cui era ubicata la “Casa”. Madre e maestra, due funzioni che per tanti versi aveva dovuto svolgere nell’ambito della sua numerosa famiglia di provenienza; segretaria d’azienda, un’altra funzione che sentiva nel sangue, ma che pensava d’aver abbandonato. In questi tre ruoli sviluppò un’attività che non conobbe sosta. Poiché le orfane cominciarono ad aumentare notevolmente, alcuni mesi dopo il suo arrivo giunse la ventunenne emiliana suor Clementina Fontana che prese il nome di suor Caterina alla quale affidare le bambine. A quest’ultima furono affidate le bambine e Suor Luisa poté dedicare il suo tempo alla cura dell’asilo e della scuola elementare interna.

Questa attività contraddistinse il periodo che va dal 1933 al 1939. Col 1939 nella “Casa” che, nel frattempo, aveva ampliato i locali si iniziò ad accogliere gli orfani tracomatosi o abbandonati.

Del resto alcuni orfani erano già stati accolti e dimessi prima di quell’anno. Il primo bambino dell’età di tre anni fu accolto il 25 settembre 1931 e dimesso nell’agosto del 1934 all’età di sei anni. Circa dieci bambini fra i tre e i dieci anni furono accolti nell’istituto fra il 1931 e il 1938.

Furono i primi bambini ai quali Suor Luisa dedicò le sue cure materne. Parecchi di costoro tornarono verso i dieci undici anni nelle loro famiglie. La loro prima “nidiata” di orfani giunse tuttavia, il 15 gennaio del 1939. Furono conosciuti come i “fratelli Sanna”, Salvatore, Antonio, Romano e Benito, rispettivamente di undici, quattro, sette e sette anni.

Da quell’anno gli orfani cominciarono ad essere accolti più numerosi nella “Casa” e Suor Luisa divenne davvero la “mamma” di tutti questi piccoli quasi sempre segnati da gravi sventure familiari. Dal 1939 al 1963, data in cui i ragazzi furono ridotti a quattro o cinque, ai “Cronici” sono stati curati, allevati, educati ed istruiti circa 185 ragazzi.

Dal 1939 al 1950 ne furono accolti contemporaneamente una sessantina. Suor Luisa sapeva curarli, educarli ed istruirli con grande amore. Molti di essi erano affetti da tracoma, altri da rachitismo, altri da malaria, altri da disturbi di vario genere.

Suor Luisa, che i più piccoli chiamavano “mamma Gigia”, di tutti singolarmente si occupava, li chiamava per nome, li curava, sapeva dare al momento opportuno le carezze e gli sculaccioni.

Si vedeva in lei non la “suora”, ma la “mamma”.

Sul suo metodo educativo si potrebbe scrivere tanto. In quest’ambito basti dire che alla base della sua educazione stava essenzialmente uno squisito amore materno. Nutriva una grande fiducia nei suoi “ragazzi”, non ammetteva le risse, voleva che i più grandi cedessero ai più piccoli, sapeva punire e premiare all’occorrenza.

Un altro punto fondamentale della sua educazione era l’assoluta necessità dello studio, essendo consapevole che per gli orfani la vita avrebbe presentato non poche difficoltà. Perciò seguiva assiduamente tutti negli studi ed era severissima con chi li trascurava. Sovente dedicava ore ed ore ai più “deboli nello studio” come era solita chiamarli.

Accanto a quest’attività Suor Luisa svolgeva quella non meno importante di “segretaria” della “Casa”.

Data la sua preparazione culturale e la sua esperienza di commerciante sapeva stimolare l’azione dei laici, amministratori della “Casa” di cui conosceva le esigenze.

Dal 1931 al 1969 , anno in cui lasciò Sassari per Buddusò, la Casa Divina Provvidenza si è sviluppata prodigiosamente. La piccola cameretta situata davanti alle Conce è diventato un intero isolato che va da Piazza Sant’Agostino a Via Amendola. La generosità dell’aristocrazia e della borghesia cattolica sassarese accanto all’operosità delle figlie e delle dame della carità ha dato consistenza a quest’opera.

L’attivismo instancabile di Suor Luisa, senza togliere il merito a Suor Pia Biassoni prima e a Suor Redenta Dorigo poi, hanno fatto quest’istituto una delle benemerenze della città di Sassari in campo assistenziale. Divenuta Superiora della “Casa” nel 1964, alla morte di Suor Redenta, si preoccupò di “assicurare” quasi tutte quelle “ospiti” dell’istituto che in un modo o nell’altro svolgevano attività lavorativa.

Donna Laura Segni, Presidente dell’opera per lunghi anni, aveva di Suor Luisa una stima illimitata.

Il suo senso di risparmio talvolta veniva frainteso. In realtà essa non fece mancare niente di ciò che è essenziale ai “poveri” e agli “orfani”.

Certo non amava lo spreco e lo sperpero della carità di cui l’istituto usufruiva. In questo Suor Pia Biassoni le era stata maestra.

Nel 1969, quando Suor Luisa lasciò l’istituto, l’attivo in bilancio documentò la sua capacità e la sua correttezza amministrativa. La sua permanenza nella Casa di riposo di Buddusò non fu lunga. La sua salute malferma non le impedirono di ristrutturare la “Casa”, dotandola di ascensore e migliorandone l’impianto di riscaldamento.

“I vecchi sono come i bambini “diceva” occorre trattarli con grande amore”.

A quelli desiderosi di rendersi utili assegnò un “pezzo di orto” da coltivare, agli altri sapeva dare all’occorrenza “il sigaro” e il ” quartino di vino”.

Peggiorando le sue condizioni di salute, soffriva da tempo di arterite e di ipertensione, i superiori ritennero opportuno chiamarla a Cagliari “in pensione” ella obbedì come di consueto.

Trascorse i suoi ultimi due anni di vita(1974-1976) prodigandosi per le consorelle dell’infermeria. Si è spenta in seguito ad infarto il 13 novembre 1976. Per volere degli ex orfani la sua salma fu portata da Cagliari a Sassari.

Suor Dorigo, a suo tempo Superiora della Casa, davanti a Donna Laura Carta Segni esclamò:

“Suor Luisa non è una suora è una mamma” con tono di rimprovero.

Donna Laura rispose “Superiora, questo dovrebbe essere il migliore elogio di una figlia della carità”[65].

 Suor Sodano

 Nei primi anni del 1900, la superiora dell’ospedale Militare, Suor Sodano, constatando la grande miseria morale, l’anticlericalismo in cui versava La Maddalena, l’attiva presenza di due logge massoniche e di una chiesa protestante con capo un pastore evangelico (un ex frate francescano passato al protestantesimo), zelantissimo e abilissimo nel suo proselitismo, compreso l’urgente bisogno di impedire che il cattolicesimo fosse così poco praticato dai Maddalenini, molti dei quali non erano battezzati, non si sposavano in chiesa, ma soltanto civilmente, e molti bimbi senza guida si aggirassero per l’isola malvestiti, scalzi e inselvatichiti, pensò ad un altra Casa di Figlie della Carità che potesse per mezzo dell’apostolato rivolto verso i piccoli attirare le anime a Dio.

Per interessamento del vincenziano Amministratore Apostolico di Sassari, Emilio Parodi, , al quale stava molto a cuore la casa e che diede tutto il suo contributo all’esecuzione del progetto mediante la somma di £.21.500, raccolta tra le Figlie della Carità della Provincia di Torino, fu acquistato uno stabile di proprietà dei Signori Deserega, situato nel centro del paese, e preparato l’indispensabile per l’apertura della Casa da chiamarsi “Casa Don Vincenzo”.

Il 15 giugno 1903 giunsero da Torino le prime due suore. Furono accolte allo sbarco il parroco Vicario Vico, Parroco del luogo e la buona Suor Sodano che le condusse alla minuscola, graziosa casetta, adagiata su un terreno assai roccioso, che doveva essere la loro residenza[66].

 Redenta Dorigo (Soligo, 1882 Sassari, 1964)

 Nasce a Soligo (Treviso) il 29 aprile 1882 da Giacomo e da Maria Sonego, Entra in Comunità il 13 ottobre 1904 e prende l’abito delle figlie della carità il 5 settembre 1905.

E’ subito destinata all’Ospedale Civile di Sassari dove vi rimane fino al 1926. E’ richiamata in Continente e destinata all’Ospedale di Lugano in Svizzera Canton Ticino. Nel 1935 è trasferita a Torino presso l’Ospedale Militare. Nel 1940 è nominata superiora della Comunità dell’Ospedale di Imperia, poi trasferita a Bosisio Parini (Co) e nel 1950 ritorna a Sassari, superiora della Casa Divina Provvidenza dove rimane fino alla morte avvenuta nel 1964.

 Giuseppina Bava (1879 Finalmarina, Olbia 1949)

 Nata il 18 maggio 1879 a Finalmarina, entrata in Comunità nel 1899 arrivò a Sassari presso il Rifugio Gesù Bambino per le bimbe abbandonate nell’ottobre del 1911 come semplice suora, nel luglio del 1913 come superiora, a Ostoglia come Suora Assistente ottobre 1946, a Nulli come Suora Assistente luglio 1947, a Olbia come Suora Assistente novembre 1948 dove morì nel 1949.

Terza Superiora del Rifugio Gesù Bambino per le bimbe abbandonate. Vide quasi il: sorgere dell’opera accogliendo le prime orfane curandole e dando loro un’istruzione elementare, ma anche professionale femminile: cucito, maglieria, ricamo.

Per 35 anni con le presiedenti Momina Mannu Dettori prima e con la figlia Ignazia Dettori curò l’Opera con spirito di abnegazione e sacrificio. Anche lontana, il suo pensiero era sempre rivolto a tutte le bambine da lei teneramente amate. Nell’anno 1949, vivamente compianta lascia la patria terrena per quella celeste ed eterna succede alla compianta Suor Bava. Arrivata da Torino, dalla Casa Provinciale delle Figlie della Carità, giovane, colta e ardente. Tutte le ragazze del Rifugio, indistintamente erano da lei seguite con somma cura: le chiamava “i miei tesori”.

Angela Lacelli (1902, Castello d’Agogna- 1939, Sassari)

 Nata il 21 dicembre 1902 a Castello d’Agogna entrata in Comunità nel 1924, direttrice delle Seminariste dal 1936-1939, giunse come superiora a Sassari presso Rifugio Gesù Bambino per le bimbe abbandonate nel 1939 ivi morì nel 1949.

Rivelò immediatamente una forte tempra di dirigente e di educatrice, collaborando attivamente con la presidente Donna Ignazia Dettori e successivamente con Donna Amelia Spada.

Le testimonianze più toccanti del suo impegno risalgono al tempo della guerra, quando si apre il doloroso problema dello sfollamento: “(…) si deve sfollare? Oppure, come dicono gli Enti, rimandare le bambine nelle proprie misere case? I piccoli centri dei Comuni vicini a Sassari, dove si decide di sfollare, rifiutano l’ospitalità, le bambine sono tante e piccole, rimandarle in famiglia? Era impossibile perchè appartenenti a famiglie scompaginate dalla miseria materiale e morale. Fu penoso l’assillo di Suor Angela. Con piena fiducia nella Provvidenza che le deve salvare, decide di tenere le bambine; ci deve pensare Gesù Bambino! Sono 120 tra grandi e piccine; anche il pane è razionato. Fischiano le sirene. Si scende in cantina e ci si sdraia bocconi a terra.

I viaggi di Suor Lacelli su di un carretto sono frequentissimi esponendosi ai pericoli dei bombardamenti si reca a Nulvi, Borutta, Sorso, Porto Torres, per rifornimenti di generi alimentari. Anche le famiglie delle Suore del Rifugio, attraverso le loro figlie, aiutavano inviando ciò che potevano avere.

Tutto è razionato: il fisico debole delle ricoverate esige qualche supplemento. Per sopperire alla indigenza di quel periodo, si pensò all’apertura di un piccolo pensionato per il periodo della guerra: “Pensionato Studenti” per 20 signorine frequentanti le scuole superiori. Le loro famiglie erano gratissime alla Superiora che si era sobbarcata anche questa responsabilità della custodia delle proprie figlie. Alla retta di pensione, le famiglie aggiungevano derrate alimentari che insaccavano nelle grandi valigie e spedivano alle loro figliole: farina, pane, zucchero, sapone, da devolvere alle orfane”.

Il 17 giugno l’anima eletta di Suor Lacelli, la madre tenerissima di tutte le bambine, è chiamata a godere il meritato compenso eterno. La sua dipartita destò un profondo cordoglio e un rimpianto generale in tutta Sassari, che lo manifestò nei suoi funerali imponentissimi”

 Suor Giuseppina Caldi (                         )

 Per Suor Giuseppina Caldi la profonda sua passione fu “ridare la parola ai sordomuti”.

Oltre ad essere una brava insegnante fu un’ottima maestra dei Sordomuti, sostenitrice del metodo orale puro in sostituzione dei gesti tradizionali.

Nel 1927 venne nominata Superiora e Direttrice interna dell’Istituto per sordomuti in Sassari Via Rolando n° 8.

In questa opera a lei tanto cara profuse le sue doti di mente e di cuore.

In un primo momento accolse quindici ragazzi sordomuti.

Le difficoltà che incontrò sin dagli inizi furono molte.

Sempre furono superate con serenità, secondo il carisma vicenziano, ad imitazione di San Vincenzo, Padre e Fratello in Cristo che amò teneramente i poveri.

Suor Giuseppina sentì chiara l’ispirazione divina che la chiamava a dedicarsi all’educazione e alla riabilitazione dei minorati fisici dell’udito e di conseguenza della parola, quali sono i cari sordomuti.

Fu solerte educatrice, ottima mamma, benefattrice dei poveri, discreta e coraggiosa superiora, instancabile apostola dei sordomuti che amò, seguì, istruì con cuore materno.

Comprese “dal profondo” i loro problemi, le loro esigenze. Adottò tutti i mezzi necessari per ridare loro la parola, per istruirli e per inserirli nella società, dalla quale erano emarginati.

Per insegnare adottò “il linguaggio orale” mediante la respirazione, la fonazione per l’estensione della voce e l’articolazione insegnando i vari fenomeni, le vocali, le semivocali, le consonanti ed infine la labiolettura con i diversi accorgimenti. Per ultimo la didattica speciale per la scuola materna che comprendeva l’articolazione e per la scuola elementare suddivisa in tre cicli.

Ricordiamo che l’handicap “sordità” non trova raffronto alcuno con altri tipi di minorazione.

Essa mina L’homo sapiens nell’organo più necessario della vita di relazione.

Nei tempi in cui visse Suor Giuseppina Caldi si otteneva, ugualmente anche oggi, tramite la rieducazione, un recupero che permetteva al sordo di conquistare un certo grado di reinserimento sociale.

Nel periodo in cui visse Suor Caldi non era facile parlare di “linguaggio” di questa attività, propria dell’uomo che lo distingue e lo eleva sopra tutte le creature e lo rende partecipe, si può dire, e simile alla natura divina del Creatore.

Annetta Manca (suor Teresa) (                         )

Suor Teresa, al secolo Annetta, è arrivata nell’Istituto Sordomuti nel 1928. Era molto nota nel campo dei sordomuti, specialmente a Sassari e a Nuoro. La sua scomparsa lascia un grande vuoto in quanti l’hanno conosciuta. Maestra di larghe vedute, di aperta intelligenza e cuore generoso, piccola di statura, dal passo svelto e dagli occhi espressivi, amava la parola concisa e convincente. Nessun commento nelle sue conversazioni, andava diritto a Dio.

Gran parte della sua vita l’ha dedicata , con entusiasmo e generosità alla diffusione del metodo orale dei sordomuti, i quali, in quei tempi, erano quasi abbandonati.

Affascinata da questo ideale, partecipava volentieri ai Convegni per raggiungere una sempre migliore preparazione e specializzazione. Disimpegnava il suo servizio con scrupolosa meticolosità e trasmetteva agli alunni il suo amore per il dovere.

La sua è stata una vita vissuta a servizio degli altri, nell’amore, nella preghiera e nel silenzio, tutta protesa a portare Dio nel cuore e nella vita dei sordomuti.

Ogni sua energia, ogni suo sforzo, ogni sua giornata, ogni sua intenzione generale era diretta ad un solo scopo: dare la parola a chi non la possiede, essendo privo di udito. Reinserire in modo del tutto normale il sordomuto, in una società che allora lo respingeva e lo ghettizzava, era il suo costante assillo.

Superiora per diciasette anni, le stava a cuore mantenere la “piccola” Comunità locale nella fedeltà allo spirito di San Vincenzo e Santa Luisa.

Aveva una grande devozione al povero, perciò moltiplicava i suoi consigli: “Onora Gesù nella persona dei Poveri, specialmente nei più deboli”.

Nell’ultimo periodo della sua vita, la sua dedizione si era tradotta in esempio e in pietà. Con serenità, offriva le sue continue e crescenti sofferenze mentre, sorda e quasi cieca, non riusciva più a leggere il breviario. La consolava una frase di Santa Luisa: “le sofferenze volute da Dio equivalgono al servizio”.

Legata al dovere, conscia della sua ardua responsabilità di anima consacrata e di educatrice, è andata a ricevere il premio del suo lavoro come la serva buona e fedele.

La sua materna figura si delinea sempre più nitida nella nostra mente e ritorna alla memoria il suo conversare, sempre imperniato sui problemi della casa, della scuola ai sordomuti e della didattica speciale.

Non dimenticheremo mai le sue sublimi virtù. Lo zelo e la dedizione di Suor Teresa rimarranno per noi sempre un esempio fulgido.

Aveva impreziosito la sua lunga vita di silenzio, di religiosa umiltà e delle virtù che fanno ogni anima cara allo sposo divino: ubbidienza, preghiera, lavoro

V

 Cotemplative in azione

 Anche la Chiesa sarda pareva avviarsi attraverso una contemporanea presenza di attivi e fecondi protagonisti non solo di inculturazione evangelica, ma anche di promozione umana e sociale per le popolazioni e gli strati sociali più emarginati, operatori religiosi in area sociale quali F. Prinetti, G. B. Manzella, E. M. Piovella, E. Virgilio, V. Angioni, S. Vico, in area culturale D. Filia, S. Daddi, L. Desole, A. Biddau, G. Miglior, R. Motzo, G. Pagani, religiose e laiche quali A. Marongiu, M. Brigaglia, P. Muzzeddu, F. Seu e G. Ghisaura, A. Figus, I. Aru, L . Pinna, G. Mereu, Bruna M., M. G. CabrasB. Piredda, verso una forte inculturazione cristiana delle popolazioni dopo lo shoc seguito alla fine del vecchio ordine sociale. Si nota in questo periodo l’inizio della rinascita dei soppressi ordini religiosi maschili, ma sopprattuto una forte presenza di congregazioni femminili estere, nazionali e locali.

Angela Marongiu (1854-1936, Sassari)

 Nata in Sassari l’8 febbraio del 1854[67], sei anni dopo la fusione dell’isola col Piemonte e la concessione dello statuto albertino, quando cominciava ad essere ridotto drasticamente il ruolo del clero nella vita pubblica.

Con l’Unità nel 1861 e la proclamazione del Regno d’Italia con Roma capitale ha inizio il conflitto tra Chiesa e Stato e quel processo ormai iniziato di netta separazione fra trono ed altare; con le leggi eversive del 1866 gli ordini e le congregazioni maschili e femminili oltre che costretti a sciogliersi furono spogliati dei loro beni.

Anche i conventi di Sassari furono adibiti a caserme di soldati dell’esercito, di reali carabinieri, di delegazioni di polizia, di ginnasi e licei o di istituti tecnici o di convitti nazionali destinati alla formazione della piccola e media borghesia che man mano sostituendosi alla classe nobiliare diventerà classe dirigente sia dei centri urbani sia di quelli rurali[68].

Il 1866, anno in cui Angela Marongiu, a 12 anni, fà la sua prima comunione, è proprio quello economicamente e socialmente più infausto per il clero regolare della città[69].

Angela, primogenita di otto figli di una famiglia del centro storico e residente nel popolare quartiere di Sant’Apollinare[70], forse avverte questi cambiamenti e l’inizio del calvario che sta per iniziare per la Chiesa. Nel 1872, a 18 anni, proprio a due anni dalla breccia di Porta Pia, rinunciando ad ogni prospettiva mondana e rifiutando proposte matrimoniali, si consacra definitivamente al “suo mistico sposo” Gesù Cristo conducendo una vita di costante preghiera, pratica dei sacramenti e lasciandosi guidare spiritualmente dall’ex carmelitano p. Eliseo Demontis[71].

Inizia per lei un intenso periodo di ascesi mistica, fatta di oblazioni continue, di meditazioni, ma anche di visioni mistiche nelle quali ha modo di conoscere il suo futuro di madre di molte vergini consacrate[72].

La sua vita per il resto scorre nella quotidianità dell’accudire alle faccende domestiche dato il numero di fratelli e sorelle, ai lavori femminili della maglia, dell’uncinetto, ma soprattutto del ricamo, più redditizio per il ricavo di qualche modesto contributo finanziario per la famiglia[73]. Il tempo disponibile lo dedica alle visite ai poveri che nel momento del passaggio dal vecchio ordine sociale a quello nuovo, venute meno le antiche strutture solidaristiche della Chiesa, potevano contare ormai sulla privata solidarietà cristiana.

La città è percorsa da frotte di monelli affamati e di fanciulle spesso pericolanti e la tubercolosi, la malaria, il tracoma, la precarietà delle abitazioni umide e malsane ne fanno un centro in cui accanto alla ricchezza e allo sfoggio degli ultimi nobili che sono rimasti e all’esibizione dei nuovi ricchi fà riscontro la povertà dei più[74].

I nuovi signori della città, spesso massoni e anticlericali, educano i loro rampolli nelle regie scuole dove docenti ostili alla Chiesa li orientano alla miscredenza e all’ostilità al clero e ai laici praticanti chiamati “clericali”.

I giovani laici, alle soglie del liceo cominciano a frequentare le numerose case di tolleranze, molte ragazze sono indotte alla prostituzione, non manca anche a Sassari la piaga degli esposti e la presenza di madri nubili[75].

Per ogni genere di miseria lo Stato si affida all’iniziativa dei privati, limitandosi al controllo dell’avvio, della crescita, e al riconoscimento di ente morale delle varie strutture assistenziali ed educative che sorgono nella città di Sassari, peraltro generosa nel contribuire al soccorso dei poveri[76].

Più tardi, ai primi del Novecento uomini della tempra del vincenziano padre Genta e del conventuale padre Deligia cercheranno di aggregare i giovani nelle associazioni parrocchiali.

Il mondo cattolico sassarese ha ricchezza di figure maschili e femminili: le Dame della carità istituite nel ’59, le Figlie della Carità giunte all’ospedale civile nel ’56 e soprattutto; cattolici impegnati come il giovane Avv. Carlo Rugiu che negli anni in cui Angela inizia il suo itinerario mistico istituisce nei locali dell’ex convento dei Cappuccini un ospizio per trovatelli, coadiuvato dai signori delle conferenze di carità da lui fondate in Sassari, mentre avverte con impazienza la necessità di un altra struttura assistenziale educativa per le bimbe abbandonate[77].

Con le venti dame attive e con le oltre duecento onorarie cerca di raccogliere mezzi per aiutare i poveri G. B. Manzella anche lui vincenziano. Nel 1880 in odio alla Chiesa viene abbattuto il castello dell’Inquisizione; si abbattono anche le mura della città per creare posti di lavoro e gli operai ed ortolani danno vita al quartiere delle Conce, mentre gli aristocratici e i borghesi costruiscono nelle cosiddette appendici di via Roma, dell’Emiciclo e nei pressi della nuova chiesa parrocchia di san Giuseppe, ultimata nel 1888[78].

Angela Marongiu di modeste risorse economiche, assiste le molte povertà che le sono intorno, svuotando spesso la dispensa di casa sua, dando quanto può ai poveri, soccorrendo gli ammalati del quartiere e insegnando il catechismo, in casa propria e in parrocchia, alle ragazzine affidatele dai genitori o dal parroco, mentre fà parte attiva dell’associazione “Madonna di Lourdes” della stessa chiesa parrocchiale[79].

Nel 1872, ” Dopo i vent’anni ha offerto la sua preziosa compagnia ad una signora emigrata dalla Francia, anima ugualmente dedita ad un’intensa preghiera. Da lei apprese l’arte del ricamo e si distinse soprattutto nel ricamare tovaglie e altri arredi sacri. (…) Le ore di ricamo e di lavoro erano intercalate da ore di adorazione e di preghiera riparatrice”[80].

Gli anni passano: la miseria a Sassari a tratti aumenta a tratti si attenua, i poveri non mancano mai. Miserie di ogni genere la circondano .

Le pagine del suo diario segnano il cammino spirituale di questa mistica in azione sociale silenziosa e operosa. Mentre i Soro Pirino, gli Abozzi, i Garavetti, i circoli socialisti e le sotterranee e misteriose logge massoniche brigano per la costruzione di una città moderna e civile. I Berlinguer, i Moro, i Satta Branca fondano il quotidiano cittadino “La nuova Sardegna”[81], questa donna umile, appartata, operosa sulla scia della mistica monaca carmelitana francese Teresa di Lisieux, avendo scelto contrariamente a quella la propria dimora come convento, prega e offre sacrifici per il Cristo del Getsemani, così “attualizzato” nello spirito di Angela, impotente spettatrice del processo inarrestabile della secolarizzazione e, per lei, dell’allontanamento degli uomini da Dio[82].

Una comunità sorgerà le aveva annunciato una voce misteriosa ed ella sarà madre di molte vergini, ma intanto continuerà a pregare mentre la predizione tarda ad avverarsi

Il tempo passa ma per Angela, ormai sessantenne, è quasi passata una vita: senza chiasso, nel più completo nascondimento ufficiale, ma costantemente a colloquio con madri di famiglia, preoccupate per il lavoro e per i figli, con spose in crisi con i loro sposi, con anziane che vanno a raccontarle le delusioni della loro provata esistenza, con sacerdoti che si rivolgono a lei per chiedere preghiere[83].

Nel novembre del 1900 giunge a Sassari il prete della missione G.B. Manzella che subentrerà come direttore spirituale della mistica Angela al defunto carmelitano padre Demontis.

A lui manifesterà il desiderio di dar vita ad una comunità religiosa, desiderio assecondato anche dall’infaticabile missionario i cui impegni però lo porteranno a rinviare per decenni la realizzazione del progetto.

” Solo nel 1927 (…) si poté realizzare il progetto di Madre Angela, la quale perciò non è soltanto la cofondatrice ma la vera ispiratrice delle Suore del Getsemani”[84].

Scopo di tale progetta era quello di consentire “alle giovani sarde, aspiranti alla vita religiosa, di realizzare la loro vocazione rimanendo in Sardegna e che fossero interamente disponibili alle esigenze pastorali della nostra isola”[85].

Padre Manzella medesimo ne dà notizia spiegando lo scopo della fondazione: ” Non sono designate opere speciali; ma qualunque bisogno si presenti nella società sarà oggetto di tale beneficenza che potrà estendersi oltre che agli ammalati, ai tubercolosi, ai deficienti, ai ciechi, ai cronici, agli orfani e potrà pensare ai dormitori pubblici per i diseredati, alla protezione della giovane, al pensionato per signore sole e anche a una scuola di lavori femminili introducendo nelle città e nei villaggi le piccole industrie di cui si sente tanta necessità in questa Sardegna, che sebbene limitatamente alla famigli, vi era assuefatta nei tempi trascorsi. (…) Personale non ne manca e procureremo le macchine necessaria e impianteremo tali industrie che saranno alla portata di tutti, mentre il sogno sarebbe la fondazione di altre case consimili in tutti i paesi della Sardegna ove fosse possibile.[86]

Le donne che vorranno dedicarsi a quest’opera faranno il voto di povertà, castità e obbediente.”

Dell’opera dà ancora notizia: “La casetta che aspetta per divenire uno stabilimento capace di centinaia di persone ora non è che una palazzina. Il pian terreno ha tre ambienti (…)L’altro più grande, e serve attualmente da cappella; un grande quadro dell’Immacolata con le mani aperte (…) serve come di icona all’altare (…) su cui si può celebrare la S. Messa. (…) Poi una gran sala, con due graziosi dipinti, opere del M. R. dott. Loriga, professore del Seminario. L’uno ad acquerello rappresenta la Sacra Famiglia in atto di lavoro. L’altro, ad olio, rappresenta la Santa agonia di N. S. Gesù Cristo nell’orto del Getsemani. (…) La casa finora è abitata da cinque future religiose, dico future perché, prima di dar loro un nome ed un abito è necessario aggiungere al fabbricato altrettanto di quel che c’è.[87]

Brevi notizie le dà con particolare riferimento ad un buon sacerdote che ogni mattina va a celebrare la messa ed evitare che “le abitatrici” debbano levarsi prestissimo per recarsi al Policlinico ad ascoltare la S. Messa[88].

Il fabbricato dell’Opera progredisce lentamente.

” Ora <le abitatrici> sono ancora soltanto cinque, ma perché l’opera nostra possa svilupparsi e prendere la sua vera fisionomia, è necessario siano almeno una ventina le lavoratrici; e diciamo insieme le adoratrici. Giunti a quel numero potranno essere messe su diverse industrie.[89]

Nel ’28 le ospiti sono nove, sono state acquistate a rate la macchina da scrivere e una macchina per calze e maglieria. Non parla più di abitatrici, ma di suore[90].

Su questo periodo si ha la testimonianza di mons. Enea Selis che da ragazzo aveva conosciuto la “mistica Angela Marongiu in Via Sant’Apollinare, 4 insieme alla madre e poi ancora da studente e da seminarista.

“Ricordo la prima Comunità composta di poche donne, di cui qualcuna giovanissima, provenienti generalmente da modeste famiglie contadine; persone anche esse modeste, senza istruzione superiore, ma animate da un autentico spirito di fede, di pietà, di umiltà, di semplicità e di gioia.

Mi pare di poter dire che le virtù che quella piccola Comunità evidenziava in modo sorprendente, erano: la pietà profonda, la povertà sorridente, la gioia semplice di essere consacrate a Dio, nella nuova Congregazione religiosa, e soprattutto di essere le “Suore di Padre Manzella”, il che era titolo di onore e di gloria. “Le Suore di Padre Manzella”, così infatti allora i sassaresi le chiamavano”.

“I primi anni di vita della piccola Comunità furono lieti e duri ad un tempo; lieti perché le Suore avevano l’ardore dei neofiti e la gioia trasparente delle anime semplici, e duri perché la vita all’interno della Comunità era di autentica povertà, sia perché il lavoro delle Suore, lavoro di cucito e ricamo, non ancora organizzato, non era sufficientemente redditizio, sia perché la nuova Fondazione non era ancora canonicamente riconosciuta, e non certo favorita da parecchie persone del mondo ecclesiastico.

Basti pensare che alle angustie e alla povertà dei locali, corrispondeva un arredamento assolutamente inadeguato, tanto che le prime suore non avevano, all’inizio, neanche una sedia per ciascuna, e qualcuna doveva accontentarsi di uno sgabello”

“Anche la cappellina era piccola e povera, ma Padre Manzella non solo aveva ottenuto dall’arcivescovo di potervi conservare l’Eucaristia, ciò che per le Suore era la più grande ricchezza, ma aveva trovato il primo Cappellano, il Canonico Francesco Meloni, devoto di Padre Manzella, che generosamente assicurava tutti i giorni la S. Messa alla Comunità.

Man mano che il tempo passava, le Suore crescevano in numero e qualità, ed i sassaresi cominciarono a conoscere, ad apprezzare e aiutare il “Conventino”, e Padre Manzella, allietato ed incoraggiato dai benefattori, ampliava i locali ed attendeva, con cuore di padre, alla formazione spirituale delle sue Figlie spirituali, presso le quali trovava conforto e ristoro, soprattutto dopo il ritorno dalle lunghe e faticose Missioni al popolo nei vari paesi della Sardegna.

Madre Angela era amata dalle sue Suore, è dire poco, perché oltre all’affetto filiale, esse avevano per la loro Madre una devozione sconfinata e senza riserve.

Credo si possa affermare che, soprattutto nei primi tempi, non vi erano grandi problemi all’interno della Comunità, all’infuori di quelli che provenivano dalla povertà e dal desiderio di ottenere il riconoscimento canonico dall’Autorità Ecclesiastica.

Questa tardava a venire, forse perché si voleva vedere concretamente se la Comunità, che era sorta stranamente tra la diffidenza di alcune qualificate persone ecclesiastiche, fosse capace di vita autonoma e duratura.

Tutto ciò generava naturalmente sofferenza e preoccupazione, non solo in Padre Manzella e in Madre Angela, ma anche in tutte le Suore le quali, dopo alcuni anni dalla fondazione, non avevano avuto neppure la gioia di fare la vestizione religiosa.

“L’arcivescovo Mons. Cleto Cassani lasciò improvvisamente Sassari, avendo rinunziato al governo pastorale della diocesi per motivi di salute, ed il nuovo Arcivescovo Mons. Maurilio Fossati, che conosceva bene Padre Manzella, perché proveniva da Nuoro dove era stato vescovo per cinque anni, non ebbe forse neppure il tempo di occuparsi e di prendere qualche decisione sulla nuova comunità religiosa, perché soltanto dopo un anno di permanenza a Sassari, venne promosso Arcivescovo di Torino.

La speranza di una sistemazione canonica della comunità si riaccese con l’arrivo a Sassari del nuovo Arcivescovo, Mons. Arcangelo Mazzotti, il quale, mostrò subito simpatia e stima non solo per Padre Manzella, ma anche per la nuova comunità religiosa da lui fondata, e alla quale darà in seguito il meglio della sua cultura ascetica e delle sue non comuni doti di maestro di spirito.”

Degli anni della mia assenza da Sassari posso dire poco anche se, durante le vacanze estive, avevo modo di visitare il “Conventino” e di incontrarmi con Padre Manzella e Madre Angela. Tuttavia so che quegli anni furono di crescita e di prove, per la lunga malattia di Madre Angela e poi quella di Padre Manzella, rispettivamente negli anni 1936-1937.

Madre Angela moriva dopo aver governato la Comunità per 9 anni, senza aver avuto la gioia, tanto attesa e desiderata, di indossare l’abito delle Suore del Getsemani.

Forse fu la sua morte che meritò alle Suore di raggiungere presto questo traguardo forse fu l’intercessione di questa grande donna, a meritare lo sviluppo che la nuova Comunità avrebbe avuto negli anni successivi.

   “Madre Angela è stata un insigne modello di vita religiosa, ed era una donna che, pur avendo una cultura poco più che elementare, ha scritto pagine luminose di teologia ascetica e mistica, che meriterebbero di essere conosciute, e che sono la testimonianza di una vita interiore nella quale lo Spirito Santo ha comunicato verità misteriose ed intuizioni profetiche, che possono stare vicino a quelle di Santa Teresa D’Avila e di Santa Caterina da Siena”.

Sotto questo aspetto, a me pare che Madre Angela sia anche più grande di Padre Manzella, che pure ai nostri occhi appariva ed appare aureolato da una santità di cui, ancora oggi, dopo tanti anni, sentiamo la nostalgia ed il fascino.

   ” La morte di Madre Angela Marongiu ha fatto scrivere una pagina di storia della Congregazione, (…) subito dopo <la sua morte> finalmente, fu concessa <la vestizione> la vestizione delle Suore, che avevano dovuto attendere ben 10 anni prima di poter indossare l’abito religioso che le faceva apparire, anche esteriormente, anime consacrate a Dio, Suore autentiche, inserite ufficialmente nella vita e nella pastorale della Chiesa[91]“.

Giovanna Maria Ghisaura (1864-1943, Ozieri)

 

Nata in Ozieri il 5 maggio 1864 secondogenita di una famiglia di tre figli.

La madre si chiamava Maria Domenica Mandras.

In famiglia trascorre nell’allora sua industriosa cittadina la prima infanzia, frequenta le scuole elementari comunali, terminate le quali, dopo un pò di apprendistato insieme con la sorella maggiore Antonietta si dedica alla tessitura nel telaio di casa lavorando l’orbace, la canapa e il lino, prodotti il primo ad Ozieri, le altre due materie nel vicino centro di Mores. Col tempo le due sorelle avranno delle apprendiste essendo nota la loro eccellente professionalità.

Dati gli scarsi proventi della tessitura è costretta anche lei come tante sue coetanee ad andare a servire in casa di benestanti.

Tra il 1905 e il 1908 probabilmente contribuì alla costituzione in Ozieri della Società Cattolica Femminile di mutuo soccorso fra le “serve” sotto il patronato di santa Zita.

Essendo ormai trentenne lei, Lucia Seu, Maria Antonia Fresu e Giuseppina Piras decidono di dedicarsi all’istruzione catechistica, alla carità cristiana con visite agli ammalati, ma specialmente alla cura e all’assistenza delle bimbe abbandonate, fenomeno molto frequente nei centri dell’isola.

Giovanna Maria Ghisaura e le sue amiche, il 1 giugno del 1900 chiedono al vescovo mons. Filippo Bacciu di costituire una piccola comunità, di fare vita di comunità, vestendo un abito religioso, e di emettere i voti semplici al fine di mirare alla propria santificazione, di accogliere fanciulle abbandonate educandole religiosamente e professionalmente e di svolgere attività catechistica tra i fanciulli e le fanciulle nelle parrocchie della diocesi. Con il loro lavoro e con quelle delle orfane potranno garantirsi una decorosa sussistenza.

Il vescovo l’8 dicembre del 1900 dà loro l’autorizzazione e le pone sotto la protezione del grande Apostolo di Roma San Filippo Neri da ciò il loro nome di Filippine in ideale sintonia con l’opera svolta a suo tempo da una congregazione di sacerdoti ozieresi, sorta nel 1639, che oltre all’attività catechistica avevano dato vita ad un oratorio più andato distrutto.

Dopo un breve periodo trascorso negli stessi locali dell’episcopio offerti dal vescovo, la piccola comunità si trasferì in una casa in via San Gavino che divenne sede della congregazione e dell’ istituto per accogliere stabilmente dodici   ragazze bisognose di assistenza, educazione e apprendistato alle attività già praticate nella piccola comunità religiosa. Essendo aumentato il numero delle richieste, impossibili da soddisfare, le buone suore si adoperarono per l’istituzione sempre ad Ozieri di una “sezione di orfanelle” nell’esistente asilo gestito dalle Figlie della Carità nella stessa cittadina, amministrato dai benefattori P. Satta e P. Tola, presidente e vicepresidente e come direttori G. B. Pintus, M. Mannu Fresu, P. Garau, A. Comida Baoli, E. Garau, R. Tola. Lo statuto organico e il regolamento interno vennero approvati dal Ministro Giolitti nel 1808.

Già nel 1903 le Filippine avevano fatto visita al Papa Pio X con lo stesso vescovo Bacciu e successivamente ottennnero dallo stesso vescovo la concessione di costruire una Cappella dove conservare la S. Eucarestia e far celebrare la S. Messa.

Il vescovo Bacciu diede loro un forte aiuto fino alla morte che avvenne nel 1913.[92]

   Come sappiamo dalla testimonianza del vescovo di Nuoro Luca Canepa, i sacrifici personali del fondatore Filippo Bacciu a favore delle Suore Filippine non si erano limitati a incorraggiamenti, a scritti, a parole. Nei quattordici anni trascorsi dalla fondazione della Congregazione fino alla morte aveva erogato di tasca sua non meno di 10.000 lire per le necessità materiali dell’edificio e delle stesse Suore.

   Il giorno 20 gennaio 1908 firmava il suo testamento, che è anch’esso tutto un atto di carità, e tra le altre cose disponeva anche: “Lascio lire mille alle donne religiose conosciute sotto il nome di Filippine che vivono in comunione in Ozieri, rione denominato San Gavino in casa di loro proprietà, allo scopo di educare ed istruire in lavori femminili fanciulle abbandonate e prive di sussistenza”.

Modificando il primo progetto di fare della loro casa un orfanotrofio femminile dopo che questo era sorto per la generosità dei fratelli Satta, le Suore Filippine, sotto la guida di Suor Lucia, continuarono il lavoro di istruzione religiosa e di addestramento artigianale nei lavori femminili verso quelle ragazze che non avevano altra assistenza.

   Un durissimo colpo per loro e per la loro attività ebbero quando, dopo brevissima malattia, il 13 marzo 1914 moriva fra il compianto generale il Padre e Fondatore Mons. Filippo Bacciu.

   Il suo successore Mons. Carmine Cesarano nominato l’anno seguente 1915, con tutti i gravissimi e pressanti problemi sorti allora con la guerra non ebbe modo di poter curare con altrettanta sollecitudine la Congregazione. Rimaneva però sempre vivo ed attuale il problema della istruzione catechistica, alla quale da sempre attendevano le Suore Filippine, convinte come erano che è impossibile attendere frutti duraturi da una esistenza anche premurosa, senza una base profonda e solida di quella istruzione religiosa che è il pane e l’acqua, insieme con la grazia di Dio, per la crescita di una vita cristiana.

   Nella sua assidua cura in questo campo, il vescovo Filippo Bacciu aveva approvato con un suo decreto del 13 novembre 1908 la “Congregazione della dottrina cristiana” da sperimentare in un primo tempo solo nella parrocchia della Cattedrale. Otto anni dopo, nel 1916, poco dopo la sua venuta a Ozieri il vescovo Cesarano estendeva tale “Congregazione” a tutte le parrocchie della diocesi.

   Le conseguenze della guerra non tardarono a farsi sentire anche a Ozieri. Tra esse, la necessità di provvedere ad una sistemazione degli orfani di guerra della città e dei paesi vicini. Di ciò si interessava la Croce Rossa che chiese ed ottenne che alla sistemazione di essi provvedesse con la casa delle Suore Filippine in via San Gavino. Era quasi un ritorno, ma quando mai doloroso date le circostanze, a quello che era stato uno dei primi propositi delle Suore: quello di fare della loro casa un ricovero per bambine e bambini privi dei genitori, un vero e proprio orfanotrofio.

   A gestire una attività così delicata e importante le Suore Filippine non erano ancora pronte date le condizioni che si erano create improvvisamente senza quei piani a lungo respiro che sono propri di tali attività. Per questo il vescovo Cesarano mandava in loro aiuto, in quello stesso anno 1916, due Suore Francescane che formassero quasi una sola famiglia ed una sola comunità con le Filippine.

   In quello stesso anno 1916 un’altra grave prova colpiva la Congregazione delle piccole Suore di S. Filippo Neri: il 25 novembre terminava la sua vita terrena colei che Mons. Bacciu ne era stata l’ispiratrice e la fondatrice, Lucia Seu, poi Suor Filippa.

   Sono così scarse le notizie che di lei ci sono rimaste che varrà la pena di raccontare un episodio poco noto.

   Nel 1873 era stato approvato dal Governo il Credito Agricolo Industriale Sardo, e poco dopo sorgeva anche a Ozieri una sua succursale nella quale moltissimi ozieresi versarono i loro risparmi che venivano convertiti in “Azioni” da 100 lire l’una. Due di queste azioni, per un valore odierno di quasi un milione, vennero acquistate da Lucia Seu nell’intento di mettere al sicuro, in Banca, i suoi risparmi. Pochi anni dopo la Banca falliva, e a Lucia Seu venivano restituite complessivamente solo quaranta lire delle duecento versate, e per di più in varie rate annue. L’ultima rata le veniva pagata il 13 novembre 1903: era di una lira! Nel registro del Notaio che curava il fallimento della Banca, a margine di quella registrazione troviamo la laconica, semplice annotazione: “data alle orfane di San Filippo”.

   Se da una parte la notizia ci dimostra che non solo a parole ma anche coi fatti le prime Suore si erano dedicate interamente alla loro missione dando tutto alla loro opera, d’altra parte ci testimonia già in pieno svolgimento la loro attività a favore delle ragazze abbandonate, conosciute come “le orfane di San Filippo”.

   Alla morte di Suor Filippa si poneva il problema della direzione dell’Istituto. Dopo una prima designazione nella persona di Suor Michelina di Gesù, originaria di Bono, la scelta definitiva cadeva su Suor Giuseppina Ghisaura, che era stata fra le ispiratrici di quell’opera.

   Il periodo dell’episcopato di Carmine Cesarano (1915-1919) è per la Congregazione delle Suore Filippine un momento di attesa. Il vescovo, proveniente dall’Ordine dei Redentoristi fondato da S. Alfonso Maria de’ Liguori, viene a trovarsi fra le difficoltà e dubbi di fronte ad una non facile situazione, alla quale non si vede per il momento una via d’uscita; ma da uomo prudente non vuole spegnere la piccola fiamma tremolante, che nonostante tutto continua ad ardere e a brillare.

   Se il Vescovo Cesarano era ben consapevole del disagio implicito nella crisi della Congregazione si rendeva però conto dell’importanza della vita religiosa. Il suo successore Francesco Maria Franco era uomo più dinamico e più realista. Dal Piemonte, da cui egli stesso proveniva, chiamava per il servizio nel Seminario vescovile di Ozieri alcune Suore di San Giuseppe Benedetto Cottolengo.

   Vi fu un tentativo perché le poche Piccole Suore di San Filippo Neri lasciassero il loro nome di religione e il loro abito, ed entrassero a far parte di quella Congregazione. A tale scopo Suor Giuseppina veniva invitata a trascorrere un certo periodo di ambientazione nella Casa Madre di Torino. Dopo circa un mese di quella permanenza essa rientrava nella sua Ozieri, nella sua casa di via San Gavino, e a chi le chiedeva le impressioni di quel soggiorno rispondeva affabilmente, ma la conclusione era sempre una: “Voglio morire Suora Filippina”.

   Si vide pertanto costretta a respingere la proposta più volte fattale di alienare la casa ed eventualmente andare a vivere in Seminario o presso le Suore dell’Orfanotrofio femminile o in altra sede. In effetti, il non avere più quella casa sarebbe stato in pratica come recidere le proprie radici, come sottoscrivere l’atto di morte della Congregazione. Ed invece, essa spera fermamente contro tutte le oscure prospettive che le si presentano allo sguardo.

   Dove essa abitava, in via San Gavino, vennero ospitate alcune Suore del Cottolengo, e sappiamo che la convivenza non fu serena, come non è mai facile una vita in comune tra persone cresciute in ambienti tanto diversi, e quindi con mentalità ed abitudini non sempre conciliabili.

   Se la comunità era sorta con la denominazione, in un primo momento, di “casa della carità”, in seguito pur cambiando nome essa rimaneva sempre tale nella sostanza, nel suo intento, nelle sue attività.

   Per vari anni, Suor Giuseppina, pur sforzandosi di tener sempre unito il “piccolo gregge”, si prodigò anche in altre opere di carità non previste dagli scopi della Congregazione. Fra queste opere, un posto importante occupò quello della cura delle vocazioni ecclesiastiche fin dagli anni in cui era ancora vivo Mons. Bacciu, prodigando interessamento consigli e preghiere particolarmente nei riguardi di due suoi nipoti, Giuseppe e Antonio Ghisaura, fino a far nascere e far gustare la vocazione allo stato ecclesiastico, curandone costantemente la crescita e lo sviluppo.

   Il 1925, anno giubilare, vedeva coronate tante sue fatiche. Nella festività dell’Assunta veniva ordinato sacerdote Giuseppe Ghisaura, mentre pochi mesi dopo il fratello Antonio riceveva l’ordinazione nel giorno di Natale, insieme con altri due ozieresi, Salvatore Cossu e Nicolò Sarobba.

   Più tardi Antonio Ghisaura, ch’era solito attribuire la sua vocazione alle cure e alla preghiere della zia, lasciava il ristretto ambito della diocesi per entrare nel Pontificio Istituto per le Missioni Estere, che dopo un periodo di formazione lo mandava a reggere una missione in India dove trascorse, si può dire, tutto il restante della sua vita.

   Don Giuseppe poco dopo la sua ordinazione veniva mandato dal Vescovo Franco a curare la piccola parrocchia di Padru, che prima dello sviluppo recente contava allora poche centinaia di abitanti.

   Ad assisterlo in casa, Don Giuseppe chiese e ottenne che fosse “tia monza”; e Suor Giuseppina rispose pronta all’invito, lieta di poter non solo accudire materialmente al giovanissimo parroco, ma ancora di coadiuvarlo per quanto le era possibile nell’attività parrocchiale. Di essa rimane il ricordo della collaborazione nella catechesi a piccoli e grandi, e di un amoroso interessamento riguardo ai malati. Ma le testimonianze che si poterono raccogliere a Padru contengono anche qualcosa di più. Benché ormai la comunità religiosa della Congregazione delle Filippine si fosse in pratica disciolta, Suor Giuseppina, sentiva di essere sempre una persona consacrata a Dio. E fu una missione che ella esercitò a livello diretto, personale, riservato, attraverso cento e cento colloqui privati, dato che a lei con piena fiducia si rivolgevano in molti a chiedere un consiglio in una situazione difficile, a chiedere incoraggiamento, una parola di conforto.

   Gli anni che vanno dal 1929 al 1939 sono apparentemente privi di avvenimenti importanti sia nella vita di Suor Giuseppina, sia nella storia della Congregazione Filippina.

   Ma una cosa è certa: quel lungo, lunghissimo periodo fu un vero e proprio inverno, durante il quale, lentissimamente, doveva maturare il seme in qualche modo sotterrato, dal quale però doveva spuntare un filo, uno stelo, un ramo, una pianta.

   In questo nascondimento, Suor Giuseppina vive la sua vita povera ma ricchissima di vita interiore, in una solitudine alla quale largamente supplisce la presenza continua di Colui che da solo può riempire il cuore.

   E di questo abbiamo preziose testimonianze che ci confermano questa sua ricchezza spirituale, questa sua serenità e gioia nonostante tutte le avversità.

   “Essa è rimasta sola, nella più squallida povertà, soffrendo fame, freddo e abbandono; ma nonostante tutto ciò, era sempre calma e sorridente”. E’ una testimonianza anonima, che viene però confermata quasi con le stesse parole da una amica che ben la conobbe: “Ha sofferto fame, povertà e privazioni di ogni genere; ma dal suo volto non traspariva mai alcun segno di sofferenza; era di una serenità imperturbabile” (Mattia Usai).

   Forse era istintivo senso di dignità personale, forse era anche, e più di tutto, una illimitata fiducia nella Divina Provvidenza che le impediva di lamentarsi e di chiedere aiuto. “Signore, non ne posso più!” fu il lamento che si lasciò sfuggire una sera dopo un digiuno che durava da un giorno e mezzo. E fu il lamento che il Signore fece udire nel cuore di una vicina di casa, che pochi minuti dopo suonava alla porta e le consegnava alcuni pani.

   Con profondo rammarico la comunità parrocchiale di Padru la vide ripartire definitivamente per Ozieri nel 1929, a seguito della destinazione di Don Giuseppe ad altro incarico: un rammarico che si trasforma in nostalgia e insieme in dolce ricordo nelle sempre più rare persone ormai vecchie, che nell’infanzia o nella prima giovinezza ebbero modo di conoscerla e di apprezzarla.

   Rientra in quella che, nonostante tutto, è ancora e sempre la sua casa, anche se rimangono le solite difficoltà di prima. Ma di fronte al mite, sereno carattere di Suor Giuseppina pare si spuntino tutte le armi.

   Ricordava Pietruccia Sistu, una santa donna che lasciò profondo ricordo di vita cristiana: “Sentìi una volta che la Superiora delle Suore del Cottolengo si lamentava perché non sapeva più cosa fare nei riguardi di Suor Giuseppina: per quanto la rimproverasse o riprendesse per qualche errore, per qualche sbadataggine, per qualche malinteso, non riceveva come risposta altro che un sorriso”!

   Altra donna che la conobbe a lungo fu Maria Antonia Pinna. Le chiese una volta come mai si sentisse sempre così contenta nonostante i maltrattamenti, talvolta assai più gravi del solito, e Suor Giuseppina rispose che per lei anche questi erano fonte di gioia, perché la facevano rassomigliare di più a Gesù che era stato perfino preso a schiaffi.

   Sia pure in modo ridotto continuava intanto quella attività a favore delle ragazze che era stata l’idea ispiratrice della nascita della Congregazione.

     Non essendo sufficiente l’Orfanotrofio Femminile gestito dalle figlie della carità, pur così bene strutturato, a ricevere tutte le domande da parte delle famiglie che desideravano una maggiore assistenza alle loro ragazze, Suor Giuseppina offriva spontaneamente la casa per farne un laboratorio.

   A tenere le lezioni teoriche e pratiche e a dirigere tale attività veniva chiamata una Suora delle Figlie della Carità, mentre in seguito tale compito fu affidato alle Suore del Cottolengo. E per Suor Giuseppina che era stata anch’essa “maestra” artigiana e che aveva insegnato il mestiere a varie ragazze, dovette essere sacrificio penoso il vedersi messa da parte per far luogo a nuovi metodi, a nuove tecniche, a nuova didattica: sacrificio tanto pesante, o forse possiamo dire tanto più meritorio, quanto più serbava tutte queste cose nel suo cuore, senza lamentarsi, senza irritarsi, senza protestare, ma offrendo tutto al Signore in spirito di umiltà.

   E questo spirito di umiltà la portava ad addossarsi le mansioni più umili della casa, pur profittando di ogni occasione favorevole per un buon consiglio, per una esortazione, per un richiamo a quattr’occhi. Ma cura particolare era anche quella di insegnare il catechismo e di intrattenere piacevolmente le ragazze nei momenti di intervallo, di riposo.

   Dopo l’improvvisa morte del vescovo Igino Maria Serci, il 28 maggio 1939 faceva il suo ingresso in diocesi il successore Mons. Francesco Cogoni.

   Non erano ancora passati tre mesi da quel giorno, ed egli mandava a chiamare Suor Giuseppina per un colloquio, volendo rendersi conto della situazione, ed una delle prime cose che le chiese fu se fosse ancora in possesso delle originarie regole e costituzioni della Congregazione di San Filippo Neri.

   Col cuore che le batteva più forte, Suor Giuseppina che tanto ardentemente aveva aspettato quella domanda, che tanto aveva pregato perché le fosse rivolta, senza riuscire a pronunziar parola per la commozione che la invadeva, traeva fuori dall’abito quei foglietti che per lunghi, lunghissimi anni aveva gelosamente conservato come reliquie preziose e li porgeva al vescovo, che li esaminava attentamente: e possiamo pensare che mai in tutta la vita sia sgorgata dal cuore di Suor Giuseppina una preghiera più fervosa e trepidante.

   Mons. Cogoni sollevava lo sguardo da quei foglietti, e rivolto a Suor Giuseppina le diceva: “Ho intenzione di servirmi ancora di voi; daremo nuovo impulso all’Istituto delle Filippine”. Suor Giuseppina cadeva in ginocchio ai piedi del vescovo, esclamando: “Questo è il giorno fatto dal Signore! Ora lascia, Signore, che la tua serva se ne vada in pace”! E mentre rientrava a casa, salendo i gradini e lungo la piazza Corte e per la via di San Gavino, deve aver respirato l’atmosfera del Sabato Santo, in palpitante, gioiosa attesa della Risurrezione.

   Fu una risurrezione priva di trionfi e di glorie esterne, ma al tempo stesso vibrante di vita, di nuova energia. Senza manifestazioni esteriori, senza propaganda, senza alzare la voce, il vescovo Cogoni pian piano attraverso colloqui privati chiedeva ai sacerdoti della diocesi che si facessero interpreti del suo disegno e del suo desiderio, di dar nuova vita alla Congregazione delle Suore diocesane di San Filippo Neri.

   Voci di anime generose non tardarono a rispondere a quella paterna chiamata. Prime fra esse, Maria Rosa Soro, Lucia Angela Farina, Rosalia Leori, Elisabetta Delogu, che più tardi si sarebbero chiamate sr. Chiara, sr. Agnese, sr. Maria Teresa, sr. Francesca. Furono esse a raccogliere la preziosa eredità dell’anima santa di Suor Giuseppina Ghisaura: eredità spirituale che rimane patrimonio inalienabile di quante seguono oggi le sue orme.

   E di questa eredità fa parte, insieme con una illimitata fiducia nella Divina Provvidenza, un convinto spirito di povertà.

   Alla giovane Suor Francesca Delogu ripeteva: “Ricordati che se vuoi essere una vera sposa di Gesù devi osservare con la maggiore perfezione possibile la santa povertà, perché essa ti rende più simile al Signore nel distacco totale e completo da tutto, distacco che devi praticare fino all’eroismo”.

   Madre Agnese Farina, nel ricordare i tempi veramente difficili dell’immediato dopoguerra nel quale anche le cose oggi più comuni e banali erano preziose rarità, raccontava: “Quando mancavamo anche del necessario, ci prendeva per mano, e in circolo ci faceva cantare: Divina Provvidenza, provvedeteci farina… Il rosario della Divina Provvidenza era pratica quotidiana, e faceva parte degli atti comuni”.

   A Suor Giuseppina Mons. Cogoni aveva affidato la cura di quel piccolo gregge iniziale; ma lei sentiva di non avere né l’animo né l’energia necessaria per essere “Superiore”. Visse con le nuove consorelle in spirito di comunione fraterna, consapevole che il Signore non avrebbe mai tardato a rispondere alla sua frequente invocazione.

   La morte la colse il 22 novembre 1943, quasi ottantenne. Essa lasciava questo mondo con l’ineffabile consolazione di poter vedere ardere nuovamente quella fiaccola che lei aveva per oltre un quarto di secolo tenuta accesa, ma quasi “nascosta sotto il moggio”, e che ora splendeva alimentata da una dolce realtà e da tante vive speranze.

Attualmente le Suore Filippine sono una trentina e gestiscono quattro strutture educative e assistenziali ad Ozieri, una a Nule ed un’altra a Bono.

 Pietrina Brigaglia (1900-1985, Tempio)

Nata a Tempio il 19 Dicembre 1900 da Efisio e da Maddalena Satta agli inizi dell’epoca giolittiana quando Tempio, centro di svariati opifici sugherieri, già influenzata dal pensiero liberal-massonico, comincia a sentire entusiasmi socialisti, coniugati spesso con l’anticlericalismo.

Il padre, solerte contadino “proprietario” con vigna ed orto, tira su la famiglia costituita da tre figli, lei e due maschi, uno dei quali potrà dedicarsi agli studi e diventare professore del più prestigioso liceo di Sassari.

La sua infanzia non presenta particolari di eccezione. Educata ad una disciplina di famiglia veramente cristiana, si formò all’obbedienza rigida di una mamma intransigente, che correggeva i piccoli difetti della famiglia vivacissima.

   Raccontava con gusto, che all’affermazione della mamma, che scopriva qualche sua golosità, dicendo di essere informata da S. Antonio, la piccola rivolta al quadro, sgridava il Santo: “Brutto spione!” e rivolgeva al muro l’immagine di S. Antonio, perché non vedesse.

   Compì con profitto il ciclo elementare: ma l’intelligenza speciale era arricchita da una memoria poderosa: sintetizzava qualunque lettura o racconto, di cui seppe usare nella sua arte di formazione.

   Vestiva con eleganza, amava passeggiare come tutte le fanciulle tempiesi, ma per aiutare in famiglia, divenne operaia nella “Sughero” ove erano impegnate circa trecento operai: basta ricordare che nel 1918, cento operaie in camicia rossa, nella piazza principale della città, inneggiarono al libero amore.

   In un ambiente di fabbrica con fermenti politici di estrema sinistra, seppe mantenere integra la sua purezza, e l’integrità della fede, derivata dall’esempio del babbo.

   Il carattere forte della mamma Maddalena Satta, la mitezza e la bontà semplice del babbo Efisio Brigaglia, svilupparono in lei un modo di agire semplice, ma determinato.

   Ai compagni di lavoro, che osavano attraversare le file in una processione religiosa, con determinazione, rimproverandoli, li sfidava a ripetere il gesto: ammutolivano, ritirandosi.

A diciannove anni come avviene per tutte le esuberanti ragazze galluresi era sul punto d’accettare il corteggiamento di un bravo giovane, quando subì un più forte fascino verso la vita consacrata interamente a Dio e al prossimo più bisognoso.

Il 19 Aprile 1919 fu una giornata rivelatrice per lei, quasi profetica: e’ sabato santo e nella cattedrale di Tempio mons. Giov. Maria Sanna, Vescovo di Tempio ordina sacerdote Salvatore Vico.

Pietrina non ha mai assistito ad un’ordinazione sacerdotale e, mentre vi assiste capisce la grandezza e la necessita’ assoluta della Chiesa di avere dei santi sacerdoti.

Si delinea quindi l’ideale di vita di Pietrina: l’immolazione per la santita’ del sacerdozio cattolico e la collaborazione nella evangelizzazione e nelle opere di misericordia.

Si affida quindi alla cura spirituale del novello sacerdote, collaborando allo sviluppo dell’Opera delle Vocazioni e diventando una delle prime zelatrici del seminario di cui il giovane don Vico è direttore.

Successivamente lascia la famiglie e inizia a far parte di un gruppo di assistenti dei bambini dell’Orfanotrofio San Francesco istituito da don Vico per accogliere degli orfani che padre Manzella non poteva sistemare a Sassari.

Nel 1923 quando don Salvatore, al rientro da Aratena, uno dei tanti stazzi galluresi, le confida il progetto di voler fondare le suore missionarie , Pietrina accetta con entusiasmo e, insieme alle altre assistenti, inizia ad elaborare un piano per la catechizzazione dei pastori che si trovavano sparsi negli stazzi della Gallura e dell’Anglona.

La notte di Natale del 1925 con il nome di suor Maddalena, insieme ad Angela Serra con il nome di suor Maria, Paolina Mariotti con il nome di suor Teresa, Antonica Manuritta con il nome di suor Giovanna, Adelina Sini con il nome di suor Giuseppina, enuncia i voti religiosi.

Suor Maddalena viene eletta superiora della piccola comunità femminile e con la sua intraprendenza, con le sue iniziative, contribuirà validamente al suo sviluppo grazie alla sua spiccata intelligenza, il carattere granitico e contemporaneamente materno, facendo da complemento, nella conduzione delle opere alle doti di don Vico.

Si dà inizio immediatamente alle missioni tra i pastori galluresi e anglonesi.

La prima viene preparata nella parrocchia di Telti: Padre Vico aveva disposto Aratena, ma proprio in quei giorni una lite fra pastori aveva provocato 11 arresti e, per prudenza le suore erano state pregate di rimanere in parrocchia: qui vengono registrate 130 comunioni di fedeli e 50 prime comunioni di fanciulli.

“Terminato il lavoro in parrocchia Madre Maddalena, dopo la scarcerazione degli 11 arrestati, decide di proseguire la missione anche ad Aratena dove viene accolta in maniera cordiale e con suor Giovanna riesce a riconciliare i liberati dal carcere con i loro familiari. A conclusione della missione viene celebrata la messa e Padre Vico amministra 200 comunioni, convengono molti pastori dalle vicine cussorgie di La Raica, Canali, Campu Maiori e Li Cuncheddi.

A fine missione si registrano 20 prime comunioni di fanciulli e 30 di adulti, 11   battesimi e 11 matrimoni regolati.

Appena rientrata a Tempio Madre Maddalena è subito impegnata, dal 6 al 17 maggio nella successiva missione a Padulo dipendente dalla Cattedrale di Tempio.

Si registrano 140 comunioni di cui 20 prime comunioni di fanciulli e 15 di adulti.

Dal 25 al 13 Giugno 1927, la Madre, guida due gruppi impegnati nella missione di Marazzino e S’Altara, della zona di Santa Teresa di Gallura, affidata ai Padri Conventuali. Al termine della Missione si registrano 400 comunioni, di cui 70 prime comunioni di fanciulli e 30 di adulti. Gli adulti e i fanciulli fecero anche la cresima amministrata da Mons. Morera. Dal 22 Marzo al 10 Aprile 1928, “Madre” insieme a Suor Agnese compie una missione con molti disagi , a causa della pioggia e del fango, nelle campagne di Bortigiadas: a Scala Ruia, Sa Contra e Lu Scupaggiu.

A fine missione si registrano 5 battesimi e300 comunioni di cui 50 prime comunioni di fanciulli e 20 di adulti.

Il 10 aprile nella chiesa di San Rocco mons. Morera amministra la cresima a 40 adulti e 75 bambini.

Nel corso degli anni Trenta e Quaranta l’attività missionaria delle ardimentose suore di gallura non muta.

La comunità si accresce gradualmente di nuove vocazioni e con esse le risposte ai bisogni avvertiti durante le missioni.

Mancano asili, istituti per gli orfani, per i portatori di handicap.

Nonostante la propaganda del nuovo regime fascista e una maggiore attenzione alle famiglia i bambini vengono avviati precocemente al lavoro, restano privi di quell’educazione primaria che serve a dar loro una prima impronta civile. La preoccupazione per i piccoli costituisce sia per don Vico che per Madre Maddalena una costante ossessione.

D’altra parte hanno il grande esempio di G. B. Manzella che ha avviato gli asili di Luras e di Calangianus, ma che non si stanca mai di insistere sull’educazione dei piccoli che rappresentano il futuro cristiano della Sardegna.

Don Vico, con una vocazione vincenziana “spezzata”, non cessa ispirandosi a san Vincenzo de’ Paoli di evangelizzare gli adulti, ma di preparare anche la futura società cristiana occupandosi delle nuove genrazioni.

Madre Maddalena capisce l’ispirazione dell’insonne sacerdote, ha percepito i fermenti anticlericali dell’ambiente gallurese da adolescente e da ragazza, coglie le contraddizioni del nuovo verbo fascista, ma dalla concretezza derivatale dal laborioso ambiente familiare constata che più di parole i poveri, gli orfani i bambini della strada hanno bisogno di qualcuno che si dedichi generosamente ad essi.

Asseconda con umiltà, ma con altrettanta operosità e determinazione le linee di azione di colui che lo stuolo crescente delle Missionarie Figlie di Gesù Crocifisso chiamano Padre e si dedica alle opere educative ed assistenziali, alle missioni, ma anche alla formazione delle nuove consorelle che la chiamano Madre.

Umile davanti al Padre, ma non omologabile; obbediente, ma anche consapevole del suo ruolo di Madre di tante figlie spirituali che guardano a lei come a modello e ad esempio di operosità fattiva ed efficace, instancabile e inventiva.

Pietrina avrà un ruolo determinante sia nel ruolo di educatrice degli orfani sia in quello di formatrice delle componenti della nuova comunità religiosa. Con la sua forte personalità dà un contributo notevole allo sviluppo della Congregazione; la spiccata intelligenza, il carattere granitico e contemporaneamente materno, hanno fatto da complemento, alle doti del Padre Fondatore.

“… la Madre era il coraggio, se non la temerarieta’, fatta persona: toccava a lei realizzare quelle decisioni difficili per far arrivare in porto le perigliose navigazioni in cui Padre impegnava le sue Figlie di Gesù Crocifisso”.

Nel 1970 Madre Maddalena raccoglie i frutti delle 379 missioni compiute: 445 comunioni di ammalati; 7.338 prime comunioni di fanciulli;1.603 prime comunioni di adulti; 57.608 comunioni di fedeli;9.577 cresime di fanciulli; 3.142 cresime di adulti, anche di 80 anni; 127 battesimi; 60 matrimoni regolati.

Nel frattempo di fronte ai nuovi bisogni sorgono le nuove strutture educative o assistenziali in collaborazione con i privati, con i comuni e con la stessa Regione Autonoma della Sardegna: Santa Teresa di Gallura, Perfugas, Sassari, Tempio, Budduso’, Laerru, Sorso, Pattada, Codrongianus, Cagliari, Cargeghe, Arzana, Bonnannaro, Armungia, Sedini, Castelsardo, Bitti, Borutta, Teulada, Usini, Ilbono, Orune, Telti, Codaruina (Valledoria), Nulvi, Golfo Aranci, Olbia, San Pasquale, San Francesco D’Aglientu, Nuchis, Ardara, Sant’Antonio di Calangianus, Badesi, Santa Maria Coghinas, Muros, Bessude, Roma, Bortigiadas, Perdasdefogu, Maranhao (Brasile).

Di tutti questi istituti, Madre Maddalena ha curato la nascita, la crescita, infondendo sempre lo spirito di famiglia voluto dal ” Padre”, inculcando alle sorelle l’amore per gli ultimi, per i piu’ deboli. ” Con la sua carita’ universale, lei ha superato i limiti delle frontiere ed ha spezzato la tendenza istintintiva di pensare ” solo a se stesso” offrendo il suo coraggio ai diseredati, invitando le donne della Gallura a consacrarsi al servizio del prossimo…”

Gli ultimi mesi di vita di Madre Maddalena furono segnati dalle sofferenze piu’ atroci: colpita da tumore viene ricoverata, tramite una sua “Figlia” che vi lavora, nell’ospedale romano Policlinico Gemelli. Dimessa da questo ospedale viene in seguito ricoverata nell’Ospedale Civile di Sassari. Purtroppo le sue condizioni di salute peggiorano e viene dimessa per terminare la sua vita terrena a Tempio in mezzo alle sue suore

Paola Muzzeddu (1913- 1971 Aggius)

 Nata ad Aggius (SS) il 26 febbraio 1913 quinta di dodici figli da Giovanni Battista, calzolaio e da Francesca Serra casalinga.

Seguì regolarmente il catechismo e conseguì il grado inferiore di tre anni della scuola elementare. Trascorse l’adolescenza nell’avvio consueto ai lavori di casa: riordino della casa, provvedere alle provviste dell’acqua, fare il pane, raccolta della legna, lavatura della biancheria al fiume. Vita dura da paese tipologicamente prealpino così come si presenta in tanta parte la Gallura, una delle più caratterisrtiche regioni culturali della Sardegna.

Nata alla vigilia della prima guerra mondiale che vide l’olocausto di tredicimila sardi su centomila che, abbandonate le consuete attività agropastorali, furono catapultati in una guerra della quale poco avevano capito il significato, ma che alla fine li aveva resi più consapevoli della loro emarginazione economica e politrica in un Italia che aveva privilegiato le regioni del Nord a scapito di quelle del Sud.

Aggius, d’altra parte, ai primi del Novecento era uno dei comuni più vicini al capo del circondario Tempio, ma che come territorio spaziava fino alla Bassa valle del Coghinas con frazioni come Trinità, Viddalba, Bortigiadas, Badesi e centinaia di stazzi dispersi in un territorio quasi prealpino. Per le frazioni spesso la chiesetta campestre e la scuola finivano per dare vita ad aggregazioni urbane che nella seconda metà del secolo diventaranno comuni.

A quindici anni ha inizio per Paola un genuino cammino di fede non convenzionale. Declina una richiesta a nozze e inizia un cammino di ascesi mistica che la condurrà verso una scelta religiosa sia pure attraverso “sentieri di capra” come molto coloritamente ebbe a dire un pio sacerdote accennando ai percorsi di Dio per i propri servi prediletti.

Dopo la famiglia, le due “agenzie” educative verso cui tradizionalmente si orientano i ragazzi, ma specialmente le ragazze dei piccoli centri dei primi del Novecento sono la scuola e la chiesa parrocchiale per il conferimento dei Sacramenti.

Paola non si allontana per certi versi dal curriculum religioso seguito dalle sue coetanee: prima confessione, prima comunione e cresima e avrebbe potuto esserci anche il matrimonio con conseguente marito e figli, ma le cose andarono diversamente.

Paola si iscrive all’azione cattolica allora ai primi passi in Sardegna, vive nell’atmosfera anticlericale della sua cittadina in cui talvolta i parroci non disdegnavano di accompagnarsi con i sindaci massoni e assiste al consenso degli aggesi al primo avvento del fascismo.

A quindici anni ha le prime visioni mistiche e trascorre molto tempo in preghiera avendo le “classiche” promesse bibliche che sarà madre di uno stuolo di vergini che in cielo potranno fruire diu una corona speciale.

Concretamente, qualche anno più tardi incontrò il canonico Salvatore Vico, noto per la sua dedizione ai poveri e alle missioni ai pastori degli stazzi con le sue coraggiose suore figlie di Gesù Crocifisso, capitanate dall’attiva tempiese Madre Maddalena Brigaglia, del quale divenne figlia spirituale, ricevette regole di vita morale, declinando tuttavia l’invito ad entrare in quella sua comunità.

Aiutato dallo stesso Vico, nel 1937, è ospite a Sassari presso la nubile Caterina Dettori per l’apprendimento del ricamo e cucito e successivamente presso il laboratorio della sartoria di Laura Merella. In seguito seguirà i corsi di sartoria presso le note sarte”Sorelle Ruiu”.

Nel 1943 la ritroviamo da sfollata a Li Reni tra Viddalba e Badesi presso la famiglia Mureddu dove si lega in fraterno sodalizio a Maria Lepori e a Caterina Spezzigu con le quali dà vita ad una Comunità di preghiera. C’è già in un certo senso il primo nucleo della tanto sospirata e preannunciata comunità, ma manca tutto il resto: una casa, una regola e i mezzi per i grandiosi progetti di uno studentato o un educandato e una casa per lo stuolo di suore che dovranno vestire un abito celeste una cintura bianca.

Il diario spirituale in cui Paola percorre il percorso delle sue ispirazioni, visioni, promesse, premonizioni, a detta del lettore attento del diario e primo biografo, mons. prof. Antonio Virdis, è una testimonianza di mistica cristiana e costituiscono la sostanza della sua ascesi fatta di continua contemplazione, ma anche di concreti preparativi per attuare i suoi progetti: in primo luogo un istituto di perfezione femminile e, infine, una serie di strutture assistenziali ed educative per la promozione umana e per l’inculturazione evangelica.

Così partendo da zero, man mano, grazie al carisma di Paola e alla comprensione del vescovo Mazzotti il progetto della comunità diventa una realtà e le “Celestine” (così vengono chiamate a Sassari le Figlie di Mater Purissima) compaiono e scompaiono tra le vie di Sassari veloci e leggere come benefiche apparizioni; sorge anche la Casa madre e tutta una serie di altre case dove un piccolo popolo di bambini, fanciulli di entrambi i sessi, anziani, studentesse e persone bisognose d’aiuto trovano ristoro non solo ai mali fisici, ma anche a quelli spirituali.

Nel 1947 Mons. Mazzotti approva i regolamenti. L’8 dicembre 1948 la vestizione dell’abito suggerito dalla Madonna. Direttori spirituali: padre Bernardino, cappuccino; padre A. Sategna direttore spirituale.

Diario di un anima e delle sue visioni.[93]

  A 15 anni:

“Avrò avuto 14-15 anni…” così si apre il diario di Madre Paola, iniziando il racconto della nuova esperienza.

   Un giorno, recatasi per ascoltare la Messa, “vidi – racconta – una ragazza che recitava il rosario. A quella vista rimasi attratta e pensai: < Domani voglio dirlo anch’io! > e così feci”.

   L’indomani, secondo la promessa, recitò il Rosario provandone gioia.

   Alla prima intuizione fa seguito una seconda esperienza, abbastanza comune, nella nostra storia forse decisiva: “Lessi in un libro di devozione che la Madonna per mezzo del Rosario non nega le grazie a nessuno”. Aumenta, per questo, la fiducia ed il desiderio del bene: “Subito ho incominciato la Novena alla Madonna del Rosario e continuavo con diverse preghiere; ascoltavo tutti i giorni la Santa Messa e facevo la Santa Comunione”. Gli orizzonti non sono definiti.

   Si delinea una nuova attrattiva per le cose spirituali, la intimità del rapporto con Dio, la preghiera, una donazione sempre più radicale alla quale reagiva istintivamente, come presagendo qualche evento misterioso, quasi avesse paura di fare scelte – ma, quali? – irrevocabili.

   Era stata “chiesta” da un ragazzo; disse, allora, che si sarebbe fatta suora. La risposta fioriva d’incanto per scoraggiare la domanda, ma…”Mi sentivo attirata dalla grazia e ricordo che le resistevo. Dicevo al Signore nella preghiera: < Tu mi vuoi legare; non mi lasci pensare come voglio io>”.

   Un giorno – non sappiamo quale – capisce che il Signore intendeva chiederle qualcosa di diverso dall’ordinario. “Un giorno – racconta – sono andata in Chiesa e mi sono inginocchiata davanti alla statua del Sacro Cuore. Ad un certo momento sento una voce che mi diceva:< Vieni qui ché nella statua non ci sono>. Mi sono alzata e mi sono diretta là dove sentivo la voce e mi sono inginocchiata davanti al tabernacolo. Tutto ad un tratto vedo dall’alto come un sole e da questo sole sono partiti sette raggi che mi hanno illuminata. Ho detto subito:< Questi sono i sette doni dello Spirito Santo>”.

   Madre Paola ripeté il racconto sino alla fine della sua vita.

   Il sole stava al di sopra del tabernacolo, abbagliante e non offendeva la vista.

   Da notare che la ragazza solo da quel momento iniziò a capire l’azione dello Spirito Santo.

   La trasformazione che seguì a questo episodio fu straordinaria nel senso più vero della parola.

 Trasformazione straordinaria

 Da quel momento scompare, come per incanto, ogni attrattiva per il mondo .

   Si circonda di un riserbo superiore alla età. Prova ribrezzo per il male.

   I giovani, che prima guardava pur senza un preciso interesse matrimoniale, le suscitavano un senso di ripulsa, non tanto per il pericolo che potevano rappresentare per la virtù quanto per il fatto che sentiva crescere prepotentemente un’attrattiva nuova per Gesù, la comunione con il Quale diveniva sempre più irresistibile ed unica e le dava coraggio, luce nella difficoltà, consapevolezza su tanti “perché”, sui misteri della vita e della fede, del bene e del male.

   Non deve lottare per respingere il male. E’, invece, travolta dall’amore, che diventa desiderio e pratica assidua di bene e di mortificazioni, fino all’esaurimento.

   Commenta: ” Mi sono sentita trasformata. Ho ricevuto una grazia tanto grande, come quando uno è morto e poi risuscita. Mi sono alzata per andarmene e non potevo camminare; il corpo non lo sentivo e ho durato fatica a riavermi. Recitavo tante preghiere in onore alla Madonna in Chiesa e quando ritornavo a casa pregavo sempre, lavorando e in ginocchio. Sentivo tanto forte la grazia che non potevo resistere”.

   Di questi avvenimenti non parlò neppure con il confessore. A questi ed agli altri, in verità, non sfuggivano i riflessi della trasformazione che investiva sempre più tutta la sua vita.

   Se si fosse trattato di un fatto alla lunga di natura isterica le cose sarebbero andate diversamente. La preghiera divenne vita. Il lavoro “compito” assegnato. L’amore alla Madonna si rivelava, anche sensibilmente, attraverso un trasporto che superava di gran lunga quello che Paola rivolgeva al padre e alla madre: “Sentivo la presenza del Signore che mi consigliava come fare; aprivo il libro a caso e molte volte avevo la risposta a quelle date cose che nella preghiera chiedevo. Sentivo per il Signore un grande amore, mi sentivo inondata di luce e d’amore e passavo la giornata sempre col pensiero di Dio”.

   Sentimentalismo? Non si direbbe! ” Sentivo l’amore al sacrificio in modo straordinario. Difatti col permesso del confessore ho fatto una quaresima di digiuno”. Anche in altri periodi: “Non mangiavo mai fuori pasto e anche nei pasti mi mortificavo sempre nella quantità e nella qualità…Mi piaceva tutto però preferivo sempre le cose più ordinarie”.

   Esternamente mai tradì i sentimenti che le bruciavano dentro. In casa dimostrava grande attenzione alla esattezza. Le levate, antelucane. Tutto apposto in casa con le pulizie prima di recarsi in Chiesa. Però in Chiesa sì, sempre, per la Santa Messa: “Si dovesse pur morire camminando…” – come dirà in seguito.

   In casa si dava premura di alleviare le fatiche della mamma con il lavoro assiduo, continuo, estenuante, silenzioso. Era talmente convinta della naturalezza di quanto faceva che stupiva nel sentire i racconti di rimproveri riferiti dalle coetanee. Su un terreno così densamente raccolto e aperto la Grazia non faticava a scavare e fiorire: “Sentivo sempre la presenza di Dio, come una persona che parla…”.

     La vocazione

   “Un giorno – raccogliamo sempre dal diario – (Gesù) mi ha detto: < Nel mondo le anime non mi vogliono bene; vuoi tu che ti metta come un muro di separazione?> Io Gli ho risposto con senso di paura: < No, Signore, non lo so e poi capisco come sei fatto Tu! Le prendi le anime, le fai soffrire e le fai morire… Signore, non lo so…> Per tre volte mi ha rivolto la medesima domanda e sempre ho risposto così”.

   Uno squarcio di sincerità che ci vieta di raccogliere dei sospetti sulla semplicità di chi la professa. Madre Paola conservò sino alla fine la spontaneità della semplicità, pur dimostrando d’essere maestra in fatto di discrezione. Nessuna montatura, davvero, mai. Sempre se stessa con trasparenza, indifesa, con candore, tanto forte nelle prove e così naturalmente fragile. Non mancano coloro che si sforzano di apparire santi.

   Dovette essere abbastanza evidente il senso e la portata delle parole misteriose. Quando, fatta adulta, indossato l’abito religioso e gettate le fondamenta del suo Istituto, in mezzo alle sofferenze fisiche e soprattutto morali, ripensava alla vocazione, esclamava con un sospiro, che talvolta era una specie di gemito: “Quanto costa farci santi!”

   Chiesi a Madre Paola che senso e quale portata avessero le parole: “un muro di separazione” udite dalla voce di Gesù e mi rispose d’aver capito che “muro di separazione” significava uno stato di vittima di fronte al mondo e per la salvezza del mondo. Madre Paola mi spiegò che il Signore al suo “no,… non lo so” sembrava rispondesse con: “Per oggi resisti ma in un domani farai quello che ti dirò. Ancora sei piccola”.

   Il “no,… non lo so” ripetuto non turbò la sua pace perché in realtà e nel profondo era già un “si”. Resta peraltro, come indice di uno stato d’animo ben lontano da prospettive od avventure di tipo spiritualistico fuori del comune.

   La normalità riprende, se normale significa la vita di ogni giorno. La vita di preghiera e di lavoro, a ritmo acceleratissimo, la indebolirono fisicamente inducendola a desiderare un lavoro meno pesante ed allo stesso tempo più redditizio. Per aiutare la famiglia coltivò l'< ispirazione> di apprendere il cucito e di disporre di una sartoria in una casa grande, in modo da ospitare altre giovani, come lei bisognose di lavoro e di amicizia.

   Raccontò che, mentre pregava nella Parrocchia di Aggius per conoscere sempre meglio la volontà di Dio, una voce dal tabernacolo le disse: “Andrai a Sassari a vivere con una donna sola”. Il che avvenne in seguito. “Così sempre pregando e piangendo e soffrendo, vivevo in famiglia, con la speranza di essere esaudita”.

   Potrebbe sembrare per lo meno strano che la giovane, così fervente nello spirito ed aliena dal matrimonio, non si decidesse per lo stato di perfezione nella vita religiosa.

   Apparteneva all’azione cattolica; fu dirigente e delegata beniamine. Sebbene impegnata nell’associazione, desiderava fare di più: “Ero iscritta all’Azione cattolica, – scrive – sono stata delegata beniamine, aspiranti e cassiera. Il regolamento della gioventù non mi soddisfaceva, desideravo qualche cosa di più. Non avevo direttore; in quel frattempo ho conosciuto il Signor Vico (Mons. Salvatore Vico, fondatore della Congregazione delle Figlie di Gesù Crocifisso – n.d.r.) e ho sentito di affidargli l’anima mia. In seguito mi sono consacrata (18 aprile 1934 – data della consacrazione – n.d.r.)

 Palmas Eulalia (1905 Laconi, vivente, Sassari)

Eulalia Maria Carmela, (Madre Maria Paola Palmas), è nata a Laconi, ridente centro del Sarcidano adagiato ai piedi del grande parco, il 17 ottobre 1905 in pieno periodo giolittiano rappresentato in Sardegna da Francesco Cocco Ortu che in quegli anni procedeva alla predisposizione delle leggi speciali sulla Sardegna, all’epoca in fase di ripresa economica e sociale.

La famiglia di Eulalia, dalle radici profondamente cristiane, non era ricca, ma stimata e allietata da numerosi figli, (ben tredici), e aperta sempre all’accoglienza. Preceduta da tre fratelli e due sorelle, Madre Paola fu battezzata nella chiesa parrocchiale di S. Ambrogio e ricevette i nomi di Eulalia Maria Carmela.

Sebbene sulla sua prima infanzia ebbe particolare influenza la madre, donna di rara e squisita sensibilità, saggia sposa e madre esemplare, dedita totalmente alla famiglia, tuttavia la bambina proprio nel periodo in cui si cerca di favorirne la socializzazione negli asili, nel 1908, a soli tre anni venne affidata alle cure affettuose della dei nonni paterni e di una zia vedova[94].

Eulalia, in famiglia “Lalla”, ha di questo periodo un ricordo di vissuto triste per la lontananza dalla mamma, per quanto circondata di attenzioni e di affetto da parte di tutta la famiglia dei nonni paterni.

Durante la permanenza presso la nonna e gli zii molto premurosi, venne iniziata alla vita cristiana e preparata alla prima comunione e alla cresima[95].

Nel 1915, in piena guerra mondiale, nel momento degli sconvolgimenti familiari in Sardegna a causa della partenza di ben 13 mila uomini validi per la guerra, essendo ormai “Lalla” alle soglie della pubertà, tra i dieci e gli undici anni e capace di dare un valido aiuto in casa sua, la mamma volle che la bambina ritornasse in famiglia, cresciuta ormai di numero e di esigenze. Dal suo ritorno “Lalla” divenne aiuto insostituibile della mamma, dimostrando così di possedere, ancora adolescente, una non comune capacità di lavoro, sorretta da una volontà di azione e di iniziativa che la contraddistingueranno nel corso della sua esistenza.

Sensibile e attenta alle esigenze della famiglia, man mano che cresceva non solo continuava ad accudire alle faccende domestiche e all’aiuto ai fratelli, ma iniziò a collaborare come damina di carità nella locale associazione della compagnia.

Nell’impossibilità di studiare, aveva potuto frequentare unicamente i tre anni di scuola elementare, si dedicava alle buone letture e partecipava volentieri in compagnia anche delle colte figlie degli Aimerich[96], alle recite che si facevano presso le Figlie della carità che a Laconi gestivano una silo, ma anche un educandato per le figlie degli abbienti del luogo.

In quegli anni ebbe anche il dono della preziosa amicizia di una giovane insegnante di famiglia aristocratica che era votata alle opere di bene e sentita come modello di quante l’avvicinavano. Questa amicizia ebbe un’influenza molto positiva su di lei[97].

La frequenza ai sacramenti, la collaborazione nelle attività parrocchiali, la stessa vicinanza al mondo vincenziano attraverso il quale poteva vedere le varie povertà esistenti nel suo stesso paese di Laconi, le fecero avvertire presto il desiderio di donarsi a Dio, per dedicarsi alla formazione delle ragazze in condizioni disagiate, ma intelligenti e volenterose perché fossero un fermento nuovo nella scuola e nella società.

A tot anni[98], esattamente nel 1920, confessò alla mamma il desiderio di farsi religiosa e, come spesso accade, venne consigliata a rinviare la decisione ad un età più idonea.

Eulalia pregò a lungo anche perché, per la realizzazione del suo sogno, vedeva chiaramente le grandi difficoltà che l’attendevano.

Finalmente, nel 1921, durante una visita a Genoni o ad Oristano a Laconi)[99] fatta in compagnia di una parente alle Figlie di San Giuseppe, fondate dall’oblato di Maria Vergine Felice Prinetti allo scopo di provvedere ad ogni tipo di miseria umana e spirituale, rimase conquistata dalle attenzioni della madre generale allora suor [100]E così con l’incoraggiamento di questa e di un padre cappuccino decise di fermarsi in quella comunità, cosa che avvenne dopo alcuni mesi di preghiera e di consigli, chiesti ad esperti e religiosi tra i quali un saggio carmelitano[101].

Le sembrava ora più raggiungibile quanto da molto aveva in cuore.

In questa comunità Madre Paola rimase dal al [102], divenuta Suor Maria Paola, ebbe incarichi di grande capacità manageriali che fruttarono il rifiorire del patrimonio[103]. Raccolse, infatti, molti frutti dalla direzione dell’azienda anche se non sempre la sua attività, apprezzata dall’allora arcivescovo di Oristano, non venne ben vista da uomini da qualche ecclesiastico probabilmente desideroso di gestire personalmente quel consistente patrimonio immobiliare e d aziendale.

Amata dalle Suore anziane, Suor Paola, si dedicava anche all’apostolato e curava in modo particolare le giovani e le fanciulle del paese (di quale?)[104], raccogliendo molti frutti anche in questo campo.

Continuando tuttavia le opposizioni, gli intralci al suo attivismo in modo palese e nascosto, maturò in lei, dopo la determinazione di altre nove consorelle, l’abbandono di quella famiglia religiosa e l’eventuale costituzione di un’altra che meglio rispondesse alle esigenze della sua e della vocazione delle altre consorelle e sia pure a malincuore, per ultima, diede un taglio netto con quella comunità.

Nel 1940, a 35 anni, con lei   uscirono dalla comunità delle Figlie di San Giuseppe, 8 suore tra le migliori, compresa la vicaria generale amata e venerata da tutti.

Suor Paola le accolse[105] e, uscita a sua volta dalla Congregazione, diede inizio alla nuova comunità.

Le nove trasfughe andarono ad abitare in una villetta di via Trento in Cagliari, il cui affitto era pagato dal contributo di tante persone che avevano apprezzato la loro opera .

Esse vivevano nella più assoluta povertà, nella sofferenza e nelle prove, ma non mancò mai loro il pane e il sostegno morale e materiale di quanti le conoscevano e le stimavano, specialmente ecclesiastici e religiosi noti in Cagliari che, distrutta dalla guerra andava ricostruendo non solo il proprio tessuto urbano, ma anche quello materiale e morale delle famiglie scosse tragicamente dagli eventi bellici.

Nel 1941, data la precarietà della situazione cagliaritana e il desiderio di non dare scandalo per l’avvenuta scissione dalla precedente comunità, ma soprattutto desiderose di realizzare quanto ci si prefiggeva a favore delle giovani, il nucleo della nuova comunità si trasferì a Sassari in un appartamento di Piazza d’Armi n.5 preso in affitto[106].

L’arcivescovo di Sassari, Mons. Arcangelo Mazzotti[107], informato minuziosamente della situazione e del programma presentatogli da Madre Placida, accolse con grande cuore Madre Paola e le altre suore, consentendo loro, quindi, di vestire l’abito religioso e di portare avanti il progetto che intendevano realizzare.[108]

Nel pieno di una guerra devastatrice, tra stenti e privazioni, ma col sostegno della fede e l’incoraggiamento dell’Arcivescovo e di altri sacerdoti e religiosi, in diocesi e fuori, le religiose, già vestite dell’abito col consenso dell’Ordinario, iniziarono la loro attività accogliendo le prime allieve, fanciulle povere e intelligenti, provenienti da tutte le parti dell’isola e, più tardi, anche dal continente, che frequentarono subito le scuole cittadine imponendosi per le loro capacità e conseguendo ottimi risultati.

La nuova famiglia cominciò subito ad arricchirsi di tante giovani sarde, desiderose di curare non solo la propria crescita fisica e morale ma anche quella culturale, “di educare mente e cuore, animo e corpo” secondo i fini e i carismi della nuova nascente comunità religiosa, ma con una predilezione alla preparazione culturale della donna alla quale non doveva mancare l’identica opportunità di carriera scolastica, dalle elementari all’università degli uomini.

Erano gli anni traumatici della guerra e Sassari, pur con le sue belle tradizioni culturali, conservava ancora l’aspetto di un grosso centro provinciale pur nei fermenti che non mancavano tra gli intellettuali mortificati dal fascismo e successivamente dall’antifascismo, tra gli operatori economici, ma soprattutto nel clero animato dalla forte personalità di mons. Mazzotti intento a curare sia la forte ripresa dell’azione cattolica sia la preparazione di quella che sarebbe diventata la classe cattolica dirigente sarda degli anni della ricostruzione della post-ricostruzione.

Non stupisce perciò se questa giovane suora, che con le sue 8 compagne accoglieva tante ragazze povere, con la pretesa di farle studiare, destava un pò di curiosità e, perché no, anche di sospetto. Le scuole medie e superiori, concentrate ancora nella città e aperte solo ai figli dei ceti abbienti, escludevano quanti, privi di mezzi, dovevano concludere gli studi con le elementari e anche meno, la loro carriera scolastica. Quelle ragazze, intelligenti, vivaci, che frequentavano con grande profitto le scuole cittadine si imponevano all’attenzione di tutti e davano ragione a Lei, Madre Paola, che proprio per loro aveva voluto iniziare l’opera.

E mentre le ragazze crescevano serene nell’adempimento dei loro doveri di studio e lavoro, lei con le altre suore si sobbarcava la fatica del loro mantenimento. Le vie di Sassari la vedevano svelta e assorta passare con il carico della spesa fatta al mercato, oppure fermarsi attenta davanti ai negozi per scoprire che cosa le scarse risorse le consentissero di acquistare per le sue figliole. A lei spettava anche il dolce e insieme gravoso compito della formazione di queste figlie che, giorno dopo giorno, scoprivano in lei una madre attenta e una donna dal cuore aperto, ricco di giovanili ardori e grandi ideali. Preghiera, studio, lavoro, svago ritmavano le giornate e lei era presente anche nei giochi animati che spesso riempivano di grida festose il campo dell’ex GIL assurto a dignità di quel locale di ricreazione negato dagli spazi ristretti della casa.

Si può dire che negli anni duri della guerra e del dopo guerra la Congregazione abbia vissuto la sua primavera di grazia con tante energie pronte ad imegnarsi nel bene.

Sassari ora lo capiva e amava l’opera. E’ di questo periodo la formazione di un comitato di sostenitrici e simpatizzanti, appartenenti alle migliori famiglie della città.

Ma Sassari amava anche Madre Paola sempre in prima linea ad animare le grandi manifestazioni religiose di quegli anni in cui la stessa Chiesa si apriva al rinnovamento che sarebbe sfociato nel Concilio vaticano II. E la storia civile e religiosa dava ragione a lei che con intuitiva lungimiranza aveva rivolto tutta la sua attività e il suo impegno alla formazione della donna, in tempi in cui a questa non erano riconosciuti tutti i diritti compreso quello di voto. Il “femminismo cristiano” ancora in nuce, trovava in questa donna sarda la più strenua e fedele sostenitrice. Il “genio femminile”, di cui parlerà Giovanni Paolo II, dava a madre Paola la forza e la gioia di formare decine e centinaia di giovani che oggi, fornite di un valido titolo di studio e di un’autentica preparazione culturale sono attivamente impegnate nella famiglia, nella scuola, nel campo sociale e politico, fermento vivo e operoso in un mondo in rapida e continua evoluzione.

“Qui in Casa nostra si devono stimolare e mettere in azione tutte le possibilità dell’allieva perché essa diventi sempre più e sempre meglio “donna”, perché acquisti coscienza di sé e si renda capace di conquiste nella vita, sviluppando un alto senso di responsabilità morale e sociale. Essa deve imparare a lavorare oltre che a studiare, per avere recondita di vita e la gioia di migliorarsi, fare e produrre. Sentimento, intelligenza e volontà realizzano, nello studio e nel lavoro, la personalità” (dai suoi scritti, 1950).

Nulla madre Paola risparmiava per stimolare e animare le sue figliole e spingerle verso alti ideali. Per sé riservava pene, preoccupazioni e attese, soprattutto quelle determinate dall’insufficienza dei locali, sempre troppo ristretti per le sue aspirazioni.

Finalmente la Provvidenza le consentì di acquistare la casa dove era nata l’opera e di ampliarla per renderla idonea agli scopi . Le concesse anche l’estendersi dell’opera fuori dell’isola con una casa a Monterotondo e a Roma, acquistata con l’incoraggiamento e il sostegno di Mons. Castelli segretario della Cel, e del Cardinal Poletti, vicario di Roma.

Nel 1960 venne il dono del riconoscimento della Congregazione da parte dell’autorità ecclesiastica, già preceduto dall’udienza privata concessa da Pio XII che benedisse l’opera e la sua fondatrice. Venne anche il dono dell’inizio della missione in Brasile e, soprattutto, la ricchezza di nuove giovani alcune delle quali già universitarie, pronte a seguire gli ideali di madre Paola, portando anche nelle scuole di stato quel fermento di vita cristiana che lei aveva voluto.

Ed oggi per la comunità è un dono immenso Lei, Madre Paola, carica di anni, ma lucida di mente, punto sicuro di riferimento per tutte, risorsa inesauribile di esperienza e di tenerezza, specialmente per le nuove generazioni che ancora possono attingere alla fonte lo spirito della Congregazione.

La congregazione delle Pie Sorelle Educatrici di San Giovanni Evangelista ebbe inizio a Sassari nell’ottobre del 1941, per opera di Suor M. Paola Palmas, che ne fu la fondatrice e la ideatrice, e di altre otto Suore. Accolte benevolmente da Mons. Arcangelo Mazzotti, allora Arcivescovo di Sassari, e da lui seguite, presero residenza in un piccolo appartamento in affitto, in piazza d’Armi 5, di proprietà delle signorine Schiaffino.

       Le religiose traevano i mezzi di sostentamento per sé e per le loro allieve col proprio lavoro (cucito) e con l’aiuto dei numerosi cooperatori in Sardegna e nella Penisola.

   Già dal 1946 cominciarono a pubblicare un giornalino “ITE: DOCETE” che, ampiamente diffuso, contribuì a far conoscere e stimare la nuova istituzione, volta ad elevare le figlie del popolo, prerarandole adeguatamente ai compiti della donna cristiana dei nuovi tempi.

   Nel settembre del 1947 le Pie Sorelle Educatrici, anche se ciò esulava dalla loro finalità e in situazione di urgenza, accettarono la collaborazione generosa nel Seminario e nell’episcopio diocesano, continuandola ininterrottamente fino al 1961.

S.S.Pio XII, pontefice allora regnante, in una udienza privata concessa alla fondatrice e altre due Pie Sorelle, benedisse ed esortò le religiose, incoraggiandole in quella che chiamò “l’opera dei tempi”. In seguito fece pervenire più volte la sua parola e la sua personale offerta, auspicando il progresso dell’Opera “così altamente benemerita per l’educazione della gioventù”.

   Nel maggio del 1948 Mons. Mazzotti, nell’appartamento abitato dalle Religiose, in piazza d’Armi, eresse la cappella dell’Istituto dedicandola alla Vergine Sede della Sapienza, alla quale la Congregazione professa particolare culto, onorandola come compatrona insieme a San Giovanni Evangelista.

   Nell’estate del 1949, le Pie Sorelle furono chiamate a dirigere una colonia montana della P.O.A. con 300 bambine affette da tracoma e, successivamente, nel 1954 e nel 1955 diressero la colonia marina provinciale di Alghero e quella montana di Pattada, sempre pronte a collaborare, oltre che con le autorità religiose, anche con quelle civili, quando si trattava del bene dei poveri.

   Nel dicembre del 1949 ricevettero l’abito religioso le prime nuove suore, già studentesse universitarie. Le vestizioni e le professioni temporanee si susseguirono, poi, ogni anno, nella cappella dell’Istituto.

   Nel 1950, accogliendo l’invito del Card. Piazza, nella persona del suo vescovo ausiliare Mons. Tarcisio Benedetti, le Pie Sorelle Educatrici aprirono una casa a Monterotondo, a 20 Km da Roma, dove furono subito accolte numerose bambine povere della Sabina, che ricevettero educazione e istruzione. La casa è tuttora aperta in un servizio sociale alle famiglie.

   A Sassari, nel 1951, constatata la ristrettezza dei locali dove si viveva, ormai non più idonei a rispondere alle tante richieste di accoglienza, si presero in affitto dalla congregazione dei Filippini, i locali dell’ex Robur- et Virtus, già adibiti a teatro dei soldati, e sempre in piazza d’Armi. Convenientemente ristrutturati e adattati, i locali furono subito in grado di accogliere 60 ragazze.

   Per oltre 10 anni lì trovarono accoglienza, e ogni possibilità di studio e formazione, numerosissime fanciulle provenienti da tutta la Sardegna. Fu un periodo di lavoro intensissimo, e oggi molte di quelle ragazze, umanamente e cristianamente formate, sono ottime madri di famiglia, insegnanti stimate e donne impegnate nel campo sociale e anche politico. Tutte serbano un grande affetto per le Religiose che le hanno formate e collaborarono nei più diversi modi al conseguimento delle finalità specifiche della Congregazione.

   Nel 1955 si ebbero le prime lauree delle nuove religiose. Queste, dopo regolari concorsi, si inserirono nell’insegnamento presso gli istituti superiori della città.

   Nel 1956 si poté finalmente acquistare la casa dove era nata la Congregazione, molto cara a tutte; ma solo nel 1959 si poté dare inizio ai lavori di ristrutturazione e ampliamento.

   A seguito del nulla-osta della S. Congregazione dei Religiosi, in data 3.12.1959 prot. n.2759/47 J.D. Mons. Mazzotti, Arcivescovo di Sassari, approvò le Costituzioni con Decreto dell’11.1.1960, erigendo la Congregazione delle Pie Sorelle Educatrici di diritto diocesano.

   Nel marzo dello stesso anno, la fondatrice e le prime otto suore emisero i voti perpetui nelle mani di Mons. Francesco Spanedda, vescovo di Bosa e Amministratore apostolico della diocesi di Sassari a causa della malattia di Mons. Mazzotti.

   Le altre religiose che si erano nel frattempo unite alle prime, fecero tutte i voti religiosi perpetui, nelle mani di Mons. Paolo Carta, nuovo Arcivescovo di Sassari.

   Nel 1961 le Pie Sorelle Educatrici furono invitate a dirigere l’Istituto che loro chiamarono “Mater Gratiarum”, una grande casa a Roma, in Via Giovanni Branca, dove erano accolte oltre 50 ragazze orfane o provenienti da famiglie dissestate. In quell’opera le religiose assicurarono la loro presenza fintanto che l’Istituto, essendo un’IPAB, fu soppresso a norma del DPR 616/77.

   Nel 1966 dietro invito del Card. Samoré, le Pie Sorelle Educatrici iniziarono una missione in Brasile, dove tuttora sono presenti con tre case: due nello stato do Bahaia con scuole e attività pastorale, e una a Rio de Janeiro con mansioni di responsabilità nella parrocchia di Maria Madre della Chiesa e una casa di formazione.

   Solo nel 1967, grazie al sostegno del Card. Ugo Poletti, e di Mons. Alberto Castelli, si poté acquistare un appartamento a Roma, in Via Innocenzo XI, costituito come procura generalizia e casa per le giovani religiose che frequentavano gli studi universitari e le scuole dell’USMI. Anche in questa casa fu eretta una cappella dedicata a Maria Sede della Sapienza.

   Terminati i lavori della casa, madre di Sassari, nel 1964, vi si trasferirono anche le studentesse, già ospitate nei locali della Robur et Virtus, che occuparono gli ultimi due piani della casa. Fu ampliata anche la cappella dove quotidianamente, dal 1948, si celebra l’Eucaristia e dove a tutt’oggi, si fanno le vestizioni e le prime professioni delle giovani religiose venute ad arricchire la famiglia delle Pie Sorelle Educatrici. Nel 1968 arrivarono anche le prime vocazioni dal Brasile.

Dal 1969 tutti i Capitoli generali celebrati elessero come Superiora generale la Fondatrice della Congregazione, Suor Maria Paola Palmas, anche con deroga dell’autorità ecclesiastica.

   A seguito della revisione delle Costituzioni richiesta dal Concilio Vaticano II, le nuove Costituzioni furono approvate da Mons. Paolo Carta il 19.11.1981, a norma del can. 495 par. 2C.J.C.

   Dopo la pubblicazione del nuovo Codice di Diritto canonico, le Costituzioni furono ulteriormente aggiornate secondo i nuovi canoni e, approvate da Mons. Salvatore Isgrò, nuovo Arcivescovo di Sassari, come è richiesto dal Decreto SCRIS del 2.11.1984.

   Nel 1974 si accettò la direzione e l’insegnamento nella scuola materna “San Giuseppe” a Tempio Pausania, soprattutto per offrire la collaborazione alla parrocchia affidata ai Padri Conventuali nell’opera di catechesi e nella pastorale giovanile e missionaria.

   Dietro insistenza del vescovo di Nuoro Mons. Giovanni Melis, nel 1983 le Pie Sorelle Educatrici andarono a dirigere il collegio-convitto-femminile “Maria Immacolata” appartenente alla diocesi di Nuoro. Vi lavorarono tre Religiuose dedicandosi alle giovani studentesse con grande generosità, impegno e professionalità, e vi rimasero fino al 1992, quando lasciarono Nuoro a seguito della morte della giovane Superiora.

   Nel 1991 le Pie Sorelle Educatrici accettarono l’invito dell’Arcivescovo di Sassari di dedicarsi alla ripresa e al riassestamento di uno dei più antichi Istituti della città di Sassari, l’Orfanotrofio Figlie di Maria, ma allora in una grave situazione di crisi. Incoraggiate dall’Arcivescovo, Mons. Isgrò le tre Religiose destinate all’Istituto Figlie di Maria, hanno lavorato e lavorano senza risparmiarsi. Attualmente l’opera è rinata: vi funziona una scuola materna con quattro sezioni, una scuola elementare, si è iniziata la scuola media inferiore, vi ha funzionato un centro di accoglienza per studentesse pendolari e funziona un pensionato per studentesse universitarie e un Baby Parking. La casa è aperta anche a tutte le attività del settore giovanile e a incontri vari di spiritualità.

   Nel capitolo generale, celebrato in data 1 agosto 1996, fu eletta la nuova Superiora generale nella persona di Suor Maria Aurora Cambilargiu, mentre alla Fondatrice l’Arcivescovo di Sassari ha conferito il titolo di Superiora Generale emerita.

   Il nuovo consiglio generale risulta così formato:

Suor Maria Aurora Cambilargiu- Superiora generale

Suor Maria Liliana Usai- Vicaria generale

Suor Maria Augusta Inzaina- Consigliera generale

Suor Maria Serena Truddaiu- Consigliera generale

Suor Maria Bernarda Vinci- Consigliera generale

   Furono nominate, anche, rispettivamente:

Suor Maria Giulia Mele- Segretaria generale e

Suor Maria Luciana Bassu- Economa generale.

   Tutta l’attività svolta dalla Congregazione delle Pie Sorelle Educatrici, sin dalle origini ad oggi, non è facilmente quantificabile, tale e tanto è stato l’impegno da loro profuso in una intelligente e previdente risposta ai bisogni dei tempi nuovi. E se la specifica finalità dell’Istituto si evidenzia con chiarezza nell’accoglienza, nella istruzione e nella educazione delle fanciulle, soprattutto povere, nell’insegnamento delle diverse discipline nelle scuole superiori e nell’università, nella formazione integrale di centinaia di ragazze, che oggi fornite di una laurea o di un diploma, sono inserite nel mondo del lavoro dimostrando professionalità e serietà e dando esempio di vita cristiana, altrettanto grande è stato sempre l’impegno delle pie Sorelle Educatrici in campo pastorale ed ecclesiale.

   Inserite negli organismi diocesiani e parrocchiali, ai diversi livelli, membri dei Consigli e delle Consulte, delle Commissioni e Uffici, sono sempre disponibili a lezioni di catechesi e formazione, ad incontri giovanili, ad ogni impegno educativo e culturale nel campo della gioventù.

   Alla su citata attività si deve aggiungere l’insegnamento presso l’Istituto Superiore di Scienze Religiose e per alcuni anni anche presso la Facoltà Teologica della Sardegna; la presenza qualificata con compiti di responsabilità nelle associazioni e movimenti: USMI e FISM; il lavoro intenso nel centro Nazionale Vocazioni, e nel C.V.R., dove per anni unica donna è stata operatrice una Pia Sorella; nonché l’impegno nelle diverse Commissioni operative o di studio, presenti nel territorio.

   La Congregazione ha oggi 35 Religiose, di cui 10 laureate e 8 con diploma di scuola superiore: queste potenzialità culturali sono sempre state messe al servizio della Chiesa, delle altre Istituzioni e Congregazioni, fin dagli anni Sessanta, per qualificare chi già operava o intendeva operare nelle diverse attività.

   Alcune Pie Sorelle, convenientemente preparate, sono sempre state presenti con fattiva collaborazione, nelle diverse sedi in cui venivano elaborati progetti culturali ed educativi, con particolare riferimento ai problemi della scuola cattolica e della parità scolastica.

   Attualmente le Pie Sorelle Educatrici operano nelle seguenti case: Sassari, P.Zza D’armi : Casa Madre- Casa Generalizia-                                                                            Noviziato- Postulantato; Sassari, Rg. Eremitu :   Casa Sedes Sapientiae Per Incontri Di Spiritualità E Cultura Religiosa Gioventù Femminile- Ritiri; Sassari, Luna E Sole :   Servizio Di Accoglienza E Cura Dell’arcivescovo Emerito Di Oristano; Sassari, Via Muroni : Istituto Figlie Di Maria: Scuola Materna- Scuola Elementare- Scuola Media- Pensionato Universitario- Centro Di Accoglienza; Sorso, Marritza : Casa Per La Pastorale Estiva;

Tempio P., Via Belluno : Scuola Materna San Giuseppe- Pastorale- Catechesi; Roma, Via Innocenzo XI : Procura Generalizia; Monterotondo, Via Sardegna : Istituto Educativo Femm.le- Doposcuola; Rio De Janeiro, V. Mcoutinho : Casa Di Formazione- Responsabilità E Attività Parrocchiale A Vasto Raggio; Itamaraju, R. Duque De Caxias : Collegio(Scuola) Sao Joao Evangelista; Teixeira De Freitas, P.Ça Joana Angelica : Centro Educacional Sao Joao Evangelista.

Accoglienza , istruzione e formazione cristiana culturale e professionale di centinaia di ragazze povere e intelligenti in Sardegna, in continente, in brasile dalla classe dirigente femminile;

direzione di convitti femminili condotto con seri metodi pedagogici

gestione di scuole di ogni ordine e grado

pubblicazione del mensile “Ite: docete”

Presenze : Sassari, Tempio, Nuoro convitto femminile con 50 studentesse: centrale a Sassari, due aree per l’isitituzione di centri culturali e di spiritualità a Sassari, Monterotondo, Brasile nello stato di Baiha, due scuole dalle materne alle superiori (libertà del 22 magio 1987)[109]

Rita Orrù , Madre Benigna (1894 Orroli – 1985 Cagliari)

   Madre Bennigna Orrù nacque ad Orroli il 25 aprile 1894, da Salvatore e da Teresa Orgiana. Il 29 dello stesso mese venne battezzata nella Chiesa parrocchiale di Orroli dedicata a S. Vincenzo martire e le fu dato il nome di Rita.

   Il 23 maggio del 1905 ricevette per la prima volta l’Eucaristia.

   Frequentò con profitto la Scuola Elementare nel suo paese natale e si distinse fin da piccola per l’impegno nello studio del Catechismo, nella frequenza ai Sacramenti e nella preghiera.

   Ultima di sei fratelli, in una famiglia di facoltosi proprietari terrieri, saldamente unita e fondata su ottimi principi umani e cristiani, il Signore la volle particolarmente legata al ministero sacerdotale del fratello Giuseppe.

   Con amore e grande spirito di servizio, nel 1914, quando egli fu designato Parroco di Muravera, ella lo seguì e gli fu di grande aiuto con la sua disponibilità pronta e sapiente. Così pure quando nel 1920 egli venne inviato a Cagliari, nella Parrocchia di Sant’Avendrace.

   Al Signore però non bastava che ella spendesse tutta la sua vita accanto al fratello consacrato: voleva che lei stessa Gli si consacrasse completamente. Così nell’ottobre del 1928, guidata e sostenuta dal fratello Giuseppe, entrò tra le Figlie di S. Giuseppe di Genoni. Iniziò il Noviziato l’11 aprile del 1929 ricevendo l’abito religioso e il nome tanto significativo di BENIGNA. Il 29 giugno del 1931 emise i voti temporanei.

Quasi subito dopo venne designata Superiora della Casa del Clero a Cagliari in Via S. Lucifero.

   Quando Mons. Piovella, Arcivescovo di Cagliari e Mons. Orrù, accogliendo l’ispirazione dello Spirito e dopo aver considerato le condizioni sociali e religiose della diocesi, decisero di dar vita ad una nuova Congregazione dedicata alla S. Famiglia, a Suor Benigna venne chiesto il sacrificio di lasciare la sua Congregazione per essere trapiantata in quella che stava appena sorgendo. Ella accettò, come sempre, il progetto di Dio sulla sua vita e vi aderì attivamente.

   Fece i voti perpetui tra le Ancelle della S. Famiglia il 14 Agosto del 1933 e lo stesso anno venne eletta Superiora Generale.

   Da allora fino al 1972 sarà lei a guidare con amore di Madre, vigile e operosa, la Congregazione, a portare silenziosamente nel suo cuore il travaglio di questa creatura in crescita.

   Dal 1972 fino al 17 luglio del 1985, cioé fino a quando andò incontro al Signore nella Sua Gloria, visse la sua maternità in una silenziosa oblazione fatta di preghiera e di nascondimento.

   Di Madre Benigna possiamo dire una sola cosa, e c’è tutto: ha servito la Chiesa. Questo servizio alla Chiesa lei lo iniziò al suo fratello, giovane sacerdote, accompagnandolo sino ai confini della diocesi, nei primi anni di ministero, standogli sempre vicino sinché la volontà di Dio, nel 1933, ha fatto maturare la Congregazione delle Ancelle della S. Famiglia, della quale lei è stata la prima Superiora Generale, e perciò la guida per tanti anni e certo il modello fino al giorno della sua morte.

   Per il fratello sacerdote è stata, nella sua pia giovinezza, collaboratrice intelligente, generosa e premurosa.

   Parroco zelante a Muravera, parroco saggio e operoso nella Parrocchia di S. Avendrace, che era allora alla periferia di Cagliari, con numerosi e gravi problemi di carattere non solo religioso e morale, ma anche economico e sociale. E alla molteplice azione di promozione umana del “Dottor Orrù”, come allora tutti lo chiamavano, la sorella Benigna partecipava e collaborava con intelletto d’amore.

   Quando Mons. Piovella, con l’ausilio di Mons. Orrù, volle costituire un nuovo Istituto religioso, col titolo di Ancelle della Sacra Famiglia, Suor Benigna è stata la Religiosa provvidenzialmente disponibile e spiritualmente preparata per assumere, con atto edificante obbedienza, la grave responsabilità di Prima Superiore Generale.

   La missione non era facile. La Sardegna era già ricca di Istituti Religiosi Femminili, alcuni provenienti dal continente e altri nati nell’isola.

   Su una popolazione che contava solo un milione e mezzo di abitanti, in quell’epoca numerose erano le vocazioni alla vita religiosa, specialmente per merito della Gioventù Femminile di Azione Cattolica, fiorentissima in tutte le parrocchie, con profonda formazione alla vita interiore e all’apostolato. Ma le giovani avrebbero sentito il fascino di un nuovo Istituto che si presentava con caratteri di assoluta povertà e che in partenza richiedeva notevole spirito di sacrificio, disponibilità di servizio e totale fiducia nella Divina Provvidenza per il loro avvenire?

   Ho detto: assoluta povertà. E mi è caro ricordare che, giovane sacerdote, la prima volta che entrai nella Casa della Purissima, ebbi precisamente l’impressione di trovarmi di fronte ad una Comunità che viveva l’autentica povertà evangelica.

   Ma la sacra Famiglia vegliava sulla nuova Congregazione Religiosa a Lei consacrata, e le vocazioni fiorivano numerose e fervorose. L’istituto poté allora irradiarsi in tante Parrocchie con luminosa testimonianza di spirito religioso e con preziose opere per i bambini, per la gioventù femminile, per le famiglie, per la Comunità parrocchiale. Mons. Piovella ne era felicissimo. Mons. Orrù ne assecondava l’ispirazione e le indicazioni specialmente col suo ascendente personale presso il clero e il suo apostolato tra la gioventù Femminile di Azione Cattolica, di cui era attivo Assistente diocesano.

   Ma l’anima di questo rapido sviluppo era la Madre Benigna. Come a Lei principalmente si deve l’espandersi della Congregazione nei decenni successivi e durante tutto il suo Superiorato.

   Lungo Superiorato: trentanove anni, dal 1933 al 1972.

   Ed ecco le Ancelle in tre diocesi della Sardegna. Ed ecco le Case aperte a Roma, a Parma, a Trento. Ed ecco il felice coronamento dell’approvazione come Istituto di Diritto Pontificio nel 1956. Era il raggiungimento di una meta tanto agognata. Era il riconoscimento ufficiale della Chiesa per le benemerenze del passato. Era un incoraggiamento per le Opere suscitate e da suscitare a servizio della Chiesa.

   Per le sue Suore e per le sue Figlie è stata Madre, Superiora, Educatrice. Missione complessa e difficile in se stessa. Missione più impegnativa e delicata nell’evoluzione della vita religiosa dopo il Concilio Vaticano II. Missione complessa e difficile all’interno della Congregazione, nella Formazione delle Religiose. Perché? Perché sono soggetti diversissimi per estrazione familiare, livello di istruzione, grado di preparazione spirituale, età, varietà di temperamenti e di carattere, condizioni di salute, capacità di adattamento alla vita comune, disponibiltà alla convivenza e collaborazione con le consorelle di diversa mentalità. Tutti elementi e motivazioni che, nell’impegno formativo ed educativo, richiedono penetrazione psicologica, sensibilità, comprensione, tatto e discrezione.

   Missione, poi complessa e difficile all’esterno della Congregazione, per i delicati rapporti delle Religiose con i Parroci, per penose situazioni locali, per necessità di carattere economico.

   Missione ancor più impegnativa per la evoluzione della vita religiosa nel periodo dopo il Concilio Vaticano II. Periodo di crisi generale nella Chiesa, con nuovi orientamenti e disorientamenti, con tensioni e contestazioni nelle Comunità. Periodo di gravi problemi per l’aggiornamento degli Statuti e delle Regole e delle Costituzioni degli Istituti Religiosi; e per la fedeltà al Carisma proprio di ogni Congregazione in armonia e sintonia con le mutate condizioni sociali, con le nuove esigenze dei tempi, con le nuove forme di apostolato.

   Madre Benigna Orrù nei suoi trentanove anni di superiorato generale si è trovata davanti a questa missione complessa, difficile, impegnativa. Come l’ha compiuta? Come l’ha superata?

   A me sembra di poter rispondere: con molto amore e molta sofferenza, ma anche con saggezza, con prudenza, con coraggio. E’ stata degnamente Madre, Superiora, Educatrice. E’ stata Madre che ha amato tutte e singole le sue figlie. L’amore ispirava i suoi rapporti con loro.

E’ stata Superiora talvolta indulgente ed accondiscendente, talvolta esigente, per il bene della stessa Religiosa o per le necessità della Congregazione. Come superiora non ha mai mancato di avvalersi della collaborazione e del consiglio delle suore corresponsabili e ha avuto cura di orientare le Religiose verso gli studi e di valorizzare ogni ancella secondo le proprie attitudini e capacità.

   E’ stata educatrice per formare allo spirito di comunità, di servizio e di sacrificio, per incoraggiare, correggere, guidare, alla migliore soluzione dei problemi personali o dell’ambiente.

   Tutto quello che viene deciso dai superiori a qualunque livello, non sfugge a incomprensioni, a rilievi, a giudizi negativi. E la ragione è questa: per nessun problema esiste una soluzione ideale, perfetta che presenti solo aspetti positivi e neanche un aspetto negativo, che presenti solo vantaggi, e niente svantaggi. C’è sempre una scelta da fare, c’è sempre una valutazione dei pro e dei contro, e spesso è scelta e valutazione difficile. La conseguenza è questa: qualunque decisione di un superiore, sia papa, vescovo, parroco, superiore religioso o di qualsiasi comunità, qualunque decisione è suscettibile di giudizio sfavorevole, contrario, per gli aspetti negativi, per qualche conseguenza svantaggiosa, per qualche inevitabile inconveniente.

   Oggi perciò si usa l’espressione: “soluzione ottimale del problema”, ossia la migliore soluzione possibile, tutto ben considerato e ponderato. E’ la soluzione che presenta minor lati negativi, minori svantaggi e minori inconvenienti.

E’ un criterio da tener presente per essere almeno più prudenti, più indulgenti, più comprensivi nel giudicare l’operato di chi ha responsabilità di comando, di direzione, di governo. E così facendo saremo certamente più vicini alla misericordia di D

VI

 Laiche di azione sociale

Donna Costanza Garibaldi.

   Madre di dieci figli, divide le cure della famiglia con quelle della beneficenza. Tutti i giorni ella e la figluola maggiore sono preste all’opera di carità: vestite col bianco accappatoio delle infermiere, l’una all’Ospedale Sant’Antonio, l’altra all’Ambulatorio-Ospedale alla Scarpetta, in Trastevere a Roma, e quando la dolce donna si reca anch’essa talvolta in quest’ultimo, i bimbi in cura che la conoscono, le corrono incontro a braccia tese chiamandola mamma.

   Ma l’Ospedale Garibaldi nella lontana Isola Maddalena è veramente l’opera benedetta alla quale donna Costanza consacra ogni pensiero ed ogni ora della sua vita, il frutto fecondo del suo sacrificio, del suo danaro, della sua volontà. Ne parla con entusiasmo come se dovesse ad ogni attimo guadagnare proseliti alla nobile causa. Questa infatti è la sua preoccupazione: piegare all’amore dell’umanità col fuoco del proprio amore, conquistare, vincere nel campo della beneficenza quelle battaglie che gli uomini della sua famiglia hanno combattuto sui campi della libertà.

   I poveri sardi della Gallura non avevano alcun servizio sanitario. Giuseppe Garibaldi già aveva vivamente vagheggiatola fondazione di un Ospedale, col suo grande cuore così aperto alle sofferenze di tutte le creature. Però, malgrado il lascito della signora Chambers e l’aiuto di altri amici, non aveva potuto che regalare una Scuola ai poveri isolani, e l’Ospedale, del quale tanto vivamente era sentita la necessità, rimaneva pur sempre niente altro che una bella speranza.

   Ma, con lo slancio proprio delle anime nobili, per le quali il sacrificio è legge d’amore e l’amore è pegno di sacrificio, donna Costanza fa sua l’idea di suo suocero Giuseppe Garibaldi e vuol festeggiare il centenario della nascita di lui, attuandola. Sollecita amici e conoscenze, influenze vicine e influenze lontane, infonde il suo entusiasmo in quanti più può.

   Ottenne dal Parlamento la concessione di una lotteria nazionale per un milione; dal Municipio della Maddalena lo stanziamento di 5000 lire annue per due anni ed il terreno per erigere lOspedale. Però tali concessioni non hanno potuto ancora produrre i loro effetti, e donna Costanza non poteva ammettere indugi alla sua opera.

   Ed ecco che si costituisce un Comitato di signore di cui ella è presidente: il Comitato prende in affitto un locale di nove stanze in buona ed arieggiata posizione, ed apre subito un Ospedaletto nel 1907 che funzionerà regolarmente fino a che sarà pronto quello erigendo. L’entusiasmo della fondatrice trasforma in cooperatore ognuno che abbia ascoltata la sua parola. E’ una conquista rapida: i Cavalieri di Malta donano due brande e due casse di oggetti; negozianti e privati mandano stoviglie, medicinali, mobili; il professore Postemski personale sanitario, inservienti, strumenti chirurgici. Alla Maddalena stessa si raccolgono denari, oggetti, biancheria, in due passeggiate di beneficenza. Non solo, ma gli operai delle diverse maestranze si obbligano di contribuire a turno, gratuitamente, alla fabbrica futura, e la Società Ligure dei graniti di Calla Francese dona in blocco per la cerimonia della posa della prima pietra e lo fa mettere a posto dai propri operai. Una larga fioritura di bontà dunque per opera di questa dama che si fa irresistibile propagatrice di bene. Nell’Ospedaletto aperto e mantenuto da donna Costanza, che in un momento difficile ha sacrificato a questa opera anche la mucca di famiglia, nella febbre vivissima di trovare il danaro necessario, si curarono nei primi cinque mesi duecento ammalati. Le signore della Maddalena vi si fanno curare anch’esse, perché assistite con amore da provette infermiere e affidate al bravo dott. Regnoli, uno dei più alacri cooperatori di donna Costanza, colto e generoso, vero padre dei suoi ammalati, ai quali si consacra gratuitamente ed indefessamente.

   I letti gratuiti sono sei e quando i suoi denari non sono bastati, donna Costanza vi ha supplito con la vendita di cartoline, con pubbliche sottoscrizioni, con offerte ricevute dai Comuni, Autorità, privati e con serate di beneficenza e concerti.

   Dinnanzi a questa donna che non predica, non s’impone, non si agita per far parlare di sé, ma agisce all’ombra per le più nobili delle cause, che mette le sue sostanze e la sua intelligenza a servizio dei sofferenti e tutto per i suoi protetti, si è compresi di profonda riverenza.

   Alla Maddalena nel giugno del 1906 venne anche fondata la Società delle Signore che, oltre alla solita distribuzione di soccorsi, paga anche le spese di viaggio e di rimpatrio pei poveri. La presidente è la signora Maria Nunzia vedova Viggiani; segretaria Giacomina Variani; cassiera Ermenegilda Altea.. E’ specialmente degna di nota l’opera svolta in questa associazione dalle defunte signore Domenica Cugliolo e vedova Montesi.

   La bella e gloriosa Isola della Maddalena, che è una delle piazze forti di primo ordine della nostra Italia, è separata da un canale molto angusto dall’Isola di Caprera, e un ponte girevole congiunge le due isole.

   L’Isola di Caprera acquistò rinomanza per la dimora di Giuseppe Garibaldi che ne fece acquisto, la coltivò, vi morì e vi giace sepolto.

   A Caprera dovrà sorgere un edificio quadrato, ad un solo piano, in mezzo ad un giardino, per raccogliere i bambini poveri di pescatori. Il terreno per la costruzione è stato donato dal Municipio della Maddalena e donna Francesca Garibaldi, la vedova di Giuseppe Garibaldi, ha offerto L. 10.000: essa si adopera ancora per raccogliere oblazioni che le pervengono anche dall’America dove il suo consorte ha lasciato viva memoria di sè.

[1]N. ZEMON DAVIS, La storia delle donne in transizione: il caso europeo. in “Nuova dwf donnawomanfemme” 3, (1977) p. 7.

[2]Cfr. L. PELLEGRINI, Specchio di donna. L’immagine femminile nel XIII secolo: gli exempla di Stefano di Borbone, Edizioni Studium, Roma 1989.

[3]J. DAY, La condizione femminile nella Sardegna medievale, in

[4]Ivi, p .243.

[5]I. DELOGU, (cura di),Il Condaghe di San Pietro di Silki. Testo Logudorese inedito dei secoli XI-XIII, Libreria Dessì Editrice, Sassari 1997, p. 19.

[6] P. TOLA, Dizionario biografico degli uomini illustri di Sardegna, Torino 1837-38. Le voci compiute sono quella di Adelasia, Eleonora, Margherita di Castelvì, Isabella di Castelvì, Cristina Maria di Savoia, Susanna e Maria De Thori, Anna Fara, Caterina Flos, Giovanna di Gallura, Emmanuela Manca, Marcusa di Torres, Maria Rosalia Merlo, Georgia de Carvia, Giusta, Nereida, Restituta, Lucia Zatrillas.

[7] P. TOLA, Dizionario, cit. vol. III, p. 145.

[8]G. VISMARA, Momenti della storia della famiglia sarda, in Famiglia e Società Sarda P. TOLA, Dizionario, cit. p. 181; E. MURA, Sulla natura giuridica e sulle origini della comunione dei beni tra i coniugi nella Sardegna medioevale, in “Archivio Storico Sardo di Sassari” 2, (1976); A. TEDDE, La famiglia nella storia sarda , in A. TEDDE, G. NUVOLI, Note sulla famiglia in Sardegna, Editrice Diesse, Sassari 1978

[9]Cfr. L. L. BROOK et alii,( a cura di), Genealogie medievali di Sardegna , DUE D Editrice Mediterranea, Cagliari 1984

[10] Ivi, vol. II, p.127.

[11]Ivi, vol. II, p. 141.

[12] Ivi, vol. II, p. 221.

[13]I. DELOGU, Il Condaghe, cit. p. 19-20.

[14] Ivi, vol. II, p. 31.

[15] G. ZANETTI, I Camaldolesi in Sardegna, Editrice Sarda Fossataro, Cagliari 1974. pag. 114-120

[16] Ivi, vol. II,   p. 135.

[17]G. OLLA REPETTO, La donna cagliaritana tra ‘400 e ‘500 , in ”             ” p. 254.

[18]Ibidem, p. 254.

[19]Ibidem, p. 255.

[20]Ibidem, p. 256, 258.

[21]Ibidem, p. 261

[22] Ivi, vol. II, p. 78.

[23] Ivi, vol II, p. 100.

[24] Ivi, vol. III, p. 248.

[25] Ivi, vol. III, p. 319.

[26] Ivi, vol. I, p. 196.

[27] Ivi, vol. I, p. 196.

[28] Ivi, vol. II, p. 255. In realtà il francescano p. Giorgio da Riano avrebbe scoperto il vero autore delle rime spirituali, il sacerdote cagliaritano Angelo Maria Carta.

La mistica M. R. Merlo ne aveva copiato senza attribuirsene la paternità un gran numero e messo insieme un volume ad edificazione sua e delle sue novizie. Vedi in proposito F. ALZIATOR, Storia della letteratura di Sardegna, Edizioni “La Zattera”, Cagliari 1954, p.231-232.

[29] P. TOLA, Dizionario, cit. p. 255.

[30] BRUNO E., ROGGERONE U., La donna nella beneficenza in Italia, Botta, Torino, 1913, Vol. IV, p. 171; ZIROLIA G., Cenni storici sulla Conferenza delle signore di Sassari, in Nel 50° anniversario della Fondazione della Conferenza delle Signore in Sassari, Satta, Sassari 1909, p. 24; FILIA D., La Sardegna Cristiana, Stamperia della libreria italiana e stra­niera, Sassari, 1929, Vol. III, p. 443.

[31]A. TEDDE, Carlo Rugiu ( 1827-1912, Sassari), Avvocato del foro di Sassari si distinse per l’impegno profuso per oltre mezzo secolo nell’azione sociale e caritativa e soprattutto nell’assistenza degli orfani e degli illegittimi. Nel 1854 dopo l’incontro a Livorno con F. Ozanam istituì a Sassari insieme al sacerdote D. M. Delrio che fu deputato al Parlamento subalpino e dal 1872 arcivescovo di Sassari, la prima conferenza maschile di carità di San Vincenzo de’ Paoli. Nel 1858 fondò l’Ospizio di San Vincenzo de’ Paoli. Scopo dell’istituzione era di ricoverare ed educare gratuitamente i fanciulli poveri e orfani o abbandonati dai 5 ai 12 anni. Nell’ospizio i ragazzi rimanevano fino al 21.mo anno apprendendovi un mestiere. Egli stesso prese dimora nell’Ospizio e nella sua qualità di presidente e di principale benefattore dell’opera profuse nell’educazione morale, intellettuale e religiosa dei giovani le sue migliori energie e il suo patrimonio. Come consigliere comunale si distinse in una città in cui la lotta politico-ideologica era fortemente condizionata dall’anticlericalismo e da una larga presenza di gruppi di orientamento democratico mazziniano per l’azione svolta in seno all’assemblea amministrativa in difesa delle istituzioni sociali e caritative e delle iniziative prese dai cattolici. in Dizionario storico del movimento cattolico in Italia 1860-1980 a cura di F. Traniello e G. Campanini, Marietti, Casale Monferrato 1984.

Nel Luglio del 1907 fu fondata una nuova Conferenza Maschile intitolata a Beato Giuseppe Benedetto Cottolengo, per distin­guerla dalla preesistente di S. Vincenzo de’ Paoli, presidente V. Sotgia, segre­tario G. Pittalis, cassiere Raffaele Talu. Vedi in proposito:

Cfr. ARRU C., La beneficenza a Sassari: (Carlo Rugiu 1827-1912) in, TEDDE A., (a cura) Cattolici in Sardegna tra l’Ottocento e il Novecento, Il Torchietto, Ozieri 1993, p. 63.

[32] COSTA E., Sassari, Gallizzi, Sassari, 1976, vol. I tomo secondo, p. 340 e SS. TEDDE A., Per una storia della donna nella beneficenza in Italia dopo l’unità, Editrice Diesse, Sassari, 1982, p. 19.

ZIROLIA G., Cenni storici …, cit, p. 27. cfr. Archivio Storico Diocesano di Sassari (A.S.D.S), Beneplacito Varesini, in registro copialettere del 1859.

Una terza Conferenza maschile intitolata al San Giuseppe, sezione giovanile, con sede in via Arcivescovado, fu istituita a Sassari nell’aprile del 1924, in occasione della settimana sociale, con la benedizione dell’allora Arcivescovo Mons. Cassani; quando il vice rettore del seminario p. Porqueddu tenne una conferenza sulla carità, dove spronò i giovani sassaresi a fare come già aveva fatto l’Ozanam in favore dei poveri. La figura del primo presidente è un pò incerta poiché le fonti sono discordi, viene prima nomi­nato il Cav. P. L.. Carloni poi un certo G. Tamburini, mentre il p. Porqueddu è indicato sia come cassiere che come direttore spirituale. All’atto della fonda­zione i soci attivi erano una ventina e nel corso del primo anno d’attività furono soccorse trenta famiglie. Una quarta Conferenza intitolata a Don Bosco fu istituita nel 1933, una quinta quella di S. Paolo viene nominata nel registro dei verbali della Conferenza femminile della Vergine del Bosco. DAMINE DELLA CARITA’, Guida tascabile, cit. p. 30. “La Carità” 2, 5 (31 maggio 1924), p. 38; 7,7 (novembre 1929), p. 3-4. Registro Verbali Vergine del Bosco (22 gennaio 1946), (18 giugno 1946). TEDDE A., Per una storia. della donna nella beneficenza in Italia dopo l’Unità., Editrice Diesse, Sassari 1989,   p. 25-26.

[35] E. BRUNO, V. ROGGERO-SANVITO, La donna nella beneficenza , p. 149

[36] Ivi, p. 174

[37] Ivi pp. 175-177

[38]Ivi, p. 170; Vedi in proposito la tesi di laurea di L. TORTU, L’istituto Rifugio Gesù Bambino per le bimbe abbandonate in Sassari (1903-1970), Università degli Studi di Sassari, Facoltà di Magistero, Corso di Laurea in Pedagogia, a.a. 1996-97 Relatori A. Tedde, L. Caimi; A. TEDDE,( a cura di), Cattolici per l’infanzia in Sardegna tra Otto e Novecento, Il Torchietto, Ozieri 1997, pp.105-145, 191-203.

[39]Ivi, PP. 105-145, 191-203.

[40]Ivi pp. 113-114, 202.

[41]

[42]Cfr. Figure che scompaiono. Eufemia Sechi. “La Nuova Sardegna” 28.12.1972

[43]Per le vicende delle Figlie della Carità si vedano: A. REDIER, Vincent de Paùl todo un caràcter, CEME, Salmanca 1977; A. DODIN, San Vicente de Paul y la caridad, CEME, Salmanca, 1977; J. CALVET, San Vicente de Paùl, CEME, Salamanca 1979; J.M. IBANEZ, Vicente de Paùl realismo y encarnaciòn, Ediciones Sigueme, Salamanca 1982, San Vicente de Paul, Edizioni Paoline , Cinisello Balsamo (MI) 1986

[44] Sulla storia della Sardegna si vedano, G. SOTGIU, La Sardegna Sabauda (1720-1847), Laterza, Bari 1984 ; ID., Storia della Sardegna dopo l’Unità, Laterza Bari 1986; M. GUIDETTI (a cura di), Storia dei Sardi e della Sardegna, L’età contemporanea. Dal governo piemontese agli anni Sessanta del nostro secolo, IV, Jaka Book, Milano 1989; L. BERLINGUER, A. MATTONE, Storia d’Italia. Le Regioni. La Sardegna, Giulio Einaudi Editore, Milano 1998.

[45]Si vedano in proposito: L. Caimi, ( a cura di ), Infanzia, Educazione e Società tra Otto e Novecento. Interpretazioni, prospettive di ricerche, esperienze in Sardegna, Tas, Sassari 1997 A. CAMBONI, Cenni storici delle Istituzioni di Previdenza, Beneficenza, Istruzione ed Educazione nella prov. di Cagliari, Dessì, Cagliari 1900. F. COLETTI, La Mortalità nei primi anni di età e la vita sociale della Sardegna, Bocca, Torino 1908. P. CORTI, La Malaria e la Società Contadina nel Mezzogiorno ( a cura di ) F. DELLA PERUTA, in Storia d’Italia, Annali 7, Malattia e Medicina, Einaudi, Torino 1984.

[46] A Cagliari nell’asilo Carlo Felice, nell’asilo S. Giuseppe e in quello di Marina, Stampace e nel Conservatorio.

[47]Cfr. M. D. POINSONET, Dall’angoscia alla santità, Edizioni Paoline, Bari 1959 pp.389-412; B. BELLINI, Per l’inaugurazione dell’Asilo Carlo Felice della città di Cagliari, Cagliari 1855;A. TEDDE, L’attività. sociale delle Dame della Carità nel primo Novecento a Sassari. La Casa Divina Provvidenza 1910-1967., Il Torchietto, Ozieri 1994, pp.22-29; ID., Iniziative sociali di G. B.. Manzella e delle congregazioni religiose in Sardegna nel Novecento, Ozieri, il Torchietto, 1996; F. COLETTI, La mortalità nei primi anni d’età e la vita sociale della Sardegna , Fratelli Bocca, Torino 1908; E. Tognotti, La malaria in Sardegna, Franco Angeli, Milano 1996. F. SANNA RANDACCIO, L’infanzia cenciosa e l’’istruzione popolare, Muscas di Valdés, Cagliari, 1898; F. CHESSA, Le condizioni economiche e sociali dei contadini dell’agro di Sassari, Roux e Viarengo, Torino, 1906. P. GIAGU, L’ordinamento della beneficenza pubblica e privata, Ed. Sarda, Cagliari 1954.

[48]Archivio delle Figlie della Carità della Provincia di Torino (d’ora in avanti AFCT)

[49]Archivio delle Figlie della Carità della Provincia di Cagliari (d’ora in avanti AFCC)

[50]AFCC, Registro dei Necrologi, colloc. provv.

[51]Oltre agli studi citati di A. Tedde vedi anche T. CABIZZOSU, Padre Manzella nella storia sociale e religiosa della Sardegna, Edizioni Vincenziane, Roma 1991

[52]Oltre ad uno studio sugli asili aportiani in genere diretti dalle Figlie della Carità provenienti da Torino dove operava l’Aporti della dr.ssa I. Serra, si portano avanti le ricerche sull’AFCC e AFCT.

[53]Cfr. E. BRUNO, V. ROGGERO SANVITO, La donna nella beneficenza, cit. p. 152

[54]F. MOCCIA,( a cura di), Beatificationis et canonizationis servae Dei Iosephinae Nicoli sorori instituti filiarum a caritate, positio super virtutibus vol. I, Tipografia Gerra s.r.l., Roma 1997 vol. I pp. 1-57.

[55]Ibidem, p. 57

[56] ANONIMO, Un vero Angelo di Carità (Suor Giuseppina Nicoli), in “La Carità” 7, (1929) pp. 10-13

[57]

[58]AFFCT, Schedario; delle F. d. C.; ACDPSS, Registro dei verbali 1928-1951; AFCC, Registro dei necrologi. Infine, testimonianze orali delle consorelle Brambilla, Porricino, Scarpa. Crf. Ricordino del trigesimo a stampa presso Archivio Figlie della Carità della Casa Divina Provvidenza.

[59]Cfr. ACDPFCSS.

[60]All’epoca in cui Suor Biassoni operò nella “Casa” era arcivescovo di Sassari Mons. Arcangelo Mazzotti ( Cologne, Brescia 1931, Sassari 1961). Padre Giovanni Battista Manzella (Soncino 1855, Sassari 1937), Emma S. M. Brambilla (Bergamo 1904, Cagliari 1976).

[61]AFCT, Registri dei necrologi, colloc. provv.

[62]Archivio Casa Divina Provvidenza (d’ora in avanti ACDPSS) Cfr. Registro degli ingressi dal 1921 al 1928; A. TEDDE, L’attività delle dame, cit. pp.121-132. Per le date dei suoi trasferimenti e gli incarichi ricoperti in AFCT.

[63]Bibliografia di Amato più tesi

[64] I dati sono stati raccolti nei seguenti archivi: scuole citate di Bergamo, ACFCT, ACDPSS, AFCC e la testimonianza della sorella Paola, vedi inoltre il quaderno a cura di A. Tedde, ma pubblicato anonimo: Suor Luisa. Emma Brambilla. Una vita per la carità (1904-1976) , Poddighe, Sassari 1977 pp.1-16.

[65]Ibidem; vedi anche A. TEDDE, L’attività delle dame, cit. ID., Cattolici per l’infanzia in Sardegna tra Otto e Novecento, Il Torchietto, Ozieri 1997.

[66]Ibidem p.

[67]ACoSS, Atti di nascita n. ecc.

[68] Candeloro, Tranfaglia, Galasso, Spadolini, Jemolo

[69]ASDSS, Atti di Cresima p. 355 Battesimo p. 1040

[70]ACoSS, Stato di famiglia ninete

[71]E. SELIS ecc. Altri riferimenti

[72]AISGSS, Quaderni n. 2O

[73]

[74]A. TEDDE, L’infanzia……in L. CAIMI a cura di (Infanzia ecc.

[75] G. ZICHI, A. TEDDE ecc. C. SOTGIA ecc.

[76]Leggi sulle opere pie dal 1859 al 1937 vedi mia dispensa

[77] ZICHI e altri E. L. TEDDE, ecc.

[78]COSTA, PRINCIPE , TEDDE ecc.

[79] Chiedere a M. SCALAS Rimane fino al 192O Lidia Aynne Meyer/ Speranzina Sechi / Pagellina di iscrizon 8/10/80 P/ Ruiu AISGSS

[80]M. SCALAS, Angela Marongiu: un “angelo” accanto a Manzella , in “Padre Manzella oggi” 1, (1998) p. 11.

[81] BRIGAGLIA, ZICHI, Dizionario mov. catt. Tedde ecc.

[82]Accenni al diario

[83]Citare il quaderno (20 risale a quando aveva 15 anni della voce)

[84]E. SELIS, La Chiesa Turritana del Novecento, Editrice A.V.E., Roma 1991

[85]Manzella ‘La Carità”

[86] G. M. MANZELLA, Col lavoro la Carità e la casa di Santa Teresa in Sassari in “La Carità” 9-10, (1927), p. 65

[87]G. B. MANZELLA, Col lavoro la Carità ovvero la Casa di Santa Teresa del Bambino Gesù in Sassari, in ” La Carità” 11 (1927) p. 83.

[88]G. B. MANZELLA, Col lavoro la Carità ovvero la Casa di Santa Teresa in Sassari in “La Carità”, 12 (1927) p. 95.

[89]G. B. MANZELLA, Casa di S. Teresa del Bambino Gesù in Sassari , in “La Carità”, 3- 4, (1928), p. 26

[90] G. B. MANZELLA, La Casa di Santa Teresa del Bambin Gesù in Sassari. Col lavoro la beneficenza, in “La Carità”, 5-6, (1928) p. 38-39

[91]E. SELIS, La Chiesa Turritana, cit. p.

[92] Cleto Cassani dà nome del coventino

[93]leontina epistolario mistico con madre angela piccolo accenno

[94]Dove risiedevano i nonni e gli zii?

[95]Indicare le date della cresima e deklla prima comunione se è possibile

[96] Un inciso sulla famiglia degli Aymerich a Laconi e a Cagliari

[97] Chi era questa giovane insegnante, una degli Aymerich?

[98]A quanti anni

[99]Indicare il paese

[100]Chiera?

[101]Data esatta in cui entra in comunità e dove?

[102]Data di ingresso e di uscita

[103]La comunità possedeva nei pressi della Giara un vasto terreno incolto dove anziane consorelle vivean dedite alla preghiera, ma inattive suor Paola con adeguate iniziative rese queste proprietà fertili, produttive, garantendo adeguato salario ai lavoranti e un ottimo reddito alla comunità per il sostentamento delle opere che andavano man mano sviluppandosi.

[104]

[105]

[106]Indicare le motivazioni di questo trasferimento ed elencare anche le altre otto consorelle

[107]Inserire nota sull’arcivescovo Mazzotti

[108]Riferimenti al progetto

[109] l’inizio dei quaderni 1909-1933 autobiografia spirituale prima superiora generale

anno prima di morire si ammala alla morte di madre angela 22

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